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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNI  1798-1799

ATTO VANNUCCI (settima parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA

(descritti da Atto Vannucci)

I Martiri della Repubblica Cisalpina

SANTORRE SANTAROSA

 

Santorre Santarosa, dopo aver concepito e guidata la "sventurata rivoluzione" militare del Piemonte nel 1821 (con il giovane Carlo Alberto, già allora principe "tentenna"), profugo errante per l'Europa conducendo miserissima vita, alla fine morì in Grecia, combattendo per quella libertà che vanamente aveva tentato di dare alla sua patria.

Era nato ai 18 di novembre 1783 di nobile famiglia a Sivigliano, dove, per opera di cittadini, il 22 agosto del 1869 fu solennemente innalzata alla sua venerata memoria una statua, in cui egli, vestito da ministro della guerra e avvolto in ampio mantello, tiene nella sinistra la Costituzione del 13 marzo 1821, e posa la destra sopra una spada, sull'elsa della quale sta una corona d'alloro.

Il padre aveva il grado di ufficiale superiore nell' esercito piemontese, quando scoppiò la grande rivoluzione di Francia: andando alle prime guerre delle Alpi, condusse con sè Santorre ancora fanciullo, il quale, divenuto alfiere, a 13 anni fornì prova di singolare bravura nel tener fermo contro gli assalti francesi. Se il padre viveva, il figlio certamente sarebbe andato innanzi per la via delle armi ; ma morto alla battaglia di Mondovì, alla quale prese parte come colonnello del reggimento di Sardegna, il giovinetto se ne tornò a Savigliano in famiglia, e parte in questa città, parte a Torino, attese agli studi.

All'età di 24 anni godeva singolare stima di integrità e di senno; e i suoi concittadini lo elessero
maire della patria città: esercitò questo ufficio per qualche tempo, e vi acquistò esperienza degli affari civili. In seguito entrò nell'amministrazione francese, che allora governava il Piemonte, e negli anni 1812, '13, e '14 fu sotto prefetto alla Spezia. Caduto poi e risorto per brevi istanti Napoleone, il Santarosa nei cento giorni tornò soldato, e fece la piccolissima campagna del 1815 come capitano dei granatieri della guardia reale. Dopo prese la carriera dell'amministrazione militare: entrò nel ministero della guerra e vi fu incaricato in importanti missioni.

Egli aveva atteso e ora più che mai attendeva a educare in sé l'uomo morale e il cittadino italiano, ad organizzarsi bene e fortemente operare colla penna e col ferro, a sacrificare tutto al dovere, alla giustizia, alla salute, all'onore d' Italia. Tutto questo era già noto, ora appare più chiaro da ogni pagina delle Memorie, che ne rivelano meglio l'ingegno, i propositi e gli affetti dell'alto animo, e le lotte che virilmente sostenne
per diventare quello che fu nella rivoluzione, e nelle dolorose vie dell'esilio.

Egli, che da un pezzo anelava a vedere scosso il giogo straniero, alla restaurazione della vecchia monarchia piemontese sentì più che mai vergogna dei nuovi padroni stranieri succedenti a quelli cacciati dalla Santa Alleanza ; e quando il popolo a Torino festeggiava il ritorno del re Vittorio Emanuele I, sentì profondo dolore dal vederlo rientrato sì, ma in mezzo alle baionette austriache, ee era chiaro che la patria non era presente alla festa.
Pochi giorni prima egli aveva scritto al suo amico Luigi Provana del Sabbione : «Perché non nacqui inglese, prussiano, russo ? Nella mia disperazione dico perfino : Perché non nacqui francese ? Non sarà mai ch' io stringa un.brando italiano, che io guidi tra i perigli soldati italiani ? Noi piemontesi, noi prodi, noi animosi, che siamo noi ? Deboli ausiliari dei nemici della patria : ausiliari disprezzati forse, e disprezzati a segno di non essere ammessi all'onore delle battaglie ? Non vi ha in simili pensieri di che morire di rabbia e di dispetto ?... "

Il Santarosa pensava che la nuova vita italiana si doveva preparare con forti studi della storia, della letteratura, e della lingua d' Italia: e ad essi tutto si volse, e nei suoi ricordi notò che il 23 marzo del 1815 fu giorno solenne della sua vita, perché in esso si accomiatò per sempre dalla lingua francese.
Negli storici e nelle storie d'Italia egli cerca on amore i forti difensori della libertà, e odia e vitupera quelli che si fecero strumenti della tirannide straniera e domestica. Alle cose di Firenze torna sovente, e del Papa distruttore feroce della libertà fiorentina così scrisse all'amico Provana il 17 ottobre del 1817: « Di Clemente VII si perdano le ceneri consegnate al vento: tra i parricidi egli passeggi le infocate vie del Tartaro, e li spettri di cittadini scannati, di madri morenti di fame coi figlioletti in collo accompagnino i suoi passi».

Fra le rovine del 1815, mentre alcuni disperano di tutto e altri fanno vani lamenti studiando di non dispiacere in nulla ai padroni, e altri ad essi si vendono, egli pensa ai rimedi; e "promesso a Dio e a sè stesso di serbare nei suoi scritti relativi alla patria italiana ossequio al vero, all'umano, al giusto e alla santità del costume", scrisse le
Speranze d'Italia, a cui disegnava di premettere il seguente Proemio:

« L' Italia vuol fatti e non parole. Ma in questi nostri giorni, che forse di poco precedono i fatti, può giovare alla patria chi ragiona delle sue condizioni e delle sue speranze senza alcun rispetto, salvo che della religione e della giustizia Io non sono un letterato; sono un soldato, che a nessuna setta appartenendo, solo conosce i suoi altari, la sua patria e la sua spada. Ardito banditore delle popolari verità italiane, alzerò il grido della nostra guerra d'indipendenza, e più fortemente il grido della concordia; che fa le guerre giuste, tremende, felici.
«Mal supporrebbe chi mi credesse un soldato di ventura, che ardore militare incita ad ambiziose e temerarie imprese. Ho moglie, figli e campi. Il pensiero dei pericoli che loro sovrastano ci contrista duramente. Ma quando i pericoli sono inevitabili, onore e prudenza di cittadino vogliono che si incontrino con franchezza di cuore, onde non si incontrino inutilmente. Io non so se un Italiano possa desiderare la pace con infamia. Ben so, - e chi può non saperlo, se guarda attorno a sé ? -che i presenti uomini d' Italia e la superbia
malignità dei suoi nemici non le consentono nessuna sorta di pace ».


