DA
20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1798-1799
ATTO
VANNUCCI (quinta parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA
(descritti da Atto Vannucci)
*
* * ALTRI MARTIRI DELLA REPUBBLICA PARTENOPEA
* LUISA SANFELICE MOLINO
* NICOLA ANTONIO ANGELETTI
* MICHELE MORELLI - GIUSEPPE SILVATI
* I
PRIGIONIERI E GLI ESULI NAPOLETANI
* POERIO - COLLETTA - PEPE
Napoli era tutta piena di sangue. La Giunta di Stato faceva salire ogni giorno molti onesti cittadini al patibolo. I più atroci in questa opera infame si mostravano i giudici Guidobaldi e Speciale. Guidobaldi era un miserabile, elevatosi con le viltà e con le più schifose brutture. Speciale era assetato di sangue, e la virtù e il sapere eccitavano la sua ferita. « Si dilettava, scrive Vincenzo Cuoco, passar quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare e opprimere colla sua presenza coloro che non poteva uccidere ancora. Se aveva il rapporto di qualche infelice morto di disagio o d'infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasi accatastati, questo rapporto era per lui l'annunzio di un incomodo di meno. Un soldato uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato ad una finestra del suo carcere a respirare un'aria meno infetta ; gli altri della Giunta volean chieder conto di questo fatto. «Che fate voi ? disse Speciale: costui non ha fatto altro che toglierci I' incomodo di una sentenza ».
Speciale insultava con modi osceni le donne che andavano a chieder pietà per i prigionieri, insultava con viltà le vittime che gli stavano davanti. Onde nacque in tutti disperazione e ardente desiderio di vendetta contro questo orrido mostro. Un certo Luigi Velasco, di forza e di persona gigante, concepì il pensiero di ucciderlo e tentò un atto stupendo. Speciale lo voleva indurre a confessarsi reo, e alle risposte contrarie gli disse che se continuava a mentire, il giorno appresso lo avrebbe mandato a morte.
Allora Velasco impetuosamente rispose: « Tu non lo farai: e nel dirglielo si avventò contro di lui, e trascinandolo alla finestra, sperava che abbracciati precipitassero insieme. Lo scrivano presente lo impedì: accorrendo alle grida gli sgherri della Giunta riuscirono a strappare dalle braccia del forzuto Speciale; a quel punto Velasco piuttosto che farsi catturare preferì buttarsi lui nel precipizio.
Con altri Speciale adoperava lusinghe. La fortuna aveva aiutato nel processo Niccola Fiani, di Torre Maggiore, in Capitanata, già ufficiale, il quale, anche secondo quelle barbare leggi, non compariva reo di morte. Ma si voleva ad ogni costo spegnere questo uomo, e la malvagità di Speciale trovò il modo. Egli fece venirsi alla presenza Fiani, e appena lo vide, disse: Sei tu? E prescrivendo che fosse sciolto delle catene, rimasti soli, soggiunse : Ah, Fiani, in quale stato io ti rivedo ! Quando insieme godevamo i diletti della gioventù, non era sospetto che venisse tempo che io fossi giudice di te reo. Ma vollero i destini, per mia ventura, che stesse in mie mani la vita dell'amico. Scordiamo in questo istante io il mio ufficio, tu la tua miseria; come amico ad amico parlando, concertiamo i modi della tua salvezza. Io ti dirò
ciò che tu dovrai solo confermare.
Fiani di meraviglia e di amicizia piangeva: Speciale lo abbracciava. E così come quello volle, l'altro disse: e lo scrivano registrò le parole, cheperò ebbero effetto contrario alle promesse: di modo che il traditore fece negare cose certe nel processo, e confessò fatti ignot. L' infelice andò a morte per questo suo agire. Francesco Lomonaco narra di lui che, mentre stava per morire sul patibolo, alcuni stipendiati di Carolina gli si gettarono addosso, lo fecero a pezzi, gli strapparono il cuore e lo portarono in trionfo per la città.Ciò che reca qualche conforto all'animo contristato da tanta efferatezza di tiranni e di giudici è la costanza con cui i martiri mantennero la loro fede, e la serenità con cui salirono tutti al patibolo. La più parte furono eroi fortissimi, che nulla perdono al paragone dei più forti Greci e Romani. NICCOLO VITALIANI, meccanico, già al servizio francese, suonava la chitarra quando gli comunicarono la sentenza di morte. Continuò a suonare e a cantare fino al momento di avviarsi al patibolo. Allora partì tranquillo secondo l'usanza, e uscendo dalle porte del carcere disse al custode. "Ti raccomando i miei compagni ; essi sono uomini e tu anche, e potresti un giorno essere infelice al pari di loro".
NICCOLA CARLOMAGNO, di Lauria, avvocato e già Commissario della Repubblica, appena salito sulla scala della forca parlò alle turbe dicendo queste parole: "Popolo stupido, tu godi adesso della mia morte. Verrà un giorno e tu mi piangerai: il mio sangue già cade sul vostro capo, e se voi avrete la fortuna di non esser vivi, cadrà sul capo dei vostri figli.
NICCOLA PALOMBA, allo sgherro che nell'estremo momento lo eccitava a salvarsi rivelando i suoi complici, rispose così: "Vile schiavo ! lo non ho saputo mai comprare con l'infamia la vita.
LUIGI DE GRANALAIS , ufficiale di marina, dal palco di morte guardò la folla spettatrice e disse: "Vi riconosco molti amici miei; vendicateci".
Tutto il fiore della sapienza e della virtù di Napoli e delle province perì sulla forca.
Gli esiliati giunsero per lo meno al numero di 4.000. Fra essi vi erano uomini dottissimi, come Vincenzo Cuoco, Pietro Napoli Signorelli (1), Melchiorre Deifico (2), Domenico Grimaldi (3), Francesco Salfi (4), sottrattisi in vari modi alla repressione e alla morte.
(1) Letterato e critico, visse 18 anni in Ispagna, insegnò poi a Milano e a Bologna. (1731-1815).
(2) Economista, giureconsulto e letterato. Dal 1799 al 1806 fu esule a S. Marino. (1744-1835).
(3) Fu chiaro botanico, economista e letterato. (1735-1805).
