DA
20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1798-1799
ATTO
VANNUCCI (ottava parte)
I MARTIRI DELLA LIBERTA' ITALIANA
(descritti da Atto Vannucci)
I Martiri della Repubblica Cisalpina
* FEDERICO E TERESA CONFALONIERI
* CARLO ANGELO BIANCO
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FEDERICO E TERESA CONFALONIERI
All'annunzio della rivoluzione piemontese, ansiosamente attesa, grande fu l'agitarsi dei Federati Lombardi, che alla fine credevano giunto il giorno della liberazione dall' aborrito giogo straniero, e lo salutarono con ardentissimo affetto.
Fra i molti ricordi dei sentimenti e delle speranze comuni rimane anche l'ode di Alessandro Manzoni, allora composta e pubblicata solamente 27 anni più tardi, nella quale il poeta vede i Piemontesi che, varcato il Ticino, abbracciano i fratelli lombardi preparandosi a combattere con essi, e giurano di far libera tutta la gente italiana, "una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue, di cor".
Lombardi e Veneti, cittadini e antichi soldati, e tutti i più nobili spiriti si impegnavano in tutti i modi per sottrarsi da questo giogo obbrobrioso, e a mettersi d'accordo con cospiratori delle altre regioni d'Italia.
L' inquisitorio governo fin dai primi mesi del 1819 ne ebbe sentore e ne arrestò parecchi nel Veneto ; poi interdisse la Carboneria, dichiarò reo di alto tradimento e di morte chi si isciveva alla setta, e con una legge precedente riguardante il passato condannò gli arrestati ; poi nuove feroci sentenze a Milano, tra cui quella del conte Confalonieri, tenuto capo della congiura, e degli altri che cospirarono con lui.
FEDERICO CONFALONIERI era nato a Milano il 6 ottobre 1785 di famiglia nobilissima e devotissima all'Austria. Molto e in vari modi fu scritto di lui. Noi brevemente diciamo ciò che fece e patì per la libertà della patria. Se l' ingegno non ebbe grande quanto le imprese a cui dette mano nella seconda metà di sua vita, ebbe però volontà ferma e possente, animo alto, e cultura e modi e propositi da trarre con sé gli uomini più generosi; ed ebbe una singolare e rara forza nel reggere a tutte le più terribili prove.
Nel 1806 legò i suoi destini a TERESA CASATI, magnanima donna che, partecipe delle sue aspirazioni, gli fu angelo tutelare nei grandi infortuni.
Sotto la nuova signoria austriaca le cospirazioni cominciarono subito dopo il crollo del regime napoleonico: prima quella militare del 1814 ; poi quella dei Carbonari e dei Federati.
Il Confalonieri stimò che, per cacciar via gli stranieri e fondare un libero Stato, fosse necessario rieducare il popolo, e condurlo con l'struzione a sentire il bisogno della libertà e farsene degno. Per giungere a questi obiettivi, studiò in Francia e in Inghilterra i modi d'istruzione stimati allora più adeguati per cacciar via l'ignoranza e per rigenerare le nazioni; recò in Lombardia l'insegnamento lancasteriano, e con LUIGI PORRO, con GIUSEPPE PECCHIO e con altri, fondò scuole a Milano, e vi recitava discorsi, mentre i suoi amici GIOVANNI ARRIVABENE, GIACINTO MOMPIANI e i fratelli FILIPPO e CAMILLO UGONI (1), uniti nello stesso pensiero, ne fondavano altre a Mantova e a Brescia. E come vedeva che all' istruzione non é dato attecchire dove sta la miseria, pose ogni studio ad aiutare la pubblica prosperità con il promuovere arti, industrie e commerci, e con il provvedere che agli artigiani non mancasse mai lavoro.
All'inizio vi fu chi sperò bene dai nuovi padroni: e l' imperatore Francesco, accolto con festa dai vecchi patrizi a Milano, fu celebrato anche dai poeti che ne cantavano la sapienza, la bontà e la giustizia. Ma ben presto dileguò ogni illusione quando disse chiaro ai professori che da essi voleva sudditi obbedienti e non uomini dotti » (2).
Confalonieri e Porro, fermi a combattere contro le tenebre dell' ignoranza, si strinsero con i più nobili ingegni per sostenere in tuttii modi possibili la dignità del nome italiano e le ragioni dell'umanità, della scienza e dell'arte. Figlio di questi sforzi riuniti nacque allora il "CONCILIATORE" (VEDI), giornale che dopo aver vissuto breve e travagliatissima vita (3 settembre 1818 - 19 ottobre 1819) tra gli strazii della censura, fu ucciso di morte violenta, perché le spie austriache vi sentivano odor di carbone. Tra i collaboratori, oltre al Confalonieri e Luigi Porro che lo fondò e ne fece con suo danno la spesa, furono SILVIO PELLICO, GIOVANNI BERCHET, GIOVAN DOMENICO ROMAGNOSI, MELCHIORRE GIOIA, PIETRO BORSIERI, GIUSEPPE e LUIGI PECCHIA, il famoso medico GIOVANNI RASORI, ADEODATO RESSI professore a Pavia, G. B. De CRISTOFERIS, CAMMILLO UGONI e LODOVICO De BREME (3), la maggior dei quali, poco dopo pure loro inquisiti patirono lunghe prigionie a Milano, a Venezia, e nello Spielberg, o, fuggiti, corsero per molti anni le tristi vie dell'esilio, perché non contenti a fondare scuole e a sostenere con gli scritti la dignità e la libertà delle lettere, e i progressi della ragione, lavoravano per conquistare l' indipendenza e la libertà della patria.