Sappiamo gli sforzi che il Santarosa, unito agli altri ufficiali dell'esercito, fece per mettere il principe di Carignano (il giovane Carlo Alberto, ex cadetto di Napoleone) a capo della insurrezione militare della guerra per l'indipendenza d'Italia. Egli fu uno dei quattro che nella notte del 6 marzo 1821, nella biblioteca del principe, stabilirono con lui i modi dell'impresa. Differita di giorno in giorno per le paure e il "tentennamento" del principe cospiratore, l'insurrezione scoppiò il 10 marzo ad Alessandria. Santarosa si gettò nell'azione con tutto l'ardore dell'animo suo. Il 21 di marzo fu chiamato al ministero della guerra e della marina da quel medesimo principe che nella notte seguente disertava, riparandosi fra gli Austriaci e conducendo seco le guardie del corpo, due reggimenti e l'artiglieria leggera.

Allora Santarosa annunziò il tristo fatto alle truppe con suo proclama del 23, nel quale, dopo aver scusato il giovane principe mancante dell'esperienza dei tempi procellosi, e ingannato dalle calunnie e dalle frodi di pochi disertori della patria e ligi dell'Austria, mostrò la patria in pericolo e fece appello all'onor piemontese, dicendo:

"Soldati piemontesi, guardie nazionali, volete la guerra civile ? Volete l' invasione dei forestieri ? Volete i vostri campi devastati, le vostre città, le vostre ville arse e saccheggiate ? Volete perdere la vostra fama, contaminare le vostre insegne ? Proseguite ! Sorgano armi piemontesi contro armi piemontesi, petti di fratelli incontrino petti di fratelli. Comandanti dei corpi, ufficiali e soldati, qui non v' é che una via di salute. Serratevi intorno alle vostre bandiere, circondatele, afferratele, e correte a piantarle sulle rive del Ticino e dei Po: la terra lombarda vi aspetta, la terra lombarda che divorerà i suoi nemici all'apparire della nostra avanguardia. Guai a colui che una diversa opinione sulle cose interne dello Stato allontanasse da questa necessaria deliberazione ! Egli non meriterebbe di guidar soldati piemontesi, né di portarne l'onorato nome. Compagni d'armi ! Questa é un'epoca europea. Noi non siamo abbandonati. La Francia anch'essa solleva il suo capo umiliato abbastanza dal Gabinetto austriaco, e sta per porgerci possente aiuto ! Soldati e guardie nazionali ! Le circostanze straordinarie vogliono risoluzioni straordinarie. La nostra esitazione comprometterebbe tutta la patria, tutto l'onore. Pensateci ! Fate il vostro dovere..."

La Giunta di Torino rifiutò di approvare il proclama. Al che Santarosa rispose: "E voi disapprovatemi: io non trascurerà per questo di fare il mio dovere".
Quando vide impossibile salvare la patria, il Santarosa si ritirò e andò a mendicare il pane sulla terra straniera. I carabinieri reali lo arrestarono mentre fuggiva e lo avrebbero messo nelle mani del boia, se da essi non lo salvava il colonnello Schultz, polacco, che gli venne in soccorso con trenta studenti.
Per le vie di Genova, di Marsiglia e di Lione si condusse a Ginevra, sperando di trovare asilo sicuro tra i liberi Svizzeri, e visse qualche tempo tranquillo sulle amene rive del Lago Lemano, ove fu raggiunto da Luigi Ornato, suo vecchio dolcissimo amico. Nelle lettere e nei ricordi ora pubblicati egli disse lungamente della sua vita intellettuale e morale, delle impressioni che ebbe dalle stupende bellezze della natura, dalle memorie dei luoghi, dalla vista dei semplici e schietti costumi degli uomini liberi, virtuosi e felici. Egli consola i dolori e le malinconie dell'esilio studiando di continuo rinnova i forti propositi di servire virtuosamente e animosamente alla patria e alla libertà. La patria schiava, oltraggiata, avvilita è perpetuo travaglio dell'anima sua. Suo pensiero di ogni giorno sono l'amorosa consorte, "fortissima nell'amore, fortissima nel soffrire", e i cari figliuoli, il fermo proposito di lasciare, colle sue opere, "un nome che sia per loro patrimonio e principio di fama".
I figli, dopo la fuga, si sono accresciuti (17 ottobre) di una bambina (Paolina), cagione di malinconici e soavi pensieri, sulla quale egli scrive queste parole:

« Dio eterno ! io ti ringrazio. Ti piaccia benedire la mia fanciulla, che - avrà il nome di mia madre, la quale fu tua fedel serva, e mi rapisti anzi tempo. O madre ! io te la consacro. Accogli la mia offerta dal tuo soggiorno celeste. Santorre, prepara una vita d'onore e di felicità ai tuoi figli, serbando la tua onestà, curando la tua fama, e servendo alla patria. Paolina mia, Iddio ti benedica e ti faccia crescere in salute per consolare il tuo padre.... O mio pensiero, io lascerò che tu vada presso alla culla della mia figliuoletta. Angioletta del cielo, sei tu che proteggi il tuo padre nella sventura, che gli infondi tanta pace nel cuore ? Noi siamo nati, mia dolce Paolina, noi siamo nati sotto lo stesso pianeta. I miei capelli imbiancheranno quanto tu saluterai la fiorente giovinezza. Io vivrò allora in te e con te. Dio ti conservi, ti benedica, figlia della sventura, concepita nei giorni terribili della cospirazione, nutrita nel seno della madre nel tempo della procella, e nata mentre il padre calca la terra dell'esilio. Io odo i tuoi vagiti, il tuo pianto. Ti veto succhiare avidamente il latte materno, e vedo gli occhi della amorosa balia, contemplare il tuo viso, e bagnarsi ti lagrime, pensando al tuo padre infelice».

