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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI  1798-1799

ATTO VANNUCCI (prima parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA

(descritti da Atto Vannucci)

Chi era Atto Vannucci?
Cosa rappresentò il suo libro "I Martiri della libertà italiana"?


Questo libro nacque nel clima storico del Risorgimento. Molti di coloro di cui Atto Vannucci narra la vita e il martirio, egli li vide soffrire e morire per la sua stessa fede. Essendo nato a Tobbiana, sull'Appennino Pistoiese, nel 1810, ed avendo cominciato nel 1836 a raccogliere notizie e documenti su gli eroi della libertà e dell' indipendenza delle due nazioni martiri - l' Italia e la Polonia - il poema di fede, di speranza e di dolore che narrò, egli lo visse in gran parte, e conobbe più d'una delle vittime illustri, che nel carcere, in esilio o sui patiboli confessarono la religione della patria, in tempi in cui era vietato agli Italiani averne una e delitto persino desiderarla e pensarla.

La formazione di Vannucci. - Uno zio paterno di Atto, curato nella terra di San Martino in Campo, portò via il fanciullo dall'ambiente rozzo e primitivo della famiglia (suo padre era analfabeta) e prese a istruirlo, avviandolo agli studi ecclesiastici. A quindici anni il giovinetto, già erudito nei primi elementi del latino, entrava in seminario a Pistoia, d'onde un maestro, innamorato di Dante e d' Italia - Giuseppe Silvestri - chiamato ad insegnare nel liceo Cicognini di Prato, ottenne di poterlo seguire da vicino, tanto egli si attendeva dall'ingegno e dal carattere del giovine discepolo. Il quale, infatti, non tradì le speranze, e a ventitrè anni, promosso maestro di Umanità, prese a insegnare storia su Tacito e Livio, fierissimi odiatori di tirannide e maestri di vita eroica.
In seguito pubblicherà "I primi tempi della libertà fiorentina", "Studi storici e morali sulla letteratura latina", le "Illustrazioni ai proverbi latini", la "Biografia degli illustri Italiani di ogni provincia nel secolo XVIII", studi e saggi di storia italiana sull' Educatore del Lambruschini e sull'Archivio storico del Vieusseux, entrambi ardenti fucine d'idee nuove.

I primi personaggi del libro dei Martiri cominciarono a uscire su L'Alba nel 1847, ed erano quelle gesta uno dei presagi dell'anno fatidico. Gli Italiani di pura fede li leggevano per esercizio di preparazione spirituale. Come la chiesa di Cristo s'era un giorno affermata per il sangue de' suoi martiri, così la libertà italiana nasceva dal sangue de' propri, che ormai erano una lunga teoria, dalle vittime borboniche dannate a morte dal tribunale di sangue nell'ottobre del 1794, per aver auspicato l'avvento degli ordini nuovi, nello spirito dei Diritti dell' Uomo, al sublime sacrificio dei Bandiera e dei loro compagni, fucilati nel vallone di Rovito il 25 luglio 1844, per aver tentato di chiamare a libertà i fratelli del Mezzogiorno, nello spirito unitario di Mazzini.
Cinquant'anni d'immolazione quasi continua, ad opera dei migliori, per acquistare all' Italia il diritto di viver libera, erano i nostri titoli di nobiltà nazionale, e alla vigilia delle grandi prove imminenti, bisognava ricordarli alle libere nazioni, ché ci dessero conforto e respiro a risorgere; bisognava ricordarli agli oppressori indigeni e stranieri, ad ammonire che la misura era ormai colma e i tempi maturi; bisognava rievocarli, infine, agli Italiani, per confortarli ad aver fede in sé stessi e nella loro causa.