(4) Segretario generale del Governo, durante il dominio francese a Napoli, nel 1801 professore a Milano, e dal '14, esule a Parigi. Continuò l'Histoire littéraire de l'Italie del Ginguené (1759-1832).
Vi era Francesco Lomonaco, vi era Guglielmo Pepe allora giovinetto, che andava al suo primo esilio. Ma lo spettacolo più compassionevole lo davano due donne, le duchesse di Cassano e di Popoli. Erano sorelle, che splendevano per singolare bellezza e più ancora per altezza di animo e rara virtù.
Nel tempo della rivoluzione, per sovvenire alla pubblica miseria, aprirono la sottoscrizione dei doni patriottici, andarono di casa in casa a raccogliere cibo, vesti e denari, eccitarono a far questo anche altre donne pietose, e per questa nobile carità ebbero il titolo glorioso di madri della patria.
All'arrivo del cardinal
Ruffo furono spietatamente trascinate nelle prigioni della Vicaria, in mezzo agli insulti di plebe furiosa: e ora, dopo aver sofferto gli strazi del carcere, erano cacciate in esilio, e con gli altri infelici lasciavano la diletta patria insanguinata da Ferdinando Borbone e da Carolina austriaca.
DOMENICO CIMAROSA (1754-1801), autore delle soavi melodie, che destavano le meraviglie del mondo, aveva musicato anche un inno repubblicano. Per questo delitto i sicarii del Ruffo gli saccheggiarono la casa, gettarono dalle finestre il suo clavicembalo, e lui trascinato in carcere, ove aspettava la morte, quando, e malgrado il Governo di Napoli, fu liberato dai Russi alleati del re Ferdinando, i quali lo lasciarono andare a morire a Venezia, ove l'11 gennaio del 1801 finì, secondo la pubblica voce d'allora, in conseguenza degli strazi patiti nel carcere, ed ebbe là onoranze solenni.
Anche la sacra memoria di GAETANO GILAMGIERI fu nuovamente insultato. I suoi libri erano stati dal dispotismo banditi e bruciati nel 1791. La Repubblica lo onorò di una statua nella sala dell'Assemblea legislativa. Il re, al suo ritorno, ne proscrisse la vedova e i giovani figli, i quali, accolti con festa a Parigi, furono, con decreto onorificentissimo dell'Assemblea, ammessi nel Pritaneo Nazionale, perché vi fossero educati a pubbliche spese, per onoranza all' immortale autore della Scienza della legislazione.
LUISA SANFELICE MOLINOLa Giunta di Stato continuò per più mesi a insanguinare le città e le province. In ogni parte dei Regno furono spediti commissari regii col nome di visitatori, i quali punissero i rei, tenendo in mira di purgare il Regno dai nemici dell'altare e del trono. E questi, a difesa dell'altare e del trono, spargevano il sangue più puro, incrudelivano con le confische, con gli imprigionamenti e con le torture, e lasciavano le famiglie povere e desolate. Tutti piangevano o dei figli o dei parenti fuggiti, morti o esiliati. I fuggiaschi furono colpiti di anatema, e dichiarati nemici di Dio e dello Stato: e a chiunque li sterminasse si prometteva larga copia di premii, e una patente di santo. Tutta la storia di questi infelicissimi anni é storia dei delitti dei principi, e martirologio dei popoli. E con tutta ragione i contemporanei, testimoni di tante sciagure, poterono dire di quella età ciò che Tacito affermò di Roma sotto Domiziano : cioè che i popoli dettero un esempio solenne di pazienza tollerando il colmo della servitù a cui la tirannide li aveva condotti.
Non solo furono usati tutti i flagelli dei più turpi e più inumani tiranni antichi, ma a strazio della creatura umana furono inventati tormenti nuovi. Francesco Lomonaco narra che un giovine Acconciagioco, accusato di aver preso parte ad una congiura, fu menato ad orribile scempio. Soffrì con ammirabile costanza il fuoco nella sua mano in presenza degl' iniqui ministri. E mentre dall'estremità del dito indice fino al pollice gli passavano un ferro rovente, egli serbò il silenzio col più fiero e dignitoso contegno. La tradizione narra caso orribile dì una nobile donna. Nei giorni della rivoluzione ella intervenne a una festa di ballo in casa di un generale francese. Per questo solo fatto fu trascinata con gli uncini da macellaio per la città dai ministri del re Ferdinando.
Di altre donne insultate dalla plebe e dai giudici stessi già abbiamo parlato. Ora chiudiamo la serie dei martiri della Repubblica Partenopea collo strazio di un'altra misera donna, non rea di altro che di un affetto che la indusse a scoprire trama iniquissima, e a salvare la città da una strage.
Quando ardeva nelle province l' incendio della guerra civile eccitato dal Ruffo, che portava in una mano la croce e nell'altra il pugnale ; quando per ogni città le forche sorgevano accanto al profanato vessillo della redenzione cristiana, in Napoli l'empia fazione ordiva macchinazioni infernali.
Fra tutte le congiure contro la Repubblica, più terribile era quella di un Backer, svizzero, imparentato con famiglie devote ai Borboni, e loro amico egli stesso. Si intendeva coi lazzari, e con gl' Inglesi che correvano i mari vicini ; per un giorno di festa, quando le strade sarebbero state ingombre di popolo, aveva stabilito di eccitare un tumulto, e in mezzo a quello uccidere tutti i Repubblicani ed incendiarne le case. Si tennero nefandi concili, si dette ai congiurati l' intesa, si notarono con segni determinati le case che bisognava salvare o distruggere. Quanto alle persone, fu stabilito che andrebbero salve dalla strage solamente quelle che avevano un certo cartello che assicurava che appartenevano alla fazione dei regi. Uno di questi cartelli venne per avventura alle mani di una giovane donna chiamata Luisa Sanfelice. Avendo al tempo stesso saputo le nefande cose che si preparavano, ella, più sollecita di altrui che di sé, dette il cartello a un giovane Ferri, suo amico, che, ufficiale nelle milizie civili e caldo seguace delle parti repubblicane, era certamente tra le vittime segnate dai congiurati. Il Ferri svelò subito al Governo l'empia macchinazione. Quindi la donna fu chiamata in giudizio, e nell'atto stesso che disse tutto ciò che sapeva, rifiutò di manifestare il nome di colui che le avea dato il cartello, protestando energicamente che vorrebbe morire anziché accusare chi avea avuto il pietoso pensiero di salvarle la vita.