Sebbene i dolori del povero esule non fossero pochi, pure il suo soggiorno tra gli Svizzeri sotto molti rispetti gli riusciva caro, e in seguito più volte ricordò con amore i giorni che visse consolati in quella beata regione. Ma anche la sicurezza che in quel luogo sperava fu un sogno, a causa delle minacce che agli Svizzeri facevano i despoti della Santa Alleanza. Solo per la protezione dei cittadini ospitali l'esule poté rimanervi più mesi, vivendo in solitari villaggi, mutando spesso di stanza, viaggiando a piedi, carico di molte pesanti bisacce. In quelle escursioni ebbe compagno il suo ORNATO, il DAL POZZO, incontrò TADINI e MUSCHIETTI e a Friburgo con grande entusiasmo riabbracciò LISIO, caro e generoso giovane compagno nella perigliosa impresa torinese (
LUIGI ORNATO, un temerario, tascorse la vita in esilio, correggendo a Parigi stampe greche e latine per gli editori. Tradusse i Ricordi di Marco Aurelio, pubblicati postumi nel 1853. Era nato in quel di Saluzzo nel 1787, morì cieco a Torino nel 1842. - FERDINANDO DEL POZZO fu ministro col Santarosa nel '21. (1758-1843). - FRANCESCO TADINI, medico, impiccato in effigie nel 1822, per aver preso parte alla Rivoluzione piemontese l'anno prima. Esule a Londra. - PIETRO MUSCHIETTI, esule al Messico per sottrarsi alla reazione piemontese. - Il conte GUGLIELMO MOFFA di LISIO, capitano dei cavalleggieri e partecipe anch'egli alla Rivoluzione del '21, prese la via dell'esilio e fu impiccato in effige. Ebbe la fortuna di veder l' Italia libera, essendo morto a Torino nel 1877).

Verso al fine dell'autunno, il governo svizzero, pressato più che mai dal Piemonte e dall'Austria, gli fece sapere che non poteva ospitarlo più a lungo. Il 18 novembre del 1821 egli scrisse nei suoi Ricordi:
«Santorre, domani tu parti, tu fai il viaggio pieno di pericoli. Rinfranca il tuo cuore e delibera di procedere in ogni cosa con maturità, con pru
denza, riposatamente e animosamente.... Ricordati di ciò che tu devi alla tua nascente reputazione, ma ricordati prima di tutto quello che devi alla tua Patria. Pensa ai figli. Lavora, scrivi moltissimo e ogni giorno raccogliti in te stesso, onde tu non proceda mai con leggerezza ed avventatezza. Santorre, io ti raccomando al giovane e buono e felice Santorre del 1800, e ti raccomando alla memoria del padre tuo, grande cittadino e genitore sviscerato, e della madre amantissima e virtuosissima. Dio santo e giusto e misericordioso, io confido nel vostro aiuto, e so che non mi mancherà esso mai, se io non mancherò ai consigli della mia coscienza ».

Il giorno seguente partì da Losanna, e, volgendosi verso un paese dove non gli era caro andarci, mestamente si incamminò per Parigi con l' intendimento di compiere un
sacro dovere, pubblicando un libro in risposta alle calunnie e agli oltraggi che i vili servitori dei despoti avevano gettato addosso agli autori della rivoluzione del 1821. Il suo libro sulla "Rivoluzione piemontese", scritto in francese, a cui mise per epigrafe il verso di Alfieri:
Sta la forza per lui, per me sta il vero

...uscì a Parigi nel 1822 e fu riprodotto in tre edizioni nello stesso anno, alle quali poi successe quella della traduzione italiana, ma stampata solo nel 1850 a Torino.
Qui si rivela tutta la nobilissima anima dell'uomo che fu lo scrittore e l'attore principale del dramma. Difendendo una rivoluzione sventurata, non si lascia governare da umori di parte; é leale e magnanimo; rende giustizia a ogni intenzione e nelle amarezze dell'esilio non si lascia sfuggire né risentimenti né accuse. Ha l'entusiasmo di una nobile causa, portato fino alla generosità più sublime. Ha fede nell'avvenire, e crede che "l'emancipazione dell'Italia sarà un avvenimento del secolo decimonono".

Quanto più si allontanava dalla patria, più aumentavano i suoi dolori: e sopratutto lo pungeva acerbo il pensiero di non potere lui educare i suoi carissimi figli. Questo gli fu tormento per tutta la vita. «Temo (scriveva dall' Inghilterra nel 1824) che se il re rende i miei beni alla mia moglie e ai miei figli, non voglia incaricarsi dell'educazione di questi. Io fremo all'idea che i miei figli siano allevati dai Gesuiti. Questo é gran causa di pena al mio cuore ».