Così, gli uomini d'ingegno e di dottrina combattevano con la penna le ideali battaglie del nostro riscatto, in attesa d' impugnare in campo aperto armi cruente contro i sostegni della tirannide; così storia e poesia, tragedia e romanzo si facevano azione, e cantavano la necessità e la dolcezza del sacrificio chi già l'aveva accettata in cuor suo come posta suprema della vita e domani avrebbe sorriso alla forca come a un privilegio della sorte, o presa, nell'ora grigia, la via dell'esilio, per conservare un combattente alla patria, un assertore del suo diritto, un testimone del suo lungo martirio, e fra le ceneri una scintilla dell' indistruttibile speranza.
Né l'esilio era per molti pena meno crudele della morte, se vi fu chi, per rivedere la patria, corse i rischi supremi, giunto a lei come a un convegno d'amore, pagò con la vita il suo dolce abbandono.
Se ancora il libro non si può leggere senza fremito, si può immaginare che incendio suscitasse nelle anime la prima edizione dei Martiri, uscita poi in volume nel 1848, per i tipi del Lemonnier. O... forse... non si può neppure immaginare.
Chi lo lesse - e lo lessero in molti, perché l'anno seguente il libro era esaurito e si dovette ristamparlo - chi lo lesse, dico, deve averne provato innanzitutto un sentimento profondo e potente dell'unità della patria - serva perché divisa - udendo com'ella avesse mandato vittime all'ara da ogni sua terra: prima da quel Mezzogiorno, dove il servaggio e l' ignoranza delle plebi parevano aver prostrato da secoli ogni senso di umana dignità e spento ogni luce di pensiero, mentr'essa brillava, più sfolgorante che altrove, in alcuni spiriti supremi, che furono i precursori e i protomartiri; poi dalle terre sub-alpine, dove la tradizione di fedeltà a una dinastia millenaria sembrava tetragona agli spiriti nuovi; dalla Liguria, ove sorse il grande astro di Mazzini; dalle terre lombardo-venete, da Modena, da Roma, da Palermo, dalla Toscana, dalle Romagne, tutta Italia aveva mandato offerte al sacrificio.

Eran giunti al convegno delle grandi ombre i più puri, i più nobili, i più eletti figli della stirpe; molti erano giovani, qualcuno giovinetto, ricchi di ogni bene, sorrisi da tutte le fortune ; patrizi, artigiani, sacerdoti, filosofi, scrittori, scienziati, soldati, mercanti, marinari; fronti già baciate dalla gloria e uomini oscuri, col loro carico di doveri e di dolori, che la vita impone ai molti come una soma ; donne gentili, cui la sorte par non chiedesse altro che abbellire la vita del loro sorriso; creature ignote, senza volto e senza nome, che i posteri non potranno ricordare se non per numero, come i greggi; spiriti religiosi tutti e tutti poeti, quali più, quali meno staccati dalla realtà, che lega le ali, e viventi in un'ardente atmosfera di sogni e di generose follie.
I più venivano dai liberi studi o erano usciti dai seminari ecclesiastici, e gli uni e gli altri avevano scoperto, fra le gonfie spume della retorica, i motivi profondi della classicità, l'anima antica di Roma ; e comparando con la presente miseria tutto quel passato di grandezza e di splendore, si sentivano colpevoli per sé e per i padri degeneri, che avevano lasciato cader lo scettro dalle mani tremanti e s'erano curvati alla sferza e al giogo.

Prima che il Piemonte si mettesse al timone della nave in fortuna fra i marosi della rivoluzione, ogni spirito aperto, che auspicasse a un ordine nuovo, si ricordava di Roma e diceva: "Repubblica"; ogni tiranno aveva il volto di Tarquinio, ogni vendicatore il pugnale di Bruto, ogni insofferente di servitù l'anima di Catone uticense, ogni difensore della patria lo stoicismo di Regolo; ogni libera assemblea si chiamava Senato, ogni emblema di civile reggimento era un fascio littorio. Sapienza di leggi, forza di armi, equità di regimi, probità di vita e austerità di costumi, ordine e libertà, tutto era romano e repubblicano, e la Rivoluzione di Francia (singolare, fu essa a ricordarcelo) non fece che ravvivare il luminoso ricordo nelle sublimi immolazioni alla patria e alla libertà, nel disprezzo delle private fortune, nelle vittorie degli eserciti, nei ferrei ordini repubblicani, nella prontezza e inesorabilità delle sanzioni, nelle parole, nei segni, nello stile de' suoi primordi.
Chi volesse educare le nuove generazioni a servitù, non si fidi a un indirizzo classico degli studi e bandisca dalle scuole il latino e la storia di Roma. Chi vuole fare il tiranno, faccia subito bruciare, o seppellire nella polvere ogni cosa che ci ricordi quel glorioso passato.

Il romanticismo non aggiunse più tardi che una nota di colore alla passione latina e romana della libertà, involgendola di un'aura di mistero nel segreto delle congiure e delle sette. Ma dietro le barbe incolte e sotto i cappellacci a larghe tese, i cervelli sprizzavano ancora scintille accese a quell'antico incendio, che da Roma (1700 anni prima della "Rivoluzione francese") aveva dato luce a tutto il mondo e a tutti i tempi, che di fronte a gli eccessi dell'ascetismo medievale aveva riscoperto al Rinascimento i diritti della natura e della personalità umana ; che in tempi di abiezione civile aveva acceso di liberi sensi persino la poesia di un abate arcade e cortigiano, ed erompeva ora di nuovo in bagliori e scoppi di folgore nella tragedia di Alfieri.

