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Autore: ANDREA ROZZA
L'argomento è
fondamentale per la vita democratica di ogni Stato giusto e civile. La tesi confronta due filosofie fondamentali del novecento: analitica (Ross, Bobbio, Hart) ed ermeneutica (Gadamer, Betti, Dworkin). Si parte dalla cultura filosofica generale delle due correnti, fino ad analizzare le specifiche realtà giuridiche di entrambe. Tenendo conto dell'aria che si respira oggi nella nostra democrazia alcuni problemi restano aperti sull'interpretazione della legge |
CAPITOLO
SECONDO CAPITOLO
TERZO |
Il
criterio storico fornisce una definizione fondamentalmente ineccepibile,
che si trova nelle enciclopedie e nei dizionari: la filosofia analitica è la
corrente filosofica che nasce nei primi anni del Novecento in Inghilterra con i
lavori di Russell e Moore,
si sviluppa grazie all’apporto del giovane Wittgenstein
e del positivismo logico centroeuropeo; ha un periodo di particolare fortuna
tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta con la Oxford-Cambrigde
Philosophy, la cosiddetta filosofia del linguaggio
ordinario; diventa il tipo di filosofia dominante in lingua inglese e nella Scandinavia; in ultimo si diffonde, soprattutto come stile
filosofico, anche negli altri paesi.
Si
usa anche distinguere tra la tradizione analitica, che
sarebbe tutto l’insieme e la filosofia analitica in senso stretto, che
coinciderebbe� con la prima metà del
secolo, o con l’Oxford-Cambrigde Philosophy,
o con la filosofia linguistica degli anni Trenta- Settanta.
Inoltre
è abbastanza evidente che� la continuità
della tradizione si stabilisce con Russell e Moore, all’inizio del Novecento, ma c’è una certa disparità
di opinioni riguardo alle origini dell’intero
sviluppo: alcuni ne riconoscono il punto di avvio in Frege[2], o
nella filosofia �pura di Bolzano, oppure
in Kant, o nel realismo di Brentano,
o ancora nel� pragmatismo o
nell’empirismo inglese.
Secondo
il criterio filosofico, la filosofia analitica è stata
caratterizzata� principalmente
come una filosofia del pensiero, un aggiornamento in senso logico linguistico
dell’empirismo, una filosofia linguistica, una filosofia della giustificazione.
Il
più autorevole sostenitore della filosofia analitica da intendersi come
filosofia del pensiero è stato Michael Dummet, che ha dichiarato che la filosofia analitica si
caratterizza come una filosofia che mira a indagare il
“pensiero”.
Ciò
gli ha permesso anzitutto� di avvalorare
l’idea dell’origine della tradizione analitica�
nelle opere di Gottlob Frege[3];
secondo lo stesso Dummett la scoperta del concetto di “senso” avrebbe consentito a Frege di inaugurare quella che secondo Dummett
è l’ultima caratteristica della filosofia analitica, cioè l’idea che un
rendiconto filosofico del pensiero può ottenersi soltanto attraverso l’analisi
del linguaggio.
Si
deve però ricordare che le origini del movimento analitico sono da
rintracciarsi precisamente nella famosa ed ambigua� “ribellione all’idealismo” di Russell e Moore[4],
sostenitori della filosofia analitica da intendersi come variazione sul tema
dell’empirismo.
La
componente empiristica, intesa come tendenza a fondare
la conoscenza e la filosofia sul piano dell’esperienza, sui riscontri e sulle
verifiche che essa permette, ha dominato un’ampia parte della tradizione
analitica, giungendovi per diverse vie: per derivazione diretta dall’empirismo
inglese, o attraverso lo stesso Brentano, o per
l’elaborazione dell’empirismo fornita dai neopositivisti, influenzata dal
pragmatismo.
Da
questo punto di vista sarebbe legittimo collocare la filosofia analitica
all’interno di quella vasta impresa di rielaborazione, ampliamento e
aggiornamento dell’empirismo che interessa tutte le filosofie del Novecento.
Il
carattere distintivo della filosofia analitica all’interno di questo percorso
consisterebbe nel programma di conciliare logica ed empiria[5].
La
definizione di filosofia analitica come filosofia linguistica[6] (o
meglio come tendenza filosofica che considera il linguaggio il primo e/o
principale oggetto del lavoro filosofico) è sicuramente valida per il periodo
anni Trenta-Settanta.
Infatti
se si va alla ricerca di una definizione�
storicamente� propria e ristretta,
certo è essenziale ricordare che la filosofia analitica che inizia a definirsi
tale, tra gli anni Trenta e il secondo dopoguerra, è quella che scopre ed
evidenzia l’idea di uno speciale ed esclusivo rapporto, dal punto di vista
metodologico, tra filosofia ed analisi logica del linguaggio[7].
In
questo senso se nella definizione di Dummett il nesso
pensiero-linguaggio può risultare problematico, senza
dubbio la sua idea di filosofia linguistica come metodo o meglio strategia ha
invece il merito di attirare l’attenzione sul tentativo di affrontare i problemi
“prendendo le mosse dal funzionamento del linguaggio”.
Alla
fine degli anni Cinquanta inizia ad affermarsi l’idea della filosofia analitica
da comprendersi come filosofia della giustificazione, il cui scopo
�non è fornire una visione del mondo, né
propriamente tematizzare e mettere in pratica qualche metodo specifico, né
difendere qualche ontologia o epistemologia, ma cercare di presentare le
ragioni delle tesi e delle teorie filosofiche.
Si
sostiene in riferimento a tale ultima interpretazione
che si può definire propriamente analitico un punto di vista che è “very strongly concerned
with justification”[8], che
cioè si chiede, per ogni tesi o teoria: “quali sono le ragioni per sostenerla?
”
L’interesse
per il linguaggio può essere una semplice conseguenza di questo preliminare
atteggiamento; è ovvio che nel cercare le ragioni di una tesi si cerchino anche
i suoi significati, per cui ricerca del significato o esplicitazione e giustificazione risultano strettamente
legate.
Ma
che cosa si intende qui esattamente per
giustificazione non è facile comprenderlo dato che non esiste neppure una
chiara unanimità circa la nozione di “analisi”[9].
In
base alla definizione di filosofia analitica ricorrendo al criterio stilistico
si sottolinea che ciò che la caratterizza sarebbero
tre requisiti: la scelta di argomenti molto limitati e circoscritti, un
programmatico sforzo di chiarezza e di rigore argomentativo,
l’umile convincimento da parte del teorizzante�
di appartenere ad una impresa comune entro la quale portare il proprio
contributo.
A
ben guardare i sopra citati requisiti sono propri di qualunque lavoro di
ricerca: fermandosi solo a questo la filosofia analitica sarebbe soltanto un
tentativo di uniformare la filosofia�
alle regole più o meno esplicite che governano la comunità scientifica.
In
verità non è poco a certe condizioni: la filosofia analitica degli esordi si
afferma con una primaria e fondamentale esigenza di chiarezza e di rigore
metodologico giustificandosi come reazione alle vaghe metafisiche degli idealisti
inglesi e degli esistenzialisti tedeschi.[10]
Per
quanto concerne il criterio metafilosofico[11], si
evidenzia che fin da principio la filosofia analitica si propone come filosofia
“congruente” alla razionalità scientifica, anche se questo non vuol dire che si
proponga come filosofia scientifica.
Risulta
però essere una caratteristica della filosofia analitica l’adattarsi a una
delle caratteristiche della cultura scientifica, ossia la cd. specializzazione.
E’
questo uno dei primi requisiti di una pratica della
filosofia che possa essere controllata in base a standard di professionalità.
Si
è anche parlato della filosofia analitica come dell’affermarsi del
professionismo in filosofia[12],
ossia il passaggio della filosofia dalla situazione vaga di pratica culturale a
metà tra religione e letteratura al ruolo di disciplina accademica specializzata.
2. La storia della
filosofia analitica
Entrambi
intuivano la necessità di rinnovare la filosofia,
liberandola dalla equivocità e dalla scarsa chiarezza delle formule
idealistiche.
Tanto
Russell quanto Moore però
restavano legati al linguaggio e ad alcuni assunti preliminari dell’idealismo[15].
Russell
si rese conto che c’era una differenza evidente tra il modo di argomentare di Peano[16] e
dei suoi allievi e quello di tutti gli altri.
La
ragione di ciò si doveva, secondo Russell, all’uso
della notazione logica.
La
“scoperta” della logica diede a Russell lo strumento
metodologico che cercava per congedarsi definitivamente dall’idealismo e dal quasi-kantismo che aveva ispirato i suoi precedenti lavori.
Con
l’applicazione del formalismo di Peano� ( “estendere la precisione logica all’indietro, attraverso quelle ragioni che erano state
abbandonate alla vaghezza della filosofia”[17]), Russell inventò una notazione per le relazioni, risolse un
gran numero di problemi matematici, gettò le basi dei “Principia Matematica”.
Russell
ben presto entrò in contatto con Gottlob Frege[18],
interessato a chiarire le basi filosofiche della matematica e a capire la
natura del numero.
Egli
partiva dalla considerazione che i numeri, e più in generale gli enti
matematici, sono oggettivi, ma astratti.
Arrivò
a dimostrare che i numeri sono relazioni tra le
estensioni dei� concetti attraverso la
messa a punto di un linguaggio logico, la Ideografia, che è uno dei primi
sistemi della logica moderna, basato sul linguaggio.
Il
nucleo propulsore forse più evidente delle scoperte di Frege
sta nell’intuizione dell’affinità� che sussiste tra il dualismo matematico
funzione/argomento ed il dualismo linguistico nome/predicato.
In
questo modo si creava un interessante e duplice collegamento tra matematica e
linguaggio: non soltanto i predicati del linguaggio comune potevano essere interpretati�
in modo matematico, ma anche le funzioni matematiche potevano essere
interpretate e studiate in termini di concetti.
Matematica
e filosofia si trovavano su un terreno unico: il
terreno del concettuale, che per Frege era “il
logico”[19].
Il
lavoro di Frege lo portò a definire in modo del tutto nuovo termini di largo uso in filosofia, come
verità, significato, senso e il bisogno di chiarezza fece dei suoi testi un
modello per le analisi successive.
Nel
1901 Russell scoprì la possibilità di derivare dal
sistema fregiano una antinomia: esistono classi che
sono membri di se stesse e� classi che
non lo sono.
A
causa delle numerose problematiche, Russell fissò la
teoria dei tipi per cui si dice che occorre stabilire
una differenza tra classi di classi e classi semplici, da cui si vede che
nessuna classe può essere membro di se stessa[20].
Nel
1905 viene formulata la famosa teoria delle
descrizioni[21], punto di riferimento
cruciale per la filosofia analitica successiva.
La
novità consiste nel fatto che è mediante l’applicazione della formalizzazione
logica a enunciati problematici, come quelli che si
riferiscono ad oggetti inesistenti, che si trovano chiarimenti essenziali circa
il loro significato e la loro verità.
Ciò
significa� che la forma grammaticale di
tali enunciati maschera la loro effettiva forma logica.
Si
capisce che è necessaria e� possibile una analisi degli enunciati che ne metta in luce la “vera”
forma logica e che la logica formale diventa o può diventare uno strumento
essenziale del discorso filosofico.
Nel
1914 Russell[22]
mette in collegamento tutte le acquisizioni logiche
degli anni precedenti con questioni propriamente filosofiche, presentando
quello che fu noto come “atomismo logico”.
La
tesi di Russell è che la logica moderna consente di
superare lo scetticismo empiristico circa il mondo esterno, perché ha
individuato la “forma logica” delle proposizioni e delle inferenze e non vi è
dubbio che questa forma abbia natura “oggettiva”.
L’influsso
di Moore fu meno immediato di quello di Russell ma forse più profondo.
Il
punto di avvio del suo lavoro è la critica
dell’idealismo, che sviluppò soprattutto a partire dalle evidenze del senso
comune e a favore di una forma di realismo concettuale.
Il
senso comune è la fonte delle evidenze per Moore:
l’analisi dei concetti ha il compito di chiarire tali evidenze e correggerne
l’eventuale pervertimento filosofico.
“L’idealista
- sostenne Moore - non è in grado di separare il
giallo dalla sensazione del giallo”[23] e questa incapacità è alla base della stravaganza delle sue
tesi, che culminano nell’idea contro-intuitiva dell’inesistenza della realtà,
del tempo e degli oggetti materiali.
Il
riscontro fondamentale che guida Moore è che la
teoria della proposizione porta a pensare ai concetti come costituenti propri
di qualunque tesi o teoria.
Né in Russell né in Moore c’è la chiara
ammissione del fatto che ciò di cui si stavano occupando era il linguaggio, che
le loro indagini erano linguistiche[24].
Soltanto
con Ludwing Wittgenstein[25] si
apriva la via alla concezione linguistica dell’analisi.
Wittgenstein
frequentò i corsi di Russell� intorno al 1911 su consiglio di Frege e dagli appunti che prese nacque
il “Tractatus logico-philosophicus”[26], la
cui idea di fondo era che esisteva una “logica del linguaggio” e che buona
parte dei problemi filosofici deriva dal fraintendimento di tale logica.
La
figura di Wittgenstein si collega alla filosofia
neopositivista proposta da un gruppo di giovani laureati e professori di varie
materie che iniziarono ad incontrarsi a partire dal 1907 in vari caffè di
Vienna.
Dal
“manifesto” del Circolo di Vienna, del 1929, si deduce� che il compito dell’analisi linguistica era
operare sul linguaggio riducendolo ad enunciati osservativi o empirici,
esprimenti giudizi sui dati sensibili e ad enunciati analitici, come gli
enunciati logici e matematici.
Per
i neopositivisti la logica era lo strumento
fondamentale per compiere con successo tale operazione.
A
differenza di Wittgenstein però i neopositivisti
pensavano che il ruolo della filosofia fosse essenzialmente quello di fornire
un supporto alla scienza, chiarificandone il linguaggio, favorendo la
comunicazione tra i diversi ambiti scientifici, promuovendo la messa a punto di
un “metodo unificato”.