Già fino dal 1817 monsignor PACCA (4) governatore di Roma ragguagliava confidenzialmente la polizia di Milano che il conte e la contessa Confalonieri nei loro viaggi in Italia furono veduti con la più cattiva compagnia, con le persone più note per i loro principi d'indipendenza, parlando sempre dell' infelicità del presente stato d' Italia. Il conte fu a Roma, a Napoli, nelle Calabrie, in Sicilia ; s'intese con i Carbonari napoletani, con quelli dell' Italia centrale e con i Piemontesi. In Lombardia, oltre agli amici del Conciliatore, ebbe consenzienti e cooperatori FILIPPO DE MEESTER, generale in ritiro, BENIGNO BOSSI, GAETANO CASTLLIA, GIORGIO PALLAVICINO, GIUSEPPE ARCONATI, FRANCESCO ARESE, SIGISMONDO TRECCHI, FILIPPO UGONI e altri di Brescia; CARLOPISANI DOSSI e COSTANTINO MANTOVANI di Pavia (5), GIUSEPPE VISMARA avvocato novarese domiciliato a Milano; e altri di varie città.
Misero insieme molti uomini e armi, si accinsero a insorgere alla prima occasione. All'approssimare della rivolta, le fatiche, le veglie, le cure affannose fecero cadere il Confalonieri mortalmente ammalato quando più era necessaria la sua opera. Teresa fu allora più che mai il suo angelo tutelare; gli salvò con le sue cure la vita, e adoperandosi con senno e fermezza impedì che il suo male tornasse dannoso alla patria.
Deputati lombardi erano già ad affrettare il movimento a Torino. Scoppiata poi la rivolta, Giuseppe Pecchio, il Bossi, il Mantovani, il Pallavicino, il Castillia andarono a sollecitare le truppe piemontesi affinchè fosse varcato il Ticino; e la contessa ERMINIA FRECAVALLI, amica di Teresa e fortemente devota alla patria, passò le notti fra i soldati nemici, corse ad Alessandria e a Novara portatrice di lettere esortanti i capi dei rivoltosi a rompere gli indugi.
Sappiamo perché la rivoluzione piemontese rapidamente e miseramente fallisse. In conseguenza di ciò, non ebbe effetto alcuno la meditata rivoluzione lombarda. Ma tanto era stato l'agitarsi degli animi che la polizia austriaca non poté a lungo ignorarlo. Dapprima ebbe sospetti e indizi; poi a poco a poco trovò nomi, e seppe di convegni e discorsi; quindi i primi arresti, poi nuove scoperte con i delatori, e altri arresti degli incauti che non cercarono di mettersi in salvo fuggendo.
Il Confalonieri avrebbe potuto pure lui scampare, perché gliene dettero il tempo; ma per confidenza o per magnanimità rimase preda al nemico, quantunque scrivesse a Ugo Foscolo che dovean chiamarsi felici i fuggiti. Con la sua Teresa andò sul Lago di Como a ricercare la perduta salute. Il 1° di luglio fu perquisito, ma le ricerche non ebbero nessuna conseguenza , perché tra le sue molte lettere non vi era nulla che riguardasse direttamente la trama. Ciononostante gli amici lo esortavano a mettersi in salvo: e altrettanto lo pregava continuamente Teresa. Il general Bubna, suo ammiratore, cautamente lo avvertì di andare altrove a rifarsi la salute. Dopo altri indugi, egli risolse di prepararsi a fuggire quando non vi era più tempo.
Il momento supremo si stava avvicinando. Appena il suo nome venne fuori negli esami dei primi carcerati, il giorno 13 dicembre 1821 i commissari di polizia e gli sgherri si misero in moto e fu ordinato il suo arresto.
Quando li sentì e li vide entrati in sua casa, tentò la fuga per una apertura segreta già preparata da tempo a quello scopo: ma quella via che conduceva sui tetti e poi nella casa vicina, per caso o altro, nel momento del bisogno era chiusa, non vi furono sforzi abbastanza per romper gli ostacoli. Ed egli fu preso: e Teresa lo vide in mano agli esultanti scherani, che stringevano le catene e insultavano alla loro miseria.
Dapprima nelle carceri di Santa Margherita, e da ultimo in quelle della Casa di Correzione a Porta Nuova (Carceri milanesi di quei tempi) per due anni, Federico con gli altri arrestati fu messo a tutte le prove dall'inquisitore SALVOTTI, persecutore feroce degli Italiani, e ferocissimo contro di lui, perché con tutte le sue arti non riusciva a farlo parlare, e ad infamarlo in faccia all' Italia. Lo fece segno a ogni sorta di insidie lo minacciò della forca se continuava a negare, minacciò di arrestargli la moglie, lo tentò con la promessa di libertà se rivelava qualcosa sulla congiura e i complici, ma lui, quantunque gravemente ammalato, con la indomabile forza dell'animo resisté a terrori e a lusinghe, e rese vano ogni pressione.
Teresa in quei due lunghi anni trovò modo a scambiare corrispondenza con lui, lo soccorse e lo confortò in tutti i modi possibili. Poi, quando seppe che il processo era alla fine, accompagnata dal vecchio suocero Vitaliano, dal cognato Carlo e dal proprio fratello Gabrio Casati, andò a chiedere all' imperatore alleviamento di pena che sarebbe sicuramente stata inflitta al marito. Giunti a Vienna il dì 8 dicembre 1823, trovarono benevola l'imperatrice, ma acremente ostile l'arciduchessa Beatrice, che spirava vendetta. L'udienza, chiesta subito all' imperatore, fu fissata il 24 dicembre dal padre del prigioniero, al fratello e al cognato, e negata a Teresa. Il vecchio tremante si gettò ai piedi imperiali, pianse, supplicò, scongiurò per i fedeli servigi della sua famiglia alla casa imperiale, disse e fece tutto ciò che il dolore e l'affetto insegnano a un misero padre.