Un altro elemento confluì ad alimentar la passione latina e romana della libertà in una folta schiera dei Martiri: l' idea cristiana della fraternità degli uomini, liberi ed eguali al cospetto del Padre comune. La voluttà del sacrificio, che fece parer bella e desiderabile la morte ad alcuni di essi, stillava, dolce come il miele, nel loro cuore ferito da una pura sorgente evangelica : Cristo, offertosi al martirio per il riscatto e la redenzione dei fratelli. Non furono molti i caduti, che nell'ora del transito non vedessero aprirsi, in un nimbo, la gloria dei cieli. Chi non ebbe la visione luminosa del premio ultraterreno si consolò talora - come Anacarsi Nardi - col pensiero che la propria ombra sarebbe tornata, dai regni della morte, alle soglie dei cari amici superstiti o - come altri - ebbero addolcite le ultime ore dalla speranza di ricongiungersi per sempre, sciolti dagli impacci terreni, alle dilette anime che li aveano preceduti negli eterni silenzi.
Questi influssi cristiani e universali, occulti talora, come il fluire delle acque profonde, diedero più ampio respiro alla passione di molti esuli, che non potendo combattere per la libertà della patria italiana, combatterono e taluni morirono per la libertà e per la patria altrui, in Ispagna, in Grecia in America. Idea latina anche questa, che abbraccia l'universalità delle genti.

La rassegna eroica del Vannucci si ferma al 1848. Dunque molti fatti successivi non erano ancora accaduti. Ma quando poi nel 1877 diede alle ristampe il libro (come ricordato sopra era uscito su l'Alba nel 1847 a pezzi, presagi dell'anno fatidico) nella presentazione Vannucci così scriveva:


"I frutti della libertà, di cui ora godiamo, furono coltivati sul nostro suolo con lunghi e mortali dolori. Non vi fu quasi paese straniero che non fosse pieno dei nostri esilii, che non vedesse Italiani accorrenti a combattere per i diritti dei popoli. In Italia non vi é carcere non santificato dai patimenti degli uomini più generosi ; non vi é palmo di terreno non bagnato dal sangue dei Martiri della libertà. Il martirio fu perpetuo tra noi: i padri lo lasciarono ai figli; i quali accettarono arditamente l'eredità, e la tramandarono alle generazioni novelle. I nostri in ogni tempo protestarono, morendo, contro la tirannide che opprimeva la patria, e spirarono fermamente credendo che il loro sangue sarebbe fecondo di libera vita ai futuri. Né gli uomini soli affrontarono le ire feroci dei despoti : anche il sesso che chiamano debole sfidò prigioni e torture; anche le donne salirono impavide sui patiboli dei tiranni, e caddero olocausti della causa del vero, quando forche e mannaie e mastri di giustizia erano in un continuo affaccendarsi da Palermo a Napoli, da Roma alle Romagne, e da Modena fino alle Alpi, e il bastone austriaco, e prigioni peggiori che morte straziavano ferocemente i cittadini della Lombardia e della Venezia.

"I martiri della religione cristiana dicevano ai loro carnefici : Voi volete distruggerci, e non avete forza né modo di raggiunger l'intento. Noi coltiviamo i vostri campi, sediamo nei vostri tribunali e nei vostri consigli, combattiamo nei vostri eserciti, popoliamo le vostre città e le vostre campagne: noi siamo legioni. Lo stesso potevano dire e hanno detto in Italia i Martiri della libertà. Anch'essi erano in tutte le classi, in tutte le condizioni sociali, tra i soldati, tra i magistrati, tra i sacerdoti, in palazzi e capanne: e da per tutto combattevano strenuamente per lo stesso principio, e confermavano l'ardente fede col sangue.
Appena rotte le secolari catene straniere e domestiche, l' Italia si volse con ineffabile amore al culto dei generosi che dettero il sangue per renderci alla dignità di uomini e di cittadini, da ogni parte ne furono ricercate le ossa, e ricondotte solennemente alle terre native, e celebrate con feste religiose e civili, con laudi popolari, con canti di poeti, con epigrafi, con monumenti.
E a rendere ad essi quella testimonianza d'onore che per me si poteva, io volsi l'animo, or sono molti anni fa (1847): riunii quanti più ricordi mi fu dato allora trovare, ne raccolsi i nomi dispersi perché rimangano nella memoria di tutti gli uomini liberi, e siano di eccitamento ai forti propositi e ai grandi sacrifizi, senza i quali la libertà non fu mai conquistata né mantenuta tra gli uomini.
ATTO VANNUCCI. - Firenze, 20 agosto 1877.