I suoi beni erano stati confiscati, come quelli di tutti gli altri condannati a morte. I figli vivevano della piccola dote materna e con questo mandavano qualche soccorso all'esule padre. Ma egli non voleva esser grave ai suoi cari, e sceglieva piuttosto di vivere misera vita, e quasi senza pane.
A Parigi cambiò nome, e si chiamava Conti. Abitava una povera camera a tetto nel Quartiere Latino, ove dalla Svizzera lo raggiunse il suo nobile amico Luigi Ornato, il quale, senza essersi compromesso nella rivoluzione, aveva abbandonato volontariamente la patria per essergli compagno nella sventura. Il che torna a gran lode di ambedue, e mostra quale uomo era quello col quale altri preferiva l'esilio alle dolcezze della patria e della famiglia. Qui, come altrove, quelli che lo conobbero riferiscono cose meravigliose sulla bontà dell'animo suo, che invogliava tutti ad amarlo.

Il filosofo VITTORIO COUSIN
(Filosofo eclettico, traduttore di Platone, membro dell'Accademia. Nacque a Parigi nel 1792, morì a Cannes nel 1867), che lo conobbe e lo consolò di cure amorose e poi ne narrò largamente i tristi casi, gli studi, i pensieri e gli affetti, asserì essere impossibile ritrarre la grandezza e l'amabilità di quell'anima. Accoppiava la forza alla bontà, l'energia alla tenerezza. Il suo cuore era un tesoro di affetti. Se incontrava per la via un disgraziato, divideva con lui il soldo del povero. Se si ammalava la sua vecchia donna di casa, l'assisteva amorosamente, come avrebbe fatto a sua moglie, ai suoi figli. Richiesto dei suoi consigli, ne era largamente cortese, e ciò per un istinto irresistibile di cui non aveva neppur la coscienza. Perciò era impossibile conoscerlo e non amarlo. A Torino aveva un amico a cui poté lasciare la moglie e i figliuoli.

Quando, fanciullo, era col padre nell'esercito delle Alpi, gli fu dato per camerata un giovinetto del suo paese di nome BOSSI, che poi abbandonò, l'esercito e il Piemonte e andò in Francia, ove si guadagnava con il commercio la vita. Egli perdé di vista il Santarosa, ma ne conservò memoria affettuosa nel cuore. Un giorno, il nobile conte caduto nella miseria vide comparirsi davanti, nella sua cameretta del Quartiere Latino, il povero Bossi sorbettaio a Parigi, che avendo sentito dai giornali le avventure del suo giovane ufficiale, non cessò di cercarlo finché non ebbe trovata la sua casa, e finalmente ora tutto lieto veniva a offrirgli i suoi poveri risparmi. Più tardi, quando l'esule fu imprigionato, il povero Bossi ogni mattina andava alla carcere con un paniere di frutta, e lasciava la sua offerta al prigioniero, col rispetto di un antico servitore, e con la tenerezza di un vero amico.

Per qualche tempo il Santarosa visse tranquillo a Parigi, consolando con gli studi la sua miseria, e l'affanno della patria lontana. Era tutto nel pensiero di giovare all' Italia, preparando scritture morali e politiche, che rigenerassero ed educassero i popoli italiani. Chiamava tutto questo una
"cospirazione letteraria", e si confortava di poterla efficacemente intraprendere. Aveva ingegno, studi e cuore per far questo. Se la fortuna gli fosse stata meno nemica noi avremmo avuto in lui un insigne scrittore di cose politiche. Ma questo non vollero le triste sorti dei tempi, che uccidevano gli ingegni, consumavano in lunghe angosce le più energiche vite: questo impedì l'italiana miseria, resa più amara dal dispotismo di Francia, che congiurava con le polizie di tutti i paesi a perseguitare gli uomini di libero cuore.
Mentre egli viveva quieto e inoffensivo a Parigi, i suoi nemici lo andarono a tormentare anche nella innocente sua solitudine.

La fazione che in Francia pervenne al governo con il ministro Villéle, mentre si impegnava a uccidere tutte le libertà interne, stringeva sempre di più le sue alleanze coi despoti esterni, e d'allora in poi le polizie di Piemonte e di Francia si strinsero con amicizia la mano, e fecero il loro piano di persecuzione contro i rifugiati. Parecchi Piemontesi si erano rifugiati a Parigi, ove vivevano senza intromettersi in faccende politiche. La polizia sapeva o doveva sapere che nessun pericolo veniva alla Francia dalla loro presenza; ma essa dalle paure della polizia di Torino e dell'Austria era incitata a infierire: e quindi, invece di contentarsi a sorvegliare, perseguitò apertamente questi sventurati.

Il Santarosa fu avvertito che lo cercavano che lo avrebbero arrestato, e forse restituito al Piemonte, ove era sicuro di esser mandato al patibolo. Perciò studiò di sottrarsi alle ricerche; e il suo amico Cousin gli procurò un rifugio in una casa di campagna ad Auteuil, vicino a Parigi. Qui vissero qualche tempo entrambi, consolandosi a vicenda dell'avversa fortuna, e intrattenendosi in ragionamenti di filosofia e di politica. Era il marzo del 1822, quando un giorno il Cousin fu talmente oppresso dal male, che il Santarosa lo scongiurò ad andare a cercare qualche soccorso a Parigi. Quello cedé e partì subito. L'altro, pensoso più dell'amico, che di sé stesso, non poté rimanere ad Auteuil, e la sera stessa lo seguì alla città per confortarlo con le sue cure. Poi, a notte avanzata, volle recarsi al suo antico alloggio, e mentre se ne tornava, sulla piazza dell'Odéon fu con modi brutali da otto sbirri arrestato e condotto in prigione.