L’atomismo logico di Russell fu
dominante in Inghilterra fino ai primi anni Trenta.
In
seguito iniziò a prendere forma uno stile filosofico che recuperava spunti e
premesse dell’analisi di Moore.
Successivamente cominciò ad imporsi la filosofia analitica inglese, passata alla
storia con il nome di “scuola inglese”[27], le
cui principali caratteristiche furono: l’interesse specifico e privilegiato per
il linguaggio ordinario, di uso comune; il relativo disinteresse per i problemi
di filosofia della scienza e l’assenza del mito di una “filosofia scientifica”,
sia nella versione neopositivistica che in quella russelliana; un deciso ridimensionamento del ruolo della
logica formale; una visione del linguaggio orientata in senso pratico, ossia
mirata all’agire linguistico e all’uso del linguaggio.
Questi
aspetti furono comuni tanto alla filosofia di Cambrigde,
quanto a quella di Oxford, ma lo stile analitico che
andò affermandosi nelle due città universitarie differiva sensibilmente.
I
principali protagonisti del cambiamento furono Wittengstein,
Gilbert Ryle, J.L.Austin.
Dopo
una pausa di dieci anni Wittengstein tornò a
dedicarsi alla filosofia e subito si impegnò a
rettificare le tesi del Tractatus, quindi a sviluppare
una impostazione filosofica del tutto nuova.
I
principi orientativi del cd. “secondo Wittengstein”
sono la pluralità e la pragmaticità.
Il
linguaggio non è più visto come un insieme omogeneo di
proposizioni raffiguranti connessioni tra le cose del mondo, ma come una
molteplicità di “giochi” linguistici, ciascuno governato da sue “regole”.
Oltre
a sottolineare che il “gioco linguistico” vuole
mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di
un’attività, Wittengstein sottolinea che gli errori
filosofici dipendevano dalla mancata comprensione della corretta logica del
linguaggio[28].
La
consapevolezza della pluralità e della dinamicità dei fenomeni porta ad una
critica dell’essenzialismo filosofico: per Wittengstein
i filosofi parlano di “essere”, “sapere” cercando “l’essenza della cosa”;
compito dell’analisi è invece riportare le parole dal loro impiego metafisico
indietro al loro impiego quotidiano.
La
filosofia non può “intaccare” l’uso effettivo del linguaggio,
può soltanto descriverlo.
Wittengstein
afferma che il compito della filosofia è terapeutico, in
quanto la filosofia fornisce una visione chiara del fatto, dato che a
volte si tende “ad impigliarsi nelle proprie regole”[29]:
compito della filosofia è liberarci dei problemi filosofici.
L’ultimo
Wittengstein era stato sempre
attratto dai problemi della soggettività, della coscienza, dell’agire ed
in generale delle problematiche filosofiche.
La
visione dell’analisi come terapia è il suggerimento del secondo Wittengstein che venne più recepito
�e per un certo tempo restò
caratteristico dell’analisi di Cambrigde.
Ad
Oxford penetrarono negli anni Venti le idee di Russell
e Moore, ma il tentativo di creare uno stile
analitico originale va legato al nome di Gilbert Ryle[30].
Il
lavoro di Ryle può essere descritto
come una precisazione e uno sviluppo dell’analisi concettuale.
In
base alla teoria di Kant le categorie sono sistemi di
raggruppamento dei concetti puri; Ryle precisò la
nozione di “errore” logico-linguistico introducendo la nozione di “errore categoriale”: si applica un concetto di una categoria ad un
concetto di una categoria diversa.
Secondo
Ryle questi errori non sono propriamente
“filosofici”, ma fanno anche parte del comune senso di esprimersi e di pensare.
La
più nota[31] applicazione di queste
intuizioni mostra come l’idea cartesiana della mente umana come “fantasma della
macchina” si debba all’errore categoriale
di attribuire una natura sostanziale a ciò che è solo disposizione e
comportamento.
Secondo
Ryle compito della analisi
filosofica� non è soltanto quello di
smascherare questi errori, ma anche quello di ricostruire le “geografie concettuali”
che danno forma al nostro linguaggio.
L’aspetto
correttivo-terapeutico dell’analisi viene meno in Austin[32].
Nel
secondo dopoguerra per un breve periodo Austin[33]
diventa la figura dominante della filosofia analitica inglese e addirittura dà
alla filosofia di Oxford una impronta del tutto nuova.
La
novità dell’impostazione di Austin
consiste nell’atteggiamento positivo nei confronti del linguaggio ordinario:
non si tratta di correggerlo o tradurlo in una lingua perfetta ma semplicemente
capirlo, capirne il funzionamento e soprattutto farne affiorare l’intrinseca e
naturale chiarezza.
Occorre
in filosofia anzitutto comprendere la varietà e la complessità della lingua di
cui ci serviamo e per questo Austin
presenta il metodo lessicografico[34],
consistente nell’elencare tutti i termini che riguardano un certo problema
teorico-filosofico, quindi vederne le definizioni, riscontrare affinità e
differenze, fino al raggiungimento di “agglomerati convenienti”.
L’analisi del linguaggio non è certo l’ultima parola in
filosofia, ma sicuramente è la prima, nel senso che è il primo passo che
dovremmo� compiere per avviare la
soluzione dei problemi filosofici.
La
teoria di Austin che ha
avuto maggior successo è la teoria degli atti linguistici, preparata dalla
scoperta della distinzione performativo/constativo.
Austin
scopre innanzitutto l’esistenza di enunciati
performativi, che cioè “fanno” qualcosa, non “dicono” qualcosa; in secondo
luogo Austin avanza l’ipotesi dell’esistenza di una
parte performativa in ogni enunciazione; infine rinuncia a tale ipotesi,
scoprendo, piuttosto, una prospettiva di indagine, ossia la possibilità di
indagare il linguaggio in termini di “atti” linguistici.
Con
questa teoria[35] Austin
si inserisce nella generale svolta verso la visione
pragmatica del linguaggio che interessa tutta la filosofia analitica del
secondo dopoguerra.
Le
intuizioni di Austin aprivano
la via ad una feconda linea di ricerca, poi seguita da Paul
Grice[36] e
dall’americano John Searle[37].
Grice� si concentrò sull’atto comunicativo nella sua
interezza, definito in termini di “conversazione”, valutato dal punto di vista
dei principi normativi (massime) che ne orientano� la riuscita e nella prospettiva di ciò che è
implicato in ciascun proferimento o dei significati intenzionali[38].
Searle
tentò invece una sistemazione della teoria austiniana.
Lo
spostamento dell’accento sulla praticità, sull’azione� e sulle implicature
inespresse degli atti comunicativi, allargava però l’ottica di
indagine e riportava l’attenzione sulle componenti mentali o
intenzionali o soggettive dell’enunciazione, favorendo, all’interno dello
stesso paradigma degli atti linguistici, una ripresa di temi psicologici e di
filosofia della mente[39].
E’
una esigenza avvertita soprattutto da Searle, che vivendo nella comunità scientifica americana
era molto presto indotto a confrontarsi con la rivalutazione degli aspetti
psicologici o addirittura mentali del linguaggio.
Altro
percorso invece veniva inaugurato da Peter F.Strawson[40], uno
dei maestri della filosofia analitica contemporanea.
Strawson
è stato allievo di Ryle e di Austin.
Strawson
mira anzitutto a una considerazione del linguaggio che
ne metta in luce gli aspetti pratici e la contestualità.
Su
questa base critica la teoria di Russell: gli
enunciati sono dotati di significato, ma non sono né veri né falsi, perché
verità e falsità riguardano asserzioni, ossia gli usi effettivi degli enunciati
in determinati contesti.
Strawson
è interessato al chiarimento delle strutture concettuali di cui ci serviamo per
descrivere la realtà e richiamandosi a Kant chiama
“metafisica” tale analisi[41].
Esistono
metafisiche descrittive, che cioè si limitano soltanto
a chiarire le connessioni che di fatto il nostro linguaggio stabilisce tra
concetti e metafisiche correttive o revisioniste, che propongono varie
modifiche di tali connessioni.
Strawson
dà un saggio di metafisica descrittiva, esaminando il modo in cui normalmente pensiamo lo spazio, il tempo e gli individui che abitano il
continuo spazio temporale.
La
connessione di analisi e metafisica è ribadita ancora
nel 1992[42] riprendendo idee già
presentate nel discorso del 1958, suggerendo che il lavoro analitico debba
essere concepito come il lavoro di ricostruzione di una grammatica a partire da
una lingua vivente.
In
America il neopositivismo intrecciò abbastanza presto legami fecondi con il
pragmatismo[43].
Canap, Neurath ed il pragmatista Charles
Morris[44] inaugurarono nel 1936 a Chicago la serie di volumi
monografici “International Enciclopedia of Unified Science”.
La
specifica combinazione di attenzione all’empirico e
interesse per la logica di cui era portatore il neopositivismo era comune anche
allo stile filosofico di molti pragmatisti, a cominciare da Charles
Sanders Peirce[45], la
cui impostazione era molto vicina al lavoro dei filosofi analitici inglesi ed
austro-tedeschi.
Due
autori furono soprattutto determinati nel formarsi delle premesse della
filosofia analitica americana: il pragmatista C. I. Lewis
ed il neopositivista Carnap.
La
prospettiva filosofica di Lewis[46] trae
spunto da un tentativo di articolare pragmatismo ed
empirismo e si deve a lui una interpretazione pragmatica “dell’a priori
kantiano” basata sulla intuizione che ciò che è a priori è necessario, non
perché obblighi la mente ad accettarlo, ma precisamente perché non l’obbliga
affatto; il necessario dell’a priori si oppone a “contingente”, non a
volontario o a “libero”.
Carnap tentò
di ricostruire i fondamenti della conoscenza apertamente
ispirato all’atomismo logico di Russell[47] e
sviluppò le implicazioni filosofiche e metafilosofiche
del formalismo in logica[48].
Se
il primo studio era un completamento dell’atomismo di
Russell, il secondo era una operazione
simile a quella del Tractatus ma, a differenza di Wittengstein, Carnap insisteva
sulla convenzionalità delle forme linguistiche e formulava perciò un “principio
di tolleranza”: compito della filosofia non è evitare o correggere certe
espressioni e formulazioni, ma imporre una esplicitazione
delle scelte concettuali e linguistiche che stanno alla base di ogni singola
pratica di ricerca[49].
Questa
impostazione naturalmente portava a una prima
attenuazione dei presupposti teorici del Circolo di Vienna e ad un certo
ridimensionamento del ruolo della conoscenza empirica nella determinazione del
significato.
In
verità però il principale protagonista della filosofia analitica americana è
stato W. Van Orman Quine[50].
Del
1948 e del 1951 sono i due saggi forse più famosi e citati di Quine, rispettivamente “On What There is” e “Two
Dogmas of Empiricism”: nel
primo riprendeva la teoria delle descrizioni di Russell
dandone una interpretazione del tutto nuova, tendente
a sottolineare come per suo tramite è possibile evidenziare gli “impegni
ontologici” che sempre sono implicati nel linguaggio e tenerli sotto controllo;
nel secondo discuteva alcuni presupposti dell’epistemologia neoempiristica .
Il
suo lavoro esemplifica perfettamente le tensioni interne ma anche le
opportunità dell’impostazione propriamente analitica in filosofia.
La
sua epistemologia non lascia intatto quasi nulla del credo empirista,
diventandone nondimeno la sua reinterpretazione più
innovativa ed originale.
La
sua ontologia nasce dall’analisi logica e culmina nelle scienze naturali,
considerate le vere responsabili della risposta alla domanda ontologica ed infine
in una concezione quasi-ermeneutica della lingua
naturale, intesa come linguaggio teorico di sfondo in cui si dà la possibilità
di un confronto tra le diverse ontologie[51].
Nel
corso degli anni Settanta[52] si
ha una avvertibile svolta.
Accanto
ai temi e metodi propriamente linguistici riemerge un interesse per le
questioni filosofiche tradizionali.
Di
tutte le scelte filosofiche degli anni precedenti resta
condiviso e comune a tutti i filosofi che si definiscono analitici lo stile: la
cura per il rigore argomentativo, per la
controllabilità razionale delle tesi proposte, per la chiarezza.
La
distinzione tra inglesi e americani a partire dalla metà degli anni Sessanta non
risulta più del tutto appropriata: le due grandi città
universitarie inglesi, Oxford e Cambrigde, in quegli
anni perdono le loro caratteristiche distintive e sempre più frequentemente i
filosofi inglesi terminano la loro carriera in America.
Due
pensatori esemplificativi di questa fase sono gli americani Donald
Davidson e John Rawls.
Davidson[53] nel suo modo di concepire la filosofia si può dire
che abbia proseguito l’impresa di decostruzione
critica del neoempirismo iniziata da Quine.
In
“On the Very Idea �of a Conceptual Scheme” del 1974 Davidson critica
quello che per lui è “il terzo dogma” dell’empirismo, ossia l’idea di “schema
concettuale”.
In
“Two Dogmas”[54] Quine aveva negato la distinzione tra analitico e
sintetico, ma secondo Davidson l’idea stessa di uno
schema concettuale� come struttura di organizzazione dei dati percettivi è una
premessa dogmatica.
Per
Davidson l’inizio della conoscenza sta nella intersoggettività, ossia nella sfera delle relazioni e
comunicazioni in cui ciascuno di noi utilizza i suoi pensieri per dare senso ai
pensieri degli altri.
Se dunque
Quine ritiene che l’accordo di base, che rende la
conoscenza possibile, stia nella “similarità delle reazioni nervose”, Davidson osserva invece che non c’è nulla che si possa
chiamare dato percettivo, evidenza, stimolazione nervosa, sinché
non esiste il pensiero e che il pensiero presuppone l’intersoggetività.
Mentre Davidson è filosofo del pensiero, invece Quine è filosofo dell’empiria.
John Rawls[55]
pubblica nel 1971 “A Theory of Justice”,
il libro che inaugura “un nuovo paradigma della filosofia politica”.
