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CAPITOLO TERZO
LA FILOSOFIA ERMENEUTICA
DEL DIRITTO
1. Premessa
- 2. L�approdo ermeneutico della scienza giuridica - 3. La filosofia ermeneutica
del diritto - 4. L�interpretazione della legge secondo la tradizione della
filosofia ermeneutica e le problematiche connesse -5. Figure e momenti
del dibattito giuridico ermeneutico contemporaneo |
1. Premessa
Il termine �ermeneutica� viene oggi usato in più sensi: in un primo senso, esso
è un semplice sinonimo di �interpretazione�; in un secondo senso, indica ogni
dottrina filosofica o giusfilosofica che attribuisca un rilievo centrale al
problema dell�interpretazione; in un terzo senso, designa l�antica tradizione
dell�interpretazione dei testi sacri (religiosi, ma anche giuridici); in un
quarto senso, denomina una corrente filosofica del Novecento, fondata da Hans
Georg Gadamer[1] in un quinto senso, denota l�idea che � contrariamente a quanto
preteso dal monismo metodologico dei positivisti � le scienze umane differiscano
dalle scienze naturali perché non si limitano a spiegare fatti o comportamenti,
ma mirano a comprendere il significato attribuito loro dagli agenti; in un sesto
senso(o in una specificazione del quinto), rinvia all�idea che la conoscenza
del diritto debba adottare un punto di vista ermeneutico (in inglese �hermeneutic
point of view�), ulteriore ai punti di vista esterno ed interno individuati
da Hart
[2]
.
Come
filosofia del diritto in senso stretto – cioè come applicazione al diritto di
una filosofia determinata filosofia generale – l’ermeneutica va considerata nel
quarto senso del vocabolo, dunque con particolare riferimento alla filosofia
inaugurata da Gadamer; le origini di questa ultima, inoltre, vanno inquadrate
nelle vicende che producono i due maggiori filoni filosofici del Novecento:
quelle che vengono chiamate la filosofia speculativa o continentale e la
filosofia analitica, ampiamente analizzata nel capitolo precedente.
Richiamando
il primo capitolo per quanto concerne le origini della filosofia ermeneutica in
generale, va comunque aggiunto che l’ermeneutica filosofico-giuridica, come del
resto la filosofia analitica del diritto, non può ridursi all’applicazione di
una filosofia generale del diritto: da questo punto di vista, anzi,
l’ermeneutica potrebbe già considerarsi al confine tra le tradizionali
filosofie del diritto in senso stretto e le filosofie del diritto in senso
ampio, oggi coltivate sia dagli analisti che dagli ermeneutici.
Almeno
una corrente dell�ermeneutica, che fa capo al romanista e filosofo del diritto
Emilio Betti[3] e alla sua �Teoria
generale dell�interpretazione� del 1955, prosegue infatti quella tradizione di
riflessione sulle tecniche interpretative dei testi sacri che abbiamo visto
costituire il terzo senso di ermeneutica; e anche l�ermeneutica filosofica di
Gadamer, il cui testo fondamentale è �Verità e metodo�, del 1960, ha sinora
influito sulla giurisprudenza, in particolare tedesca, non meno di quanto abbia
influito sulla filosofia del diritto in senso stretto.
Ciò
è potuto avvenire soprattutto grazie all’elaborazione di due nozioni, che negli
ultimi anni hanno attirato l’attenzione spasmodica di giuristi e filosofi: le
nozioni, già heideggeriane e poi gadameriane, di precomprensione e circolo
ermeneutico, di cui abbiamo fatto accenno nel primo capitolo[4].
Analizzando
più ampiamente tali nozioni, diciamo che per�
�precomprensione� (tedesco Vorverstandnis) si intende la tesi secondo la quale la comprensione di oggetti
culturali in genere e l’interpretazione di testi giuridici in specie, sarebbe
orientata da una sorta di rappresentazione anticipata del risultato,
determinata dalla appartenenza dell’interprete ad un determinato contesto
vitale e discorsivo[5].
La
comprensione, in altri termini, nascerebbe da una pre-compresione, fondata sui
pre-concetti e i pre-giudizi dell’interprete, che questi progressivamente
supererebbe per accedere a una precomprensione più articolata[6]: tesi
che, applicata, all�interpretazione giuridica, ha almeno il pregio di
caratterizzarla, non come una sorta di flash intellettuale, ma come un processo
articolato in più fasi.
Per
�circolo ermeneutico� (tedesco hermeneutischer Zirkel),
invece, s�intende anzitutto la vecchia regola interpretativa, appartenente alla
tradizione ermeneutica nel terzo senso del termine, per la quale, nell�attività
di interpretazione di un testo, il risultato dell�interpretazione di una parte
va sempre confrontato all�interpretazione del tutto e viceversa: e questo fino
a che le due non finiscano per corrispondere.
Anche
qui, come nel caso della precomprensione, molte formulazioni della nozione
hanno spesso finito per oscurarne i contorni; essa, peraltro, sembra avere
almeno il pregio di attirare l’attenzione dei teorici dell’interpretazione sul
fatto che questa, oltre a consistere di una successione di atti, ha anche
carattere circolare, dovendo spesso tornare indietro e riconfigurare i propri
presupposti.
La
circolarità, che è viziosa in logica, potrebbe quindi risultare virtuosa nella
teoria dell’interpretazione.
Comunque
sia, quasi contemporaneamente all’ermeneutica filosofica di Gadamer, si è
formata anche un’ermeneutica più strettamente giuridica, qui rappresentata
dall’opera del civilista tedesco Josef Esser[7]:
autore le cui opere più importanti corrispondono ai due momenti nei quali si è
sviluppata la discussione tedesca sull’interpretazione giudiziale[8].
In
un primo momento, proseguendo la vecchia polemica contro il formalismo
interpretativo, Esser ha sostenuto soprattutto che il giudice partecipa
creativamente al processo di produzione del diritto: e questo senza troppe
differenze tra il giudice di civil law, che per i formalisti dovrebbe limitarsi
ad applicare la legge e il giudice di common law, che sempre per costoro
dovrebbe limitarsi ad applicare i precedenti giudiziali.