L'imperatore rispose di non potere usare clemenza, che era necessario un esempio, e dover lasciar libero il corso alla giustizia: e quindi la sentenza di morte era già stata sottoscritta e già spedita a Milano, perché si eseguisse dopo dodici ore. A nulla valsero le supplicazioni aggiunte dai giovani. L'imperatore, in attitudine tiberiana, rispose, sempre, non posso, e congedò tutti, esortandoli a partire in gran fretta se volevano veder vivo il prigioniero.
Teresa era nell'estrema desolazione: ma l'imperatrice, profondamente commossa, venne in soccorso a quell'immenso dolore. La fece chiamare nelle sue stanze, pianse con essa, la confortò di affettuose parole, corse più volte a implorare grazia al marito, e non disperata ai primi rifiuti, insisté con nuove preghiere, e alla fine ottenne che l'esecuzione della sentenza fosse sospesa, per far nuovo esame delle ragioni su cui si fondava: e quattr'ore dopo la mezzanotte partì con quest'ordine un corriere imperiale da Vienna, seguìto poco dopo da un secondo, che l' imperatrice mandò per maggior sicurezza.
Tutto ciò non poté allora esser noto chiaramente né a Teresa né agli altri. Quindi il giorno seguiente (25), ella, lasciando per via il vecchio suocero e il cognato, partì velocissima con il fratello, viaggiò giorno e notte attraverso le nevi e alle bufere delle Alpi, e giunse a Milano la mattina del 30 dicembre.
Cos'altro poteva fare la misera donna per togliere dalle mani del carnefice il suo Federico ? Avendo ragioni per credere che una supplica firmata da molti avrebbe piegato I' imperatore, la fece subito preparare e sottoscrivere dai parenti, dagli amici e dai notabili della città, e l'affidò al fratello Gabrio, il quale, munito anche di lettere dell'arcivescovo di Milano e di altri personaggi, si rimise subito nella via, ripassò celeremente le Alpi, giunse a Vienna il 3 gennaio 1824, fu accolto il dì 6 con affettazione di benignità e di confidenza paterna dall'imperatore, che gli fece sapere della sentenza sottoposta a nuovo esame, a causa dei dubbi sorti sulla legalità del processo, e lo licenziò conla promessa che, compiuta la revisione, gli avrebbe o gli avrebbe fatto dare la risposta finale. Poi lo richiamò la mattina del giorno 14, gli disse commutata la morte nella pena del carcere duro a vita, nel quale il prigioniero d'ora in poi doveva ritenersi come morto al mondo per sempre.
Nel giorno stesso la medesima notizia fu data dal governatore di Milano a Teresa.
Intanto il prigioniero, messo in mano alle guardie della morte, per una ventina di giorni era convinto che sarebbe finito sulla forca, eppure in quella atroce agonia non mutò modo e contegno.
La notte che seguì il 20 gennaio 1824, i condannati furono trasportati al Palazzo della Giustizia ad ascoltare la loro sentenza. La mattina seguente, incatenati ai piedi e ai polsi, Federico Confalonieri, Alessandro Andryane, Gaetano De Castillia, Giorgio Pallavicino, Pietro Borsieri, Andrea Tonelli e Francesco Arese furono fatti scendere nella piazzetta davanti allo stesso Palazzo salire sul palco lì eretto per la loro gogna, e per ascoltare di nuovo al cospetto del popolo la lettura della sentenza.
La piazza era piena di soldati in armi e di popolo accorso al triste spettacolo. L' imperatore austriaco volle avvilire e render colpevoli in faccia alle turbe questi nemici della società, che, osavano dubitare dei diritti dell'Austria sopra l' Italia. Federico Confalonieri, sebbene spossato dal male, raccolte tutte le forze dell'animo, salì e stette impavido sul palco infame adatto solo ailadri e agli assassini.
Così fecero gli altri. E la folla, inorridita dell'atroce sentenza, più che disprezzarli, diede segni non dubbii di pietà, di compianto a questi nobili cittadini colpiti da tanta disgrazia. Quello fu giorno di pubblico lutto. Quasi tutti i palazzi di Milano rimasero chiusi; al teatro della Scala i palchi rimasero vuoti e con le cortine abbassate. Anche le carte della Polizia austriaca attestano il compianto d'ogni ordine di cittadini.
Alla povera Teresa fu concesso di riveder Federico più volte prima che partisse per lo Spielberg. Lo vide sfinito dai patimenti del carcere dalla malattia che gli dava continuo travaglio, fece ogni sforzo per ottenere un poco di dilazione alla partenza, finché avesse ripreso le forze necessarie al faticoso viaggio. Chiese un consulto, e di questo lo avvertì facendogli furtivamente scivolare nelle mani un biglietto, in cui lo esortava a mostrare ai medici la sua incapacità a sopportare il viaggio. « Se tu parti, diceva, soccomberai per via; se resti, fosse anche per poche settimane, la tua salute potrà migliorare e Dio avrà misericordia di noi.
Ho visto la cognata del tuo compagno (Andryane), ed abbiam pianto insieme. Essa comprende il mio dolore, e lo alleviò ripetendomi che suo cognato ti assisterà; che Dio, il quale vi ha salvati una volta, vi restituirà ai nostri voti. Ah ! possa avverarsi questo lieto presagio.... possa tu, mio Federico, riunirti un giorno a me ! ».
Il consulto chiesto istantemente fu concesso per ordine del Viceré. I medici italiani, vedendo il malato incapace a reggersi in piedi, concordemente affermarono che in quella rigida stagione non poteva, senza rischio di morte, avventurarsi alle fatiche di un così lungo viaggio. Ma a Vienna si voleva la partenza a ogni costo. E la polizia fece venire da Brescia un chirurgo ungherese, il quale, senza interrogare il malato, di cui non conosceva la lingua, guardandolo appena e toccatogli il polso, duramente affermò:" Può andare così, può andare così".