Rawls
rinnova la tradizione dell’etica in due sensi: dandole una base epistemologica
di tipo kantiano e rilanciando l’interesse per le indagini normative, in alternativa alle indagini metateoriche
e linguistiche degli anni precedenti.
Mentre
non esisteva una vera tradizione analitica di filosofia della politica,
nell’ambito morale dominavano la posizione di autori
come l’americano Stevenson[56] o
l’inglese Hare[57].
Rawls si
discosta dal problema del significato dei termini etici per rilanciare il
discorso tradizionale in materia etico-politica.
Proprio
per questo Rorthy considera Rawls
un filosofo post-analitico o anche non analitico.
Rilanciò
il contrattualismo sulla base della nozione di
“contratto ipotetico”, i cui contenuti sono stabiliti
in base ad un esperimento di pensiero: Rawls immagina
una situazione originaria in cui si debbano decidere i termini del contratto
per una società giusta ed immagina che i decisori siano all’oscuro di tutte le informazioni
rilevanti rispetto alla loro identità personale[58].
A
partire dal paradigma contrattualistico di Rawls si muove il pensiero etico-politico
di Thomas Nagel[59], che
articola stile e riferimenti analitici a temi, problematiche e impostazioni
filosofiche di fondo tipici di una parte
caratteristicamente europea della filosofia contemporanea.
La
filosofia analitica ha avuto una storia particolarmente fortunata anche in
Australia, anzitutto a Sidney sin dal 1927, con l’inizio dell’insegnamento John Anderson e a Melbourne, con
l’arrivo nel 1939 di George Paul
e Douglas Gasking, allievi
e seguaci di Wittengstein.
John Anderson [60] è
stato il caposcuola del cd. “naturalismo di Sidney”.
Influenzato
da Moore, lanciò una filosofia del tutto personale, di forte impronta anti-idealista,
empiristica, scientistica.
La
sua opera è una severa riduzione di complessità, basata sulla difesa di una
metafisica di estrema semplicità e di forte impegno
anti-relativistico.
Su
questo terreno ha attecchito a Sidney prevalentemente l’ispirazione empiristica
e logicista della filosofia analitica, mentre a
Melbourne Paul e Gasking
diffondevano con minore successo lo stile di Wittengstein:
la consuetudine delle analisi approfondite, l’estrema chiarezza delle
formulazioni, l’uso frequente di esempi, ma nessun
particolare impegno a� favore del
realismo e della scienza.
Negli
anni Cinquanta fu lanciata ad Adelaide la corrente del
“materialismo australiano”, la cui premessa di fondo è l’idea della necessaria
“plausibilità scientifica” delle teorie filosofiche che ha avuto come
principali esponenti U. T. Place
e J. C. Smart[61].
In
filosofia della mente questo si è tradotto in una versione forte del riduzionismo,
nota come “identity theory
of mind”, per la quale gli stati di coscienza sono
processi celebrali.
Tale
posizione e l’impostazione filosofica di Anderson[62]
hanno trovato ampi sviluppi in seguito in una serie di ricerche, che hanno
portato la filosofia australiana a una posizione di avanguardia in filosofia
della mente ed in metafisica.
In
Finlandia Eno Kaila[63], che
aveva seguito le vicende del Circolo di Vienna partecipando anche a qualche
riunione, importò le idee neopositiviste e preparò una lunga serie di filosofi
“analitici”: Von Wright e Stenius.
Il
lavoro di Von Wright si è
orientato soprattutto a questioni di epistemologia[64], di
logica filosofica, di etica e teoria dell’azione.
Meno
famoso in ambito internazionale, Stenius[65] ha
lavorato principalmente in logica ed in ambito matematico.
Nel 1981 Putnam scriveva che nel momento stesso in cui la filosofia
analitica sarebbe stata riconosciuta come movimento dominante� essa sarebbe giunta al termine del suo stesso
progetto[66].
Nel 1982 Rorty, ritenendo che la filosofia analitica trovasse il suo
culmine in Quine, nell’ultimo Wittengstein,
in Sellars e Davidson,� sosteneva che questo sarebbe equivalso a dire
che essa trascendeva e aboliva se stessa.
La
filosofia analitica degli anni Ottanta-Novanta è
caratterizzata da un doppio processo: da un lato si tratta di confrontare lo
stile analitico con altre pratiche filosofiche, vedendone i limiti ed i meriti;
dall’altro, si pone il problema della eventualità di
una fine della filosofia analitica come tale.
Gli
stessi Putnam e Rorty sono
tra i protagonisti di questa operazione di autochiarimento e autocritica, che coinvolge a titolo
diverso autori di disparate tendenze, come Roberet Nozich, Ian Haching,
Arthur Danto, Stanley Cavell.
Rorty[67] riprende la critica pragmatista della filosofia
“settoriale” contro la filosofia analitica tradizionale[68].
Successivamente mette a punto[69] una
visione fortemente critica e limitativa dei compiti della filosofia, una
visione al� cui centro è la tesi della
“superiorità della democrazia sulla filosofia”.
Questo
scetticismo nei confronti della filosofia come impresa razionale di soluzione
dei problemi dell’umanità è correlata a una evidente
antipatia di Rorty nei confronti della filosofia
analitica nella sua centralità.
Ciò
che Rorty sembra apprezzare della filosofia è il
libero esercizio letterario dell’intelligenza, non il lavoro della ricerca.
Anche Hilary Putnam[70] è
giunto all’esigenza di rinnovare il metodo analitico di derivazione
neopositivista ed in particolare la filosofia “ipnotizzata dai successi della
scienza”.
La
critica dello scientismo neopositivista è associata da
Putnam alla critica del relativismo.
Le
sue tesi più note nei suoi saggi riguardano il funzionalismo, la teoria causale
del riferimento, l’elaborazione della famosi ipotesi scettica
dei “cervelli in una vasca”[71] e
soprattutto quello che può essere considerato l’aggiornamento e� il ripensamento del tema del realismo.
L’obiettivo
dichiarato di Putnam[72] è
sempre stato quello di integrare l’epistemologia del suo maestro Quine con la considerazione del ruolo dei valori in ambito
cognitivo e la sua stessa filosofia del linguaggio è anche orientata a sottolineare l’intreccio delle componenti assiologiche e valutative con le componenti descrittive.
L’insistenza
sul primato della pratica che abbiamo visto affermarsi
anche in Rorty è peraltro un dato comune dei lavori sviluppati
in quegli anni[73].
A una
serie di tendenze antiteoriche va associata, ma su una linea divergente,
l’operazione di ripensamento del pragmatismo in una chiave hegeliana, una
tendenza promettente dell’attuale dibattito americano, i cui esponenti principali
sono Bernstein, Taylor, Rescher e Brandom.
Parallelamente
a questa opera di revisione critica, venivano
sviluppandosi tendenze in direzione opposta, ossia miranti a restaurare il
senso del lavoro analitico.
Queste
tendenze si sono accompagnate ad un lavoro di ripercorrimento
storico-genealogico e di autochiarimento: sulle origini austroinglesi
e/o mitteleuropee della filosofia analitica, sui rapporti tra il realismo
analitico ed il realismo della scuola fenomenologica,
sulla natura e le condizioni dello “stile” analitico in antagonismo con altri
stili filosofici.
Sono
stati impegnati in una impresa di questo tipo tre
autori oggi particolarmente attivi, che hanno stimolato nuove linee di ricerca:
Peter M. Simons, Barry Smith, Kevin
Mulligan.
Il filosofo che più autorevolmente ha reso riconoscibile questa operazione è
stato Michael Dummett[74].
Dummett è
stato ed è il pensatore di Oxford più influente
dell’epoca successiva ad Austin ed a Strawson.
Lui
stesso ha ricostruito il proprio percorso intellettuale, ricordando la propria
estraneità alla filosofia linguistica degli anni Quaranta -Sessanta in cui
dominavano le posizioni riduzionistiche di Ryle e il minimalismo anti-sistematico di
Austin.
Tuttavia
proprio Austin in quegli anni suggeriva ai propri
allievi la lettura dei “Fondamenti della matematica” di Frege
e fu l’incontro con questo ultimo a orientare il
lavoro successivo di Dummett, che si è occupato di
filosofia della matematica e della logica, ontologia e filosofia del
linguaggio.
Abbiamo
già accennato allo sforzo di Dummett nel ridefinire
le ragioni e le modalità della filosofia analitica;
ora si deve precisare che le decisioni di metodo da lui esplicitate sono alla
base di un lavoro sui fondamenti del linguaggio e del pensiero svolto nell’arco
di circa quaranta anni, a partire dai primi scritti di logica e filosofia della
matematica.
Secondo
Dummett[75],
come abbiamo visto, la filosofia analitica è una filosofia del pensiero, il cui
presupposto di metodo è che il pensiero vada indagato a partire dal linguaggio.
Il
compito ultimo della filosofia intesa in questo modo è secondo lui la messa a
punto di una teoria sistematica e generale del significato: è questa l’impresa
comune a cui tutti i filosofi dovrebbero applicarsi.
Dal
canto suo Dummett ritiene che una buona teoria del
significato dovrebbe correggere le idee di Frege con
le idee Wittengstein.
Da
Wittengstein occorre prendere l’idea del significato
come uso: comprendere il significato di una espressione
significa capire quando-come dobbiamo usarla; capire
dunque significa padroneggiare le condizioni di asserribilità.
Inoltre
nell’ottica di Frege capire
un enunciato significa sapere quando l’enunciato è vero o falso; ora questa
tesi si può conservare ma appunto correggendola nel senso dell’uso: “so se un
enunciato è vero o falso se so come verificarlo ed usarlo”.
La
massima importanza della mossa di Dummett, nel
riallacciarsi a Frege e alle sue teorie del pensiero
e del� senso, consiste nel fatto che in
questo modo veniva rilanciata l’idea di una koinè implicita al lavoro analitico, al di là delle molte
differenze di fatto ormai registrabili negli ultimi sviluppi della corrente
creata da Russell, Moore� e Wittengstein.
La
verosimiglianza della proposta di Dummett consiste
poi soprattutto nel fatto che come si è accennato esiste un certo evidente
legame tra i primi lavori analitici e quel che oggi fanno molti filosofi
contemporanei e tale legame riguarda tematicamente in
modo decisivo il “pensiero” anche se non sempre inteso nel senso anti-mentalista e linguistico voluto da Dummett.
Si
è parlato in effetti di una “svolta cognitiva” che
sarebbe sopraggiunta anzitutto nel cuore della filosofia linguistica.
Come
si è visto con Grice e Searle[76] il
recupero di una certa dimensione del mentale avviene in stretta continuità con
l’analisi linguistica, d’altra parte lo stesso lavoro di Ascombe negli anni Cinquanta-Sessanta
non si allontanava dalle premesse di metodo della filosofia linguistica, ma
spostava l’accento sulla dimensione dell’intenzionalità; in generale gli stessi
eredi di Wittengstein sono stati orientati a lavorare
su temi concernenti il pensiero.
Verso
la metà degli anni Settanta, inoltre, inizia a diffondersi l’inclinazione a
pensare che una teoria del significato che non dia conto delle competenze del parlante
e delle sue intenzioni ed evoluzioni sia in qualche modo insufficiente e si
presentano le prime ricerche orientate ad una “semantica cognitiva”[77].
I
progressi della scienza informatica in quegli anni e il programma lanciato da Turing, accanto ai progressi delle neuro
scienze, iniziano allora a delineare lo scenario che nell’ultimo decennio è
risultato evidente a tutti: l’emergere, proprio intorno ai temi di una
filosofia del pensiero, di una quantità davvero notevole di ipotesi di lavoro a
partire da connessioni interdisciplinari di vario tipo che hanno offerto nuovi
strumenti e nuove soluzioni per la elaborazione di problemi antichi.
Se la
filosofia del linguaggio era stata dominante nella fase centrale del secolo,
l’ultimo decennio segna la dominanza della mente.
E’
interessante notare che la contraddizione tra la filosofia dell’esperienza e
filosofia del pensiero è in buona parte risolta se si accetta l’idea che si possono indagare il pensiero o la mente con strumenti
empirici o sperimentali.
E’
questa una “grande svolta” nella scienza che si sarebbe
creata nell’ultimo decennio, in cui la filosofia analitica ha avuto
buone ragioni per ritrovarsi.
La
naturalizzazione del pensiero non è però una soluzione
conclusiva in ambito metafilosofico, nel senso che
rimane sempre una decisione da prendere circa il ruolo specifico della
filosofia rispetto alla psicologia e alle neuroscienze[78].
L’ipotesi
di un ruolo specifico ed autonomo della filosofia rispetto all’analisi del
pensiero ha infatti continuato ad essere sviluppata da
molti autori, con premesse metodologiche ed epistemologiche non lontane da
quelle che già distinguevano i primi lavori di Frege,
Russell e Moore.
In particolare due tendenze sembrano più direttamente rilevanti per sottolineare
la continuità del programma analitico: la tendenza neo-fregeana,
elaborata a grandi linee nella direzione consigliata da Dummett
e la tendenza neo-kantiana, che mira ad integrare nel programma della filosofia
del� “pensiero” quella parte della
tradizione analitica contrassegnata dalla definizione di tipo filosofico, che
l’ipotesi di Dummett tende a lasciare da parte.
Sulla
stessa linea di Dummett si pongono il lavoro di Wright[79] e
quello di Peacocke[80].
Tra
gli sviluppi della filosofia analitica del pensiero in senso neo- kantiano, va
ricordata la posizione di Evans[81].
Evans è
stato uno dei protagonisti e dei primi promotori della svolta neo-mentalista e neo-trascendentale.
La
sua tesi di fondo è il radicamento del pensiero nelle
contingenze empiriche del suo esercizio.
Egli
prosegue dunque la strada tracciata dalla tradizione del neokantismo,
ma con una accentuazione della empiricità
e della naturalità del pensiero[82].
Un
chiarimento riguardo a questa e ad altre problematiche ci proviene dai lavori
di un altro filosofo di Oxford, J. Mc
Dowell[83].
Il
suo punto di partenza è anzitutto un ripensamento dello scetticismo circa il
mondo esterno nella chiave di una critica del cartesianesimo.