Ma quello che già si sapeva bastò a scoprire la trama e ad impedirne gli effetti. Furono scoperti i capi e arrestati: e la Sanfelice fu salutata salvatrice della Repubblica.
Ma presto al trionfo tenne dietro il patibolo. Appena ristabilito il dispotismo, essa fu rinchiusa in orrido carcere, e per la legge che diceva rei di morte tutti coloro che in modo decisivo avessero dimostrata la loro empietà verso la sedicente Repubblica, fu condannata a morire.
A questo terribile annunzio, ella disse di esser gravida; e trovato ciò vero, fu sospeso il supplizio. Il re ne mosse aspro rimprovero ai giudici, dicendo essere la gravidanza una favola inventata per sottrarsi alla pena. Nonostante un nuovo esame, che dette ai medici la certezza del fatto, il re, non contento, ordinò che la sventurata fosse condotta in Sicilia per essere visitata dai medici di quella corte. Anche questi accertarono la gravidanza; e la Sanfelice fu chiusa in prigione a Palermo per aspettare il parto, e dopo quello salire al patibolo.
Il triste momento giunse alla fine: ella partorì, e non valsero neppure le preghiere della reale famiglia a piegare l'animo feroce del re a favore della misera donna. Mentre essa gemeva nel carcere attendendo la morte, la reggia era rallegrata dalla nascita di un erede del trono partorito dalla principessa Maria Clementina. Questa donna, cui l'usanza della severa corte non aveva tolto dall'animo la pietà naturale alle donne, dalle allegrie della reggia si volse con pio affetto agli orrori del carcere in cui gemeva un'altra donna, anch'essa madre di un bimbo, e desiderò salvarla. Sapendo che era costume della reggia napoletana di concedere alla regale partoriente di domandare tre grazie, la principessa Maria Clementina, per meglio accertare il successo, restrinse le tre grazie in una sola e domandò la liberazione della infelice Sanfelice.
Un foglio contenente la sua supplica e le preghiere della principessa fu posto tra le fasce dell' infante, così che il re nel momento in cui gli si presentava l'erede, lo vedesse: e infatti, quando egli andò a visitar la nuora ed allegro e ridente teneva sulle braccia il bambino, lodandone la beltà e la robustezza, vide il foglio e domandò cosa fosse. "È la grazia, disse la nuora, che io chiedo: ed una sola grazia, non tre, tanto desidero di ottenerla dal cuore benigno di vostra maestà".
Ed egli, sorridendo sempre: "Per chi pregate?" - "Per la misera Sanfeiice......" , ma la voce fu troncata dal piglio austero del re che, mirandola biecamente, depose, e quasi con furia gettò l' infante su le coltri materne e, senza dir altro, uscì dalla stanza, nè per molti giorni vi ritornò. La severità di lui, la pietà disprezzata, il caso acerbo fecero inumidire gli occhi della principessa di dolorose lacrime.
Intanto la misera Sanfelice, ridotta piuttosto male, fu mandata a Napoli, ed ebbe il capo reciso dal carnefice nella piazza infame del mercato, il giorno 11 settembre 1800, quando già, fin dal 30 maggio, quel tipo di supplizio era stato già sospeso. Morì davanti al popolo, impietosito del tristo fatto di bella e giovane donna, chiara di sangue e di sventure, solcata in viso dalla tristezza e dagli stenti, rea di amore o per amore, e solamente dell'aver salvata la città dagli incendi e dalle stragi" (Colletta, Storia del Reame di Napoli).
Queste sono le azioni scellerate di Ferdinando Borbone, maledetto da migliaia di vittime, figurato sotto le sembianze di Minerva da Antonio Canova, posto dall'astronomo Piazzi nel cielo, e al dire di una medaglia di bronzo, restituito per la divina Provvidenza nel Regno, nel quale lo vedremo più avanti tradire le promesse giurate sui santi Evangeli, e ferocemente flagellare gli uomini della nuova generazione, i figliuoli dei vecchi uccisi per essersi affidati a quei trattati che i sovrani chiamavano sempre "sacri".---------------------
NICOLA ANTONIO ANGELETTI
A Napoli e nelle province si viveva in grandissima costernazione, tra incarcerazioni, e uccisioni, e sentenze di bando e di frusta a quelli che avessero cospirato per le cose nuove, o sostenuta la costituzione giurata dal re. Le prime opere del governo ristabilito dalle armi austriache furono queste: « abolite tutte le leggi e le provvisioni fatte durante il governo costituzionale; eliminate le milizie civili; proibita ogni adunanza; chiusi gli atenei; decretata la pena di morte per chiunque tenesse in casa o portasse in dosso un'arma.... ; tribunali militari sopra pretestuose colpe verso lo Stato; Giunte d'inquisizione sopra le opinioni; la polizia sopra tutte le legge; nessuna forma, nessun rito di giustizia; innumerevoli carcerazioni; giudizi sommari, frequenti supplizi; la pubblica autorità dedita alla vendetta.»
PrImo ministro delle feroci vendette fu il principe de CANOSA (1), consigliere ed esecutore di azioni nere e nefande. Tutti i disonesti delatori esultavano, mentre tremavano gli uomini onesti. Il Canosa pensava che i troni si mantengano con la crudeltà dei governi e con la ignoranza dei popoli. E per mantenere l' ignoranza proibì tutti i libri più innocui, tra i quali un catechismo fatto qualche anno prima, in cui tra i doveri del cristiano si poneva l'amore della patria; e ordinò perquisizioni per tutte le case. Gran quantità di libri fu arsa sulla piazza di Medina per mano del boia, mentre un banditore ne gridava l' infamia. Quelli cui erano stati sequestrati furono arrestati e sottoposti a giudizio. E allora dappertutto fu grande paura, e molti che avevano libri compromettenti si precipitarono loro stessi a bruciarli.