Dopo
un periodo trascorso negli Stati Uniti, in effetti, Esser, pubblica “Principio
e norma”, nel 1956, in cui riscopre, ben prima di Dworkin, il tema dei
principi, come norme giuridiche elaborate in relazione al caso concreto.
In
un secondo momento, nel quale si dà ormai per assodato che i giudici producano
diritto, l’attenzione si sposta sull’accertamento dei vincoli razionali cui
tale produzione dovrebbe comunque obbedire: e in questa fase del dibattito cade
“Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del
diritto”, del 1972.
La
nozione ermeneutica di precomprensione, qui menzionata sin dal titolo, viene
impiegata per mostrare che l’attività del giudice è orientata da una
rappresentazione anticipata del risultato da ottenere: rappresentazione che gli
suggerirebbero sia le norme cui ricorrere, sia l’interpretazione da attribuire
loro per conseguire il risultato.
Superando
l�opinione tipica del giusrealismo americano secondo cui le argomentazioni dei
giudici sono semplici razionalizzazioni di decisioni fondamentalmente
a-razionali, Esser insiste sulla razionalità del processo che dalla
precomprensione porta alla decisione giudiziale: posizione che l�accomuna
all�odierna analisi del ragionamento giuridico.
L�ermeneutica
filosofica e quella sua prosecuzione che è l�ermeneutica giuridica, sfociano
dunque nell�analisi dei problemi dell�interpretazione e della argomentazione
sviluppata dalla filosofia del diritto in senso ampio: analisi non più
estrinsecamente filosofica, nel primo e più tradizionale significato di
filosofia, ma condotta dallo stesso punto di vista del giurista, come riflessione
concettuale e metodologica interna alla giurisprudenza e dunque da considerarsi
filosofica piuttosto nel terzo dei sensi di �filosofia� considerati a suo tempo[9].
Anche
l�ermeneutica, da questo punto di vista, ha concorso in modo decisivo a quel
superamento della filosofia del diritto in senso ampio.
E� vero: essa incide sul merito delle differenti
raffigurazioni del diritto che le diverse prospettive presentano: diritto come
concetto logico, come proposizione linguistica, come interpretazione.
Deve essere chiaro che la prospettiva ermeneutica non
rigetta né la funzione di garanzia e di controllo che la dogmatica è in grado
di assicurare, né l’aspirazione analitico-linguistica ad una formalizzazione
sintattica del linguaggio giuridico: ma intende recuperare gli aspetti più
fecondi dell’uno e dell’altro approccio in una visione più ampia, che
riconnetta la teoria alla prassi del diritto e in questo senso superi la
radicata abitudine dei giuristi di professare teoricamente una dottrina che
nella pratica quotidianamente sconfessano.
La prassi giuridica, sulla cui rilevanza richiama
l’attenzione il modello ermeneutico, è “oggetto” da osservare, indagare e
descrivere teoricamente, perché fornisce gli elementi sui quali il giurista
viene elaborando le sue concettualizzazioni[11].
Nella scienza giuridica teoria e prassi risultano strettamente
connesse, modello “operativo” e modello “conoscitivo” si trovano intimamente
compenetranti in un’incessante interazione che ha per fine ultimo di conoscere
per operare e operare conoscendo.
E� infatti nella prassi interpretativa che il giurista
comprende qualcosa come diritto o come appartenente al diritto[12].
In contrapposizione alla rigidità dell’antico
imperativismo di stampo giuspositivistico e negando l’autosufficienza semantica
sostenuta da una parte della filosofia analitica, l’approccio ermeneutico
attribuisce alla prassi giuridica, alle connessioni di significato
temporalmente vissute, un carattere intersoggettivo e plurale e porta in
evidenza le “perdite” antropologiche che la modernità giuridica, pur con le sue
importanti conquiste di uguaglianza di trattamento e di imparzialità, latrici
di una valutazione depersonalizzata delle situazioni umane, ha portato
necessariamente con sé.
Più che dal potere, la giustificazione giuridica
procede da una attività ermeneutica, dalla manifestazione di una competenza che
si manifesta all’interno del linguaggio e della pratica� giuridica, dunque da un contesto che diviene
fattore indissolubilmente connesso al significato degli enunciati.
Ma è anche vero, d’altro canto, che l’evoluzione in
direzione ermeneutica corrisponde al progressivo maturare di nuove
consapevolezze, che si determina sulla base di nuovi assetti delle società
occidentali.
Se attorno agli anni Cinquanta la concezione del
diritto come linguaggio si poteva considerare come ardita e pionieristica, essa
è poi venuta di senso comune tra la maggior parte dei giuristi e permea ormai
una parte significativa della teoria giuridica contemporanea.
Nel contempo la crescente insoddisfazione sia per un
approccio al diritto in termini esclusivamente normativistici, che considerasse
il diritto come insieme di norme, sia per le rigidità dei primi approcci di
tipo neopositivistico, vincolati dalla limitante connessione tra significato e
verifica empirica, ha contribuito al riconoscimento sempre più ampio
dell’innegabile crucialità dei concetti di azione, di intenzionalità e di senso[13].
Si è determinato di conseguenza un forte rilancio, in
settori cospicui della teoria giuridica contemporanea, dei problemi
dell’interpretazione, certo distinti, ma anche saldamente intrecciati alla
questione della scienza giuridica[14].
Sia in questa ottica culturale, sia in virtù delle
trasformazioni di carattere istituzionale intervenute nel diritto, che hanno
visto attenuarsi la rigidità dei testi, offuscarsi la forza imperativa delle
norme e di conseguenza crescere l’importanza della ricerca della regola
giuridica, è destinato, quasi naturalmente, ad aumentare lo spazio e
l’interesse per la prospettiva ermeneutica, che è caratterizzata da una
specifica attenzione al modo di attuarsi dello stesso comprendere
interpretativo; e che è perfettamente in condizione, in quanto approccio che si
interroga sui propri presupposti e su quelli dei diversi oggetti di conoscenza,
di illuminare la complessità fenomenologica e concettuale del dato giuridico,
ma anche di criticarne ogni visione dogmatica e precostituita.