Il misero febbricitante, in preda a convulsioni, che spesso lo rendevano immobile, senza favella, somigliante a un cadavere, il 5 febbraio, trascinato in catene, partì da Milano con gli altri per le vie di Cremona, di Mantova, di Verona, di Vicenza, di Udine e delle Alpi. A Tarvis fu preso da una grave sincope, così che il medico di quel villaggio lo ritenne per morto. Di là fu trasportato a Villacco, e fatto qui trattenere più giorni affinché ritrovasse le forze, mentre i compagni proseguivano nel tristo viaggio. Poi lo condussero e lo trattennero a Vienna, nel palazzo della Polizia, dove il Principe di Metternich andò a fargli visita, e colle dolci maniere, e colle promesse di sorti migliori, tentò di spingerlo a dire ciò che aveva taciuto ai suoi giudici; credeva l'astuto ministro di carpire qualcosa sul comportamento del Principe di Carignano (Carlo Alberto).
Il nobile prigioniero rispose di non potere, senza menzogna, aggiunger nulla alle cose che nel processo aveva già detto: e la stessa risposta ripeté quando l'altro, insistendo, soggiunse che, se non si fidava di lui, l'mperatore stesso sarebbe andato da lui in persona per accogliere i segreti dei quali ostinatamente lui taceva. Riuscita vana ogni prova, il Metternich partì bruscamente, dicendo: "Ebbene, giacche lo volete, seguite il vostro destino". E il prigioniero fu subito rimesso in viaggio per lo Spielberg ove ritrovò i compagni di Milano, e i con dannati a Venezia nel 1821, e Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, rinchiusi nel 1822, ai quali poi si aggiunsero il colonnello MORETTI di Brescia, e CESARE ALBERTINI di Mantova, LUIGI MANFREDINI (6), e AMDREA TONDELLI, lasciato il cinque febbraio, per causa di malattia, a Milano: nobile e miseranda colonia del fiore dei cittadini d'Italia, che per lunghi anni reggendo eroicamente alle più mortali torture, rese infame la ferina barbarie del governo austriaco presso tutte le genti civili d'Europa.
Di quegli inauditi supplizi di tutti i giorni, di tutte le ore scrissero ampiamente Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Giorgio Pallavicino e Alessandro Andryane: e dai loro scritti il mondo conobbe ogni particolare di quel martirio, e ammirò la forza degli animi opposta alla forza brutale con cui si voleva renderli codardi e imbecilli ; e s' inchinò davanti alla eccelsa virtù di Federico Confalonieri, che vi soffrì dodici anni senza chinare la fronte, senza mai smentire se stesso.
Per lungo tempo nessuna particolare notizia di lui poté uscire dall'orrido carcere, a malgrado tutti gli sforzi della virtù di Teresa. Ella si era intesa con la cognata di Alessandro Andryane per operare concordemente e instancabilmente a ottenere la liberazione dei prigionieri; e d'ora in poi visse in questo solo pensiero, e affannosamente studiò tutti i modi di alleviarne le pene.
Nel settembre del 1824 ella andò a Vienna a supplicareche le fosse concesso di prendere stanza a Brunn, nelle vicinanze della prigion ; ma l' imperatore risolutamente negò perfino questa grazia, come ogni mitigazione di pena, e non le dette neppure speranza per un lontano avvenire. Da quel viaggio ella riportò solo la certezza della orribile vita dei prigionieri, carichi di catene, privi di ogni alimento sopportabile, cibati di soli legumi cotti nell' acqua, e del pane dei galeotti. A nulla riuscirono anche le suppliche di amici e parenti all' imperatore venuto solennemente a Milano nella primavera del 1825.
Quindi Teresa, non aspettando più nulla dall'implacabile despota, volse più che mai tutti i suoi sforzi a mitigare in segreto i mali dell'orrenda prigione, e accolse anche la speranza di aprirne le inesorabili porte. A ciò lo rincuorava la signora Andryane; a ciò l' aiutavano l'affetto e i conforti della contessa Frecavalli, e della baronessa Matilde Dembowsky, due forti e magnanime donne, che amavano lei e Federico e la patria quanto aborrivano I' imperatore Francesco e il suo governo, di cui erano vittime (8).
Non ci sono note le particolarità dell'arduo lavoro che, di concerto con il prigioniero, fu fatto per la liberazione a Milano e a Trieste. Sappiamo soltanto che, dopo due anni di forzato silenzio, egli, coll'aiuto del vecchio Schiller, carceriere abbastanza benevolo, poté mandar fuori notizie di sé, e dei suoi disegni, e aver notizie di tutto ciò che riguardava Teresa e gli amici.
Il partito della fuga fu risoluto, ma non poté esser tentato perché, mentre se ne facevano i preparativi Schiller fu rimosso dalla custodia dei prigionieri, e con esso cadde allora ogni speranza. Ma il vecchio carceriere lasciò ad altri il segreto e il difficile incarico.
Passò ancora più tempo di mortale aspettativa nel carcere, ove Federico era chiuso col suo amico Andryane: poi gli giunse un nuovo segno dell'operoso amore dei suoi. Una sera il successore di Schiller dallo spiraglio dell'uscio diresse al prigioniero queste parole: "Ti reco lettera consegnatami in Brunn, da un uomo che è pronto ad aiutarvi alla fuga. Io sono disposto a tentare l' impresa, e per domani sera è preparata ogni cosa. Aspetto risposta domani mattina". E ciò detto, gli gettò questa lettera «Prescelto dai vostri amici esuli per aiutarvi nei vostri disegni di fuga, sono arrivato a Brunn fornito di un passaporto in piena regola e di una buona carrozza. Attenderò il momento opportuno, affrettatevi. Ho qui gli abiti necessarii, un cappello pieghevole, una giubba, ecc. ecc. Consegnerò tutto domani al custode. Fidatevi di me, come di un altro voi stesso ».