Al solo nome di carboneria il Canosa montava in furore. E per atterrire i settarii, dette un obbrobrioso spettacolo, facendo frustare in pieno giorno e straziare nella popolosa via di Toledo diversi Carbonari catturati. Di una di queste vittime e dei particolari dell'atroce fatto ne é rimasta memoria.
Nel tempo della rivoluzione due ufficiali romani, un certo BREGOLI e NICCOLA ANTONIO ANGELETTI, militarono nell'esercito che marciò ai confini contro gli Austriaci. Dopo la sciagura di Rieti (7 feb. 1821) e la vittoria del nemico, essi, studiando di sottrarsi alla persecuzione con la fuga, si recarono a Messina per imbarcarsi, e andare a combattere le guerre di Grecia. Arrestati dalla polizia e messi in prigione, dopo due mesi di patimenti durissimi furono trascinati a Palermo e di là a Napoli, e gettati nei sotterranei di Santa Maria Apparente, carcere orribile. Dormivano sulla nuda ed umida terra: loro cibo poche fave cotte che si gettavano loro davanti come fossero cani randagi, o animali immondi
Ma questo era poco in confronto ai patimenti che stava preparando il Canosa. Il 25 di luglio egli ordinò che due dei prigionieri fossero pubblicamente frustati dal boia. Furono scelti gli ufficiali Bregoli ed Angeletti ma solamente l'ultimo fu condotto al disonesto strazio, perché l'altro poco prima dell'esecuzione cadde gravemente ammalato. Lo misero, nudo dalla cintola in su, con piedi scalzi e man legate, coi fregi della setta al collo, con berretto a tre colori in testa su cui si leggeva : "Carbonaro", poi un ampio cartello posato sul petto in cui stava scritto a grandi caratteri: "Nicola Antonio Angeletti, ufficiale romano, gran maestro carbonaro e frammassone, per l'esempio" ; poi legato sopra ad un asino, con grande seguito di sbirri e di soldati austriaci, fu fatto sfilare per le più popolose contrade di Napoli offrendo l'orrido spettacolo, da cui tutti gli onesti allontanavano gli occhi. La plebe intervenne e fu taciturna. All'inizio del corteo veniva avanti un numeroso stuolo di soldati: poi seguiva il valletto del carnefice, che ad intervalli dava fiato a una rauca tromba per richiamare l'attenzione del pubblico : poi altri soldati e sbirri, che accerchiavano il disgraziato. Veniva dietro, circondanto da soldati e da sgherri, il carnefice, il quale, ad ogni squillo di tromba, con sferza di funi e di chiodi, gli flagellava le nude spalle. Si temette che quella orribile vista facesse levare le genti a tumulto. Quindi la polizia aveva dato ordine ai soldati che venivano dietro di far fuoco e uccidere subito la vittima, se mai si tentasse di liberarla. Questo strazio durò per quattro ore, perché volevano percorrere in tutte le direzioni le strade dell'immensa città.
A due terzi del cammino Angeletti svenne, e il chirurgo dichiarò che la sua vita era in pericolo. Non per questo fu sospesa la flagellazione, la quale durò fino alla porta dell'Ospedale di San Francesco. Qui l'infelice fu accolto dal carceriere con modi brutali. Lo percosse, e lo insultò con queste precise parole "Infame carbonaro, non sei morto ancora ? Allora finirò di ucciderti io".
Angeletti rimase per quattro mesi sotto la custudia di questo mostro: dopo lo ricondussero nelle carceri di Santa Maria Apparente, e dopo altri tormenti, gli fu resa libertà ma esiliato perpetuamente dal Regno. La polizia lo accompagnò ai confini, ove fu preso dai gendarmi papali, che lo condussero a Roma. Qui patì altri due mesi di prigionia, dopo la quale gli fu concesso di rientrare nel suo paese natale, che era nella Delegazione di Fermo. Per giungervi più presto prese il cammino più corto della via Salaria, che toccava in qualche punto lo Stato di Napoli. Qui riconosciuto dalla polizia napoletana, fu arrestato di nuovo, e nonostante la regolarità dei suoi fogli, e delle ragioni evidenti che egli adduceva, fu condotto nuovamente a Napoli, e senza processo condannato alla prigionia nell'infame fossa del Maretimo. Se non vi morì, lo dovette alla vigorosa salute, che non poteva essere spenta dai patimenti.
L'isola del Maretimo, luogo pieno di memorie tristissime, é una delle Egadi nel mare di Sicilia, a 30 miglia da Trapani : arido scoglio in cima al quale era stato costruito un piccolo forte, destinato a guardare le coste dai Barbareschi che infestavano i mari di Sicilia. Sulla piattaforma del forte avevano scavato nel vivo scoglio una cisterna, la quale poi vuotata dell'acqua che conteneva, fu nel 1798 destinata a prigione dei rei di Stato. Qui tra gli altri penò lungamente il luogotenente Aprile, di cui abbiamo altrove parlato ; più tardi vi furori gettati NICCOLA RICCIARDI di Foggia e GUGLIELMO PEPE. Questo ultimo narra che la fossa era lunga ventidue piedi, larga sei, e così poco alta che i prigionieri a malapena potevano state ritti. Non vi giungeva un raggio di luce. Dal pozzo per il quale si discendeva nella fossa, e che non si poteva chiudere per non rimanere soffocati, vi penetrava la pioggia. Quindi l'aria si faceva pestifera, e schifosi animali erano i compagni dei prigionieri. Ci contarono fino a 22 specie di insetti.
In questo luogo tristo di tenebre e di martiri, in questo sepolcro dei vivi lo sventurato Angeletti stette fino all'anno 1825.
Fu reso alla luce quando la morte mise fine alla vita, crudele, di re Ferdinando; e come non avesse ancora patito abbastanza, fu costretto a imbarcarsi per la Francia e affrontare le sciagure di un lungo esilio. Dopo tante miserie, poté rivedere la patria solo nel 1847 e narrare ai concittadini i suoi trent'anni di lunghi dolori.