Possiamo allora affermare che la prospettiva
ermeneutica è in grado di interessare il mondo del diritto e della scienza
giuridica da una pluralità di punti di vista.
In primo luogo, in quanto riflette sulle basi ontologiche
delle scienze dello spirito, sui presupposti non epistemologici
dell’epistemologia.
Da questo angolo visuale l�universalità teorica
dell�ermeneutica, come struttura del comprendere che concerne l�esistenza nella
sua totalità, si pone come condizione preventiva e presupposto di partenza per
dare soluzione ad ogni tematica di scienza giuridica.
La concezione ermeneutica intende, infatti, spingersi
oltre l’epistemologia per “scoprire le condizioni propriamente ontologiche del
comprendere”[15]; in altre parole le
condizioni trascendentali che rendono possibile la comprensione del senso.
Da questo punto di vista, che sottolinea sia la
coessenzialità di comprendere ed essere, sia la rilevanza che assumono per il
diritto le condizioni generali del comprendere, l’ermeneutica si configura come
una modalità di avvicinamento ad oggetti, come un fenomeno strutturale del comprendere,
che precede e forma la base delle scienze particolari.
La comprensione del diritto presuppone la comprensione
delle modalità secondo cui il diritto si autocomprende.
In secondo luogo, l�ermeneutica investe la
problematica del diritto come metodologia utile per meglio capire e descrivere
l�articolarsi dei procedimenti conoscitivi giuridici.
La categoria della precomprensione, che l’ermeneutica
giuridica mutua dalla filosofia ermeneutica generale per poi adattarla ai suoi
fini, dice che non esiste comprensione al di fuori e indipendentemente dalle
aspettative di senso basate sull’esperienza vitale[16].
Se non assume consapevolezza delle proprie
precomprensioni, sostiene Gadamer[17], è
molto difficile per il giurista introdurre e riconoscere una salutare presa di distanza nei riguardi dei propri
convincimenti soggettivi e delle limitazioni derivanti da inconsapevoli
abitudini mentali.
Sappiamo
invece che, per quanti si trovino ad operare con il diritto e nel diritto, il
rendersi avvertiti delle strutture concettuali entro cui si disloca l’uso
giuridico del linguaggio acquista una rilevanza essenziale.
Sarà
poi l’urto con il testo, come ha sottolineato ancora una volta Gadamer, a
mettere in moto la catena delle interpretazioni sempre più adeguate.
Posto
in primo piano dall�ermeneutica giuridica, l�elemento della precomprensione,
inteso come ambito che delimita il flusso delle interpretazioni, viene affidato
all�apprezzamento e al controllo intersoggettivi: si ottiene in tal modo
l�effetto di depurarlo degli aspetti maggiormente soggettivi e di eventuali
depositi di carattere irrazionale che esso possa ancora conoscere[18].
E�
implicito, infatti, nell�atto stesso di trasmetterlo, il suggerimento che per
essere accettato, l�elemento-precomprensione debba essere ad un tempo
comprensibile e ragionevole. Trasparenza e controllo non possono che costituire
un obiettivo irrinunciabile della scienza giuridica: per il giurista la
migliore garanzia che le sue scelte siano relativamente giuste sta nel dialogo
con altri.
E�
innegabile che l�appartenenza ad una tradizione gioca un ruolo decisivo anche
nella conoscenza del mondo; così nell�interpretazione scientifico-dottrinale
del giurista il significato attribuito ai dati empirici e alle strutture
concettuali con cui è organizzato il materiale giuridico dipende strettamente
dal quadro teorico, dalla precomprensione da cui il giurista stesso prende le
mosse e dentro la quale tutto viene letto[19].
Più
che una scienza giuridica, che si presenti come un qualcosa di unitario e di
sempre uguale a se stesso, valido sempre e dovunque, esistono forme diverse di
questa attività, che variano nei tempi e nei luoghi.
A
tale proposito è stato detto che lo scienziato adempirebbe ad una funzione non
dissimile da quella del giudice, proprio perché deve impegnarsi
nell’interpretare, sviluppare, modificare o addirittura capovolgere un’intera
tradizione di pratica professionale[20].
In
ogni campo della scienza, anche in quello giuridico, non è possibile partire da
zero ed occorre senza alcun dubbio fare uso di quanto è stato precedentemente
elaborato, poggiando sulle spalle dei predecessori.
La
�comunanza� del mondo entro cui lavora il giurista, creata dalla sua
appartenenza ad una tradizione, è peraltro in un incessante processo del farsi;
è il giurista stesso che la istituisce in quanto comprende, in quanto partecipa
attivamente, con la sua elaborazione, al riprodursi ed allo svolgersi della
tradizione e in tal modo la porta egli stesso avanti, proseguendo il discorso
di altri e in esso inserendosi, rinnovandola[21].
In
terzo luogo, in quanto si può considerare�
non soltanto come una descrizione�
di ciò che avviene nell’evento interpretativo, ma anche come vero e
proprio criterio, che pone il problema dei parametri secondo cui decidere se
un’interpretazione è o meno corretta, l’ermeneutica può essere vista anche come
un metodo, che impone di farsi consapevoli delle anticipazioni di conoscenza
per controllarle e guadagnare così la giusta comprensione; un metodo che
sottoponendo la precomprensione al controllo razionale rappresentato dal
confronto con il testo, consente il passaggio da una comprensione provvisoria
ad una comprensione fondata.
Il
fatto che l�interprete, grazie alla precomprensione, abbozzi un progetto
iniziale di senso, che poi può essere continuativamente riveduto mettendo alla
prova la legittimità e la non arbitrarietà della sua ipotesi di partenza, ha
indotto a sostenere che il �metodo ermeneutico� non differisce minimamente dal
metodo per tentativi ed eliminazione degli errori, dal metodo per �trial and
error� che secondo Popper, costituisce per eccellenza il procedimento
metodologico delle scienze[22].