L’immagine
di fondo dell’epistemologia moderna, dice Mc Dowell, è l’idea dello spazio
interiore e dunque del pensiero come qualcosa di distaccato dal mondo esterno,
mentre si può senz’altro adottare una visione per cui almeno alcuni pensieri
non sono pensabili in assenza degli oggetti su cui vertono.
Un
elemento nuovo nella filosofia analitica degli ultimi anni è stato il
particolare sviluppo della ricerca in ontologia e metafisica e si è
espressamente parlato di un “ontological turn”.
Forse
non è un caso che proprio l’ontologia sia stato il
tema dominante di una gran parte della tradizione europea negli anni della
maggiore distanza dalla filosofia analitica.
Il
ripercorrimento delle origini e premesse del lavoro
analitico in filosofia ed il confronto critico o terapeutico con la tradizione
continentale sembrano dunque pervenuti ad un obiettivo comune: la filosofia
analitica si avvia ad accogliere nuovi contenuti, rafforzando e chiarendo al
tempo stesso i propri presupposti di metodo.
Di fatto metafisica ed ontologia, in positivo ed in negativo, hanno avuto
un ruolo non secondario nella storia della filosofia analitica.
Quine[84] elaborava i risultati del testo fondamentale della
filosofia analitica, il saggio di Russell[85], in
modo da fare vedere come dall’analisi di Russell emergesse con evidenza l’idea che quando parliamo, in
generale, implichiamo l’esistenza di certe cose e neghiamo l’esistenza di altre
e proprio la scarsa chiarezza circa le nostre impegnative ontologiche può
generare disguidi e controversie.
Una idea
simile� era presente anche nel saggio di Strawson[86] che
a partire dallo stesso testo di Russell� notava altre connessioni tra analisi del
linguaggio e discorso sull’essere.
Come
si vede, il problema ontologico e/o quello metafisico� erano sempre stati
implicati nello sviluppo del lavoro analitico, in tutte le sue principali linee
di sviluppo, anche se in modo non sempre autoriconosciuto
ed �esplicito.
Forse
il primo autore che ha presentato una chiara e dettagliata rilevazione della
connessione tra il programma analitico ed il programma dell’ontologia
è stato Tugendhat[87], per
il quale la filosofia analitica si configura non come filosofia del pensiero-linguaggio,
ma come filosofia dell’ “oggetto”, ossia dell’essere.
Martin ed
Heil nell’ultimo decennio
[88]
hanno manifestato apertamente l’esigenza di collegare
il discorso analitico a questioni ontologiche e metafisiche.
3. Riferimenti alla
filosofia analitica del diritto
Per
quanto riguarda la filosofia analitica del diritto Mario Jori
nel recente “Manuale di teoria generale del diritto”[89]
scritto con Anna Pintore si
occupa del concetto di filosofia analitica alla voce “filosofia del diritto”,
sotto forma di una distinzione tra filosofie rispettivamente analitiche e
sintetiche che di per sé impone un confronto tra accostamenti analitici e no[90].
Il
confronto con le tradizioni di pensiero diverse da quella analitica
non va molto oltre questa opposizione: solo l’uso della locuzione “filosofie
sintetiche”, per connotare cumulativamente tutte le filosofie non analitiche,
rivela già che la distinzione è operata dal punto di vista della filosofia
analitica.
Questo,
si potrebbe già osservare, è un atteggiamento abbastanza caratteristico della
filosofia analitica italiana del diritto, che ne riflette la storia, passata e
recente.
La
particolare versione della philosophical analysis coltivata dalla filosofia analitica italiana del
diritto in questi quaranta anni risale infatti in gran
parte alla selezione di temi e strumenti compiuta da Uberto Scarpelli
negli anni Cinquanta[91].
Solo
recentemente, con la scomparsa di Scarpelli e
Giovanni Tarello e con l’affacciarsi di una terza
generazione di studiosi, il dibattito pare essersi allargato a scuole e autori
analitici diversi da quelli cari ai padri fondatori.
Ciò
ha prodotto un primo confronto con altre tradizioni di pensiero, come quella ermeneutica.
Jori
afferma che l’atteggiamento[92] filosofico
analitico è caratterizzato e definito dall’accoglimento di alcuni
principi o postulati filosofici, o almeno di alcuni di essi; si tratta
soprattutto dei seguenti principi o strumenti concettuali fondamentali: la
separazione tra giudizio sintetico e analitico; la “Grande distinzione” tra
discorsi descrittivi e prescrittivi; la distinzione tra discorsi e metadiscorsi; la distinzione tra concetto di controllo e
contesto di scoperta.
Potranno
essere considerate analitiche delle filosofie che respingano
uno o più di questi principi, ma certamente non potranno essere considerate
tali filosofie che non abbiano neppure considerato e affrontato i problemi
posti dai principi stessi.
Il
primo principio fondamentale caratterizzante la filosofia analitica sarebbe rappresentato dalla distinzione tra proposizioni analitiche
e proposizioni sintetiche: distinzione connessa a, ma anche diversa da quella
tra le filosofie omonime.
Tale
distinzione sembra apprezzata anche da Riccardo Guastini[93],
soprattutto per le sue connotazioni empiristiche.
Il
filosofo analista dovrebbe sostenere che solo l’esperienza empirica ci può dare
informazioni nuove sui fatti.
Il
secondo principio fondamentale sarebbe rappresentato
dalla cd. “Grande divisione” tra essere e dovere
essere, ovvero dalla distinzione tra discorso in funzione conoscitiva e
discorso in funzione normativa.
Una
distinzione analoga ha giocato un ruolo strategico nella teoria kelseniana del diritto e di qui è passata alla giusfilosofia analitica, in particolare a quella italiana, della quale costituisce una delle tesi più
qualificanti.
Il
terzo principio fondamentale sarebbe rappresentato
dalla distinzione tra linguaggio (oggetto) e metalinguaggio che verte sul
primo.
Si
tratta di distinzione connessa con la tesi per la quale il discorso filosofico
verterebbe su altri discorsi
Si
tratta di tesi capitale nella strategia filosofica del neopositivismo, in quanto consente alla filosofia di distinguersi dalla
scienza empirica conservando ciò nonostante un ruolo.
Il
quarto principio fondamentale sarebbe costituito dalla distinzione tra contesto della scoperta (sociologico) e contesto della
giustificazione (controllo).
Tra
i tanti parametri rispetto ai quali la definizione può essere valutata Barberis[94] dunque sceglie la sua adeguatezza a rendere conto della
filosofia analitica in genere e della filosofia analitica del diritto in
specie.
Certamente
Barberis ritiene che Jori
non pretenda dai possibili candidati alla qualifica di filosofo analitico
l’accettazione di tutti e quattro i principi elencati, ma la semplice presa in
considerazione di alcuni di essi.
La
definizione si presta evidentemente a essere
utilizzata per stabilire chi sia più vicino o più lontano rispetto al nucleo
concettuale della filosofia analitica[95].
Per
valutare più correttamente la definizione di Jori, Barberis invita a considerarla in
relazione alla sua capacità di adattarsi alla filosofia analitica del
diritto.
E’ infatti proprio nella filosofia analitica del diritto che
si sono conservate alcune delle tesi più risalenti del neopositivismo; ed è
proprio in questo ambito disciplinare�
che l’opzione pro e contro l’empirismo sembra fare la differenza.
Occorre
riconoscere che da questo punto di vista�
gran parte della giusfilosofia analitica
mondiale sembra adeguatamente descritta dalla definizione in questione.
Nel
caso della filosofia analitica italiana del diritto, in particolare, la
definizione in oggetto fotografa una situazione nella quale� per filosofia analitica si è inteso e si intende ancora, in gran parte, quel che intendeva Scarpelli negli anni Cinquanta.
Sembra
comunque prematuro concludere che questa particolare
versione sia più adeguata di altre all’analisi del diritto[96].
Barberis sottolinea che la definizione di Jori,
limitatamente alla filosofia analitica del diritto, funzioni e addirittura
afferma che essa forse ha il difetto di funzionare troppo.
La
definizione infatti tende ad “arruolare” tra gli
analisti tutti i giusfilosofi che hanno giocato un
ruolo importante in queste vicende, a prescindere dalle loro effettive opzioni
filosofiche.
La
definizione di Jori[97] riesce
a dare conto delle ragioni in base alle quali si considerano analisti i giusfilosofi che è usuale
etichettare così, ma non di quelle in base alle quali non possono considerarsi
analisti autori, quali Austin e Kelsen,
che possono al massimo considerarsi precursori della filosofia analitica
giuridica.
La
definizione di Jori secondo Barberis
appare difettosa proprio nell’unico aspetto sotto il quale essa funziona
davvero: ovvero nella sua adeguatezza a discriminare tra giusfilosofi
analitici e non.
Proprio
per questo lo stesso Barberis tende a preferire
la definizione di filosofia analitica di Dummett
[98]
.
4. La filosofia ermeneutica
Nelle
sue origini mitiche, come poi in tutto il seguito della sua storia,
l’ermeneutica[99] in
quanto esercizio trasformativo e comunicativo
si contrappone alla teoria come contemplazione di essenze esterne, non
alterabili da parte dell’osservatore.
E’
anzitutto a questa dimensione pratica che l’ermeneutica deve la sua
qualificazione tradizionale: hermeneutiké técne, ars interpretandi,
Kunst der Interpretazione: arte della interpretazione
come trasformazione e non teoria come contemplazione.
Ma la
derivazione da Hermes è una ricostruzione a posteriori.
Kerènyi,
che si è occupato della questione, lo mette in chiaro: hermenéia, parola e cosa, è alla base di tutte le parole
derivate dalla stessa radice.
La
radice ben può essere identica a quella del latino sermo.
Non
ha invece alcuna relazione linguistica semantica� - se non per somiglianza del
suono – “dio” da cui ancora prende spunto August Boeckh nella sua presentazione dell’ermeneutica filologica.
Vari
studiosi dimostrarono invece l’esattezza del loro greco quando resero hermenèia con elocutio e con verstàndlich machen.
Andarono
però ancora una volta più in là, quando equipararono con hermenèia la funzione degli exeghetài, la spiegazione delle cose sacre.
Kerènyi
affermava che nel senso originario della parola, hermenéia è l’efficacia dell’espressione linguistica, che oggi è a ragione considerata come l’alfa e l’omega
dell’ermeneutica.
Perciò Heidegger e Gadamer, sulla scia
delle tradizioni dell’Umanesimo e del Romanticismo, connettono l’esperienza
ermeneutica all’universo del linguaggio e del logos come
verbum e come sermo.
Ciò
è del resto confermato dagli usi di “interpretazione”[100] nel
linguaggio ordinario. Che si riferiscono sistematicamente a
prestazioni linguistiche come indicano le espressioni “farsi interpreti
di un sentimento”, “far da interprete” tra persone che parlano lingue diverse,
etc.
Soprattutto
in questi tempi risuona la duplicità dell’interpretazione connessa con la
funzione della glotta, che richiama sia la
comprensione sia l’espressione di un significato[101].
Esprimere
un significato è già una funzione ermeneutica, del resto non si danno
comprensioni tacite, in quanto il comprendere si
realizza solo allorchè il senso inteso si concretizza
in un linguaggio.
Ebeling
affermava che il significato del vocabolo va ricercato
in tre direzioni: asserire (esprimere), interpretare (spiegare) e tradurre
(farsi da interprete).
Non
si tratta di stabilire quale sia, linguisticamente e
storicamente, il significato prioritario, ma si tratta delle modificazioni del
significato fondamentale di “portare alla
comprensione”, di “mediare la comprensione” rispetto ai differenti modi di
porsi del problema del comprendere.
Tra
i vari ambiti in cui si esercita l’interpretazione, elettivo ma non esclusivo
per l’ermeneutica è stato quello dei testi che hanno un valore canonico� per una comunità storica: religiosi,
giuridici, letterari.
Il
riferimento ai messaggi divini e la stessa natura di Hermes, dio o semidio, si
congiunge qui al problema dell’oscurità, e cioè al
fatto che l’interpretazione si esercita ovunque un velo si frapponga alla
comprensione di un messaggio.
Per
questo, sino alla fine del Settecento, abbiamo anche l’esempio di ermeneutiche che non si riferiscono soltanto a testi o a
discorsi in senso stretto e ristretto, ma interpretano ogni tipo di segno,
compresi quelli naturali (interpretatio naturae).
Interpretando
testi letterari, teologici, giuridici, oracoli o il libro della natura,
l’ermeneutica parrebbe presentarsi inizialmente come un’arte sussidiaria.
Così
che nell’Ottocento Dilthey ha potuto descrivere la
storia dell’ermeneutica come uno sviluppo che, da una base limitata e
sussidiaria (della teologia, del diritto, della letteratura), porta
l’ermeneutica sino ad una universalità propriamente
filosofica[102].
Non
bisogna però dimenticare che già in altri tempi della sua storia – molto più
dispersa e discontinua di quanto non sembri a prima vista – l’ermeneutica aveva
presentato in varie forme una pretesa di universalità.
Gli
ambiti “regionali” dell’ermeneutica non furono mai puramente settoriali e ciò
non solo in base all’argomento generalissimo dell’universalità del logos-linguaggio: i poemi omerici, oggetto della filologia
alessandrina, assolvevano una funzione normativa per la paideia e per la società greca, così che non si può parlare,
qui, di una esegesi puramente tecnica, tale cioè da
interessare soltanto una comunità ristretta di interpreti professionali.
Ciò
è ancora più evidente nel caso dell’ermeneutica religiosa: l’esegesi di testi
sacri, in una cultura come quella occidentale, segnata
per secoli da guerre di religione, non può certo intendersi come una pratica
erudita[103].
Che poi
l’ermeneutica giuridica non concerna soltanto i giudici, ma tutti i soggetti
giuridici, è un fatto del tutto evidente.
L’universalità
dell’ermeneutica contemporanea non va quindi intesa come l’estendersi di
pratiche originariamente regionali, ma, semmai come l’accesso ad un diverso
livello (che tuttavia intrattiene forti legami con l’antico).