Poi inizia il suo racconto ricordando ai posteri questi martiri:
(di cui faremo qui dei capitoli a parte; divisi in due parti;
i PARTENOPEI e i CISALPINI )

contenuto

I martiri della repubblica partenopea



* * * Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliani, Vincenzo Saliani (in questa prima parte)

* * * I fratelli Corona, i fratelli Filomarino e altre vittime (nella seconda parte)
*I martiri di Picerno, di Altamura e di Venafro
* I centocinquanta eroi di Vigliena
* Giuseppe Schipani, Agamennone Spano e Pasquale Battistessa

* * * Francesco Caracciolo (nella terza parte)
* Eleonora Fonseca Pimental
* Ettore Caraffa conte di Ruvo
* Gabriele Manthonè

* * * Mario Pagano ( nella quarta parte )
* Domenico Cirillo
* Vincenzo Russo
* Pasquale Baffi, Niccolò Fiorentino
* E altri uomini di lettere

* * * Altri martiri della repubblica partenopea ( nella quinta parte )
* Luisa Sanfelice Molino
* Nicola Antonio Angeletti
* * * Michele Morelli e Giuseppe Silvati
* I prigionieri e gli esuli napoletani
* Poerio - Colletta - Pepe
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I martiri della repubblica cisalpina

* * * Il 1799 - 1800 a Milano - ( sesta parte )

* Santorre Santarosa ( settima parte )

* Federico e Teresa Confalonieri ( ottava parte )
* Carlo Angelo Bianco

Giorgio Pallavicino ( nona parte )
Gaetano Castillia
Luigi Porro Lambertenghi


Antonio Villa (decima parte )
Antonio Fortunato Oroboni
Marco Fortini
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I martiri della Repubblica Partenopea (prima parte)

EMANUELE DE DEO - VINCENZO VITALIANI - VINCENZO GALIANI

I primi martiri della libertà italiana nell'età moderna s'incontrano a Napoli, regione privilegiata da Dio delle più rare delizie della natura, e straziata orribilmente dagli uomini colla più cruda barbarie del dispotismo riempendo le provincie di stupri, di saccheggi, di stragi, e d'incendi.
Scoppiata la grande rivoluzione di Francia, che dichiarando i diritti dell'uomo, e gridando guerra mortale alla barbarie dei vecchi troni, chia
mava tutti i popoli a libertà, i Napoletani, cui Dio concesse rapido ingegno e cuor generoso, furono tra i primi in Italia a desiderare la luce degli ordini nuovi. E il loro desiderio era più acceso dagli ostacoli che vi mettevano il re Ferdinando I di razza borbonica e la regina Carolina di razza austriaca, e i loro scellerati ministri. (Ferdinando I, re di Napoli e Sicilia dal 1759 al 1825, anno di sua morte. Successe a 8 anni a suo padre Carlo III e a 17 sposò Maria Carolina d'Austria, figlia di Maria Teresa).

Il re fino dai suoi giovani anni si rese famoso per indolenza e stupidezza, e s' imbestiò nei più grossolani diletti : la regina era superba e feroce, ambiva di fare essa da re, e per conseguire questo intento, mise in campo tutte le arti più triste che sappia trovare una mala femmina.

Nell'anno 1791 questo re e questa regina, impauriti dalle idee di Francia, eccitarono contro di esse l'odio delle turbe ignoranti, a ciò usando dell'opera dei preti e dei frati, i quali a più potere predicavano contro ogni ordine di libertà, e mutavano in tribuna i pergami e i confessionali. Anche le spie si affaccendavano : la regina conferiva con esse nella reggia ; e magistrati, nobili e sacerdoti si prestavano all'opera infame. Ed effetto di tutto ciò erano le persecuzioni agli uomini più dotti e più riveriti dalla nazione, perché credeansi fautori dei nuovi ordini. I libri di Filangieri (Gaetano Filangieri, vissuto dal 1752 al 1788 celebre giureconsulto, filosofo ed economista. Notissima fra le sue opere La Scienza della Legislazione.) furono sbanditi e bruciati: vietati i giornali stranieri, vietate le adunanze dei sapienti. Contro alcuno creduto amante delle cose francesi adoprarono anche la frusta, usata già contro i più abietti furfanti. Questo tristo re e questa trista regina si argomentavano di fermare il sole colle loro braccia di pigmei : e il sole, non curando quella grande stoltezza, continuava il suo libero cammino, e diffondeva sugli uomini la sua luce benefica.