Un
procedimento che muove sempre da problemi e avanza sul terreno delle congetture
e delle confutazioni che, se nel corso del procedimento risultano, alla luce
delle confutazioni, errate, costringono a ricercare teorie diverse e più
adeguate.
La
situazione specifica dell’interpretazione giuridica� non consente però di accogliere in pieno
questa tesi che, equiparando all’epistemologia l’ermeneutica, intende questa
ultima come un insieme di regole procedurali finalizzate al conseguimento di un
obiettivo stabilito[23].
Nel
caso del diritto, infatti, la precomprensione , pur necessaria per fare partire
il procedimento interpretativo, non è in grado di esaurirlo, agendo
essenzialmente nell’ambito del cosiddetto “contesto di scoperta”[24].
Il
diritto non può essere soltanto interpretazione. Parlare di interpretazione
metodologicamente corretta non ha senso compiuto se si perdono di vista gli
obiettivi che attraverso il diritto si possono conseguire e le finalità che
tramite il discorso giuridico si possono raggiungere.
Anche
la dogmatica giuridica in questo quadro di una scienza giuridica ben
consapevole dell’aspetto ermeneutico del diritto mantiene però una sua precisa
funzione.
Infatti,
una volta affermata la funzione centrale dell’ermeneutica nel continuo e
necessario adattamento dei testi alle circostanze presenti, la dogmatica,
distinta e complementare rispetto all’interpretazione, conserva una non
rinunciabile funzione ordinativa, riflessiva e di controllo.
Essa
si esplica istituendo connessioni delle norme tra loro e delle norme con i casi
particolari: tutto questo per un fondamentale controllo di coerenza e nella
prospettiva di dovere successivamente decidere altri casi[25].
Nel
nuovo orizzonte ermeneuticamente avvertito, la circolarità del rapporto tra
interpretazione e dogmatica istituisce�
un continuo, produttivo rinvio ed interscambio tra esiti dei
procedimenti interpretativi e loro introduzione nell’organicità del materiale
giuridico complessivo.
Il
che consente di fornire stabilità e consistenza, precludendone le continue
rimesse in discussione, sia all’integrazione ermeneutica delle norme, sia alla
loro applicazione concretizzatrice ai casi reali; mentre permette anche di
sottoporre al tarlo benefico del dubbio scientifico, per il quale ogni schema
esplicativo della realtà è da concepirsi come provvisorio, quelli che un tempo
erano dogmi indiscutibili, ma che oggi sono intesi in modo più scaltrito come punti
di vista consolidati dalla tradizione giuridica[26].
Questa
funzione stabilizzatrice e integratrice della dogmatica costituisce un’esigenza
tanto più significativa e configura un compito tanto più delicato� in un contesto come quello odierno di non
omogeneità dei valori� sottostanti al
sistema giuridico.
Nel
contempo essa permette indirettamente di porre un argine a qualche tentazione
“pan-ermeneutica” pure presente nella cultura giuridica contemporanea.
Tuttavia
l�impossibilità di ridurre l�ermeneutica ad una mera metodica della procedura
scientifica non significa certo decretarne l�irrilevanza per la ricerca dello
scienziato.
Una
riflessione di tipo ermeneutico necessariamente precede e segue la conoscenza
di carattere scientifico-metodico: la precede come ineliminabile
precomprensione del suo campo di indagine e dei suoi interessi di ricerca, la
segue come necessità continua di tradurre le nuove informazioni, raggiunte grazie
all’indagine scientifica, nel corrente linguaggio sociale.
Le
scienze si trovano nella necessità di ricorrere alla retorica per utilizzare e
fare conoscere i propri risultati e le nuove scoperte.
Le
nuove acquisizioni che emergono e prevalgono nei diversi ambiti scientifici
debbono per forza di cose venire ricondotte alle evidenze della “ragione
comune”.
Anche
sotto questo profilo l’ermeneutica sottolinea il compito di procedere a questa
integrazione dei nuovi risultati scientifici nel linguaggio, inteso come
struttura trascendentale che attiva le proprie differenziazioni e precede la logica
specialistica della scienza.
Se
è vero che l’interpretazione è indissolubilmente legata al carattere pratico
del diritto e alla sua impresa di coordinazione�
delle azioni sociali, allora è possibile parlare di una “filosofia
ermeneutica del diritto” e non già semplicemente di un uso metodico
dell’interpretazione all’interno di un’esperienza giuridica che se ne serve per
i suoi fini.
Ci
si può allora domandare se l’interpretazione è un mezzo della pratica giuridica
o fa parte della sua stessa ragione di essere.
La
risposta a questa domanda fa comprendere non solo la differenza tra la
filosofia analitica del diritto e l’approccio ermeneutico, ma anche all’interno
di questo ultimo la distinzione tra uso metodico (o teorico) dell’interpretazione
e l’uso propriamente filosofico.
Per
questo si farà riferimento alla “filosofia ermeneutica”, espressione che è
preferibile a quella di “ermeneutica filosofica”, in quanto più adatta ad
indicare che non si tratta tanto di applicare il metodo ermeneutico alle
indagini filosofiche o di intendere la filosofia stessa come interpretazione
quanto piuttosto di tematizzare l’interpretazione stessa come la questione
fondamentale della filosofia.
Nonostante
le radicali differenze di origine tra i due principali orientamenti del
pensiero contemporaneo, cioè quello oggi chiamato in modo approssimativo� filosofia continentale e quello analitico, si
stanno realizzando le condizioni per un confronto autentico delle posizioni,
che vedremo dettagliatamente nel capitolo successivo.
Uno
dei gangli centrali di questa convergenza�
si trova nel campo della filosofia dell’azione.
Qui
si può constatare una larga intesa intorno alla convinzione dell’impossibilità
di comprendere l’azione solo in base alla spiegazione causale.
Per
essere compresa un�azione deve essere osservata sulla base del suo fine, delle
sue intenzioni, delle sue regole, dei contesti di esercizio e delle forme di
vita cui appartiene[28].