La
portata esistenziale (e, attraverso ciò universale) dell’ermeneutica si
distacca dalla tradizione esegetica della teologia, del diritto, e della
filologia, ma conserva in sé ciò che era già acquisito per esse,
e che era già implicito nella portata pratica dell’hermenéuein, cioè nell’interpretare “ne va” delle decisioni
storiche ed esistenziali di soggetti e comunità.
Analogamente,
l’idea dell’ermeneutica come formazione�
del ruolo costitutivo del logos, in
Heidegger e poi sistematicamente in Gadamer, si riconnette, come si è visto, all’idea antica
dell’hermenéia come sermo e come verbum.
E’
l’esplicitarsi di questi presupposti a costituire la pretesa di
universalità nell’ermeneutica contemporanea: “ermeneutica filosofica” in
base a ciò non significa interpretazione di testi filosofici, ma appunto
imporsi dell’interpretazione come questione fondamentale della filosofia.
Secondo
l’esperienza della realtà che�
l’ermeneutica� porta in luce, noi siamo immersi in un flusso di linguaggio, in un insieme “linguistico-temporale”[104].
L’essere
che è tempo-linguaggio infatti non si svolge di fronte
a noi, ma è ciò in cui noi stessi siamo collocati e noi stessi ne accogliamo e
trasmettiamo le voci.
Questo
significa, nei termini di una teoria dell’esperienza, che non incontriamo mai
“le cose” in modo immediato, ma abbiamo sempre un certo numero di informazioni preliminari, pregiudizi, attese su di esse,
se non altro, perché possediamo un linguaggio ed il linguaggio determina, preorienta il nostro giudizio sulla realtà.
Il
comprendere dunque qualcosa che già conosciamo non è paradossale per la
circolarità naturale del comprendere, che si concretizza
in un procedere necessario dal già compreso al compreso e viceversa.
Interpretare
significa muoversi in questa circolarità, riportando la conoscenza delle parti
alla comprensione del tutto e viceversa, riportando alla nostra precomprensione[105]
della cosa l’esperienza effettiva e misurando i limiti della nostra precomprensione.
Il
circolo ermeneutico è così il principio basilare che
guida la logica dell’esperienza ermeneutica e la differenzia dalla logica della
conoscenza tradizionale, che solo di recente ha iniziato a cogliere nella
circolarità del conoscere una realtà a certe condizioni inevitabile, o anche
un’eventualità positiva e ha smesso di considerarla un
errore.
Se
è vero che l’essere-linguaggio è fatto di messaggi che si muovono nel tempo, si
tramandano e si interpretano, allora anche il nostro
interpretare è un evento che accade nel tempo e a partire da ciò che ci è
offerto dal tempo: dunque è condizionato dal contesto storico, è relativo, è
transitorio.
Inoltre
noi apparteniamo a quell’orizzonte storico-linguistico su cui si esercita il nostro
interpretare, dunque non possiamo mai averne una comprensione esaustiva, né
possiamo pretendere di conoscerlo interamente nella sua totalità.
L’ermeneutica
di oggi si caratterizza per i seguenti requisiti:
a)linguisticità e temporalità dell’essere da cui procedono
la relatività e �la transitorietà della
comprensione e la nozione di verità come interpretazione; b)appartenenza del
soggetto al proprio ambito di indagine, da cui procedono le nozioni di precomprensione
e di circolo ermeneutico; c)alterità
e diversificazione delle cose da interpretare e degli esseri interpretanti,
mai integrabili nell’omogeneità di un tutto compiuto e descrivibile;
d)riapertura del programma filosofico tradizionale, ma su nuove basi, al di
là dell’idealismo e del positivismo e contro la visione della filosofia
come sapere totale ed oggettivo.
I
tempi per una prima innovazione erano ormai maturi.
Se
nel 1654, nella prima opera moderna in cui il termine “ermeneutica” ricorre già
nel titolo dell’opera stessa[107], lo
studioso tedesco J.K. Dannahauser definiva l’ermeneutica “l’arte della retta
interpretazione delle sacre scritture”, nel 1742 un altro studioso tedesco, Martin Chaldenius[108],
dedicava un intero trattato alla problematica della “interpretazione”,
riferendola non solo e non tanto ai testi sacri quanto ai “discorsi e scritti
ragionevoli”.
Oltre
che risultare così laicizzata, l’ermeneutica veniva
vista come un’arte universale di comprensione delle cose attraverso le parole.
La
seconda e più importante fase nella vicenda dell’ermeneutica moderna coincide
col suo organico inserimento in una riflessione sul linguaggio, la storia ed il
sapere.
E’
qui che assume un ruolo di grande rilievo Schleiermacher.
Per
il grande filosofo-teologo tedesco l’ermeneutica è
l’interpretazione dei testi latu sensu linguistici.
Tale
funzione assume un ruolo filosofico centrale in quanto
il linguaggio costituisce per il pensiero romantico l’essenza costitutiva
dell’agire espressivo dell’uomo.
Inoltre
l’ermeneutica acquista una nuova consapevolezza storica meta-soggettiva.
In
effetti, nella misura in cui il linguaggio viene
concepito come una realtà dinamico processuale, i testi vanno interpretati con
lo sguardo rivolto alle loro genesi e sviluppi.
Ciò
implica l’oltrepassamento non solo della dimensione
strettamente fattuale-presenziale del testo, ma anche
di “chi” soggettivamente lo ha creato.
Uno
dei compiti, apparentemente sconcertante, dell’ermeneutica è di capire uno
scritto anche al di là delle intenzioni del suo
autore, cioè nel senso di cogliere il Senso al di là del soggetto che lo ha enunciato.
Un
ulteriore fondamentale approfondimento della prospettiva ermeneutica si
registra in Dilthey[109].
Tra
la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dunque in piena crisi
epistemologica della filosofia, Dilthey[110]
specificò l’oggetto ed i metodi delle “scienze dello spirito”, ovvero “le
scienze della società e della storia”.
La
differenza tra scienze della natura e scienze dello spirito, notò Dilthey, è che mentre nel primo caso soggetto ed oggetto sono distinti, nel secondo l’essere indagante coincide in
parte con l’essere indagato, ovvero si appartiene alla storia ed alla società
che si studiano.
Da
questa differenza di oggetto consegue una fondamentale
differenza di metodo: il procedimento delle scienze della natura è la
spiegazione, il procedimento delle scienze dello spirito è la comprensione.
Le
“cose del mondo dello spirito” sono il frutto di una esperienza
vissuta e per comprenderle si deve rivivere l’esperienza che le ha originate.
Poiché
ogni esperienza è irripetibile e singolare, il rivivere
l’esperienza porterà a fare una nuova esperienza.
Questo
incontro e sovrapposizione di�
esperienza vissuta è secondo Dilthey il
procedimento di interpretazione.
In
Dilthey dunque si afferma la tesi dell’appartenenza
del soggetto al proprio ambito di indagine e quindi si
suppone la partecipazione del soggetto alla costituzione dei propri oggetti di
esperienza, ma anche si implica che il procedimento interpretativo approdi
sempre a risultati singolari, non del tutto universalizzabili; si amplia
l’ambito di operatività dell’ermeneutica dal testo a tutte le opere dello
spirito.
Pur
essendo molto fiducioso circa la possibilità di determinare “scientificamente”
l’ambito ed il metodo delle scienze dello spirito, Dilthey
introdusse due considerazioni limitative, che caratterizzano l’ermeneutica
successiva: la prima è il circolo, inteso come richiamarsi reciproco di parte e
tutto nella comprensione dei testi.[111]
La
seconda limitazione è correlata alla nozione di “coscienza
storica”: la coscienza di appartenere alla storia limita ogni pretesa di
comprendere il processo storico nella sua totalità e interezza.
Martin Heidegger[112]
nella sua opera principale “Essere e tempo”
effettua
due passaggi principali rispetto alle posizioni di Dilthey[113].
�Il primo consiste nel fatto che la
comprensione interpretativa non è più soltanto la procedura propria delle
scienze dello spirito, ma definire il modo fondamentale in cui l’uomo è nel
mondo.
Il
secondo consiste nel fatto che il circolo ermeneutico
non è più un limite, ma un’opportunità positiva.
Quanto
al primo passaggio, si tratta di un ulteriore
allargamento della prospettiva ermeneutica rispetto a Dilthey,
ma anche, più profondamente, di uno scambio di prospettiva: l’interpretazione
ora acquista un senso ontologico, non ha più soltanto un valore “metodologico”,
“conoscitivo”; essa non riguarda più tanto la conoscenza dell’uomo, ma il suo
essere.
L’Esserci,
ovvero l’uomo, è secondo Heidegger quello specifico
ente che si pone il problema dell’essere, è l’ente la cui peculiarità ontologica
consiste nel porre la questione dell’essere.
Ne
consegue che il modo in cui tale questione viene posta
e affrontata non è accessorio, ma definisce l’Esserci in senso profondo: e tale
modo è appunto la comprensione interpretativa.
Il
secondo passaggio ha come conseguenza importante la divaricazione tra
ermeneutica e scienza, o sapere scientifico, che è stata
una delle caratteristiche del movimento ermeneutico e
uno degli argomenti più frequentemente dibattuti.
Heidegger
estende la nozione di circolo ermeneutico, per lo
stesso motivo per cui estende la nozione di
comprensione interpretativa e teorizza apertamente il concetto di precomprensione[114].
L’interpretazione
è lo sviluppo della comprensione, ossia lo svolgimento delle attese, pretese,
precognizioni, speranze, che sempre abbiamo sulla
cosa, nell’incontro con la cosa stessa.
Dunque
l’interpretazione è circolare: si tratta sempre di ritornare al precompreso per articolarlo al compreso.
Ora
Heidegger mette espressamente il circolo in
opposizione e in alternativa alla non circolarità del
sapere scientifico: “il procedimento dimostrativo scientifico non può
incominciare con il presupporre ciò che ci si propone di dimostrare”, dunque il
circolo ermeneutico è una procedura inaccettabile dal
punto di vista scientifico; tuttavia evitarlo significa “fraintendere la
comprensione da cima a fondo” e privarla di una sua caratteristica opportunità.
Ora,
se la comprensione è il conoscere “più originario” e se il circolo non è un
limite ma una forza del pensiero, questo significa che c’è un certo primato
della comprensione sulla spiegazione, del sapere storico-ermeneutico
sul sapere scientifico: la comprensione interpretativa è il tratto distintivo e
fondamentale dell’essere dell’uomo, la spiegazione scientifica ne è una variante per così dire interna, più ristretta.
Nella
fase successiva a “Essere e tempo”, Heidegger effettua due passaggi ulteriori: precisa la nozione di
“comprensione interpretativa” in senso anti-umanistico ed afferma l’identità di
essere e linguaggio e dunque la natura linguistica dell’esperienza ermeneutica
in cui consiste l’incontro con l’essere[115].
L’Esserci
non dispone della partecipazione della precomprensione che lui stesso ha delle cose.
Noi
non controlliamo né costruiamo le nostre anticipazioni di senso.
Esse
ci sono date e dispongono di noi, ben oltre le nostre
decisioni al riguardo.
E’
vero che le cose stanno nel progetto dell’uomo, fanno sempre parte di un
orizzonte interpretativo già dato.
Ma
“chi� getta, nel progettare”, dice Heidegger,[116] è
l’essere stesso: è lui che decide il destino dell’uomo, è colui che dispone
dell’uomo.
Qui
si opera un decisivo oltrepassamento della
prospettiva di Dilthey, che ora appare ancora
“soggettivistica”, “umanistica”, legata al punto di vista dell’uomo come centro
e dominatore dell’essere.
L’essenziale
non è l’uomo, ma l’essere.
L’appartenenza
dell’uomo all’essere, nucleo centrale della comprensione interpretativa, è dovuta al fatto che l’uomo abita nell’essere, non lo crea,
né lo “costituisce”, né può semplicemente guardarlo o descriverlo: l’essere è
il luogo entro il quale l’uomo è collocato.
Il
mezzo attraverso il quale si fa udire la voce dell’essere
è il linguaggio, “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella dimora data dal
linguaggio abita l’uomo”[117].
E’
questo il passaggio costitutivo dell’ermeneutica contemporanea: Gadamer radicalizzerà questa
posizione affermando senz’altro che la precomprensione
è la stessa familiarità che possediamo con i nomi delle cose; comprendiamo le
cose in quanto stiamo nel linguaggio, entro il quale soltanto
le cose ci possono apparire come tali, come “cose”.
Un
ultimo punto del pensiero heideggeriano va
considerato con attenzione, perché intorno ad esso si
è concentrata una parte sostanziosa del dibattito contemporaneo sull’ermeneutica
e la sua problematicità ha dato luogo ad interpretazioni divergenti.
Si
tratta dell’oltrepassamento della metafisica.
Heidegger
ha sempre cercato nella sua opera una ontologia
diversa dalla ontologia tradizionale, che ha “dimenticato l’essere” a favore degli
enti e ha concepito l’essere stesso nella forma della presenza di una cosa
posta di fronte ad un soggetto conoscente.
All’epoca
di “Essere e tempo” Heidegger vide nell’ermeneutica
un modo di impostare il problema dell’essere alternativo a quello della
filosofia tradizionale, ma poi lasciò questa ipotesi,
perché l’orizzonte ermeneutico gli appariva ancora
segnato da quella riflessività della coscienza che aveva attraversato le ultime
versioni della metafisica.
Ma
abbandonando l’ermeneutica, Heidegger finì per
abbandonare la stessa filosofia, il suo pensiero andò assomigliando sempre di
più alla poesia ed egli stesso teorizzò la fine della filosofia come risultato
della fine della metafisica.
Il
contributo dato da Hans Georg
Gadamer[118]
all’ermeneutica contemporanea è stato decisivo.
Le
tesi essenziali dell’ermeneutica come filosofia sono
state da lui fissate nel suo libro più importante,”Verità e metodo”[119].
Gadamer
si riallaccia espressamente ad Heidegger
ed approfondisce la teoria dell’esperienza ermeneutica da lui abbozzata in
“Essere e tempo”.
