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20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1798-1799
ATTO
VANNUCCI (decima parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA
(descritti da Atto Vannucci)
I Martiri della Repubblica Cisalpina
* ANTONIO VILLA
* ANTONIO FORTUNATO OROBONI
*MARCO FORTINI
Quando il fremito della libertà si ridestava in Italia, una piccola parte delle province venete mostrò quanto era memore degli antichi ordini liberi e dette alla causa italiana un numero grande di martiri. Numerosi i Carbonari a Padova, a Crespino, alla Polesella, alla Fratta, e negli altri luoghi intorno. Nel solo Polesine di Rovigo, ove gli arresti cominciarono nel novembre del 1818, furono più di trenta che, più o meno gravemente, sentirono l'artiglio della belva austriaca.
Il piccolo paese della Fratta ebbe dieci condanne di Carbonari. Si chiamavano Antonio Villa, Marco Fortini, Antonio Fortunato Oroboni, Giovanni Monti, Domenico Grindati, Giacomo Monti, Antonio e Carlo Poli, Federico Monti e Vincenzo Zerbini. Il Villa, il Fortini, l'Oroboni, e Giovanni Monti furono condannati alla pena di morte, commutata poi in quella del carcere duro, peggiore d'ogni morte. E ciò per gran clemenza imperiale, che le gazzette officiali altamente lodarono, paragonando la bontà dell' imperatore d'Austria a quella di Tito imperatore romano.
Degli strazi più che barbarici, che quegli infelici soffersero nel carcere duro, ne vogliamo fare onorata menzione, per eccitare gli animi dei presenti Italiani a sentimento di riconoscenza verso chi per noi visse giorni sì amari, e per rendere in tutti più vivo l'amore di quella libertà che é costata tante lacrime e tanti dolori.
ANTONIO VILLA morì nel carcere, di dolore e di fame. Era nato di agiata famiglia alla Fratta, amato ed unico figlio e amatissimo sposo. Aveva lo spirito colto, si dilettava di versi, era beato dell'amore della famiglia. Ma anche la patria era un suo grande amore. L'aveva servita nel Regno Italico come soldato e come impiegato civile; e i pensieri di libertà gli agitavano sempre la mente. Nel luglio del 1817, eccitato da Felice Foresti a divenir Carbonaro, cedé facilmente, e fu aggregato con tutte le cerimonie solenni, e si adoprò alacremente a far proseliti. Tenne riunioni nella sua casa con Antonio Fortunato OROBONI, con Giovanni MONTI, con Pietro RINALDI, con Marco FORTINI, con Vincenzo ZERBINI, e con altri, e diffuse segnali, carte e statuti.
Nell'autunno del 1818 capitò repentinamente alla Fratta il generale francese d'ARNAUD, con ELENA MONTI sua moglie, già sospetta per segrete relazioni con Gioacchino Murat. Il Villa, che pure era in sospetto per la sua frequenza nella casa d'Arnaud, fu presto arrestato con il Generale, e dopo gli esami fu condotto alla prigione a Venezia nell' Isola di S. Michele di Murano, da dove poi lo trasferirono, con gli altri, nei Piombi.
Della Commissione Speciale, che doveva giudicar lui e gli altri accusati di Carboneria, era capo il tirolese SALVOTTI, ferocissimo ed astutissimo inqui sitore, che era prevenuto con tutti, lui vedeva in ognuno sempre un nemico, e usava le più turpi arti per coglierlo al laccio.