Si
richiede, pertanto, un superamento di una visione meramente psicologistica e il
passaggio dall’osservazione esterna e distaccata a quella in qualche misura
partecipante.
Questa
esigenza è sentita oggi dai più diversi orientamenti di pensiero, anche se è
variamente articolata da ognuno di essi.
In
particolare, la filosofia ermeneutica si è andata caratterizzando nella misura
in cui ha preso le distanze dallo psicologismo, che pur l’aveva generata e da
una concezione dell’interpretazione intesa come trasferimento nella vita
mentale altrui.
Un
altro aspetto caratterizzante la filosofia analitica del diritto e quella
ermeneutica del diritto è dato dalla cosiddetta “svolta linguistica”[29].
Il
linguaggio diventa la base e l’orizzonte ultimo del pensiero filosofico, inteso
però non già come linguaggio tecnico o ideale, ma come linguaggio ordinario che
non è presente se non nella molteplicità dei linguaggi.
Certamente
esiste una profonda differenza tra la considerazione del linguaggio propria
della filosofia analitica, per cui esso resta segnato da un carattere
artificiale e in qualche modo tecnico e quella propria della filosofia
ermeneutica, per cui esso ha uno spessore ontologico.
Tuttavia
resta il fatto che la filosofia ermeneutica è così condotta a mettere sempre
più marcatamente l’accento sul carattere linguistico della comprensione
del mondo
[30]
.
Si
possono dare differenti risposte alle domande concernenti il chi comprendere,
il cosa comprendere, il come comprendere e, soprattutto, a quella riguardante
il senso stesso del comprendere.
Per
la filosofia ermeneutica la comprensione ha un carattere radicalmente
temporale.
L�esperienza
umana non è fatta di stati di coscienza atomistici e puntuali, ma di
connessioni di significato che implicano un incessante riordinamento
retrospettivo e prospettico[31].
La
coscienza ermeneutica è una coscienza storica, è esposta alla storia e alla
sua azione in modo tale che questa azione non può essere oggettivata senza fare
venire meno lo stesso fenomeno storico.
Ma
l�oggettivazione epistemologica introduce in questa coscienza una sorta di
distanziazione alienante che distrugge l�originaria relazione di appartenenza.
Bisognerà
allora recuperare la profonda unità della coscienza storica, mostrando la
possibilità di superare la frattura tra la tradizione in cui e di cui vive
l’interprete e quella a cui il testo o il messaggio appartiene.
Ogni
accostamento ai documenti storici non è mai neutrale.
Ogni
interprete porta con sé modelli istillati dalla propria tradizione e cultura.
Questi
pregiudizi lo conducono ad avere determinate aspettative nei confronti dei
significati di un testo.
Il
comprendere sarà, allora, un movimento circolare tra le aspettative o le
anticipazioni dell’interprete e i significati annidati nel testo.
L�incontro
e la fusione degli orizzonti è possibile, perché da un lato, la consapevolezza
dei pregiudizi dà la possibilità di governarli e di correggere, così le
aspettative, dall�altro, i significati da comprendere si protendono al di là
delle intenzioni dell�autore.
Per
questo ogni comprensione ermeneutica non è una mera riproduzione, ma ha un
aspetto produttivo e si sviluppa come evento storico esso stesso, che a sua
volta è disponibile per ulteriori attualizzazioni.
�Anche l�esperienza giuridica ha un carattere
storico ineliminabile.
Il
passato fa sentire il suo peso nel presente che a sua volta si sente in qualche
modo vincolato da esso.
La
pratica giuridica è una incessante opera di mediazione tra mondi diversi,
quello di coloro in cui testo legale ha avuto origine e quello� dei suoi attuali utenti, cioè di coloro che
se ne servono per portare a compimento l’impresa del coordinamento delle azioni
sociali.
L�interprete
è tradizionalmente un mediatore e un traduttore.
Non
si tratta soltanto di mettere in comunicazione culture diverse, ma anche
situazioni differenti, eventi storici lontani nel tempo e aspettative
contrastanti[32].
Ciò
richiede non solo la capacità di partecipare a un particolare gioco
linguistico, ma anche di sapere cogliere ciò che una particolare forma di vita
può comunicare ad un’altra differente e cosa questa può ricevere dal passato.
La
filosofia ermeneutica, almeno per le sue origini e nei suoi principali
sviluppi, è particolarmente sensibile all’incontro di mondi culturali
differenti.
Tuttavia
sarebbe erroneo ricondurre le istanze della filosofia ermeneutica al problema
del dialogo interculturale.
L�esperienza
ermeneutica è non a caso emblematicamente raffigurata da Gadamer nell�incontro
con l�opera d�arte e con la sua funzione normativa.
Nell�interpretazione
dell�opera d�arte o del testo classico infatti si produce una trasformazione
del mondo stesso dell�interprete, cioè avviene un processo di integrazione.
Il
rapporto con l�opera non è né semplicemente soggettivo, né oggettivamente
ricostruttivo, ma rappresenta una mediazione tra il nostro presente di interpreti
e le tracce ed il senso del passato che ci sono trasmessi.
Quindi
non si tratta direttamente di un incontro di due culture diverse, ma tra il
mondo dell’interprete e qualcosa di normativo, che a sua volta appartiene ad un
mondo culturale diverso[33].
Questa
funzione ermeneutica non è svolta solo dall’opera d’arte, ma si ritrova anche
in altri eventi linguistici.
Non
c�è dubbio, ad esempio, che i diritti dell�uomo provengano da una determinata
cultura, quella occidentale, ma valgono e sono normativi solo nella misura in
cui sono capaci di parlare a culture diverse da quella di origine.
Apel[34]
afferma che in tutte le attività in cui la comprensione ermeneutica trova la
sua applicazione essa si concretizza come la competenza a seguire le regole.
Proprio
in questo l�ermeneutica differisce da un metodo di conoscenza empirica.