Nella notte medesima il prefetto di polizia lo tormentò con interrogatorio lunghissimo, e la mattina seguente gli fece frugare la casa e prendere tutte le carte, ed apertamente gli disse che lo avevano arrestato come reo di macchinazioni contro il governo francese. Questa accusa scempia gettavano in faccia ad un uomo che non incontrava nessuno ! Egli protestò sdegnosamente contro l'accusa: dichiarò che era assolutamente estraneo a tutto quello che si faceva in Francia, e disse che il suo unico e involontario torto era quello di essere a Parigi sotto nome diverso dal suo. Interrogato sulle sue relazioni, disse che conosceva solamente Vittorio Cousin, e istantemente pregò che non lo tormentassero ora che giaceva gravemente ammalato. Ma le preghiere furono vane. La mattina seguente in tempo cinque gendarmi e un commissario di polizia perquisirono la casa del filosofo, e vi fecero la grande scoperta di alcune note su Proclo e Platone. Il Cousin, sebbene gravemente ammalato, si recò immediatamente dal prefetto di polizia e gli disse: "Se voi accusate di complotto un uomo che a Parigi non pratica altri che me, me pure dovevate arrestare: se poi non osate accusarmi di cospirazione, perché pigliarvela contro di un uomo, il quale non poté far nulla che per mezzo mio e con me ? E se non si tratta di macchinazioni contro la Francia, é cosa indegna perseguitare un proscritto per la sola ragione che porta un nome supposto, quando questo proscritto é un uomo dabbene"

Il prefetto rispose che il sospetto di cospirazione contro il governo francese sembrava privo di fondamento, ma che, rimanendo dei dubbi, bisognava fare un processo.
Questo affare durò per due mesi. Il Santarosa se ne stava in prigione tranquillo, sotto la sua buona coscienza, mentre altri parlavano di estradizione, cioè del rinvio in Piemonte. Egli, con forte animo, si preparò ad ogni evento. Tutti quelli che lo videro erano compresi di reverenza per lui: e il carceriere gli pose grandissimo affetto. In carcere fu confortato dalle visite di Vittorio Cousin e di BALBO (
Cesare Balbo - Storico e politico, nato a Torino. Autore della Storia d'Italia, delle Meditazioni storiche e delle
Speranze d'Italia. (1789-1853), amico della sua giovinezza, il quale quantunque seguisse la parte contraria alla sua, continuava a stimarlo ed amarlo, e appena giunto a Parigi, con gentile pensiero era andato spontaneamente a cercarlo nella cameretta del Quartiere Latino. Ebbe anche una lettera di Carolina sua dilettissima moglie, e grandemente angustiato per essa, fece voti ardentissimi perché alla misera donna non giungesse la triste notizia della sua prigionia.

Dopo due mesi il processo ridicolo si concluso e non esservi luogo a procedere sulla prevenzione del complotto, fu fatta lode all' imputato della lealtà, e della franchezza delle sue confessioni. Pareva, quindi, che si dovesse lasciar vivere tranquillamente a Parigi. Ma la polizia, che non procedeva per giustizia, ma secondo l'arbitrio, si oppose di tutta forza, e non volle neppure che fosse scarcerato subito.
Allora la Corte regia intervenne e pronunziò formalmente la liberazione del prigioniero, se non vi era altra causa di arresto. Vi furono ostacoli anche alla pronta esecuzione di questo secondo giudizio: e dopo che il Santarosa fu dichiarato dalla giustizia superiore a qualunque prevenzione, e per conseguenza libero, il ministro dell' interno, per un impegno preso col ministro Sardo a Parigi, lo confinò, e dette ordine che fosse condotto in provincia, sotto la vigilanza degli sbirri, ad Alencon, piccola città nel dipartimento dell'Orne.

Contro questo atto vile e malvagio egli protestò con tutto il suo sdegno, e chiese di rimanere a Parigi o di avere un passaporto per l' Inghilterra. Non gli si diede nessuna risposta, e lo condussero immediatamente ad Alencon con altri Piemontesi arrestati con lui. Doveva ogni giorno presentarsi alla polizia a render conto di sé, altrimenti era minacciato di trattamenti durissimi.
Questa ingiustizia della relegazione in un luogo dove non poteva avere né libri, né il conforto della presenza di un amico, gli appariva sulle prime una spaventosa disgrazia. Ma non si lasciò togliere la quiete, che le anime forti conservano sempre. Cedé alla necessità, quantunque sentisse, così egli scriveva il 13 giugno, che "Alencon era per lui una delle più tristi necessità degli 84 dipartimenti di Francia".

In quella solitudine filosofava di cose politiche, religiose e morali; e dopo avere finito di leggere "L' Esprit des lois" ("
Lo spirito delle leggi" di Montesquieu (1669-1755), uno dei precursori della Rivoluzione francese), scrisse il 21 giugno al Cousin : «Gli ultimi capitoli mi avevano pressoché annoiato a vent'anni e anche a trenta ; ora mi sono singolarmente piaciuti. In essi ho trovato la spiegazione di molte cose, e, fra le altre, del mio soggiorno ad Alencon. Di quanto tempo fa d'uopo per condurre a compimento la liberazione di un popolo!" Ed egli stesso meditò un'opera che doveva intitolarsi "Della libertà e de' suoi rapporti colle forme di governo"

Sebbene vivesse ritiratissimo, enon prendesse nessuna parte alle cose di Francia, la polizia non gli dava un momento di pace. Un suo amico, il colonnello Fabvier, gli fece sapere chi pensavano di arrestarlo di nuovo, di restituirlo al Piemonte: quindi lo consigliò a fuggire in Inghilterra, e si offriva di fornirgliene i modi. Fuggire per lui era quasi un confessare chi dubitava del proprio diritto, un dare la ragioni contro di sé a quelli chi avevano il torto: per conseguenza, rifiutò l'offerte amichevoli e rimase al suo posto.
Nel frattempo alla Camera dei deputati fu agitata la questione degli esuli. Molti membri dell'opposizione ne difesero eloquentemente la causa, e mossero gravi lamenti contro le indegne maniere tenute dalla polizia con i rifugiati italiani. Il ministro Corbiéri, mentendo impudentemente, come ai tempi nostri usava il Guizot, rispose, chi gli
stranieri non erano dell'avviso dei loro difensori, si mostravano riconoscenti alla protezione del governo, alla benevolenza del Re.