Bisognava presto risolvere. Federico, dopo aver pensato più ore, decise di restare, perché la fuga era preparata a lui solo, ed egli non voleva lasciare il suo compagno di carcere, e gli altri martiri della medesima fede, cui il suo fuggire sarebbe sicuramente stata causa di più crudeli tormenti. Né le ragioni, né le preghiere, né le lacrime del suo amico Andryane valsero a smuoverlo da questo proposito. Rimase fermo a bere l'amaro calice fino all'ultima goccia.
Non sappiamo quante sarebbero state le probabilità della riuscita, se il prigioniero avesse deciso di mettersi alla difficile prova. In ogni modo Teresa sperava. E dopo le crudeli ambasce del lungo aspettare, quando sentì morta anche questa estrema speranza, non ebbe più pace sulla terra. Nel 1827 era morta anche la contessa Frecavalli, che tanto l'aveva aiutata a operare e a sperare. Ella lottò lungamente con tutte le potenze del suo forte animo: poi, consunta non vinta dal cordoglio, il 16 settembre 1830 morì martire dell'amor coniugale e della santa carità della patria.
Veramente il suo Federico nel partir da Miano aveva presentito che i tiranni l'avrebbero fatta morire di dolore e di affanno e che lui non l'avrebbe più rivista. E questo pensiero fu più che mai il tristissimo di tutti i pensieri dell'anima sua negli ultimi anni del lungo martirio fra le tenebre della prigione divenuta sempre più deserta e lugubre.
Alcuni dei prigionieri erano morti di fame nello Spielberg. Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Andrea Tonelli, Alessandro Andryane e altri erano stati rimessi in libertà. Mentre per il Confalonieri le porte del carcere duro si apersero solo quando l'imperatore Francesco andò all'altro mondo. Liberato per grazia dell'imperatore Ferdinando, fu condannato alla deportazione in America e alla perdita dei diritti civili. Sempre sotto la custodia della Polizia, giunse a Vienna nel gennaio del 1836; quindi a Gradisca, dove già erano Felice Foresti, Gaetano Castillia, Pietro Borsieri e altri, destinati pure loro al bando in America. Ma nell'estate, invece di ritrovar la salute, Federico fu colto da un male più grave, che non valse a far mutare la sentenza del bando. Il 29 novembre fu imbarcato a Trieste, e dopo tre mesi di disastrosa navigazione arrivò a Nuova York.
Quali fossero i pensieri e i sentimenti dell'animo suo dopo tanti travagli della fortuna è detto in una sua lettera scritta il 22 giugno 1837 da Nuova York ad Alessandro Andryane.... :
«Tutti i beni della vita mi sono oramai restituiti, Alessandro mio !... Io godo libertà, gli agi della vita, il superfluo, il lusso, l'abbondanza di libri, il consorzio de' miei compagni di sventura. Gli onori ed i ninnoli, sì cari alla vanità, piovono sopra di me più che non potessi aspettarmi, e più che non avessi mai desiderato in quel tempo in cui ne ero più avido; la mia salute, lo ripeto, benché deplorabilmente alterata, potrà forse ristabilirsi ancora a forza di cautele e di cure: eppure con tutti questi beni che a ragione si apprezzano, l'amico tuo, il tuo povero Federico, é il più miserabile degli uomini. Egli é come l'ombra d'un trapassato errante sulla terra, straniero alle gioie, alle agitazioni, e direi quasi a tutti gli interessi di questa vita. Il mio passato non é pieno che di dolori, di perdite, di pentimenti. Il mio presente, al contrario, non é pieno che d'una sterile abbondanza di tutto ciò che non é nulla per il mio cuore, e della privazione di tutto quanto potrebbe ancora essergli caro.
L'avvenire!... non ce n' é più per me. Qualunque sforzo d'immaginazione io possa fare per crearmene uno, non mi dibatto che nel vuoto, non son riuscito a farmi una sola finzione, un sogno, neppur un'ombra, sulla quale io possa in qualche maniera appoggiarmi un solo istante. Pensa tutta l'atrocità di questa vita, tutto lo sconforto che versa nel cuor mio la pur troppo reale certezza che non so più vivere, e che nessun bene mi è quindi innanzi quaggiù riservato ! Oh ! questo é mille volte più duro che la non esistenza impostaci dalla forza nello Spielberg ! Questa era l'opera iniqua degli uomini, la quale poteva cessare colla cessazione del carcere, quando invece quella proviene dalla incapacità che é in me, e che, lo sento, non potrà cessare se non con la vita. Ah ! preparami, dolcissimo amico, preparami in seno alla tua diletta famiglia, nel commovente spettacolo della tua felicità, la sola consolazione di cui il tuo povero Federico possa ancora esser capace. Io non aspiro ormai che a veleggiare di nuovo, che a trasportarmi in Europa, a Parigi, per vederti, abbracciarti e trovar presso di te sensazioni meno sterili di quelle che mi circondano.... »
Fatta una corsa per gli Stati Uniti, e riveduti gli amici Maroncelli, Foresti, Castillia e Borsieri che, giunti in America prima di lui, in luoghi diversi, coll'opera dell' ingegno guadagnavano onoratamente la vita, riattraversò l'Oceano, e il 9 settembre 1837 giunse a Parigi, e con ineffabile gioia riabbracciò il suo Andryane. Ma fu breve conforto, perché il giorno dopo il Governo francese, servendo alle voglie dell'Austria, lo cacciò via da Parigi. Si rifugiò a Bruxelles, ove ebbe grandi e festose accoglienze dai vecchi amici Arrivabene e Arconati. Poi andò in cerca di aria più adatta alla mal ferma salute. Nelle affettuosissime lettere di Silvio Pellico lo vediamo a Montpellier, a Marsiglia, alle isole Hyéres, ed Algeri, ad Antibo e poi nel 1841 a Milano, ove, ritornato per effetto dell'amnistia, poté ricevere gli ultimi abbracci del suo vecchio genitore, potè piangere sulla tomba della donna che fu vittima del suo amore per lui, potè sentire quanto i cittadini lo amavano.