Il Villa non aveva la destrezza per sottrarsi agli assalti di questo perverso, convinto che avesse preso parte alla cospirazione dei Carbonari. Allora fu tormentato, minacciato e più che mai insidiato perché rivelasse i suoi seguaci. Le difficoltà della lotta si facevano più tremende, e per superarle era necessaria maggiore astuzia e fermezza di quelle che avesse il povero Villa. Aveva intorno non giudici onorati, ma sgherri vilissimi. Gli confusero la mente, lo perseguitarono, lo lusingarono e l'anima dello sventurato fu presa alternativamente dal turbamento, dall'esaltazione, dalla speranza, dallo spavento. Dapprima aveva tutto negato ; poi, stretto tra le fiere unghie del Consesso inquirente, disse che, considerata meglio la sua situazione, confesserebbe la verità : manifestò le trame confidategli dalla signora d'Arnaud, si confessò Carbonaro, disse delle cose fatte per la società e per i suoi fini. In seguito, si intese con gli altri nelle prigioni per mezzo di lettere, e di colloqui, quando si trovarono tutti insieme radunati in occasione dello spaventevole uragano che nel luglio del 1819 minacciò di rovina l' Isola di S. Michele, si rimise a negare ogni cosa, finché poi, lasciato quell'atteggiamento, sperando di andare impunito, chiese perdono, tornò a confessare ciò che sapeva della congiura intesa a cacciare gli Austriaci, così arrecò danno a sé stesso e agli altri, e dette motivo alle fiere accuse che il FORESTI gli dà nei Ricordi.
Quando gli lesero la sentenza di morte, e poi la commutazione al carcere duro per 20 anni, e quando sentì esser cosi grande il numero dei condannati, e così crudele la pena per un delitto non previsto dal codice austriaco, qualificato di alto tradimento da una legge posteriore all'arresto, egli non poté frenare in pieno tribunale la sua indignazione contro questo indegno procedere e contro l' imperatore, che così barbaramente puniva uomini non rei di altro che di aver tenuto delle semplici conversazioni politiche.
A questo infuriare, il feroce inquisitore Salvotti sorridendo, rispose freddamente: "si calmerà.
Il povero Villa", difatti, si calmò e cadde in tale abbattimento, che per poco non perse il senno; venti anni di carcere duro lo facevano fremere. Io vi morrò, diceva sovente ai compagni. Invano nel tristo viaggio essi, per confortarlo, gli rammentavano la sua forza erculea, la sua fiorente salute. Egli ripeteva sempre: io vi morrò.
La vista dello Spielberg fece i suoi presentimenti più certi. L' infausta rocca siede sopra un monticello presso le mura di Brunn, in Moravia. Vi stavano allora circa 300 condannati, per lo più ladri e assassini. Gli uomini che per ingegno, per cultura, per onestà e per gentili costumi erano il fiore d' Italia, ebbero nello Spielberg dall'una all'altra gamba una catena, i ceppi della quale si fermavano con chiodi ribaditi sopra l'incudine, e furono obbligati a fare ributtanti lavori, trattati più bestialmente dei ladri e degli assassini. Quella era una tomba, ma senza neppure la tranquillità della tomba, poiché gli sgherri continuamente tormentavano con perquisizioni i poveri prigionieri: li spogliavano nudi, osservavano tutte le cuciture dei vestimenti, scucivano i pagliericci per frugarvi dentro. Il cibo era schifoso e scarso, così che anche i più gracili patirono i tormenti della fame, e alcuni ne morirono.
Tra questi fu il povero Villa. Appena fu entrato nello Spielberg, credé più che mai che quel baratro che l'ingoiava vivo non dovesse più aprirsi per lui. Non sperò mai di tornar a rivedere la luce vitale del sole.
Dapprima lo misero solo, e non poté reggere al tormento della solitudine, e ai trattamenti crudeli. Le sue idee si turbarono; il suo splendido fiore di salute appassì, il suo corpo si estenuò per la fame, divenne curvo, cadde gravemente malato. Gli dettero allora a compagno ANTONIO SOLERA, dal quale fu confortato e aiutato, tanto che i progressi del male divennero meno rapidi e meno paurosi.
Era di cuore tenerissimo, e tutte le volte che pensava di non più rivedere i cari parenti e la sua giovine sposa, cadeva in delirio. Solamente la preghiera gli rendeva la calma. Vedendo dalle sbarre della prigione il carro sul quale i galeotti erano trasportati al cimitero, spaventato e fremente gridava : « Povero me! Ecco il mio carro funebre ! Mio Dio ! non occuperò dunque il mio posto nella sepoltura dei miei padri ! » E passava i giorni e le notti nella tristezza e nel pianto.