Stabilisce
una distinzione e quasi una contrapposizione tra sapere ermeneutico
e sapere scientifico: il primo si differenzia dal secondo perché è un sapere
“extrametodico”.
Un
sapere metodico si può ricostruire nei dettegli e se
ne può dare conto in ogni passaggio; un sapere metodico si può “insegnare”,
dall’inizio alla fine.
Un
sapere extrametodico è invece basato su facoltà e
sensibilità, il cui operare non è del tutto ricostruibile, come il gusto, il
genio, il tatto.
Per
capire di quale sapere si tratti, occorre rivolgersi
all’esperienza estetica, alla conoscenza storica.
Nell’incontro
con una opera d’arte noi sperimentiamo alcuni fenomeni
che sono del tutto estranei alla conoscenza scientifica.
Per
Gadamer l’opera d’arte non è un oggetto che si contrapponga ad un soggetto; nell’incontro con l’opera noi
siamo sedotti, presi e spossati, siamo presi in un gioco che ci supera e che
dispone di noi; la vera essenza dell’opera è infatti trasformare chi la
incontra: la verità che incontriamo nell’arte ci trasforma, è una verità che
non ha nulla a che vedere con la verità scientifica, prefigurata e predescritta
dalla metodologia[120].
Da
questa prima delineazione dell’esperienza ermeneutica come esperienza estetica
appare una precisa visione di quel che è l’orizzonte preliminare in cui si
muove la riflessione gadameriana.
L’uomo
per Gadamer è lo “spirito mediatore” che fa parlare
le opere, le cose del mondo.
Ma questo
dare voce non è un costituire, né una creazione dell’immaginazione produttiva.
L’uomo
nel mondo è giocato, rapito, “costituito” da verità che lui stesso contribuisce
ad evocare; il soggetto umano è in certo senso al
servizio della cosa, perché la cosa possa esprimersi.
Vediamo
così rovesciata la posizione del soggetto della metafisica e della
scienza-tecnica: non è l’uomo a disporre delle cose,
ma sono le cose che dispongono di lui.
Si
è parlato di una certa inclinazione “alchimistica” della posizione di Gadamer ed in particolare di un “certo primato
dell’oggetto” nell’heideggerismo, ma in realtà
l’universo ermeneutico è un universo del tutto
particolare, caratteristico di una civiltà della lettura, della scrittura,
della storia e dell’arte; ed è questo l’orizzonte che l’ermeneutica e lo
storicismo considerano proprio dell’epoca presente, dominata dalla “coscienza
storica”.
Per
quanto riguarda il lavoro della interpretazione, Gadamer interroga l’esperienza storica.
Le
teorie della precomprensione e del circolo ermeneutico di Heidegger servono
a Gadamer anzitutto per prendere le distanze dall’ “oggettivismo” dello storicismo: questo ultimo ha
riconosciuto lodevolmente la storicità dell’oggetto storico, ma ha dimenticato
di rilevare la storicità del soggetto della storiografia.
Se Heidegger aveva parlato della precomprensione
che anticipava la nostra comprensione della cosa, Gadamer
parla senz’altro di pregiudizi che gravano sulla nostra visione dei fatti
storici.
Il
termine “pregiudizio” ha una eccezione negativa, ma
per Gadamer occorre rivalutarlo, perché i pregiudizi
sono ineliminabili e presumere di non averne significa rimanerne più significamene
vittime e prigionieri anche �perché i
pregiudizi sono in realtà le condizioni del nostro incontro con la realtà, sono
il pre-giudicare ed il pre-vedere che orientano il nostro giudizio ed il nostro
sguardo[121].
Uno
stesso tipo di operazione trasvalutante
va fatta, secondo Gadamer, nei confronti del concetto
di tradizione.
Tutto
il lavoro di interpretazione, così come è� concepito e descritto da Gadamer,
consiste in un dialogo con la tradizione e in una procedura di autocritica e al
contempo di messa in opera dei pregiudizi.
Lo
sviluppo effettivo della interpretazione è poi
caratterizzato da Gadamer in base a quattro
categorie: la differenza temporale, la storia degli effetti, la coscienza della
determinazione storica, la fusione di orizzonti.
Esse
servono a specificare la caratteristica diffusività
del dato ermeneutico e il modo corretto di concepirlo
e di accoglierlo.
Tutte
queste cose che si offrono alla esperienza ermeneutica
sono il linguaggio[122].
In quanto
linguaggio l’essere si offre alla comprensione in quanto Gadamer
ritiene che l’essere che può essere compreso è linguaggio.
“Linguaggio”
può però volere dire molte cose.
Si
può trattare logicamente, “linguisticamente”, scientificamente,
filologicamente, retoricamente
il linguaggio, lo si può intendere in molti modi.
Gadamer
in “Verità e metodo” delinea la visione ermeneutica
dell’esperienza linguistica.
Il
linguaggio è intrascindibile, perché ogni critica del
linguaggio, in quanto proferita e formulata in parole,
resta all’interno del linguaggio.
In
secondo luogo, c’è una naturale indissolubilità di parola e cosa.
Infatti è
impossibile concepire una esperienza prelinguistica
pura perché l’esperienza umana è sempre strutturata linguisticamente
e imparare a parlare significa imparare ad avere esperienza del mondo,
l’esperienza dell’essere cresce e si costituisce con l’essere del linguaggio.
In
terzo luogo� possiamo concepire il mondo
essenzialmente perché possediamo un linguaggio: di questo ci serviamo per
trascendere il qui e ora dell’esperienza.
Infine
per Gadamer noi non governiamo realmente la lingua di
cui ci serviamo, in quanto la dimentichiamo nell’atto
di farne uso ed è piuttosto lei stessa che dispone di noi.
Gadamer
compie dunque un passo essenziale sulla via tracciata da Heiddeger:
il linguaggio non è uno strumento di cui disponiamo, ma se mai il luogo in cui abitiamo: non c’è una esperienza anteriore al linguaggio,
come non c’è un altrove dal linguaggio; non c’è un mondo distinto dal
linguaggio, non c’è un volere dire umano che realmente anticipi e governi il
linguaggio.
Questa
natura di “luogo totale” assunta dal linguaggio fa sì che� non esista né sia propriamente assumibile un
punto di vista esterno a partire dal quale valutare il linguaggio nella sua
totalità.
Poiché
stiamo nel linguaggio, è impossibile averne una visione completa e definitiva:
se si esamina ciò a cui apparteniamo il nostro lavoro sarà infinito.
Questo
ultimo è come si è visto un principio essenziale dell’ermeneutica a partire da Dilthey: la specificità di Gadamer[123]
consiste nel ricondurre l’incompiutezza della conoscenza storica alle sue
radici linguistiche, alla elementare esperienza umana
del linguaggio del mondo.
In
“Verità e metodo” l’esperienza ermeneutica si contrappone alla
esperienza scientifica, in quanto portatrice di una nozione
“extrametodica” di verità.
Il
problema rappresentato da questa contrapposizione non va sottovalutato perché
in esso è in gioco la stessa identità epistemologica
dell’ermeneutica.
Gadamer
afferma in vari scritti la continuità dell’ermeneutica con l’impresa filosofica
tradizionale, sottolineando come nella idea
ermeneutica del linguaggio sia da vedersi una sopravvivenza della nozione greca
del logos, ribadendo l’estraneità ed anche l’avversione
dell’ermeneutica per la riduzione della filosofia a epistemologia presente nel
positivismo, ma anche nell’idealismo.
La
tesi conclusiva di Gadamer è che l’ermeneutica può
costituirsi come una metodica universale, può dare il suo giudizio in ambiti
che eccedono la conoscenza storica, l’estetica, la storia e la filosofia del
diritto, costituendosi come phronesis, saggezza pratica, nel senso teorizzato da
Aristotele.
La
peculiarità del punto di vista ermeneutico, secondo Gadamer, consiste anzitutto in una maggiore aderenza alla
concretezza dell’esperienza linguistica, dalla quale provengono due conclusioni
estranee alla dialettica hegeliana: la dialettica ermeneutica è il semplice
contrapporsi di domanda e risposta che caratterizza la dialettica dialogica di
Platone e Socrate, non ammette una sintesi o una qualche fase conclusiva che
non sia l’apertura a nuove domande; l’ermeneutica non crede possibile fornire
una visione del processo storico nella sua interezza perché “essere storico
significa non poter mai risolversi in auto-trasparenza”.
Altro
importante esponente della filosofia ermeneutica è stato Luigi Pareyson[124].
Iniziatore
dell’ermeneutica filosofica contemporanea, in una certa misura ne ha anticipato
le tematiche principali sin dagli anni Cinquanta,
indipendentemente da Gadamer e Ricoeur[125].
La
filosofia di Pareyson si sviluppa �secondo il giudizio dello stesso autore, in
tre fasi distinte.
La
prima è caratterizzata dalla messa a punto di una
prospettiva originale, all’interno dell’esistenzialismo al cui centro è l’idea
di “persona”.
Il
punto di arrivo di questa fase è rappresentato dai
saggi di “Esistenza e persona”.
La
seconda fase si colloca nel trentennio 1950-1980, ed è caratterizzata da
prevalenti interessi estetici e dalla formulazione di una ontologia
dell’inesauribile che è restata a lungo la cifra del pensiero pareysoniano[126].
La
terza fase si colloca negli ultimi dieci anni della vita di Pareyson,
ed è caratterizzata dalla dominanza di tematiche etico-religiose e dallo sviluppo di una ontologia della
lingua.
Il
contributo di Pareyson all’ermeneutica è generalmente collocato nella seconda fase, ovvero in quel
particolare intreccio di riflessione su esperienza estetica e filosofia che
approda nel saggio “Estetica, teoria della formatività”[127],
del 1954.
Il
problema della comprensione interpretativa è però dominante in tutte e tre le
fasi: nella prima, viene precisato lo sfondo
ontologico entro il quale si fa evidente il primato della interpretazione nel
lavoro filosofico, nella seconda è approfondita l’idea della prassi filosofica
in supporto alla esperienza estetica, infine nella terza Pareyson
indica le conseguenze ultime, etico-religiose, di
questa visione generale e precisa l’idea di libertà che ne costituisce il
presupposto.
Pareyson
interpreta la contemporaneità filosofica come epoca di dissoluzione-oltrepassamento
dell’hegelismo e si richiama al programma di Kierkegaard, che contro Hegel
evocava il “pensatore vivente”, la natura soggettiva e personale della verità e
insieme la natura “sovrastata” dell’io, che è sempre rapporto a sé e ad altro,
ossia ad un essere che ci supera e ci costituisce.
Per
quanto riguarda la filosofia della interpretazione Pareyson aveva sottolineato[128] la
centralità della interpretazione nel lavoro filosofico; verso la metà degli
anni Cinquanta, con “L’Estetica”, specifica la sua idea di comprensione
interpretativa secondo un punto di vista affine a quello degli ermeneutici classici, come Schleiermacher
o Dilthey.
Si
tratta dell’idea di interpretazione come ricostruzione
del processo che ha generato il testo.
L’idea
è però qui slegata da implicazioni psicologiche ed elaborata
invece nel quadro di una teoria della formalità così concepita: il rapporto
interpretativo si svolge tra persone e forme; l’interpretazione è conoscenza
delle seconde da parte delle prime, ma questa conoscenza è un rifacimento
personale del movimento formativo che ha condotto a ciascuna forma determinata;
poiché ogni forma è effetto di un processo interpretativo, nell’interpretarla �è necessario risalire alle forme che a loro
volta l’hanno formata; ne consegue che ogni interpretazione è all’origine di
nuove forme, in un processo infinito.
E’ qui posto
il nucleo geminale dell’ontologia dell’inesauribile esposta in “Verità e
interpretazione” e sono già evidenti i legami che connettono tale ontologia
alla fase precedente, ossia all’antologia della persona[129].
La
tesi centrale dell’ontologia dell’inesauribile è infatti
l’idea che la verità è colta solo in una interpretazione e dunque è inoggettivabile, accessibile solo all’interno di una
formulazione personale.
Questo
non significa però che la verità sfugge alle forme in cui la cogliamo, ma solo
che non tutta la verità ci è data in esse: quel che
incontriamo nella interpretazione è una verità autentica ma non definitiva, una
verità sempre ulteriore e tuttavia totalmente presente.
E’
questo che Pareyson chiama “ontologia
dell’inesauribile” e contrappone al “misticismo dell’ineffabile”.
Verità
personale e ulteriorità della verità sono congiuntamente possibili perché la persona è di fatto
una entità costitutivamente attraversata dall’essere
e insieme costituita dal riferimento a sé.
Il
recupero della libertà umana implica anche un recupero della problematica etica
del “male”, che l’orizzonte sostanzialmente acquiescente e conciliativo dell’ermeneutica
di Gadamer portava a
trascurare.
�Proprio di qui nasce l’ultima fase del
percorso pareysoniano, caratterizzata da una
riflessione sulla libertà e sul dolore che si annuncia negli anni Ottanta.
Pareyson
è indotto alla tematica dell’interpretazione a partire
dal problema della unicità della verità nella pluralità delle sue
manifestazioni storiche e questo è il problema storico che domina
l’esistenzialismo.
Ma questo
stesso problema è anche al centro della speculazione idealistica.
Non
esiste nella esperienza ermeneutica e nella esperienza
in generale una pacificazione.
Questa
dialettica che non recupera il negativo, ma lo lascia alla sua differenza è il
principio logico che fa da sfondo e premessa alla teoria della libertà� e del male sviluppata negli ultimi scritti pareysoniani.
La
libertà precede l’essere anche nell’essere stesso; se dovessimo considerare il
concetto di essere come� equivalente di dio, ci appaiono evidenti le
conseguenze teologiche della posizione pareysoniana[130].
Il
rapporto tra essere e libertà è in effetti traducibile
nel riscontro di una certa inadeguatezza tra l’idea di Dio e l’idea del male.
Per
Pareyson infatti la presenza
di Dio e la presenza del male non sono incompatibili, ma si richiamano a
vicenda.