Ma la sua anima non poteva aprirsi a gioie durevoli fra le tenebre della signoria straniera, senza alcuna speranza di prossima liberazione. Quindi, lasciando da parte la patria per cui aveva tanto sofferto, andò a cercare ristoro al suo corpo al sole di Oriente, e viaggiò in Palestina e in Egitto. Da ultimo, quando apparve per l' Italia la prima luce del nuovo giorno da tanti anni aspettato, riprese le vie del ritorno, e affranto dal faticoso viaggio, il 10 dicembre 1846 morì a Hospenthal nel Cantone di Uri, alle falde del Gottardo, presso le porte d'Italia, senza il supremo conforto di veder iniziata la guerra, che fu il desiderio perpetuo della sua vita.
La città di Milano, profondamente commossa a questa notizia, gli fece splendidi funerali nella chiesa di San Fedele, ove i cittadini concorsero in così tanto numero, e con sì eloquente manifestazione del pensiero ond'erano mossi, che l'Austria ne fu impaurita. Ogni classe, rendendo testimonianza alla virtù e ai propositi del fortissimo martire, fece qui ai suoi funerali la prima delle grandi dimostrazioni, che poi condussero tutti alle gloriose battaglie delle Cinque giornate.
(1) La dottrina che l'Austria voleva soprattutto insegnata ai cittadini italiani è nel libro intitolato: Doveri dei sudditi verso il loro monarca, -Per istruzione ed esempio di lettura nella seconda classe delle scuole elementari. Qui nel capitolo VI si legge:
Domanda. Come si debbono portare i sudditi verso il loro Sovrano ?
Risposta. I sudditi si debbono portare verso il loro Sovrano e in tutto ciò che egli comanda nella sua qualità di Sovrano, come si portano i servitori fedeli in tutto ciò che loro comanda il padrone.
Domanda.. Perché debbono i sudditi riguardare il Sovrano come loro padrone ?
Risposta. I sudditi debbono riguardare il Sovrano come loro padrone, perché in realtà egli ha diritto di esser da loro obbedito, e perché ha l'alto dominio sulle sostanze e sulle persone dei sudditi, e può legittimamente disporne nell'esercizio della sovranità.
(2) Il conte G. ARRIVABENE di Mantova (17871881) fu condannato a morte in contumacia nel
1824; visse a lungo in Belgio; scrivendo e insegnando economia. Tornato in Italia, fu fatto nel '60 senatore. - G. MOMPIANI, nato a Brescia nel 1795, fu arrestato perché intimo del Confalonieri. Lasciò buon nome per la sua inesauribile filantropia. - Camillo UGONI (1784-18,54), anch'egli Bresciano, amico del Foscolo. Essendo perseguitato dalla polizia perché fautore della nuova scuola romantica in arte e fautore del mutuo insegnamento (sistema lancasteriano), andò esule in Svizzera, poi a Londra per raggiungere il fratello Filippo che ve lo aveva preceduto, infine a Parigi. Tornò dopo l'amnistia dei '39. Filippo, deputato di Brescia, poi senatore, morì nel 1877.
(3) Pietro BORSIERI, n. a Milano nel 1788, fu amico del Foscolo. Arrestato e condannato a morte come carbonaro, ebbe la pena commutata in 20 anni di carcere duro. Rimase allo Spilberg fino al '36. Morì nel '52 a Belgirate. - Giovanni RASORI (1766-1837), fu medico insigne e cospiratore in Carboneria. - Il conte Adeodato RESSI (1768-1822), di Cervia, docente dell' Università di Pavia, morto nel carcere di Venezia. - G. B. De CRISTOFORIS (1785-1838) letterato e poeta milanese della scuola romantica. - Ludovico di BREME (1754-1828), piemontese d'origine, nato a Parigi, essendo colà suo padre ministro sardo. Ebbe parte nel governo del Regno Italico. Da non confondersi con l'omonimo abate, suo figlio, letterato romantico.
(4) Cardinale Bartolommeo PACCA (1756-1844), nato a Benevento. Fu arrestato dai Francesi nel 1809 con Pio VII e condotto prigioniero al forte di Fenestrelle. Tornò a Roma nel '14 e nel '17, come governatore della Città, emise il famoso "editto Pacca", per impedire l'esodo delle opere d'arte.
(5) F. De MEESTER (1765-1852), milanese, servì nell'esercito della Cisalpina, fu perseguitato dall'Austria, condannato a morte ed esule in Inghilterra. Morì a Lugano. - G. De CASTILLIA (1795-1870), Milanese, per 15 anni in carcere austriaco, poi deportato in America. Rivide la patria nel '4o. - G. PALLAVICINO, (1796-1878), di Milano, nel '21 arrestato come carbonaro, nel '23 condannato a 20 anni di carcere duro allo Spielberg, dal '48 esule in Piemonte. Costituì la Società Nazionale Italiana, di cui Garibaldi fu vice presidente: nel '60 fu prodittatore a Napoli, poi senatore e cavaliere dell'Annunziata. - Giuseppe ARCONATI (1824-1873), cospiratore, esule, poi deputato al Parlamento Subalpino. - Il conte F. ARESE
(1805-'81), condannato a morte nel '24, fu graziato e divenne amico di Napoleone III. Fu poi intermediario fra lui e il Cavour dell'alleanza che condusse alla guerra del '59.