Nel 1826 la sua faccia emaciata ed il suo corpo spossato dicevano a tutti che poco gli rimaneva di vita. Ed egli lo sentiva profondamente. Un giorno diceva al cappellano Paolovitz : « Se la grazia che mi promettete non giunge in fretta, io sarò morto, perché le forze mi mancano, come la rassegnazione. Fra qualche mese non ci sarà più tempo.... Mia madre é vecchia, e non ha che me ! » -
Questa donna infelicissima si era recata a Vienna per implorare la grazia del figlio e non aveva neppur potuto implorare che al morente si desse meno dura prigione. Quando egli sentì questa fatale novella: « E', finita, - esclamò, -io non rivedrò più mia madre. Prima che passi un anno, io avrò raggiunto il mio caro Oroboni ».
Ogni alleviamento di pena gli era duramente negato, o concesso solamente quando più non poteva giovargli. Essendo calvo, supplicò di una parrucca per ripararsi la testa dal crudissimo freddo di Moravia. La supplica andò a Vienna, e solo dopo sei mesi il clementissimo imperatore rispose che gli dessero un berretto da galeotto. Ma il berretto di lana gli soffocava la testa: fece di nuovo suppliche, e dopo un lungo aspettare, l'imperatore ordinò che gli dessero una parrucca di peli di cane.
Fra tanti mali l' infelice ebbe un conforto quando gli dettero a compagno di carcere don MARCO FORTINI, suo amico diletto fin dall'infanzia. Don Marco lo assisteva amorosamente e gli alleviava le dure pene. Don Marco,così buono, così umano con tutti, era per il sofferente un vero angelo di amore. Piangeva nel contemplare quell'uomo già sì robusto e sì florido, e ora cadente e simile a scheletro. Con voce dolce e persuasiva, con la carità dell'uomo di Dio lo preparava alla morte, e lo induceva a perdonare anche a chi lo aveva sì ferocemente straziato.
La malattia era divenuta minacciosa. Allora soltanto gli concessero una stanza più ariosa ; allora, più ad insulto che a segno di pietà, venne da Vienna l'ordine di dargli tutto ciò che chiedesse. Ma egli non chiedeva né desiderava più nulla. Gli concessero di scrivere ai suoi parenti ed egli, raccogliendo le sue poche forze, dettò una specie di testamento diretto a suo padre e a sua madre, supplicandoli di perdonargli il dolore che aveva loro cagionato; raccomandò ciascuno de' suoi servi, e chiese con istanza ai cari parenti che don Marco, appena tornasse a libertà, fosse da loro trattato come un figlio.
Dopo, il suo cuore si calmò, e i suoi dolori parvero cessare: si preparò a morire da buon cristiano, e tale morì nelle braccia di don Marco, che non s'allontanò mai dal suo capezzale, facendogli cuore e pregando per lui.
Era il 1826. Cinque anni di patimenti crudelissimi avevano annientato quella forte natura. Un giorno, su quell'ignobile carro, la cui vista metteva orrore al povero Villa, il suo cadavere fu trasportato al cimitero dai galeotti. Egli, che tanto ardentemente aveva sospirato di giacere nella tomba dei suoi padri, fu gettato come un animale immondo nella fossa scavata dai galeotti. E il domani non rimaneva più segno che distinguesse le ossa dei martire da quelle dei ladri e degli assassini.---------------------
ANTONIO FORTUNATO OROBONI
Le madri italiane piangono amarissime lacrime sui cari figliuoli, che la rabbia dello straniero strappa loro dal seno, e getta in un baratro, dove muoiono di dolore e di fame.