(1) Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1763-1838), di Napoli, ministro di polizia e capo
della feccia napoletana; espulso, riebbe il suo ufficio nel '21 ; nel '22 fu esiliato perchè troppo brutale, ma nel '31 era nuovamente a fianco del Duca Francesco IV di Modena e nel '32 del Cardinale Albani in Romagna divenne suo consigliere nelle scelleratezze.
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MICHELE MORELLI - GIUSEPPE SILVATI
Lo spergiuro Ferdinando Borbone tornò nel regno dopo che fu tutto occupato dalle truppe austriache (24 aprile 1821), accolto dai servi più sozzi colle solite feste nella città mesta dei fatti passati, e tremante dell'avvenire. Le forche innalzate dal principe Canosa (nominato da Ferdinando capo della polizia generale) avevano messa la desolazione da un capo all'altro del Regno : gli uomini più notevoli erano prigionieri o fuggiaschi, carcerati i generali COLLETTA, PEDRINELLI, ARCOVITO, COLONNA, COSTA, RUSSO, BEGANI; e i deputati BORELLI, POERIO, PICCOLELLIS, GABRIELE PEPE (generale come i suoi omonimi Florestano e Guglielmo); i consiglieri di Stato ROSSI, BRUNO e BOZZELLI e altri autorevoli cittadini, rei di aver creduto ai giuramenti del re.
Ferdinando, poco dopo il suo arrivo in città (15 maggio 1821) pubblicò un decreto promettendo "perdono agli sconsiderati che, costretti dalla forza, o indotti dal timore, dalla sedizione o altra causa scusante, si erano ascritti alla carboneria o ad altre società segrete, purché non fossero nel numero dei cospiratori". Dopo la pubblicazione di questo decreto furono in un sol giorno arrestati sessantasei militari o settari di quelli che ai primi di luglio dell'anno precedente si erano accampati a Monteforte, e che non erano fuggiti, credendo di essere assicurati dal giuramento fatto dal re.
Fra questi era il colonnello CELETANI, il tenente colonnello TUPPUTI, il maggiore GASTONE, il maggiore STAITI, il capitano PRISTIPINO. Contro di essi fu aperto un processo. Il generale GUGLIELMO PEPE, il colonnello De CONCILI, il colonnello PISA e molti altri si erano già rifugiati in Spagna. Nei primi tempi riuscìirono a sottrarsi all'arresto anche i sottotenenti MORELLI e SILVATI, che erano stati i primi a dare il segno della rivolta e a disertare dai quartieri di Nola. Essi, dopo la disfatta dell'esercito a Rieti e l'entrata delle schiere austriache, fuggirono nelle campagne, dirigendosi verso le Puglie. Il Morelli, a capo di 500 soldati partigiani, correva le campagne intorno alla città di Mirabella.
«Ma la foga dei suoi con il tempo diminuiva, mentre altri disertavano, e altri ancora si mostravano schivi ai pericoli. Morelli li licenziò tutti, e solo con Silvati, compagno antico, correndo verso ilmare, approdarono nei lidi di Ragusi; ma privi di passaporto e mostrando le ansietà dei fuggiaschi, suscitato sospetto alle autorità del luogo furono fermati, catturati, imprigionati, infine spediti ( avevan detto essere di Romagna) in Ancona. Lì le menzogne si palesarono: i nomi che si erano inventati erano ignoti alla finta patria; il parlar napoletano, i dubbi nel rispondere, le varietà dell'uno e l'altro sopra fatti comuni, le note vicissitudini e i luoghi e i tempi accertavano che erano due fuggitivi; però, mantenendosi guardinghi i loro carcerieri aspettavano di consegnarli al governo di Napoli».
«Quando però presentandosi con i loro veri nomi, dissero di essere ufficiali del reggimento Principe, partecipanti ai moti civili del 1820, ma discolpati dal decreto del re, quelli per non aver fastidi con il Re di Napoli li rimandarono nel loro regno scortati da numerose guardie. Solo Silvati vi giunse, mentre Morelli ebbe invece altra sorte: entrato per natural bisogno in una cava, le guardie fuori lo attesero, ma la spelonca allargandosi all'interno, possedeva un'altra uscita nell'opposta valle. Per quella il Morelli fuggì. Di foresta in foresta, camminando solo nella notte, andò negli Abruzzi, scese nelle Puglie, intendeva passare in Calabria, cercare danaro dai suoi parenti, ed imbarcarsi di nuovo, con più felici speranze, per la Grecia.
Incontrato da alcuni ladri, fu derubato e percosso; ma poiché tenne nascoste in una cinta poche monete d'oro, dopo loa spiacevole avventura, si fece animo a proseguì il cammino. Quasi nudo e tutto scalzo, camminando poco, ma soffrendo tanto, entrò nel. piccolo villaggio chiamato Chienti: provvide da un calzolaio scarpe, cibo e vesti e lo pagò con una moneta di sei ducati, ricchezza non conforme alla visibile povertà del suo stato. Il calzolaio insospettito, svelò i suoi dubbi ai ministri locali. Morelli fu fermato, arrestato e, messo in catene fu spedito a Napoli. Lui e Silvati fecero aumentare d'importanza il processo già iniziato a Monteforte».
Furono scelti come giudici uomini noncuranti pieni d' infamia. La colpa dei prigionieri era di avere disertato le bandiere, e di essere stati i promotori della rivoluzione. Morelli e Silvati ne aveano dato per primi l'esempio. Ma il re accettò quei patti, giurò la costituzione proclamata dapprima in Nola e poi in tutto il Regno, e invocò sul suo capo la vendetta di Dio se fallisse al giuramento. Quindi, non vi era più colpa né per i responsabili che avevano iniziato né per i loro seguaci. Così diceva la ragione e la logica; ma non così voleva l'empio Borbone.
Il processo durò a lungo, e il dibattimento correva sempre di più verso un'empia conclusione . Alcuni degli accusati furono condotti al tribunale gravemente ammalati: due cadevano essendo febbricitanti, uno sputante sangue dai polmoni, un altro era lordo di sangue che usciva da ferite riaperte. Dalla Gran Corte speciale che doveva giudicare erano stati rimossi i giudici più umani, e messi al loro posto i più servili e crudeli, pronti a condannare a ogni costo. Pure il giudice De Simone, commosso a tal vista, domandò ai suoi compagni: Siamo qui giudici o carnefici ? e chiese che fosse differito il giudizio. Il pubblico che assisteva applaudì questo suo intervento: ma il presidente ammonì il giudice umano e ordinò alle guardie austriache di cacciare con le armi in pugno gli impietositi; la più parte dei giudici, solleciti del favore del Re e non curanti d'infamia, continuarono a fare il loro mestiere di carnefici.