(6) SILVIO MORETTI, nativo di Val Trompia, ufficiale napoleonico, cospiratore contro l'Austria nel '15 e condannato alla prigionia nella fortezza di Koenisgratz. Tornò a cospirare e nel '24 fu condannato ancora a 15 anni di carcere duro. Morì allo Spielberg (1797-1833). - CESARE ALBERTINI morì anch'egli allo Spielberg nel 1834 ; LUIGI MANFREDINI ne fu liberato dall'amnistia alla morte di Francesco I.(7) PIETRO MARONCELLI (1793-1846), forlivese, compagno di prigionia al Pellico. Scrisse le Addizioni alle
Mie Prigioni. Dal '33 visse esule in America, - ALESSANDRO ANDRYANE (1797-1863), di Parigi, arrestato a Milano come carbonaro nel '23, prigioniero allo Spielberg fino al '32, autore di un bel libro di memorie sulla sua prigionia.
(8) La Contessa ERMINIA FRECAVALLI fu arrestata come fautrice dei nemici dell'Austria, e guardata a vista giornoe notte per più mesi in sua casa.
MATILDE nata Viscontini e maritata al polacco Dembowsky che, venuto al servizio della Repubblica Cisalpina e poi del Regno d'Italia, divenne Generale e Barone, era un'angelica donna, che alla rara bellezza e al più soave affetto congiungeva la più grande energia. Amava fraternamente Federico e Teresa, e a quest'ultima, dopo la sciagura dell'arresto, fu larga di consolazioni, di consigli e di cure. Amava ardentemente l' Italia. Aveva seguito il marito in tutte le guerre di Spagna e d'Italia; conosceva tutti i più famosi Carbonari, e a tutti quelli che si adoperavano a render libera e indipendente la patria portava affetto singolarissimo.
Nel dicembre del 1822 fu arrestata per Carbonarismo a Milano, in mezzo alla strada, e fu rinchiusa prigioniera in casa sua con una guardia alla porta. Il giorno dopo, condotta davanti alla commissione inquisitoriale, ebbe a sostenere un interrogatorio di dieci ore. Fece dignitose e forti risposte. E Salvotti, per insulto alle degne parole di lei, in tono ironico le domandò se per avventura pensava di esser sempre in mezzo ai Carbonari, ai quali ella presiedeva: No, rispose la energlca donna : ma credo di esser in mezzo agli Inquisitori di Venezia. Poi, protestando contro le violenze che indegnamente si facevano alla debolezza di una donna, dichiarò che non risponderebbe più nulla: e Salvotti pieno di rabbia fu costretto a rimetterla in libertà. Da quel momento in poi la Polizia non cessò mai di tormentarla nei modi più atroci; ma essa mise in conto i pericolì, e non si ritirò mai da nessun sacrificio, e fece tutto quello che il suo nobile cuore le domandava per i prigionieri, per gli esuli, e per la patria infelicissima.
Ma i dolori si accumularono in troppo gran numero sopra il suo capo. Perduti tutti gli amici più cari, e affranta dalle comuni sciagure, morì a 35 anni, nel 1825.---------------------------------------
CARLO ANGELO BIANCO
CARLO ANGELO BIANCO nacque sul cadere del secolo XVIII in Barge, presso Torino, unico figlio maschio a genitori di ricca stirpe patrizia. Finiti i suoi studi letterari, entrò nella carriera delle armi, e militò in un reggimento di cavalleria. Precocemente sentì nel cuore l'obbrobrio delle sorti italiane, e prese parte ad ogni cospirazione che fosse intesa a render libera ed indipendente la patria.
Era uomo leale, energico, generoso. Perciò tutti i liberali lo amavano, e nel 1820 i cospiratori lo inviarono, con missione segreta, a Parigi per intendersi col Comitato Direttore della Carboneria. Tornato dalla Francia fece tutti gli sforzi e i sacrifici possibili per portare alla rivolta i soldati che aveva nelle sue mani come luogotenente dei dragoni del re; e quando in Alessandria, alle 2 antimeridiane del 10 marzo, il Capitano PALMA proclamò la costituzione di Spagna, egli accrebbe forza a quel moto conducendo, d'accordo col capitano BARONIS, i dragoni, e molti cittadini armati nella Fortezza ; quindi fece parte della Giunta provvisoria costituita dal colonnello ANSALDI e con tutto l'impeto della sua anima si adoprò al sostegno degli ordini nuovi.
Precipitate miseramente le cose, il Bianco da Genova corse, con gli esuli più prodi e più generosi, a combattere per la costituzione spagnola in Spagna, e in Catalogna, alla testa del Corpo dei lancieri italiani, tutto composto di ufficiali proscritti, diede nobili prove del suo coraggio. Spenta anche quella libertà dai Francesi e dai traditori, egli cadde nelle mani nemiche, e patì a Malaga una durissima prigionia: poi miracolosamente fuggito dal carcere e dagli sbirri che lo inseguivano a morte, travestito da mozzo di marina arrivò a Gibilterra e si rifugiò sopra un legno mezzo sfasciato dalla tempesta.
Il povero capitano che pietosamente gli offrì questo ricovero non poteva dargli che un po' di biscotti: lui si diede da fare per procacciarsi quacosa con la pesca. Stette lì tre mesi e soffrì molto; di modo che, costretto a stare sempre allo scoperto, il sole gli arse la delicata persona e gli empì di piaghe le spalle.
Dopo, trovato un imbarco, si recò in Grecia, e quindi a Malta, ove sentì che gli erano stati confiscati i suoi beni e che lo avevano condannato a morte in Piemonte e in Spagna. Non avendo nessun modo di vivere, non conoscendo nessuno, era in una orribile situazione, ma una speranza lo confortava.