E quale é il delitto di questi infelici ? La ronaca li conta tra i cittadini più degni: sono buoni figli, buoni padri, buoni mariti; sospirano la felicità e la dignità della stirpe umana, e si adoprano a promuoverla quanto più possono. Non sono rei di altro, che del pensiero di voler cacciati d'Italia i ladroni austriaci. In cima ad ogni loro desiderio, stanno la gloria, la libertà e l'indipendenza d' Italia : perciò l'imperatore di Vienna li seppellisce vivi negli antri dello Spielberg.
Questo imperatore pensa di poterli anche infamare : ma l' imperiale pensiero é stolto, quanto feroce; il despota può tormentare, può uccidere, poiché molti sgherri ha al suo comando, ma infamare non può : l'infamia che vuol fare ad altri gli ripiomba tutta sul capo e lo rende esecrato fra tutte le genti civili. Le calunnie, i crudeli strazi e la morte rendono venerande le vittime a ogni anima umana, e consacrano al pubblico odio i carnefici. I martiri italiani, che incatenati e recinti di sgherri erano trascinati allo Spielberg, da tutti i paesi italiani ebbero solenni dimostrazioni di stima e di affetto. Il pianto di tutti i buoni li accompagnava nell'amaro viaggio, e gli sbirri potevano a stento diradare la folla e aprirsi il passo attraverso le moltitudini accorrenti per confortare, con uno sguardo di compassione e con una lacrima, quegli infelici. Anche nei paesi austriaci, padri e madri si accostavano pietosi ai prigionieri per domandar loro se avevano genitori, e udendo che sì, impallidivano, ed esclamavano commossi: "Iddio vi restituisca presto a quei miseri vecchi".
Anche tu, infelicissimo Oroboni, avevi un padre ottuagenario, che piangeva sul tuo fato crudele, e che doveva scendere nel sepolcro senza più rivederti !
Il conte ANTONIO FORTUNATO OROBONI era nato alla Fratta : lo adornavano bellezza di persona, costumi gentili, sentimento di libero uomo: era sul fiore dell'età e delle speranze; aveva 29 anni. La nobiltà e gli agi della famiglia non spensero in lui, come in altri, l'amore della patria infelice. La dominazione straniera lo reputava un obbrobrio d'Italia, e si unì con i Carbonari per toglier via questa vergogna. Fu con gli altri arrestato e trascinato nelle prigioni di Venezia, dove patì tutte le persecuzioni feroci dell' inquisitore Salvotti. Ma non si lasciò mai sbigottire, e si resse forte ad ogni minaccia, ad ogni tormento. Dopo le pene del lungo processo fu condannato nel capo, e quindi, per commutazione di pena, a quindici anni di carcere duro nello Spielberg.
Non bevve tutto l'amarissimo calice, perché la morte venne presto ad abbreviargli le angosce. Patì anch'egli il tormento della fame e s'indebolì; divenne così magro, che la pelle gli involgeva solo più le ossa: il suo pallore faceva spavento ai compagni, martiri con lui della medesima fede. L'amore di Silvio Pellico, e le cure affettuose di don Marco Fortini, che gli fu dato a compagno di carcere, valsero a sostenergli la vita qualche mese di più.
« Dopo aver molto patito (scrive Silvio Pellico) nell' inverno e nella primavera, si trovò assai peggio nell'estate. Sputò sangue e andò in idropisia. Lascio pensare quale fosse la nostra afflizione, quand'egli si stava estinguendo lì, presso di noi, senza che potessimo rompere quella crudele parete che ci impediva di vederlo e di prestargli i nostri amichevoli servigi !... L' infelice giovane patì atrocemente, ma l'animo suo non si avvilì mai.
«Morì nel suo giorno di onomastico, 13 giugno 1823. Qualche ora prima di spirare, parlò dell'ottuagenario suo padre, s'intenerì e pianse. Poi si riprese dicendo : - "Ma perché piango il più fortunato de' miei cari; poiché egli é alla vigilia di raggiungermi all'eterna pace ?"
« Le sue ultime parole furono : - Io perdono di cuore ai miei nemici".
« Gli chiuse gli occhi don Marco Fortini, suo amico dall' infanzia, uomo tutto religione e carità.