I
caratteri normativi del comprendere ermeneutico sono stati accentuati nelle
pagine precedenti per preparare meglio il terreno alla considerazione del
diritto, ma possiamo sottolineare che essi appartengono alle radici della
filosofia ermeneutica.
La
distinzione tra spiegazione e comprensione non avrebbe alcun senso se la
seconda non conducesse ad una modificazione del mondo stesso dell’interprete e
delle prospettive di azione.
La
vita sociale, sostiene Gadamer, consiste in un continuo processo di
trasformazione di ciò che è vigente[35].
D�altronde
l�identificazione tra interpretazione e applicazione dice chiaramente il
carattere normativo del comprendere ermeneutico, per cui solo un sapere che sa
applicarsi alla situazione concreta prova con ciò la sua validità.
Questa
applicazione è una commisurazione del caso in esame, un esercizio di ragion
pratica volto a configurarsi in qualche modo come recta ratio.
In
questo contesto concettuale come bisogna pensare il diritto?
Sono,
infatti, presenti tutti gli elementi che consentono l’elaborazione di una
concezione ermeneutica del diritto: una prassi vivente rappresentata dal
diritto giurisprudenziale, i testi normativi da interpretare, i casi giuridici
da risolvere� e una comunità come
orizzonte dell’interpretazione con le sue istituzioni autoritative.
Tutto
ciò però non basta a definire il diritto, se non si comprende il senso generale
dell’operare giuridico, cioè le ragioni per cui elementi così diversi si
compongono, costituendo una prassi di vita dentro cui ci troviamo e stiamo.
L�ermeneutica
filosofica è stata recepita in vario modo dal pensiero giuridico di lingua
tedesca.
Com�era
prevedibile, l�attenzione dei giuristi è stata prevalentemente attratta dagli
apporti ermeneutici alla dottrina dei metodi interpretativi, che in campo
giuridico poteva vantare una consolidata tradizione.
L�interpretazione
giuridica venne considerata come un settore speciale o particolare
dell�ermeneutica metodica ( Sonderfall )[36].
Ma
con Gadamer l�ermeneutica ambisce a qualcosa di più, cioè a passare dalla
dimensione metodica a quella propriamente filosofica.
Questa
tendenza ha sollevato gravi difficoltà per le filosofie che si rivolgono ad
ambiti specifici dell’esperienza umana, perché esse sono impegnate a definire
il loro oggetto e non possono accontentarsi di dissolverlo nella generale
prassi interpretativa.
Affermare
che il diritto è interpretazione può non volere dire nulla quando si sostiene
che tutto è interpretazione.
La
ragione d�essere di una filosofia del diritto riposa sulla convinzione che sia
possibile distinguere in qualche modo il campo della giuridicità da altri
settori della vita umana.
Ma,
se esso è prassi interpretativa come la politica, l’economia e la morale,
allora sarà necessario introdurre altre specificazioni di carattere oggettivo.
E
conseguentemente il nucleo centrale della questione filosofica si sposterà su
questi caratteri oggettivi e, pertanto, non si potrà parlare di una filosofia
ermeneutica del diritto.
E�
questo il senso proprio della ben nota polemica tra Betti e Gadamer.
Da
parte del teorico del diritto non si trattava soltanto della preoccupazione
filosofica di garantire l’oggettività del sapere, ma anche, e soprattutto, di
difendere l’identità del diritto, che appariva minacciata proprio nel momento
in cui l’ermeneutica giuridica veniva assunta come modello esemplare
dell’ermeneutica filosofica[37].
Ciò
spiega anche perché solitamente i filosofi del diritto seguaci
dell’orientamento ermeneutico lo coniughino con altri apporti filosofici, quali
quelli provenienti dalla filosofia dei valori (Betti) o dall’ontologia
(Kauffmann e Frommel).
Questa,
dunque, è la principale difficoltà che incontra ancora oggi l’edificazione di
una filosofia ermeneutica del diritto: in che modo l’ermeneutica da sola potrà
rispondere alla questione del diritto senza annegarlo nella indistinzione della
vita pratica?[38]
Per
rispondere a questa domanda dobbiamo prima renderci meglio conto dei caratteri
distintivi della concezione ermeneutica dell’interpretazione.
Per
avvalorare una concezione ermeneutica del diritto non basta affermare che
l’interpretazione svolge un ruolo centrale in tutti i momenti significativi
dell’esperienza giuridica. Bisogna, altresì, mostrare che questa attività
interpretativa si deve intendere in un certo modo, quello propriamente
“ermeneutico”.
Alcune
sottolineature tipicamente ermeneutiche sono ormai state recepite dal modo
diffuso di intendere l’interpretazione in generale e quella giuridica in particolare.
Ci
si riferisce principalmente alla nozione di interpretazione partecipante.
L�idea
che l�interprete non sia un osservatore esterno, al modo dello scienziato della
natura, ma si collochi all�interno della situazione in cui deve svolgere il suo
ruolo e ne accetti i presupposti contestuali, è ormai generalmente condivisa.
Si
parla di �punto di vista interno� in Hart o di �punto di vista ermeneutico�, ma
ciò ancora è ben lungi dal rappresentare una concezione ermeneutica
dell�interpretazione.
Anche
la convinzione che l�interprete non sia meramente passivo e che la sua attività
contribuisca in certo qual modo a formare il significato del testo, cioè non
sia meramente riproduttiva ma in un certo senso anche creativa, è ormai una
constatazione incontestata ed incontestabile, ma sarebbe errato vedervi un
apporto caratterizzante dell�ermeneutica.
Quando
Gadamer nota che le regole del diritto e della morale hanno bisogno di una
integrazione produttiva e che “il giudice non applica solo in concreto la
legge, ma con la sentenza che pronuncia porta uno sviluppo del diritto” dice
una cosa ragionevole che non richiede di per sé un supporto ermeneutico[39].