Nel 1793, quando la Francia uccise il re spergiuro e proclamò la Repubblica, la reggia di Napoli, cercate alleanze contro di essa, si preparò a guerra, e non volle riconoscere l'ambasciatore inviato da Parigi. Ma quattordici vascelli francesi condotti dall'ammiraglio Latouche nelle acque di Napoli fecero mutare contegno e linguaggio. L'ammiraglio chiese ragione dell'accoglienza negata all'ambasciatore di Francia, e riparazione all' ingiurie : e la reggia impaurita, rispose, accetterebbe l'ambasciatore, riparerebbe i torti, si terrebbe neutrale nelle guerre di Europa, e amica alla Francia.

I giovani napoletani che più ardevano dell'amore delle nuove dottrine, all'arrivo della flotta francese salutarono con entusiasmo la bandiera della libertà, conferirono coll'ambasciatore, cogli ufficiali, coll'ammiraglio ; si confortarono scambievolmente e s'infiammarono. In una cena a Posilipo, tra la gioia e tra l'entusiasmo appesero al petto un piccolo berretto rosso, simbolo allora dei giacobini francesi. Erano discorsi, voti e speranze. Ma questo bastò a persecuzione atrocissima. Appena partita la flotta francese, furono arrestati tutti quelli che coi loro discorsi si erano mostrati partigiani della rivoluzione e aveano applaudito alle vittorie della detestata Repubblica. « Furono tenute (scrive lo storico Pietro Colletta) segrete le sorti loro, così che i parenti, gli amici, le voci popolari li dicevano uccisi nelle cave delle Fortezze, o mandati nei Castelli delle isole più lontane della Sicilia : tardi si udì che stavano chiusi nei sotterranei di Santelmo mangiando il pane del fisco, dormendo a terra ed isolati, ognuno in una fossa. Erano dotti o nobili, usati agli agi del proprio stato ed alla tranquillità degli studi. Custodi spietati eseguivano quei feroci comandamenti con zelo ferocissimo» (
COLLETTA, Storia del Reame di Napoli, lib. III
cap. I, § 8
).

Nel marzo del 1794 fu creato per giudicarli un tribunale di sangue, detto Suprema Giunta di Stato, e composto di tristissimi uomini. « Era inquisitorio il processo, scritta la prova ; le segrete accuse o denunzie potevano come indizi ; i testimoni, benchè fossero spie a pagamento, valevano, nè a' servi, a' figliuoli, ai più stretti parenti era interdetto l'uffizio di testimonio. Il processo compiuto in segreto, passava ai difensori, magistrati eletti dal re ; le difese producevansi scritte, nè all'accusato era concesso il parlare ; il giudizio spedito a porte chiuse ; la relazione dello inquisitore valeva quanto il processo ; non che fosse vietato ai giudici leggere dei volumi, ma c'era la strettezza del tempo, perchè ad horas: era inquisitore nel processo lo scrivano; nel giudizio, un magistrato scelto fra i peggiori, quale il Vanni nel tempo di cui scrivo, poi Fiore, Guidobaldi, Speciale. Sommavano i giudici numero dispari per dar l'impressione del benefizio della parità. Le pene severissime : morte, ergastolo, esilio ; le sentenze inappellabili; l'effetto immediato: l' infamia sempre ingiunta, non mai patita»
(Colletta, op. cit, III, 2, 16).