« Povero Oroboni ! qual gelo ci corse per le vene quando ci fu detto che non era più. - Ed udimmo le voci ed i passi di chi venne a prendere il cadavere ! - E vedemmo dalla finestra il carro in cui veniva portato al cimitero ! Traevano quel carro due condannati comuni; lo seguivano quattro guardie. Accompagnammo cogli occhi il tristo convoglio fino al cimitero. Entrò nella cinta: si fermò in un angolo: là era la fossa.
«Pochi istanti dopo, il carro, i condannati e le guardie, tornarono indietro. Una di queste mi disse (gentile pensiero, sorprendente in uomo rozzo) - Ho segnato con precisione il luogo della sepoltura, affinché, se qualche parente od amico potesse un giorno ottenere di prendere quelle ossa e portarle al suo paese, si sappia dove giacciono".
« Quante volte Oroboni mi avea detto, guardando dalla finestra il cimitero : - Bisogna che io m'avvezzi all'idea di andare a marcire là entro, eppure confesso che questa idea mi fa ribrezzo ! Mi pare che non si debba star così bene sepolti in questi paesi, come nella nostra cara penisola". Poi rideva ed esclamava: - "Fanciullaggini: quando un vestito é logoro e bisogna deporlo, che importa dovunque sia gettato.
«Altre volte diceva : - Mi vado preparando alla morte, ma mi sarei rassegnato più volontieri ad una condizione : rientrare appena nel tetto paterno, abbracciare le ginocchia di mio padre, intendere una parola di benedizione e morire».
Morì con la calma e con la rassegnazione di un santo. Il carceriere Krall, pregato dai compagni dell'estinto, gli depose sul seno un mazzo di fiori e ne ravvolse in un lenzuolo il cadavere. Tutti i prigionieri composero un epitaffio, nella dolce speranza che un giorno, l'ultimo di loro che abbandonasse quel luogo fatale, potesse ottenere di erigere almeno una pietra nel luogo ove giacciono quelle ossa travagliate.---------------------------------------------------------
MARCO FORTINI
Il prete don Marco Fortini era uomo di semplici e santi costumi. Le ingenue parole rivelavano il candore dell'anima sua: le sue opere di amore e di carità ne mostravano la rara virtù. Era cappellano alla Fratta, suo luogo nativo. Tutti lo amavano e riverivano, perché vedevano in lui il vero modello del ministro di Dio. Egli degnamente adempiva il suo santo ufficio: si porgeva pio e caritatevole ai poveri, consolava gli afflitti, predicava e praticava il Vangelo.
Amava la patria, perché gli uomini così fatti amano tutto ciò che é bello e santo, ma di segreti e di cospirazioni non seppe mai nulla. Era Carbonaro, ma semplice apprendente, e quindi ignaro di tutto. Il suo affetto per Oroboni e per Villa lo portò allo Spielberg.
Amava Antonio Villa con tutta l'anima, perché gli era stato compagno fino dall' infanzia, e aveva in lui una confidenza fraterna, illimitata. Perciò, un giorno che l'amico lo richiese di andare dalui ad una riunione di bravi uomini, ove la sua presenza sarebbe stata gradita, don Marco, senza ricercare di che cosa si trattasse, vi andò. Era un convegno di Carbonari. Nulla fu detto né fatto, da cui potesse accorgersi di quali faccende trattavasi. Erano discorsi generici sulla libertà e sulla indipendenza d'Italia. Dopo la riunione, su richiesta dell'amico, s'incaricò di conservare un pacco di carte, di cui ignorava il contenuto; e a maggior sicurezza le rinchiuse negli armadi della sua sagrestia.
Poco dopo avvenne l'arresto del Villa e di altri Carbonari della Fratta. Don Marco, che non sapeva di aver fatto alcuna cosa che lo compromettesse con la giustizia, rimase dolente per la disgrazia degli amici, e sicuro per sé, quando gli sbirri andarono a fargli una visita.