Queste parole sleali, parvero al Santarosa un incomportabile insulto e credette che l'onor suo e quello dei suoi compagni di sventura l'obbligassero a protestare altamente. La qual cosa egli fece pubblicando una lettera di nobile e fiero linguaggio. La polizia ne rimase stizzita. Egli; contento d'aver fatto il proprio dovere, e di aver resa testimonianza alla verità, si preparò a tutte le conseguenze con animo fortemente tranquillo. Un ordine del ministero lo fece trasportare da Alencon a Bourges, insieme con altri quattro fuorusciti piemontesi.
A Bourges era più che mai sorvegliato e angustiato con strane sevizie. Pure si dava pace, sperando che la Provvidenza metterebbe fine ai suoi mali. Di là scriveva al Cousin : «La cattedrale di Bourges é una grande e bellissima chiesa gotica. Ma il santuario riserbato ai preti non lascia avvicinare all'altare. I vostri preti francesi tengono i cristiani troppo lontani da Dio : un giorno se ne pentiranno ! »

Studiava e filosofava e s' indignava con gli scrittori moderni, che mettono in mala voce gli antichi. « Il BONALD e il TRACY (
Il visconte Ambrogio Bonald, francese, fu filosofo cattolico assolutista (1754-1840). - A. L. Destutt, conte di Tracy, fu soldato, uomo politico e filosofo. La 2a ediz. de' suoi Elementi d'ideologia uscì nel 1824-25: era celebre, dunque, al tempo dell'esilio francese di Santarosa.), egli diceva, sono d'accordo per screditare gli antichi, quegli antichi a cui siamo debitori di tanto, e le cui venerabili reliquie rinnovellarono la civiltà, che era perita. »

Il 21 settembre scriveva : « Oggi il prefetto mi ha fatto chiamare, e mi ha domandato se ero sempre nell'intenzione di andare in Inghilterra, e, in questo caso, se preferivo di imbarcarmi a Calais o a Boulogne. Ho risposto che non potevo desiderare di rimanere in Francia senza avervi piena libertà ; e che quando mi fosse negata, accetterei subito i passaporti per l'Inghilterra. Io non potevo fare altra risposta onorevole. Dirò dunque addio alla Francia, ma non vi rinunzio. La società europea avrà qualche anno di calma. Forse cesserà l' inquietudine che la mia persona ispira ad alcuni male a proposito. Allora ritornerò.... Ho bisogno di questa speranza ».

Partì da Bourges, accompagnato dai gendarmi come un malfattore. Attraversò Parigi per passare da una diligenza ad un'altra, e appena appena gli fu concesso di riabbracciar per l'ultima volta il Cousin. Sebbene il governo lo avesse maltrattato, si allontanava dalla Francia con dolore, perché vi lasciava un amico affettuosissimo. Partì con l'animo turbato, quasi fosse presago che lo attendevano più triste sorti. Il desiderio della patria si faceva più amaro quanto più essa rimaneva lontana. II pensiero di non rivedere la famiglia, e di non potere da sé stesso educare a un' idea generosa i diletti figliuoli, empiva di malinconia il suo povero cuore.

Toccò le spiagge inglesi ai primi di ottobre del 1822 e quindi si recò a Londra, che era per lui un vasto deserto. Senza amici, senza fortune, visse giorni di malinconia amarissima. Le sciagure presenti lo riconducevano naturalmente a pensare al passato. Scrivendo un saggio sulla letteratura italiana, ammirava la forte educazione che fece la valente e generosa gioventù fiorentina, la quale nel secolo XVI avrebbe salvato la patria, se poteva salvarsi, ma che salvò almeno l'onore.

«Noi uomini del secolo XIX, diceva, non abbiamo potuto neppure consolarci di questo. Quanti rimproveri io debbo fare a me stesso dei tanti errori commessi in trenta giorni di carriera politica !... Il mio cuore, avanti l'epoca della nostra rivoluzione, era stato crudelmente straziato : non so quel che sarebbe divenuto se la febbre italiana non mi avesse preso. Io renderò giustizia a me stesso: non ho conosciuto un momento né l'interesse, né la paura, né alcuna brutta passione. Ma restai al disotto delle circostanze. A misura che gli avvenimenti si allontanano da me, la rimembranza dei miei errori si presenta più viva alla mia immaginazione. Io penso sempre fremendo allo sciagurato affare di Novara, in cui l'esercito costituzionale fu messo in rotta così presto. Questa é la seconda ferita, che sanguinerà sempre e che mi fa miseramente languire.... Ho quarant'anni ho molto desiderato la felicità, ed avevo una immensa facoltà per sentirla; ma il mio amaro destino si é posto a traverso ».

A Londra vide GIOVANNI BERCHET (Milanese, poeta lirico patriottico, seguace del romanticismo. Fu esule a Londra dal 1821 al '28. Nel '48 tornò a Milano, poi si stabilì a Torino. (1783-1851), che allora cantava sdegnosamente l' infamia inglese nel mercato di Parga ( L'Inghilterra, acquistò Parga, città dell'Albania meridionale, dalla Francia nel 1819, poi la consegnò al musulmano All-Pascià. Questo tristo mercato ispirò al poeta il poemetto famoso I Profughi di Parga); e lo confortò a continuare a comporre poesie di quella tempra. Nel 1823 visse qualche tempo col conte LUIGI PORRO all'estremo di Londra, in una casetta del Foscolo, col quale per qualche tempo passarono le serate in piacevoli colloqui. Qui cercava quiete a studi seri e meditò
un'opera sul Congresso di Verona; ma non trovò né il tempo né la calma necessaria a compierla. Per fuggire la miseria era costretto a scrivere articoli per le Riviste, lavoro che gli riusciva sommamente antipatico.