Il colonnello CELENTANI difese energicamente gli ufficiali del suo reggimento, dichiarandoli innocenti, perché non liberi e costretti a obbedire ai comandi del capo supremo, concluse che, se nei moti del 1820 vi era colpa, quanto al suo reggimento, egli solo si riteneva reo, lui solo si doveva punire, ed assolvere ogni altro.
Generoso coraggio espressero anche gli avvocati difensori, i quali, senza curarsi dei pericoli che venivano da una causa già decisa, difesero arditamente i prigionieri, dimostrando che l'assenso e i giuramenti del Re poneva gli accusati nell innocenza.
Ma non giovò a nulla, né la forza delle ragioni né l'affetto per i disgraziati. Tre giudici votarono per la morte, tre per l'assoluzione degli accusati: il presidente, contro la consuetudine in simili casi, stette coi primi. Il 10 di settembre dell'anno 1822 Michele Morelli e Giuseppe Silvati furono condannati e condotti il giorno dopo alla forca; e morirono da forti come erano vissuti.
Morelli, più volte interrogato dai giudici, rispose: "Mancai, lo confesso, al giuramento della milizia: ma anche il RE mancò perchè giurò di perdonare al mio mancato giuramento". Mentre saliva al patibolo ricordò gli eroi del 1799, periti vittime dell' iniquità e degli spergiuri di quello stesso Re, che ora ancora spergiurava e si lordava le mani con il sangue di uomini liberi. Morelli si sforzò anche di parlare al popolo silenzioso e costernato, ma i tamburi austriaci gli coprirono la parola. Pochi minuti dopo i corpi di Michele Morelli e di Giuseppe Silvati pendevano dalla forca.
I tre giudici benigni furono rimossi dall'ufficio, quelli severi promossi. "Giustizia" fu fatta.
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I PRIGIONIERI E GLI ESULI NAPOLETANI
La sentenza che uccideva i sottotenenti Morelli e Silvati condannò anche altri trenta ufficiali alla morte, e tredici a 25 anni di ferri. Quei primi sarebbero stati uccisi tutti, se non entrava di mezzo il generale Frimont, comandante delle armi austriache occupatrici del Regno. Egli si presentò al re Borbone, e gli fece sapere subito l' imperatore suo augusto padrone che reputava migliore politica quella di martoriare senza effusione di sangue i rei di maestà.
Il Borbone rispose che per sé era per lui non avrebbe fatto grazia a nessun condannato, ma che se quelle erano le imperiali intenzioni, lui pienamente si conformerebbe. Perciò, invece di impiccare quelli già condannati a morte, nel suo cuore magnanimo stabilì che patissero 30 anni di ferri nell' isola di Santo Stefano, distante 60 miglia da Napoli, incolta, deserta, priva anche di acqua, con un orrido edificio capace di 1500 prigionieri ammassati a dodici e a quindici in piccole stanze. Qui patirono ogni sorta di crudeltà e di dispregi, incatenati ai galeotti, rasata la testa, trattati in tutto come i malfattori più abbietti ; cibati di un cattivo pane di due libre e mezzo da bastare due giorni, e di 32 fave cotte nell'acqua e condite di olio pestifero ; misurata anche l'acqua ; per letto la nuda terra, e unico riparo dal freddo una coperta tessuta di peli di asino.
I condannati ressero con eroico coraggio questi trattamenti bestiali fino al 1835, quando Francesco Duca di Calabria salito sul trono, per dare una prova di sua clemenza ai promotori della rivoluzione accarezzati e applauditi negli anni 1820 e 1821; dalla galera di Santo Stefano li mandò relegati per 24 anni nel villaggio dell'isola di Favignana, con quattro soldi al giorno per loro nutrimento e vestiti, con proibizione di passeggiare per l' isola, e con minaccia di bastonate a chi rompesse il divieto, e vi rimasero finché alla morte di questo tristo Francesco furono rimessi in libertà dal suo successore, il quale più tardi rese Santo Stefano più infame per nuove e più numerose crudeltà di martiri.
Né qui finirono le crudeltà dello spergiuro tiranno. Da altre sentenze furono colpiti molti altri cittadini: chi condannato in contumacia, chi privato dell' impiego, chi cacciato in esilio. «Fu intimato per editto a settecento e più cittadini di andar volontari alle prigioni, per esser giudicati secondo le leggi, ovvero uscir dal Regno con passaporti liberi, senza indizio di pena: aggiungendo promesse di benignità agli obbedienti, minacce ai ritrosi. Erano costoro rei o timidi, che stavano sospettosi ed armati nelle campagne, non entravano nelle città, o se vi entravano clandestinamente cambiavano continuamente casa, erano liberi, ma era unapericolosa libertà. Dopo l'editto, chi secondo il proprio senno restò nascosto e guardingo nei boschi, chi fidando all' innocenza si presentò per il giudizio, e cinquecentosessanta chiesero di partire.
Ebbero i passaporti promessi; e stabilito il cammino e il tempo, andò ciascuno nel prefisso giorno al confine del Regno. Ma impediti da' ministri pontifici, si adunarono nella piccola città di Fondi, ove il seguente giorno i commessi della polizia e le genti d'arme li accerchiarono, e condussero prima nella fortezza di Gaeta, poi nelle prigioni della città. La polizia fu lieta e orgogliosa del riuscito inganno: parecchi de' traditi furono giudicati e mandati alla pena, altri ottennero di passare in Tunisi o Algeri, o nei regni barbari che davano rifugio ai fuorusciti. Il maggior numero, non giudicato e non espulso, restò in carcere, materia sofferente della tirannide, poi balestrata in mille guise dagli uomini e dal caso. Era tanto il numero de' Napoletani proscritti o fuggiti, che se ne trovava in Italia, in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in America, nelle città barbare, in Egitto, in Grecia ; la più parte miseri, vivendo per fatiche di braccia o di mente : nessuno disceso a delitti e alle bassezze che in età corrotta più giovano; nessuno si era iscritto sotto delle infami bandiere contro i Greci. Si videro cose miserevoli : figli privati del padre, in paese straniero abbandonati : padri privati dei figli morti di stento : un' intera famiglia (madre, moglie con cinque giovani figli) naufragata, altro cacciato da ogni città, con moglie inferma, in stagione nemica, con indosso due bambini, e reggendo il terzo per mano, andare alla ventura, cercando ricovero e pane: altri gettarsi volontario nel Tevere e morire.