I molti arrestati, tra cui si contavano giovinetti non oltrepassanti i sedici anni, furono sentenziati dopo sei mesi alla fine del processo scritto in 124 volumi. Il procuratore fiscale, che diceva di aver prove per ventimila e sospetti per cinquantamila, chiese la morte per trenta rei di lesa maestà divina ed umana, previa la tortura ad effetto di strappar loro i nomi dei complici. La Giunta il 3 ottobre condannò tre soli alla morte (
Vincentius Vitaliani, Vincentius Galiani et Emanuel de Deo laqueo suspendantur ante Castrum Novum, eorum memoria damnetur, bona omnia publicentur, et Regío Fisco addicanturs. Così dice la sentenza. Arrighi, pag. 84), e i più a dure pene di deportazione, di galera, di confino a perpetuità per alcuni, a 25 anni, a 20, a 15, a 10, a 5, a 4 e a 3 per altri, nella fossa del Maretimo (Marittimo, una delle isole Egadi), nelle isole di Pantelleria, di Favignava e di Ischia, nella Torre di Trapani, nelle fortezze di Gaeta, di Messina, di Orbetello e altrove ; aggiunto a tutti l'esilio per quando quelle pene finissero, colla minaccia di morte a chi rompesse il divieto di tornare nel Regno. Alcuni, fra cui tre sacerdoti, ebbero a carcere un chiostro ; pochi andarono liberi.

« La sentenza puniva acerbamente adunanze segrete di giovanetti ardenti di amore di patria, inesperti del mondo, senza ricchezze o fama o potenza o audacia, condizioni necessarie a novità di Stato : ed avversi alle malvagità ed ai malvagi, che fanno il primo nerbo dei rivolgimenti ; perciò non altre colpe che voti, discorsi, speranze: questa era la congiura per la quale molti andavano a dure pene, tutti pericolavano ; e si spegneva la morale pubblica, si creavano parti e nemicizie, cominciava tirannide di governo, contumacia di soggetti, odii atroci ed inestinguibili per andar di tempo e per sazietà di vendette».

« I condannati a morire, Vincenzo Vitaliani di ventidue anni, Emanuele De Deo di venti, Vincenzo Galiani di soli diciannove, erano gentiluomini per nascita, notissimi nelle scuole per ingegno, ignoti al mondo. Dopo la condanna, la regina chiamò Giuseppe De Deo, padre di uno de' tre miseri, e gli disse di promettere al giovane vita e impunità solo che rivelasse la congiura e i congiurati. Andò il vecchio alla cappella dove il figlio ascoltava gli estremi conforti della religione, e, rimasti soli (così avea comandato la regina), lo abbracciò tremando, espose l'ambasciata ed il premio : rappresentò il dolor suo, il dolor della madre, l'onore del casato : proponeva, dopo la libertà, fuggire assieme in paese lontano, e tornare in patria quando fossero i tempi meno atroci.

E però mentre l'altro ascoltava senza dir nulla, egli, credendolo vicino ad arrendersi, ruppe in pianto, s'inginocchiò ai piedi del figlio, e tra gemiti confusi potè dire appena : Ti muova pietà del mio stato. E allora il giovane, invitandolo ad alzarsi, e baciandogli le mani e il viso, così disse : - "Padre mio, la tiranna per cui nome venite, non sazia del nostro dolore, spera la nostra infamia, e per vita vergognosa che a me lascia, spegnerne mille onoratissime. Soffrite che io muora molto sangue addimanda la libertà, ma il primo sangue sarà il più chiaro. Qual vivere proponete al figlio e a voi ! Dove nasconderemmo la nostra ignominia ? Io fuggirei quel che più amo, patria parenti ; voi vergognereste di ciò che più vi onora, il casato. Calmate il dolore vostro, calmate il dolore alla madre, confortatevi entrambi del pensiero che io muoio innocente e per virtù. Sosteniamo i presenti martirii fuggitivi : e verrà tempo che il mio nome avrà fama durevole nelle istorie, e voi trarrete vanto che io, nato di voi, fui morto per la patria". -
L'alto ingegno, il dire sublime e valore che trascendeva in quel giovane acceso di gloria, tolsero lena
voce al vecchio padre, che, quasi vergognoso della maggior virtù del giovanetto, ammirandolo
piangendo, si coprì con le mani la fronte, e uscì dalla orrenda prigione» (Colletta, loc. cit.).

Il 14 ottobre 1794 i tre giovani salirono con volto sereno il patibolo, mentre il re e la regina stavano tremando a Caserta per la voce diffusa che cinquantamila giacobini si sarebbero levati in armi per liberare i condannati e uccidere i principi. Perciò un numero grande di sgherri e di spie fu sparso tra la folla : perciò il palco fu inalzato sotto, i cannoni del Castel Nuovo, e furono fatte avvicinare alla città numerose milizie, muniti di artiglierie gli sbocchi delle strade, e ordinato che ad ogni moto di popolo i cannoni dei Castelli dovevano seminare strage.


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