Ora scoraggiato, ora esaltato, spesso lottò con la miseria. Nel 1824. mancava assolutamente di pane. Forzato a prendere un partito, decise di andare a Nottingham, nella speranza di provvedere alle sue necessità dando lezioni di lingua italiana e francese.
Questo stato era gravissimo a lui, che si sentiva un'anima capace di fare qualche cosa di grande. Quindi desiderava l'occasione di uscire da queste angustie micidiali.
« I miei sogni, i sogni della mia vivissima fantasia, scriveva al Cousin, sono svaniti: neppure la speranza si é spenta nell'anima mia: ella ormai vuole svincolare da questo terrestre suo carcere ».

A un altro amico scriveva "Quando si ha un'anima forte conviene operare, scrivere o morire". L'occasione di operare e morire gliela offrirono i fatti di Grecia. Non avendo potuto combattere per l' Italia, desiderò di adoperare il suo braccio per la patria di Socrate e di Platone. E coll'amico suo GIACINTO COLLEGNO partì per la Grecia il 10 novembre 1824. L'amico, che gli fu compagno di viaggio e lo vide fino quasi agli ultimi giorni, raccolse tutte le notizie che poté avere di lui in questa spedizione infelice.

Il 4 dicembre scoprirono le montagne dei Peloponneso. Mentre i passeggeri che erano sulla nave provavano la gioia naturale ad ogni uomo che é presso al termine di un lungo viaggio di mare, e mentre i più anelavano di toccare il suolo di Grecia, il Santarosa solo, appoggiato a un cannone, contemplava mestamente il paese che si offriva sempre più distinto allo sguardo, e diceva al Collegno : «Io non so perché mi dispiaccia che sia finito il viaggio: la Grecia non risponderà forse alla idea che me ne ero formata; chi sa quali accoglienze; chi sa qual fine ci attende !»

I suoi tristi presentimenti sciaguratamente furono veri. Nonostante le larghe promesse dei deputati greci a Londra, fu ricevuto freddamente dal governo greco a Napoli di Romania, il 10 dicembre. Domandò lo impiegassero in un ufficio qualunque: gli risposero: si vedrà !
Il 2 di gennaio del 1825 lasciò Napoli di Romania, avvisando il governo che ad Atene aspettava i loro ordini. Visitò Epidauro, l' isola di Egina, e il tempio di Giove Panellenio, e il 6 giunse ad Atene, e di là fece un'escursione per l'Attica, cercò Maratona e il capo Sunio. Sopra una colonna del tempio di Minerva Suniade scrisse il suo nome e quello dei due amici Luigi Provana e Ornato, come monumento della loro triplice e lunga e calda amicizia. Mentre era ad Atene, essendo venute minacce di assalto dal traditore Odisseo, egli contribuì a ordinare la difesa: e tutti i giornali della città lodarono la sua operosità il suo entusiasmo.

Intanto si facevano i preparativi dell'assedio di Patrasso. Santarosa, che ancora non aveva avuta dal governo nessuna risposta, fece nuove istanze e chiese di partecipare all' impresa. Gli risposero che il suo nome troppo conosciuto poteva compromettere il governo greco con la Santa Alleanza, e che se voleva rimanere in Grecia che lo facesse pure, ma cambiandosi nome. E' facile immaginare quale impressione facesse al suo cuore questa indegna risposta. Ma egli ardeva del desiderio di veder da vicino i Turchi, di provarsi con essi e di fare qualche cosa per la causa della libertà. Invano i suoi amici gli dimostrarono che egli aveva pienamente soddisfatto agli obblighi contratti con i deputati greci di Londra, con gli amici e con la propria coscienza, e che non era più debitore di nulla a una nazione che non osava di confessare apertamente i suoi servigi.

Lui rimase fermo nel suo proposito. Si vestì e si armò da semplice soldato, e col nome di Derossi raggiunse il quartier generale a Tripolitza. Poi, come le forze destinate ad assediare Patrasso si erano recate a Navarino minacciata dagli Egiziani, egli si diresse a quella volta con Maurocordato
(Principe Alessandro Maurocordato, generale greco alla difesa di Missolungi (1822-23), poi più volte ministro della Grecia risorta. Nacque a Costantinopoli nel 1791, morì ad Egina nel 1865), e dopo aver preso parte ai fatti del 19 aprile contro le truppe di Ibrahim Pascià, entrò in Navarino il 21.
Portava sempre addosso il ritratto de' suoi figli. Il 20 aprile accortosi che alcune goccie di acqua erano penetrate fra il vetro e la miniatura, l'aprì e volendola asciugare, cancellò a metà la faccia di Teodoro suo primogenito. Afflitto amaramente da questo caso, disse al Collegno che non poteva fare a meno di considerare questo fatto come un presagio funesto, e a un amico a Londra scriveva "Tu ne riderai, ma sento dopo ciò che io non devo più rivedere i miei figli"
.
Il presidio greco di Navarino era debole, e non permetteva di prendere l'offensiva. «Nei quindici giorni in cui tacque il rumore delle armi, il Santarosa riprese l'uso dei suoi studi. Recitava i canti di Tirteo, meditava Platone e Tacito. Assorto in quella profonda malinconia, l'avresti giudicato Bruto ne' campi di Filippo, o Catone in quella notte che fu l'estrema di sua vita ».