Ma pure in questa età di tristezze pubbliche abbondarono le virtù private e la solidarietà: spesso gli infelici trovarono presso di loro ristoro ai bisogni, consolazioni alle sventure».
Gli uomini più noti furono deportati in terre lontane, barbare. Per sentenza della Gran Corte speciale di Napoli furono condannati a morte in contumacia e dichiarati nemici pubblici i generali Guglielmo Pepe e Michele Carascosa (Michele Carascosa - Generale del Re Murat, poi ministro della guerra a Napoli nel 1820. Morì esule in Inghilterra), i colonnelli Lorenzo De Concilii e Giovanni Russo, e Vincenzo Pisa, i capitani Bartolomeo Paolella e Gaetano Graziani, il tenente Serafino d'Auria, e gli abati Luigi Menichini e Giuseppe Cappuccio.
I deputati Poerio e Borelli, il colonnello Pepe e i generali Colletta, Pedrinelli e Arcovito furono condotti negli Stati austriaci e confinati a Gratz, a Praga e a Brunn. Alcuni, dopo molti patimenti, ebbero il permesso di ritornare in patria; mentre altri morirono nell'esilio.
GIUSEPPE POERIO
L'avvocato Giuseppe Poerio (1775-1843)- (Padre di Alessandro Poerio) soldato e poeta della Patria, fu campione della libertà fin dal 1799; fu condannato come Repubblicano a prigione perpetua come fautore della Repubblica Partenopea, con i rivolgimenti che seguirono dopo fu liberato da re Murat . Nel 1815, caduto il governo francese, fuggì da Napoli, temendo i Borboni. Nel 1818, avuto il permesso di ritornare, accolse con lieto animo la rivoluzione del 1820, fu deputato al Parlamento, parlò con eloquenza e liberamente sullo spergiuro del re, sostenne tutti i più gagliardi partiti, e all'avvicinarsi degli Austriaci scrisse la protesta contro la violazione del diritto delle genti e contro l'invasione straniera.
Tutti questi atti, dopo il ritorno del Re da Vienna con gli austriaci, non gli furono perdonati. Fu arrestato e condotto in Boemia, da dove poi gli fu concesso di trasferirsi in Toscana. Cacciato anche di qui, esulo in Francia, molto più tardi tornò a Napoli e vi morì nel 1843, lasciando fama di grande eloquenza e dottrina. Sul suo cadavere disse generose parole Bozzelli, che prima era stimato come uomo di nobile ingegno e cultore degli studi liberali, poi si coprì d'infamia nel 1848 come ministro di Ferdinando II, dopo le stragi e le atrocità del 15 maggio nella "controrivoluzione".
PIETRO COLLETTA
PIETRO COLLETTA era nato a Napoli nel 1775. Fin da giovanissimo si dette agli uffici delle armi, e nel 1796 fu cadetto nel corpo di artiglieria. Nel 1799 applaudì alla Repubblica, e a stento poi si salvò dalla morte, che colpiva tutti i migliori. Dai re francesi fu amato e usato in molte e gravi faccende. Andò all' impresa di Capri, divenne tenente colonnello e poi generale. Coordinò l'ufficio dei ponti e strade, prese la direzione del genio militare e fu consigliere di Stato. Nel 1815 combatté nella infelice guerra mossa dal re Gioacchino Murat, e andò per esso negoziatore a Casalanza. Dopo la rivoluzione del 1820 andò comandante generale delle armi napoletane in Sicilia. Negli ultimi giorni del governo costituzionale fu ministro della guerra. Caduta la libertà, uno stuolo austriaco lo arrestò e lo condusse nella fortezza di Santelmo, dove per tre mesi patì gli insulti del feroce principe di Canosa.
Poi, senza giudizio, fu condotto al confine, poi in Moravia, lì stette due anni a Brunn, donde vedeva l' infame rocca dello Spilbergo, in cui altri Italiani morivano o conducevano una vita peggiore della morte. Il rigido clima gli guastò la salute e gli preparò il malore che poi lo spense. Da ultimo ottenne di recarsi a Firenze e vi giunse il 23 di marzo del 1823. Qui si consolò nell'esilio scrivendo la "Storia del reame di Napoli" (Fu pubblicata dopo la sua morte, da Gino Capponi, nel 1834. Ed è una delle più famose storie di Napoli), con quella innalzò un nobile monumento al suo nome, e consacrò all'infamia Ferdinando Borbone e Carolina austriaca, e tutti i furfanti che li aiutarono a rendere infelicissmo il popolo napoletano, del quale, concludendo il suo libro, affermò che « in sei lustri centomila perirono di varia morte, tutti per causa di pubblica libertà o di amore d' Italia ».
Morì l' 11 novembre del 1831.
GABRIELE e GUGLIELMO PEPE
GABRIELE PEPE - Ricovero e conforto ai dolori dell'esilio trovò in Firenze anche questo colonnello, il quale in esercizi di lettere visse tra noi; dai buoni ammirato ed amato fino al giorno in cui gli fu concesso di tornare negli Abruzzi al paese nativo.
GUGLIELMO PEPE, che ebbe parte maggiore di ogni altro alla rivoluzione del 1820, era invece nato nel 1783 a Squillace. Innamorato della libertà fin da fanciullo, per essa impugnò a 16 anni le armi, servì la Repubblica Partenopea e ne ebbe la prigione e l'esilio. Poi, tornato in Patria, cospirò in Calabria contro il dispotismo borbonico, scoperto, fu, senza processo e senza forma di giudizio, condannato a prigionia perpetua nell'orrida fossa del Maretimo, donde, dopo tre anni, tornò a libertà, allorché le armi francesi occuparono di nuovo il Regno di Napoli. Nominato luogotenente colonnello dal re Giuseppe, combatté in Calabria e militò con i Napoletani nella guerra di Spagna. Da re Murat ebbe il grado di maresciallo di campo, e con lui mosse alla infelice guerra del '15 e ne uscì generale.