Gli misero a soqquadro la casa, frugarono ogni luogo riposto, e alla fine, negli armadi di sagrestia, trovarono le carte fatali. Dopo la scoperta fu immediatamente arrestato e condotto a Venezia. Il feroce Salvotti esultò di aver trovato tra i cospiratori anche un prete, e sperò che la scoperta gli facesse un gran merito a Vienna, e giovasse non poco alla sua fortuna avvenire. Don Marco era innocente come un fanciullo, anche se le apparenze erano contro di lui. Dei disegni della setta, come dissi, non conosceva nulla.
E tutto ciò lo sapeva bene il Salvotti; ma per questo non cessò mai dal tormentare in tutti i modi questo uomo così buono, cossì dolce, così innocente. Lo minacciò della corda, lo trascinò di prigione in prigione, lo straziò barbaramente, perché non aveva denunziato alla polizia i suoi amici, e perché si ostinava a tacere i nomi dei Carbonari che gli erano stati confidati da Villa.
Don Marco protestava della sua innocenza: e ad ogni protesta l' iniquio inquisitore rispondeva con minacce di morte. Alla fine la sentenza di morte fu pronunziata anche contro di lui. Quale cuore fosse il suo a quell'annunzio, si può più solo immaginare ma non dire a parole. Per rendergli più angosciosa la crudele novella, non gli dissero neppure che la pena di morte gli sarebbe stata commutata col carcere, lo gettarono in una prigione sotterranea, e per molti giorni lo lasciarono nella convinzione che dovesse veramente salire al patibolo. Le sue pene furono crudeli in questi momenti; ma una prova anche più straziante per lui fu preparata. Egli stesso narrava più tardi ai compagni di prigionia lo spavento e l'orrore che lo presero quando fu condotto alla funebre cerimonia della degradazione come prete.
«Tratto dalla mia prigione, raccontò, fui dagli sbirri e dai carcerieri condotto al palazzo episcopale: fui introdotto in una sala immensa, ove il patriarca di Venezia sedeva circondato da tutto il suo clero. Dire quello che provai nel vedere tutto questo mi sarebbe impossibile. Fui preso da timore e consolazione; temei vedendo la faccia severa di tutti quei dignitari della chiesa, sui quali io osava appena alzare lo sguardo: mi consolai pensando che mi trovavo in mezzo ai miei confratelli, i quali, come me, si erano consacrati a quel Cristo che c'insegnò ad essere buoni e indulgenti, e ad amarci e soccorrerci.... Ma invano io cercai un segno di pietà su quei visi impassibili e freddi. Il mio cuore, già divenuto sì debole, allora si spezzò. Il patriarca mi fece cenno di avvicinarmi, ed io mi feci avanti tremando. La mia ansietà era più terribile come quella quando fui preso e quando mi lessero la sentenza di morte.
Dopo brevi momenti uno degli assistenti pronunziò queste funeste parole: "Accusato dall' inquisitoriale commissione d'aver fatto parte della società segreta dei Carbonari, in cui si facevano orribili trame contro la religione, la sicurezza dello Stato e le proprietà particolari, e convinto perciò stesso del delitto di alto tradimento contro S. M. l' imperatore, il prete Don Marco Fortini, cappellano della Fratta, é condannato da noi Patriarca della chiesa Metropolitana di Venezia, assistito da tutto il clero, alle pena della degradazione solenne, nelle forme prescritte dai canoni ».
La pena infamante della degradazione, che si dà solamente ai preti più scellerati, riempì di orrore l'infelice, che sapeva di non aver fatto nulla. Nella sua disperazione cadde in ginocchio davanti al patriarca, piangendo e gridando che era innocente. Il patriarca gli disse solamente queste parole: "Tacete : disgraziato, non aggravate la vostra colpa con la menzogna".
Invano don Marco supplicò, invano giurò in faccia a Dio della sua innocenza. Il patriarca non fu commosso né dalle lacrime, né dalle preghiere, e ordinò di cominciare la trista cerimonia.