Gli Egiziani strinsero la città ai primi di maggio, quando furono sbandate le forze greche destinate a far levare l'assedio. Dapprima minacciarono l' isola di Sfacteria, che é all'imboccatura del porto e lo domina. La difendevano mille Greci con 15 pezzi di artiglieria. La sera del 7 maggio vi furono mandati cento soldati in rinforzo, e il Santarosa era con questi. La mattina dell' 8, parlando con Grasset, segretario di Maurocordato, gli disse che era andato nell'isola perché stimava che dalla difesa di essa dipendesse la salute della fortezza; ma aggiunse che i disordini dell'armata greca non gli permettevano di sperare nulla di bene. Allora l'altro soggiunse: Venite alla batteria con noi. E il Santarosa : No, io resterò qui : voglio vedere i Turchi più da vicino. Queste furono le sue estreme parole raccolte da orecchie amiche. Poco appresso l'isola era assalita gagliardamente, e dopo un'ora di combattimento cadeva in mano dei Turchi. Alcuni dei difensori si salvarono nelle navi del porto: ma il Santarosa non era tra questi. È noto come il presidio di Navarino, straziato dalla fame e dalla sete, dopo belle prove di valore si arrese al nemico. Il Collegno, che si era distinto in quella difesa come capo delle artiglierie, ne uscì libero il 16 maggio. Suo primo pensiero fu di ricercare l'amico tra i prigionieri, e con gran dolore sentì che non era più tra i vivi. Ne ricercò allora il cadavere per rendergli gli estremi uffici: ma fu vano anche questo sforzo del pio desiderio.

L'Amico della legge, giornale di Napoli di Romania, dopo aver narrato la battaglia di Navarino, così diceva sul conto del Santarosa : « L'amico zelante dei Greci, il conte di Santarosa é caduto da valoroso in questa battaglia. La Grecia perde in lui un amico sincero della sua indipendenza e un ufficiale sperimentato, che con le sue cognizioni e con la sua attività le sarebbe stato di gran vantaggio nella lotta presente».

Giovita Scalvini così scrisse, nell'Esule, della morte di lui

Santarosa morì non del suo ferro,
ma per la greca libertà sul campo,
e come il sol che a sera appar più grande
sull'orizzonte, tal nell'ore estreme
d' inusata virtude ei si ricinse.
Ultimo, incontro ad Ibraim, rimase,
Sul lido moraita, alle assalenti
navi, il sacro terren finchè gli valse
il braccio, propugnando. In tante parti
guasto il ferro l'avea, che mai la spoglia
ne riconobbe il suo superste amico,
quando sul campo lo cercò fra' morti.
Poi che le membra sue fur poste in terra,
la grand'alma fu conta e fulse il nome
dianzi mal noto.....
Di Sfacteria, che il mar cinge ogn' intorno,
dorme sotto l'arena, e la redenta
Grecia (oh vergogna !) che pur dianzi sporse
a tutto il mondo per mercè le palme,
all'inclito non pose un monumento
.

Il Cousin, quando gli giunse in Francia la trista novella, per rendere un qualche ufficio alla cara memoria dell'eroe, si diresse a Maurocordato per indurre il governo greco a innalzargli un modesto sepolcro nel luogo ove cadde: e si offrì di pagarne le spese. Non fu data nessuna risposta a questa domanda. Si rivolse allora al colonnello Fabvier, il quale era stato amico del Santarosa. Egli accolse con affetto l'idea, e appena l'armata francese ebbe liberato il Peloponneso e l' isola di Sfacteria dalla invasione egiziana, compì il pio ufficio. Per opera di lui un modesto monumento al martire italiano sorse alla bocca di una grotta, ove fu fama che rimanesse ucciso da un rinnegato maltese.
Vi poneva questa iscrizione:
AL CONTE SANTORRE DI SANTAROSA UCCISO L' 8 MAGGIO 1825.

Così i liberi Italiani che toccano il sacro suolo di Grecia possono recarsi a visitare con religione di patria il luogo dove questo nostro generoso concittadino, bandito e impiccato in effigie, e spogliato di ogni suo avere, dette il suo sangue alla libertà, dopo avere fermamente creduto e vaticinato che la liberazione d'Italia sarebbe l'opera del secolo nostro.
Il PECCHIO
(Giuseppe Pecchio, patriota milanese, fu esule in Inghilterra dal '21. Nel '26 fu nominato docente di lettere e di economia a York. (1785-1835), che lungamente gli fu familiare, nelle Osservazioni semiserie ne ricordò l'alto animo, il nobile ingegno, la mente pura come la vita, la singolare virtù che faceva migliore chiunque vivesse a lungo con lui, la virtù per cui, egli afferma, i giudici stessi che lo condannarono a morte avrebbero revocata quella sentenza, se avessero conosciuta la santità del suo cuore. Lo dice amatore della libertà non solo per i suoi effetti, ma anche come un ente poetico e sublime; e in pari tempo amatore della monarchia piemontese, come quella che, spogliata della sua veste gotica, poteva essere atta a fondare libertà ordinata e durevole. Il suo entusiasmo per la libertà era infiammato anche da una tinta di entusiasmo religioso. Egli andò in Grecia col coraggio e coi sentimenti di un vero Crociato. Se avesse saputo parlar greco avrebbe trasmesso il suo entusiasmo ai suoi seguaci. Egli aveva una croce sempre appesa al collo, e roteando la sciabola con una mano, e mostrando la croce coll'altra, faceva tradurre ai palicari con cui si recava a Navarino il verso del Tasso:
Per la fè, per la patria il tutto lice.

Morì come visse, da valoroso, colle armi alla mano, faccia a faccia cogli Egiziani che sbarcavano nell' isola di Sfacteria. Non poteva avere più onorata morte, né più onorata tomba. La strage dei Turchi e degli Egiziani, sopravvenuta di poi alla battaglia di Navarino, del 20 ottobre 1827, fu un'ecatombe che espiò la sua morte, e l'incendio di quella flotta de' barbari é il più bel rogo che si potesse innalzare alle sue ossa insepolte.

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