Ritornati i Borboni, per odio ad essi voleva lasciare il Regno e rifugiarsi nella libera Svizzera; ma se ne astenne perché seppe che se chiedeva un passaporto lo mandavano in qualche fortezza austriaca. Il nuovo governo si servì dell'opera sua, nel 1818 lo fece comandante delle due province di Avellino e di Foggia. Sentendo che qui vi erano già grandi le forze del carbonarismo, prese a dirigerle, ordinarle militarmente per servirsene ad abbattere il potere assoluto.
Tutti i suoi pensieri erano solo più a questo rivolti: e validamente lo aiutarono altri ufficiali. In breve l'amore della libertà entrò in ogni cuore, e tutti attendevano con impazienza il giorno della battaglia. Il 3 di luglio del 1820 Guglielmo era a Napoli, e qui ebbe notizia della diserzione dal presidio di Nola dei sottotenenti Morelli e Silvati e della costituzione proclamata da essi. Mentre il governo spediva truppe a combattere gli insorti, e teneva a bada il Pepe non fidandosi di lui, questi riuscì a eludere ogni vigilanza, e il 5 luglio, messosi alla testa di due reggimenti comandati dai colonnelli Tupputi e Celentani, andò a raggiungere l'esercito insorto raccolto a Monteforte.
La rivoluzione dilagò in ogni parte, e il Re, non potendo combatterla senza uomini, l'accettò, ma solo per poi da lì a poco tradirla; al general Pepe dette il comando di tutte le forze del Regno. Ad onta degli intrighi della corte e dei regii, Pepe fece tutto ciò che gli dettava amore di patria per armare la nazione ed eccitarla a difendere la sua libertà; studiò di rendere inefficaci le male arti e le macchinazioni sleali, consigliò e pregò i deputati che non lasciassero partire il Re per andare all"infame convegno": ma gli avvocati la vinsero, e il Re partì per andare a umiliarsi davanti agli Asburgo per poi scendere con gli Austriaci a Napoli a rinnegare ogni concessione data prima di partire. Venuta l'ora della guerra, Pepe combatte a Rieti con le truppe austriache scese in Italia, lì purtroppo fu rotto e miseramente messo in fuga.
Tornato a Napoli, propose ai suoi ex seguaci un partito forte, ma che però nessuno volle accettare: resosi conto di essere ormai isolato, cercando di salvare la pelle, si rifugiò in terra di Spagna. Fu poi a Lisbona, a Londra, a Bruxselles; si diresse agli uomini più amici delle libere istituzioni, e con essi cospirò al trionfo della libertà e dell'indipendenza dei popoli.
Scoppiata nel 1830 la rivoluzione di Francia, volò a Parigi e si impegnò a trovare uomini, armi e denari per accorrere e far accendere nuovamente la rivoluzione in Italia. I generali Lafayette e Lamarque suoi amici fecero per lui quanto potevano: ma già il governo si era messo su una brutta strada, e tutti i nobili sforzi furono vani.
All'annunzio della rivoluzione dell'Italia centrale, Guglielmo Pepe raddoppiò le sue energie, corse a Marsiglia per muovere di là in aiuto dei sollevati. Ma mentre consultava per trovare i mezzi alla spedizione, la polizia lo circondò di spie e gli vietò di partire. I momenti erano preziosi e presto passarono; poi giunse la trista nuova che gli Austriaci anche questa volta avevano soffocato la rivoluzione italiana.
Pepe, con l'amarezza nel cuore, rimase nella solitudine ad attendere giorni migliori e con gli scritti si mise a difendere l'Italia dalle calunnie straniere, e a insegnarle come bisognava prepararsi alla guerra.
Nel 1846 pubblicò le sue Memorie, in cui concludeva che, "fintanto che l'Italia era sottomessa a Principi schiavi dell'Austria e nemici dei liberI princìpi egli, quand'anche gli fosse permesso, non rimetterebbe mai più il piede in questa terra, pur essendo il desiderio perpetuo della sua anima".
Ma quando i tempi del risorgimento parvero giunti, e anche il re Borbone all'inizio del 1848 dette libero Statuto e piena amnistia, il vecchio soldato della libertà tornò a rivedere la sua Napoli, e poco dopo fu posto al governo delle truppe destinate a combattere la guerra dell' indipendenza italiana; ma anche qui vide nuove tristezze borboniche e nuove vergogne d'Italia. I quindicimila soldati napoletani mossi con lui contro gli Austriaci, al passo del Po richiamati dal Re, tornarono indietro.
Il magnanimo duce, tentato invano di trattenerli con il mostrare che la voce d'Italia doveva prevalere agli ordini di un re traditore, passò il Po con pochi ufficiali e volontari, giurando di morire anziché disertare la causa della nazione. Poi, rinchiuso nelle carceri di Venezia, vi comandò tutte le forze dei liberi, fece ogni opera affinché la libertà italica avesse sicuro asilo nelle Lagune; e caduta gloriosamente l'eroica città, egli, con migliaia di prodi, tornò per le vie dell'esilio, visse gli ultimi sette anni in Francia, e aggiunse alle sue Memorie nuovi volumi.
Morì in Piemonte l' 8 agosto del 1855.
A lui non fu dato il supremo conforto di rivedere la sua diletta città di Napoli fatta libera dalla tirannide borbonica, e unita al resto d' Italia. Ma le sue ossa tornarono nel 1864 alle stanze del suolo natale; dove la novità del caso di un morto reduce in patria dopo lungo esilio commosse profondamente tutto il popolo napoletano, il quale con affetto e con festa solenne accolse e onorò la salma del generoso vecchio che testimone e attore di tante rivoluzioni, dal 1799 al 1848, aveva speso per l'Italia tutta la sua lunga vita.