Solo
nell’ottica del Dio cristiano infatti il male acquista
tutta la tragica negatività: il pensiero laico, dal paganesimo in avanti, si è
impegnato a cancellare il male e ci è riuscito; tutto infatti è indifferente e
sopportabile.
Altro
fondamentale filosofo ermeneutico sicuramente è Paul Ricoeur[131] ���������������������������������� ������������������
Nella
formazione di Ricoeur intervengono la fenomenologia e
l’esistenzialismo.
Il
centro del suo programma può essere considerato il tentativo di recuperare
all’ermeneutica quel buon rapporto con la scienza che Heiddeger
e Gadamer avevano pregiudicato.
Se
l’ermeneutica intende porsi come filosofia “universale” occorre specificare i
suoi rapporti con la scienza, definire il suo statuto “epistemologico”, ossia
definire la logica dell’ermeneutica e chiarire il rapporto con altre forme di
conoscenza o di esperienza.
Questa
è l’impostazione iniziale di Ricoeur, il quale tenta
un recupero delle radici fenomenologiche
dell’ermeneutica e deduce molto minuziosamente l’ermeneutica dalla
fenomenologia.
Heiddeger
aveva infatti tentato con “Essere e tempo” di
oltrepassare l’impostazione prevalentemente “gnoseologica” della fenomenologia
in direzione ontologica e aveva interpretato la critica all’oggettivismo
scientifico come rifiuto della stessa problematica epistemologica.
Su
questa stessa linea si era mosso anche Gadamer.
Riprendere
l’impostazione fenomenologica, riconciliarla
all’ermeneutica, significa dunque per Ricoeur
recuperare all’interno dell’ermeneutica le tematiche
gnoseologiche ed epistemologiche.
La
fenomenologia si caratterizza per una sospensione dell’atteggiamento
“naturale”.
Grazie
a questa sospensione si fa avanti il “vissuto”[132].
L’analisi
si apre così all’analisi linguistica.
Tuttavia
c’è un punto in cui la fenomenologia procede oltre e si solleva dal piano di una indagine “descrittivo-analitica”
al piano di una indagine costitutiva ed è il passaggio a quella “ontologia
della comprensione” da cui ha origine l’ermeneutica.
Questo
passaggio è dato da una nozione centrale nella
fenomenologia, assente ed impensabile nella filosofia analitica: la nozione di
“corpo proprio”.
Il
corpo proprio ha uno statuto ontologico ambiguo, non è soggetto né oggetto, è ciò
che dischiude la motivazione ed è implicato nella
sintesi della cosa senza essere cosa[133].
La
nozione di corpo proprio apre nell’universo del senso un terreno diverso,
rinvia alla “struttura dell’essere al mondo”, di cui l’essere corpo è solo una articolazione.
Qui
la fenomenologia giunge ad “un radicamento progressivo dei problemi
dell’espressione nei problemi di costituzione” e qui non è� più in gioco soltanto la “conoscenza”, ma la
comprensione e l’esplicitazione come modi d’essere
preliminari a ogni conoscere di tipo oggettivante.
E’
a questo punto che interviene l’ermeneutica[134].
Limite
della fenomenologia è l’essersi prevalentemente fermata ad una
analitica della percezione, ma l’analisi dei vissuti come esperienze del
“senso” apre una indagine più ampia, che coinvolge una analitica dell’essere e
dell’azione.
C’è
dunque un primato, un’ultimatività dell’ermeneutica
sull’analitica fenomenologica del senso.
L’errore
degli ermeneutici, secondo Ricoeur,
consiste nell’aver tematizzato una contrapposizione tra i due
modi analitico-descrittivo ed ontologico-costitutivo,
nuova versione della differenza teorizzata da Dilthey
tra le due scienze.
Tale
contrapposizione non ha luogo di esistere in quanto
c’è una consequenzialità naturale e pertanto un’ovvia integrabilità
dei due modi.
In
questa prospettiva si inquadra il punto di massima
divergenza tra Ricoeur e Gadamer,
ossia la questione delle capacità denotative, descrittive, del linguaggio.
Occorre
ricordare che nell’ambito della cultura francese anche gli strutturalisti come Gadamer sostenevano l’ “autosufficienza”
del linguaggio, l’idea che il linguaggio è una realtà esso stesso e che non
sussiste differenza tra parola e cosa.
Ora
Ricoeur obietta tanto a Gadamer
quanto allo strutturalismo che il linguaggio non è in se stesso un mondo, è assoggettato ad un mondo, rinvia ad un mondo.
Esiste
un nesso mimetico-descrittivo tra linguaggio e mondo
che non può essere misconosciuto e frainteso.
Altra
figura da citare è quella di Deridda[135].
L’apporto
di Jacques Deridda
all’ermeneutica è duplice e va considerato da due punti di vista.
La
questione della metafisica� è eminentemente
la questione dell’altro pensiero, da contrapporre alla filosofia risolta nella
scienza-tecnica, ovvero dell’ “altra ontologia”, da
contrapporre all’ontologia della presenza.
Il
problema del superamento della metafisica è assunto da
Deridda come una questione filosofico-artistico-politica,
come il problema di una politica e di un’arte della filosofia.
Il
suo punto di vista è Heidegger e questo significa che
la radicalità sintetica per lui non consiste nella prassi rivoluzionaria[136] e
neppure nel concepire un mutamento come di fatto possibile, sia nel senso del
potere essere deciso, sia nel senso del potere effettuarsi.
La
metafisica è finita, la filosofia che su di essa si
modellava è finita, ma non è possibile dire questa fine, perché dicendola la si
smentisce: per dirla infatti occorre utilizzare il linguaggio della metafisica
e fare della filosofia .
L’autosufficienza
del linguaggio di Heidegger e Gadamer
era una tesi strutturalista.
La
riduzione del ruolo della soggettività, altro tema tipico
dell’ontologia heideggariana era una delle
tesi più caratteristiche dello strutturalismo.
Deridda
unifica le due tradizioni ed in particolare inserisce nell’elaborazione
strutturalista una tematica che mancava completamente
e che nella tradizione ermeneutica, come si è visto, aveva un ruolo essenziale,
ossia la storicità, la temporalità.
Deridda
diede una grande importanza al concetto di “differance” (tradotta spesso con differenza), diversa dalla
semplice differenza,� perché include� la temporalità, è una differenza
spazio-temporale, è il differire, rinviare, venire prima-dopo
che incontriamo nel tempo, il separarsi, diversificarsi,
sconnettersi che avvengono nello spazio.
Sostenne
il primato della scrittura sulla voce: c’è un differire che viene in luce nello
scrivere “difference / differance” , che non appare nel dire
le due parole, nel loro suono.
Deridda
opera un rovesciamento del nesso causale tra pensiero e linguaggio e tra
linguaggio parlato e linguaggio scritto.
Per
lui non esiste un pensiero “preverbale”, una esperienza anteriore al linguaggio, ma non esiste
neppure un linguaggio prescritturale, una voce che
anticipa e fonda la scrittura.
Nella
scrittura c’è quella esperienza dell’essere-linguaggio
che l’ontologia di Heidegger cercava: c’è lo spossessamento del soggetto, poiché la struttura tradisce e
supera il volere dire del proprio autore e la scrittura espone il pensiero alla
trasmissione storica.
La
scrittura è traccia ed è una modalità non
“presenziale”, bensì “differenziale”, dell’essere, poiché ha dell’essere
l’ubiquità e l’originalità.
Assistiamo
con Deridda� ad
una singolare inversione per quello che concerne la storia dell’ermeneutica.
In
Dilthey l’interpretazione non riguarda più soltanto
il testo scritto, ma tutte le opere dello spirito; in Gadamer
si ha un allargamento ulteriore, ogni dato della
esperienza è oggetto di interpretazione, Deridda ritorna
al testo, ma per affermare che in ogni caso quel che “si dà”, si offre,
all’interpretazione è testo, scrittura[137].
Nell’ambito
della filosofia ermeneutica ottiene un ruolo rilevante anche Gianni Vattimo[138].
La
sua reinterpretazione dell’ontologia di Heidegger e Gadamer si basa sul
nichilismo di Nietzsche.
La
parentela tra Nietzche e l’ermeneutica è svolta da Vattimo soprattutto
nel senso di una interpretazione della storia dell’essere nella sua fase
presente, ossia nel senso di ciò che egli chiama “ontologia dell’attuale”.
Il
nichilismo rappresenta per Vattimo la vicenda
dell’ontologia occidentale, caratterizzata dal progressivo indebolimento della
nozione di essere, fino a che “dell’essere non ne è
più nulla”.
Per
Vattimo l’ermeneutica è il tipo di filosofia più
vicina ai requisiti di assecondare, accogliere tale
processo di indebolimento della nozione di essere[139].
Vattimo
vede nell’ermeneutica l’opportunità di corrispondere nel modo giusto a quel
duplice lavoro di relativizzazione compiuto in
filosofia dallo storicismo di Dilthey e dal prospettivismo di Nietzsche.
Questo
duplice lavoro approda nell’ermeneutica alla tesi “essere-linguaggio” e ciò
significa che ogni descrizione dell’essere è relativa.
Ne
consegue dunque quel che si può definire la fine della filosofia fondazionale, ossia la fine della filosofia caratterizzata
dalla pretesa di descrivere l’essere nelle sue strutture immutabili e
universali e di descrivere le forme a priori della conoscenza, anche esse dotate di in temporalità ed universalità.
Accettare
l’impostazione nichilista dell’ermeneutica significa essere pronti ad accettare
anche il carattere autoconfutativo di una tesi di
questo tipo, ossia ad ammettere che la tesi della storicità del conoscere possa
essere essa stessa storico-linguistica,
cioè contingente ed appartenere ad un certo linguaggio[140].
E’
questa la differenza essenziale per Vattimo tra una
descrizione dell’essere e una interpretazione
dell’essere.
Interpretare
significa muoversi all’interno di una tradizione, innovandola in alcuni punti,
ma senza pretesa di “rompere”, di uscirne, di trovare soluzioni definitive.
Così
il lavoro di Vattimo sull’ontologia tradizionale,
ovvero sulla storia dell’essere, è caratterizzato dalla visione di un
indebolimento progressivo, che culmina nell’epoca attuale, in cui è ormai
divenuto chiaro che, per usare le categorie della filosofia tradizionale senza
incorrere in conclusioni paradossali simili a quelle che abbiamo
visto prodursi in Deridda, occorre attenuare il
senso, indebolirne il valore semantico.
Il
nichilismo ermeneutico per Vattimo
non è distruttivo, bensì edificante, nel senso della ricostruzione che edifica.
L’interpretazione
della ontologia occidentale per Vattimo
alla luce del nichilismo offre inoltre alcune opportunità etico-pratiche
e consente di risolvere alcuni nodi cruciali o questioni irrisolte della
filosofia contemporanea in generale e della tradizione ermeneutica in
particolare.
Innanzitutto
la visione del processo di indebolimento progressivo
dell’essere consente di conservare il senso tradizionale del fare filosofia,
pur escludendone il carattere fondativo e le pretese
di universalità e necessità.
In
secondo luogo la relativizzazione ermeneutica-nichilistica
della verità appare a Vattimo un presupposto
essenziale per ristabilire le condizioni dell’etica: se
infatti la pluralità e la storicità della verità hanno come effetto
l’impossibilità di fondare il bene ed altri valori etici, va ricordato che sono
incapaci di fondare la violenza e la sopraffazione.
In
terzo luogo per �Vattimo
non esiste inimicizia tra ermeneutica e scienza per via della comune radice
nichilista di entrambe; ambedue infatti sorgono dalla
storia dell’essere, per loro natura assecondano il processo di svuotamento e
consumazione dell’essere.
Infine
esiste per Vattimo un primato dell’arte nel
nichilismo, a cui corrisponde la priorità data dall’ermeneutica ai fatti
estetici.
La
visione dell’essere-linguaggio-tempo
è visione di un essere esteticamente determinato, composto di miti,
raffigurazioni, narrazioni.
Questo
non autorizza assolutamente� una visione
“estetica” dell’essere o della filosofia.
6. Riferimenti alla
filosofia ermeneutica del diritto
Per
quanto riguarda fa filosofia ermeneutica del diritto[141] l’ermeneutica
giuridica degli anni Sessanta e Settanta rappresenta un singolarissimo episodio
di incontro tra filosofia e diritto.
Il
paradosso sta nel fatto che, delle due polarità dell’ermeneutica novecentesca –
l’ermeneutica come teoria della interpretazione
oggettiva (Betti, Hirsch) e l’ermeneutica come
filosofia (Heiddeger, Pareyson,
Ricoeur e soprattutto Gadamer)
– curiosamente è la seconda, non la prima, a divenire punto privilegiato di
riferimento per l’ermeneutica giuridica.
Punto
di partenza per l’interesse ermeneutico della teoria
generale del diritto è la polemica constatazione, a partire dall’inizio degli
anni Sessanta, dell’incapacità della giurisprudenza di
considerarsi e funzionare come una teoria della prassi giuridica.
Ne
consegue il riconoscimento del ruolo privilegiato da attribuire al nesso
teoria-prassi nello studio del diritto e della interpretazione
giuridica.
I
testi giuridici e le norme costituiscono un momento soltanto, se pur rilevante,
del più ampio e globale processo di positivizzazione del diritto, che si caratterizza come
approfondimento e sviluppo, potenzialmente infiniti e su livelli successivi,
del significato racchiuso nei testi normativi.
Anche
se già spesso interpretati, tutti i fenomeni giuridici mostrano incessante
necessità di essere reinterpretati, giacchè il lavoro intorno ai loro profili non può dirsi mai
esaurito, pur se di fatto può essere interrotto in un
punto[142].
Ne
risulta radicalmente ridefinito il concetto di positività
del diritto e di norme vigenti, non più intesi come dati monolitici, totalmente
espressi dagli enunciati prescrittivi, ma come plesso dinamico di due fattori
non più separabili: l’enunciato linguistico del legislatore e la sua interpretazione
giurisprudenziale.
Non
tanto ai testi appartiene il predicato della normatività,
quanto al loro significato che va compreso�
in relazione ai casi da decidere.