Infine,
anche la critica al sillogismo giudiziale inteso come mera sussunzione logica
del caso concreto nella fattispecie astratta e, conseguentemente, del logicismo
giuridico appartiene ormai alla forma mentis del giurista contemporaneo, che
non confonde i processi di concretizzazione della norma con la pura e semplice
deduzione logica, anche se questa conserva un ruolo fondamentale
nell’applicazione del diritto[40].
L�apporto
proprio dell�ermeneutica non consiste nel correggere le deformazioni
illuministiche dell�attività interpretativa intesa come produzione oggettiva
delle intenzioni del legislatore.
Non
consiste neppure nel formulare metodi interpretativi alternativi a quelli
consolidati nella pratica giuridica, ma piuttosto in una rinnovata
consapevolezza delle condizioni di esercizio della pratica interpretativa.
Proprio
in questo senso l�ermeneutica può essere considerata una filosofia piuttosto
che una metodica.
Il
centro filosofico dell�ermeneutica non si trova nell�interpretazione ma nel
comprendere.
L�interpretazione
come attività acquista un senso proprio perché avviene all�interno di una
preliminare comprensione, che è il vero e proprio luogo del �senso�.
Ogni
attività ha un significato solo all’interno di una totalità di senso.
Di
conseguenza la comprensione precede e condiziona l’interpretazione che a sua
volta la sviluppa, la corregge e la libera dai fraintendimenti[41].
Questa
considerazione si appoggia su osservazioni elementari.
Se
non anticipiamo il senso del nostro discorso, non riusciamo neanche a
costruirlo.
Anche
nella ricerca scientifica, perché il dato sia enucleato, occorre prima
anticiparne il senso e poi verificarlo con il controllo sperimentale.
Ma
per la filosofia ermeneutica tutto ciò assume una rilevanza più profonda in
quanto il comprendere è inteso come un modo di essere, il modo proprio d’essere
dell’uomo.
Gadamer
sosteneva che non si può eludere la considerazione che non soltanto il discorso
e la scrittura, ma tutte le creazioni umane sono compenetrate di un “senso”,
che è compito dell’ermeneutica estrarre.
Il
senso di una pratica sociale interpretativa è la finalità generale dell’impresa
di cui si tratta.
Esso
precede e illumina le azioni che sono poste al suo interno.
Queste
azioni possono essere corrette o non corrette in relazione a ciò a cui mirano,
cioè propriamente possono essere sensate o insensate.
Da
questo punto di vista il senso di una pratica sociale è un compito a cui si è
chiamati, una impresa che si intraprende, un obiettivo generale che si
persegue.
Ciò
significa che il senso che sta alla base della comprensione ermeneutica ha un
carattere pratico e che la filosofia ermeneutica del diritto non potrà che
essere una filosofia pratica.
E�
proprio di un compito e, più in generale, di un fine, quello di mettere in moto
senza ancora propriamente esistere, cosicché la precedenza del senso non
contraddice la ricerca interpretativa dei significati in cui esso si articola e
si realizza.
Il
primato della comprensione spinge, dunque, l’ermeneutica come filosofia ad
interrogarsi sul senso delle opere umane.
Abbiamo
già notato come non si tratta semplicemente di mettere a contatto culture diverse,
cioè di problemi di traduzione di linguaggi, ma di comprendere la “cosa” di cui
si tratta e questa non si lascia imprigionare nella relatività di una cultura,
né esaurire dalla molteplicità� delle sue
applicazioni.
E�
proprio in riferimento a questo �senso comune� che le culture possono
comunicare veramente[42].
L�ermeneutica
si colloca in questo spazio interstiziale che propriamente non esiste, perché
ogni evento interpretativo appartiene inevitabilmente ad un processo culturale.
Essa
si interroga su ciò che rende possibile alle forme di vita di dialogare tra
loro attraverso eventi che pur tuttavia restano interni e propri a ciascuna di
esse.
La
particolare attenzione che l’ermeneutica rivolge ai testi viene spiegata dal
fatto che i testi ci parlano di qualcosa o, meglio, sono il luogo in cui è
possibile incontrare il senso per cui li si interpreta.
Poiché
l’attività interpretativa è messa in moto dall’istanza cogente della
realizzazione di un’opera, i testi in questione sono quelli che chiamiamo ad un
compito che si percepisce come ineludibile. Possiamo considerarli “classici” se
diamo a questa espressione un significato ampio[43].
Sono
testi classici le grandi opere letterarie e artistiche, ma anche quelle
religiose e i testi giuridici.
Sono
considerati emblematici, perché in essi il senso dell’opera da compiere si svela
in modo particolare, sicché essi assumono il ruolo di punto di riferimento per
comprendere i significati delle azioni.
Non
bisogna però pensare solo ai testi scritti.
Anche
il modo di comportarsi comune agli uomini può assumere il ruolo di sistema di
riferimento mediante il quale comprendiamo una lingua sconosciuta[44].
Si
palesa, pertanto, evidente tutta la differenza tra l’approccio
giuspositivistico al testo e quello proprio dell’ermeneutica giuridica.
Il
primo, come abbiamo visto nel capitolo precedente, ritiene infatti, che tutto
il senso sia immanente al testo e racchiuso in esso.
Il
giuspositivismo non si caratterizza in quanto afferma che tutto il diritto è
prodotto dall’opera umana, ma fondamentalmente per il fatto di sostenere lo
“stare in se stesso” del diritto positivo, cioè l’identificazione fra il senso
del diritto e i testi giuridici, ovvero, che è la stessa cosa,
l’autolegittimazione del testo.
Ciò
vale sia nel caso che i testi giuridici si pensino come ormai assolutamente
indipendenti dai loro autori, sia nel caso che li si consideri sempre come
luogo di manifestazione delle intenzioni autoritative.
In
ogni caso qui il senso è inteso come un dato di fatto.
Nella
prospettiva ermeneutica, invece, non è un testo ad avere� un senso, ma un senso ad avere uno o più
testi[45].
Ciò
significa che è il diritto in quanto senso specifico dell’operare umano a
procedere e conferire significato ai testi, che proprio per questo sono
considerati giuridici.