Fu questa un'ora di agonia mortale per il povero condannato : la parola gli morì sulle labbra; il pallore ricoprì la sua faccia. Lo rivestirono dei sacri ornamenti, come se dovesse celebrare la messa poi il patriarca ne lo spogliò, pronunziando le parole contrarie a quelle già pronunziate nella cerimonia dell'ordinazione: quindi gli fece rasare la testa per togliere ogni traccia della tonsura, e grattare con un vetro l'estremità delle dita, che avevano toccato le cose sante.
Dopo lo riportarono alla prigione, e di là lo condussero alla tomba dello Spielberg. Qui sopportò tutti gli strazi con la rassegnazione del giusto; era mite come Cristo in mezzo ai ladroni. Non perdé mai né la tranquillità, né la pazienza; aveva sempre quel celeste sorriso che viene dalla pura coscienza. Pareva un angelo mandato da Dio a consolare i miseri in quel luogo di orrore. Piangeva sulle loro pene, pregava per tutti; continuando con amore ineffabile il suo ufficio evangelico, metteva la pace nei cuori agitati dai lunghi dolori, riduceva a miti affetti i più disperati. Dato come compagno a più prigionieri, sapeva accomodarsi alle inclinazioni e agli umori diversi; e colle sue cure affettuose e con la sua ingenua pietà li consolava. Assisté l'Oroboni e il Villa nelle lunghe malattie che li spensero, e rese loro gli estremi uffici. La morte di questi carissimi amici alterò per un poco la sua rassegnazione e gli disturbò la salute: ma poi l'amaro della sua tristezza si addolcì a poco a poco, al pensiero che i suoi amici erano in cielo.
Sulla fine del 1827, a lui e ad altri fu concesso un trasferimento di carcere. «Una sera, scrive Silvio Pellico, udimmo nel corridoio il rumore mal represso di parecchi camminanti. I nostri orecchi erano divenuti sapientissimi a discernere mille generi di rumore. Una porta viene aperta; conosciamo esser quella ov'era l'avvocato Soléra. Se n'apre un'altra; é quella di Fortini. In mezzo ad alcune voci dimesse, distinguiamo quella del direttore di polizia. - Che sarà ? Una perquisizione ad un'ora così tarda ? E perché ? Ma in breve escono di nuovo nel corridoio.
« Quand'ecco la cara voce del buon Fortini. - Oh, povereto mi ! la scusi sala: ho desmentegà un tomo del breviario". E lesto lesto correva indietro a prendersi quel tomo, poi raggiungeva il drappello ».
Lasciando la infame ròcca, ove molti Italiani rimanevano a gemere, don Marco, con il conte Ducco e con Antonio Soléra, giunse a Vienna la sera del 10 dicembre. Furono tenuti per cinque mesi nelle carceri politiche di questa città, poi liberati nel maggio 1828. Dopo, don Marco torno al paese nativo, ove i suoi mali, tranquillamente e dignitosamente patiti, gli accrebbero l'amore e la reverenza dei buoni. Era l'esempio vivo di quello che possa la pura coscienza contro l'avversità, e contro le turpi opere della tirannide.
La venerazione coronava la sacra testa del martire, che l' imperatore austriaco aveva creduto di poter infamare. Tutti lo benedicevano con il più ardente affetto del cuore; tutti rimanevano commossi nel sentir narrare da quest'anima candida il tristo fine dell'Oroboni e del Villa, e le tristissime pene che il bestiale imperatore tedesco fece soffrire agli Italiani nella infame rocca.
Don Marco credeva vivamente nella resurrezione italiana, e prima di morire fu felice di vedere che non aveva vanamente creduto ! Morì ai 28 maggio del 1848, quando la più parte delle terre italiane aveva scosso l'abominevole giogo straniero; quando cominciava a trionfare l' idea per cui egli aveva tanto patito !
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TERMINANO QUI QUESTI PIETOSI MA EDIFICANTI RICORDI DI
ATTO VANNUCCI