Così
tematizzando la tensione tra il vincolo del giudice alla legge e la sua
funzione produttivo-creativa del diritto, il
“problema” dell’ermeneutica giuridica diviene quello di un trattamento corretto
del testo di legge, della sua corretta applicazione al
caso.
E’
proprio in questo tentativo di ridefinire il rapporto tra teoria e prassi nel
diritto, attraverso una forte sottolineatura del momento dell’applicazione nel
processo interpretativo, che l’ermeneutica giuridica trova il suo carattere
specifico, che la differenzia da altre teorie dell’interpretazione del diritto
e vale a conferirle una fisionomia teorica precisa, che ancora si stenta a
riconoscere, soprattutto in Italia.
Il
primo bersaglio polemico che accomuna le posizioni giuridico-
ermeneutiche è rappresentato dalla teoria dell’interpretazione del positivismo
giuridico tradizionale, che ancora permea di sé la cultura dominante dei
giuristi, secondo cui la giurisdizione consiste in una attività meramente
dichiarativa.
Per
le teorie giuridiche dominanti, l’applicazione del diritto altro non sarebbe se
non la riproduzione meccanica, in tutti i casi sussumibili
sotto la norma, di un significato già compiutamente dato e fissato una volta per tutte.
Al
contrario, le premesse del lavoro giudiziale non possono in nessun caso
considerarsi come già date� e
precostituite.
Pur
riconoscendo come propria base teorica il fondarsi della comprensione nel
linguaggio, l’ermeneutica giuridica opera una relativizzazione
delle esigenze di precisione e trasparenza del linguaggio giuridico, che, pur
certamente rilevanti, non danno di per se stesse
sufficienti garanzie di corretto trattamento dei testi giuridici.
L’estrema
precisione del linguaggio si otterrebbe soltanto al prezzo di uno svuotamento
del contenuto e del senso e di una sostanziale irrilevanza del soggetto
comprendente.
�Mentre la teoria
analitica, determinando il significato di un testo secondo regole semantiche
generali, è costretta a separare significato del testo e comprensione
intersoggettiva, il pensiero ermeneutico rende invece
possibile un’inclusione del testo e del soggetto comprendente nel processo di
costituzione intersoggettiva di una decisione esatta[143].
�
[1] Cfr. Franca D’Agostini, “Che cosa è la filosofia analitica?” in “Storia della filosofia analitica”, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pag. 4.
[2] Confronta sul tema Michael Dummett, “The Origins of Analytical Philosophy”, Universale Paperbachs,� Il Mulino, Bologna, 1988, pag. 7 e ss.
[3] Si dedicò al problema della natura dei concetti e degli enti logici o matematici e allo studio di come descriverli� ed analizzarli.
[4] Confronta sul tema Mauro Barberis, “Filosofia del diritto. Una introduzione storica”, Il Mulino, Bologna, �2000, pag. 68.
[5] Cfr. ultima opera citata pag. 10.
[6] Confronta sul tema Silvana Castignone, Riccardo Guastini, Giovanni Tarello, “Introduzione teorica allo studio del diritto”, ECIG, Genova, 1994, pag. 18.
[7] Cfr. ultima opera citata pag. 11.
[8] Definizione di analitica di Follesdal.
[9] Per le nozioni di analisi vedi ultima opera citata pag. 14.
[10] Confronta sul tema Riccardo Guastini, “Lezioni sul linguaggio giuridico”, Giappichelli, Torino, 1985, pag. 36 e ss.
[11] Confronta sul tema Guido Fassò, “La filosofia del diritto dell’Ottocento e del Novecento”, Il Mulino, Bologna, 1988.
[12] Teoria sostenuta da Perry e Rorty.
[13] (1872-1970).
[14] (1873-1958).
[15]� Cfr. Sergio Cremaschi, “Filosofia analitica e filosofia continentale”, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag. 75.
[16] (1858-1952), formulò i gli “assiomi”, cioè i postulati su cui basare la teoria dei numeri naturali intesa come rigorosa scienza deduttiva.
[17] Russell, 1944.
[18] (1848-1925), professore di matematica di Jena.
[19] Cfr. ultima opera citata pag. 77.
[20] Confronta sul tema Riccardo Guastini, “Problemi di teoria del diritto”, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 35 e ss.
[21] Confronta sul tema Russell,� “On Denoting”, 1905.
[22] Confronta sul tema Russell, �“Logic as the essence of Philosophy”, 1914.
[23] Confronta sul tema Moore, “Philosophical Analysis”, 1942.
[24] Cfr. Guido Fassò, “La filosofia del diritto dell’Ottocento e del Novecento”, Il Mulino, Bologna, 1988, pag. 354.
[25] (1889-1951).
[26] Pubblicato tra 1921 e 1922.
[27] Cfr. Sergio Moravia, “La filosofia analitica inglese” in “Filosofia: dal Romanticismo al Pensiero Contemporaneo”, Le Monnier, Firenze, 1993, pag. 545-546.
[28] Confronta sul tema �Wittengstein, “Philosophical Investigations”, 1953.
[29] Cfr. ultima opera citata pag. 547.
[30] (1900-1976).
[31] Confronta sul tema Ryle, “The concept of mind”, 1949.
[32] (1911-1960).
[33] Cfr. Franca D’Agostini, “Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trenta anni”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, pag. 246.
[34] Confronta sul tema Austin, “A Plea for Excuses”, 1956.
[35]Confronta sul tema
[36] (1913-1988).
[37] (1932).
[38] Confronta sul tema Grice, “Studies in the Ways� of �Words”,
1989.
[39] Cfr. ultima opera citata pag. 253.
[40] (1919).
[41] Confronta sul tema Strawson, “The Bounds of �Sense”, 1966.
[42] Confronta sul tema Strawson, “Analysis and Metaphysics”, 1992.
[43] Cfr. Sergio Cremaschi, “Filosofia analitica e filosofia continentale”, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag. 80.
[44] (1901-1979).
[45] (1839-1914).
[46] (1883-1964).
[47] Confronta sul tema Carnap “Der logiche Aufbau der Welt”,
1928.
[48] Confronta sul tema Carnap, “Logische Syntax der Sprache”,
1934.
[49] Cfr. ultima opera citata pag. 82.
[50] (1908-2000).
[51] Importante fu� anche N. Goodman (1906-1998) che� si interessò all’arte ed al nesso arte-conoscenza, pervenendo a una teoria generale dei simboli.
[52] Cfr. ultima opera citata pag. 83.
[53] (1917).
[54] Vedi pag. 13.
[55] (1921).
[56] (1908-1978).
[57] (1919).
[58] Cfr. ultima opera citata pag. 84.
[59] (1937).
[60] (1893-1962).
[61] Cfr. ultima opera citata pag. 86.
[62] Confronta sul tema Silvana Castignone e Riccardo Guastini, “Realismo giuridico e analisi del linguaggio”, ECIG, Genova, 1990.
[63] (1890-1958).
[64] Confronta sul tema Von Wright, “Explanation
and Understanding”, 1971.
[65] (1922-1990).
[66] Cfr. Franca D’Agostini, “L’autocomprensione della filosofia analitica” in “Storia della filosofia analitica”, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002, pag. 59.
[67] (1931)
[68] Confronta sul tema Rorty, “Philosophy and the
Mirror of nature”, 1979.
[69] Confronta sul tema �Rorty, “Consequences of pragmatism”, 1982.
[70] (1926).
[71] “come possiamo sapere di� non essere solo cervelli in una vasca con terminazioni nervose connesse a stimoli sensoriali artificiali che ci forniscono esperienze percettive fittizie?”.
[72] Confronta sul tema �Putnam, “The Many Faces of Realism”, 1987 e “Il pragmatismo: una questione aperta”, 1992.
[73] Cfr. ultima opera citata pag. 61.
[74] (1925).
[75] Cfr. M. Dummett, “Alle origini della filosofia analitica”, traduzione di Eva Picardi, Universale Paperbaks, Il Mulino, Bologna, 1988, pag. 47.
[76] Confronta sul tema Rodolfo De Stefano, “Scritti sul diritto e sulla scienza giuridica”, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 51 e ss.
[77] Cfr. ultima opera citata pag. 49.
[78] Cfr. ultima opera citata pag. 52.
[79] (1942).
[80] (1950).
[81] (1946-1980).
[82] Cfr. Guido Fassò, “La filosofia del diritto dell’Ottocento e del Novecento”, Il Mulino, Bologna, 1988, pag. 365.
[83] (1942).
[84] Confronta sul tema Quine,
“What there is”.
[85] Confronta sul tema Russell,
“On denoting”.
[86] Confronta sul tema �Strawson, “On deferring”.
[87] (1930).
[88]Martin
ed Heil,� “The ontological Turn”,1999.
[89] Testo del 1995.
[90] Cfr. Carlo Penco e Giovanni Sarbia, “Alle radici della filosofia analitica”, il capitolo primo, “Vincoli e strumenti. Sulla filosofia analitica del diritto”a cura di Mauro Barberis, Erga Edizioni, Genova, 1996, pag. 17.
[91] Cfr. ultima opera citata pag. 18.
[92] Confronta sul tema �Mario Jori, “Manuale di teoria generale del diritto”, Giappichelli, Torino, 1995, pag. 86.
[93] Confronta sul tema �Riccardo Guastini “Dalle fonti alle norme”, Giappichelli, Torino, 1992, pag. 300.
[94] Cfr. Carlo Penco e Giovanni Sarbia, “Alle radici della filosofia analitica”, Erga Edizioni, Genova, 1996, pag. 21.
[95] Confronta sul tema Giovanni Tarello, “L’interpretazione della legge”, Giuffrè, Milano, 1980.
[96] Cfr. ultima opera citata pag. 23.
[97] Confronta sul tema �Giacomo Gavazzi, “Elementi di teoria del diritto”, seconda edizione, Giappichelli, Torino, 1984. .
[98] Vedi definizione di filosofia analitica di Dummett a pag. 19.
[99] Cfr. Maurizio Ferraris, “Che cosa è l’ermeneutica?” in “Storia dell’ermeneutica”, Bompiani, Milano,1988, pag. 5.
[100] Confronta sul tema Giovanni Capograssi, “Il problema della scienza del diritto”, in “Opere”, Giuffrè, Milano, 1959-1990, pag. 337 e ss.
[101] Cfr. ultima opera citata pag. 6.
[102] Confronta sul tema Emilio Betti, “L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito”, Città Nuova, Roma, 1987, pag. 53.
[103] Cfr. ultima opera citata pag. 7.
[104] Confronta sul tema Mauro Barberis, “Filosofia del diritto. Una introduzione storica”, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 83 e ss.
[105] Confronta sul tema Guido Fassò, “La filosofia del diritto dell’Ottocento e del Novecento”, Il Mulino, Bologna, 1988, pag. 480 e ss.
[106] Cfr. Sergio Moravia, “Le trasformazioni storiche dell’ermeneutica” in “Filosofia: dal Romanticismo al Pensiero Contemporaneo”, Le Monnier, Firenze, 1993, pag. 443.
[107]
Confronta sul tema J.K. Dannhauser,
“Hermeneutica sacra, sive Methodus exponendum sacrarum litterarum”, 1654.
[108] (1710-1759).
[109] (1833-1911).
[110] Cfr. Franca D’Agostini, “Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trenta anni”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, pag. 304.
[111] Confronta sul tema Dilthey, “L’Essenza della filosofia”, 1903.
[112] (1889-1976).
[113] Cfr. Sergio Moravia, “Heidegger, l’ermeneutica come ontologia e l’atteggiamento di Gadamer” in “Filosofia: dal Romanticismo al Pensiero Contemporaneo”, Le Monnier, Firenze, 1993, pag. 444.
[114] Cfr. ultima opera citata pag. 445.
[115] Cfr. ultima opera citata pag. 446.
[116] Cfr. Heidegger, “Lettera sull’umanismo”, 1947.
[117] Confronta sul tema Giacomo Gavazzi, “Elementi di teoria del diritto” seconda edizione, Giappichelli, Torino, 1984.
[118] (1900-deceduto).
[119] Confronta sul tema Gadamer, “Verità e metodo”, 1960.
[120] Cfr. Franca D’Agostini, “Gadamer: la teoria dell’esperienza ermeneutica” in “Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trenta anni”, Raffaello Cortina Editore, 1997, pag. 309.
[121] Cfr. ultima opera citata pag. 312.
[122] Confronta sul tema Gadamer, “Ermeneutica come compito teorico e pratico”, a cura di R. Dottori, Bompiani, Milano, 1995, pag. 261 e ss.
[123] Cfr. ultima opera citata “Gadamer: il linguaggio” pag. 315.
[124] (1918-1991).
[125] Cfr. Sergio Cremaschi, “Filosofia analitica e filosofia continentale”, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag. 150.
[126] Cfr. ultima opera citata pag. 152.
[127] Vedi anche Pareyson, “Verità ed interpretazione”.
[128] Confronta Pareyson, “Il compito della filosofia oggi”, 1947.
[129] Cfr. ultima opera citata pag. 157.
[130] Cfr. Maurizio Ferraris, “Storia dell’ermeneutica”, Bompiani, Milano, 1988, pag. 215.
[131] (1913).
[132] Confronta sul tema Paul Ricoeur, “Semantica dell’azione”, 1977.
[133] Cfr. ultima opera citata pag. 217.
[134] Confronta sul tema Francesco Romeo, “Analogia per un concetto relazionale di verità nel diritto”, CEDAM, Padova, 1996.
[135] Cfr. ultima opera citata pag. 225.
[136] Infatti non si ispira a Marx.
[137] Per la cd. “prassi della decostruzione” di Deridda cfr. Franca D’Agostini, “Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trenta anni”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, pag. 327.
[138] (1936).
[139] Confronta sul tema Riccardo Guastini, “Problemi di teoria del diritto”, Il Mulino, Bologna, 1980.
[140] Cfr. ultima opera citata pag. 328.
[141] Cfr. Giuseppe Zaccaria, “L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea”, CEDAM, Padova, 1990, pag. 46.
[142] Cfr. ultima opera citata pag. 47.