Prima di partire da Torino aveva depositati cinquantamila franchi nelle mani di un suo cognato. A lui ricorse e gli richiese il deposito, per supplire alle necessità in cui si trovava. Ma il cognato non volle consentire alla restituzione, e gli assegnò solamente una piccola somma sugli interessi del capitale. L' infelice rimase a Malta più anni cospirando sempre per la libertà italiana, ed lì sull'isola compose un libro intitolato: La guerra d' insurrezione per bande, con cui intendeva insegnare all' Italia il modo di come liberarsi dalla signoria straniera, come dalla tirannide interna, e avere Roma per sua capitale (La guerra d'insurrezione per bande applicate all' Italia, trattato dedicato ai buoni Italiani da un amico del paese, Italia, 1830. Il libro ha per epigrafe : Qousque tandem ignorabitis vires vestras ? e conclude così : - All'armi, all'armi, uomini in cui batte un cuore italiano, uomini che sentite nel petto quel palpito generoso che creò Scipione e Camillo.... Tutti, tutti le armi con generoso istinto impugnate ! E l'unione, l' indipendenza, la libertà d'Italia divenga tra poco il premio sol degno delle virtù risorgenti e figli d'una patria sì bella)
Lasciò Malta quando la rivoluzione francese del '30 ridestò le speranze italiane. Era a Lione nel 1831, pronto a partire cogli altri esuli, in soccorso dei sollevati di Modena, di Bologna e delle Romagne: e come il governo francese impedì questo disegno, egli andò in Corsica, sperando di aver modo a muovere di là alla volta d'Italia. Anche queste furono vane speranze: ed egli prese stanza a Marsiglia e l'anno dopo fece parte dell'Associazione della Giovane Italia, ivi fondata da Giuseppe Mazzini ; fu uno dei membri della congrega centrale, e segnò con gli altri le più importanti risoluzioni degli associati, pronti sempre a combattere in tutti i modi per la libertà, per l'unione, e per l'indipendenza italiana e per la diffusione delle più larghe idee democratiche. Poi cacciato, con tutti i compagni, dalla Francia, andò con essi in Svizzera, e nel 1834 prese parte alla spedizione di Savoia, con l'incarico di condurre uno dei corpi degli esuli mossi a quell'audace e vana fazione.
Appena cominciata la spedizione, ai primi di febbraio, corse voce di tradimento, e a lui fu offerto il comando supremo di tutta l'mpresa: ma era troppo tardi, e non fu possibile di porvi riparo.
Nonostante l'impresa miseramente fallita, l'Associazione continuava intrepida per la sua via, e il 15 aprile del medesimo anno s'intese con la Giovane Polonia e con la Giovane Germania per formare la Giovane Europa, «associazione di tutti i credenti in un avvenire di libertà, di uguaglianza e di fratellanza » : e lo strumento del patto fu segnato in Berna per gli Italiani da Giuseppe Mazzini, da LUIGI AMEDEO MELEGARI, da CARLO BIANCO, da G. RUFFINI e da GASPARE ROSALES
(Luigi Amedeo Melegari, nato in prov. di Reggio Emilia nel 1807, patriota e giurista, dal '62 senatore dei
Regno, diplomatico e ministro degli Esteri. Morì nell' 81. - Giovanni Ruffini, esule con Mazzini
dal 1834 ; autore di romanzi di vita italiana ("Il dottore Antonio", "Lorenzo Benoni") in lingua inglese.
Nato a Genova nel 1807, morto a Taggia nell'81. - Marchese Gaspare Rosales d Ordogno, patriota lombardo,
arrestato nel '32. Ottenuta la libertà provvisoria, riuscì a fuggire. Nel '33 ebbe incarico da Mazzini di
organizzare la spedizione di Savoia)
Il Bianco con ardenti e forti parole scrisse in Svizzera anche l'opuscolo intitolato : Due parole ai militari
italiani : poi, forzato dalla persecuzione della diplomazia europea, che con gli altri lo cacciava anche dai liberi monti di Svizzera, si rifugiò a Bruxelles, dove con ogni maniera di sacrifici assistè i molti profughi che continuamente passavano da quella città.
Per questa pia opera si caricò di molti debiti, che davano grave tormento alla sua anima delicata, e per liberarsene tentò che altri gli desse modo a riavere le confiscate fortune paterne. Aveva con se, la moglie, il figlio Alessandro, e pensò di mandarlo per tale intento a Torino. Questi partì e dopo un anno ottenne che fosse revocata (10 settembre 1839) la confisca dei beni; ma la revoca era resa quasi vana da condizioni e pastoie burocratiche e difficoltà di ogni sorte; e di più le rendite di quei beni, scarsissime allora per la mala amministrazione dei confiscatori, non potevano minimamente servire al pagamento dei debiti ogni ora crescenti.
Al povero Bianco non rimaneva alcun modo di scampo dai creditori che lo assalivano ferocemente, e lo minacciavano della prigione. Questi insuperabili travagli e gli altri mali dell'esilio, cresciuti oltre misura, alla fine gli turbarono la mente e gli abbatterono il cuore, quel cuore che era stato così tanto intrepido nei campi di guerra.
Il 9 maggio del 1843, abbracciata la moglie, uscì di casa, e giunto al Canale che bagna Bruxelles, lasciando sulla spenda bastone e cappello, vi si precipitò dentro, e volontariamente affogò. Fu onorato di esequie affettuose e solenni dagli esuli e non esuli italiani e stranieri, specialmente polacchi, che rendevano testimonianza della sua grande bontà d' animo. Lasciava un volume manoscritto col titolo di Manuale del rivoluzionario italiano.
Questi fatti del povero Bianco ci furono narrati nella maggior parte dall'amico nostro GIUSEPPE LAMBERTI, il quale visse a lungo con lui in intimità di pensieri, di affetti e di speranze. Tutti gli altri che lo conobbero attestano concordemente della rara bontà della sua anima, del suo puro amor di patria e dell'energia del suo cuore. Egli visse povero, ma divise il suo pezzo di pane coi suoi compatrioti che ne mancavano. Vi sono persone che hanno confessato a noi stessi che, se non patirono la fame, debbono esserne riconoscenti al povero Bianco.
Fu infelicissimo, perché le tristezza dei tempi e degli uomini non gli consentirono di dare il suo sangue all'Italia.
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