Nessuno
di essi è però in grado di afferrare e racchiudere in sé tutto il senso del
diritto, essendone ognuno solo una più o meno adeguata manifestazione ( instantiation ).
Se
non fosse così, comprensione ed interpretazione sarebbero la stessa cosa e,
conseguentemente, non sarebbero possibili criteri di valutazione relativi alla
correttezza della seconda.
Il
diritto sarebbe interpretazione e null’altro che interpretazione senza poter
dire di che cosa si tratti.
Neppure
si potrebbe rispondere conclusivamente�
che si tratta d�interpretare testi giuridici, perché questi sono essi
stessi frutto di interpretazioni, a meno che non li si consideri meri enunciati
linguistici, i quali di per sé non hanno nulla di �giuridico�.
L�interpretazione
è legata alla positività fino al punto da potersi affermare che la stessa
positività del diritto è il risultato di interpretazioni e il principio di
altre interpretazioni. Il senso propriamente non lo si interpreta, ma lo si
comprende e ciò dà luogo ad una catena infinita di eventi interpretativi[46].
La
questione metodologica della correttezza dell’interpretazione è, dunque,
subordinata a quella ermeneutica delle condizioni di possibilità della
comprensione dei testi giuridici.
Prima
di dire qualcosa di più specifico sul senso del diritto, bisogna ancora
rendersi conto delle implicazioni filosofiche di questo primato del comprendere
sull’interpretare[47].
Tra
le condizioni di possibilità della comprensione si trova quella di un approccio
olistico al linguaggio.
I
linguaggi sono comprensibili solo in quanto totalità.
Il
senso stesso è presupposto come un’unità compiuta a cui fare riferimento
nell’interpretare i testi.
Tuttavia
la comprensione ermeneutica va oltre l’unità interna del discorso, poiché
questo a sua volta presuppone un’unità di senso superiore che lo distingue da
altri discorsi e lo qualifica come propriamente “giuridico”.
I
discorsi giuridici, sono infatti, quelli in cui si parla della cosa diritto e
con ciò lo si pratica.
Per
la filosofia ermeneutica il discorso è quella situazione di linguaggio in cui
si attua il comprendere e l’intendersi.
All�interno
di questa situazione discorsiva, che è prima di tutto un evento, dovrà poi
operarsi il controllo razionale o analitico, ma non è questo che potrà
qualificare come �giuridico� l�evento stesso.
Al
contrario, è dal carattere specifico della situazione discorsiva che dipende il
modo in cui si possono saggiare le sue pretese di validità.
Alexy[48] ha
sostenuto la tesi che il discorso giuridico costituisce un caso particolare, o meglio,
“speciale” del discorso pratico generale.
Come
giustificazione ha addotto le condizioni limitative specifiche a cui è soggetta
l’argomentazione giuridica, quali il vincolo di legge, la considerazione dei
precedenti, il riferimento alla dogmatica giuridica e i limiti posti dalle
regole processuali.
Nel
rispetto di questi limiti l’argomentazione giuridica può ben difendere la sua
pretesa di correttezza razionale.
Tutto
ciò è, però, una descrizione estrinseca del discorso giuridico, ben lungi dal
condurre alla sua comprensione.
L�obiezione
nei confronti di questa tesi non è tratta dalla constatazione che i limiti
sopra accennati sono contingenti e storicamente relativi e neppure
dall�esistenza di limiti anche nel discorso pratico generale, ma dal fatto che
ogni discorso pratico si comprende nella misura in cui si prendono in
considerazione i beni che attraverso esso possono essere raggiunti e le
finalità che esso permette di conseguire[49].
Ciò
che conferisce senso al discorso giuridico e all’impresa cooperativa che esso
sostanzia non è dato dalle sue specifiche condizioni dell’esercizio, ma dagli
obiettivi che lo mettono in moto.
I
discorsi pratici (etici o giuridici) si articolano sulla base di argomentazioni
e mezzi per il loro esame, in cui si saggiano intersoggettivamente le
giustificazioni delle azioni o omissioni e si mettono in questione le pretese
di validità delle norme, dei giudizi di valore e delle istituzioni.
Se
li osserviamo alla luce di ciò che questi discorsi tendono a realizzare o a
raggiungere, allora non solo le argomentazioni, ma anche le stesse regole
normative si presentano come “ragioni” che giustificano le azioni.
Ma
queste ragioni possono essere colte solo all’interno dei contesti discorsivi,
che conferiscono ad esse esistenza ed operatività.
Ed
è per questo che non devono essere considerate come limitazioni di un discorso
pratico ideale, che sarebbe un modello puramente astratto.
Ciò
vieta di assimilare la giustezza delle decisioni giuridiche alla validità dei
giudizi morali[50] .
I
discorsi pratici, infatti, sono eventi linguistici, in cui prende forma
un’impresa comune che è caratterizzata da ciò che si intende realizzare o
raggiungere.
In
quanto �eventi� bisogna prenderli come in effetti sono e non già per misurarli
sulla base di un dovere essere ideale.
In
questo senso la tesi di Alexy, per la quale il discorso giuridico è un caso
speciale di discorso pratico, è ben diversa da quella di Gadamer, che vede nel
discorso giuridico un caso esemplare dell’ermeneutica filosofica.
Per
la filosofia ermeneutica il discorso non serve soltanto a comunicare le
intenzioni dei partecipanti, ma soprattutto a tessere una forma di vita comune.
�Questa prospettiva impedisce una assimilazione
della filosofia ermeneutica alla pragmatica linguistica[51].
Per
questa ultima le intenzioni e le credenze sono il principio direttivo, cioè lo
stato di cose che conferisce senso al discorso.
Per
l�ermeneutica il principio direttivo è ciò di cui si sta parlando o ciò che si
sta facendo.
E�
questa la �cosa� del testo ovvero ciò di cui si parla.
Non
si tratta di un significato determinato, come può essere un’intenzione, ma di
sottomettersi ad una realtà normativa, cioè a vincoli e a regole.
La
determinatezza del significato sarà, invece, il risultato dell’interazione
comunicativa e degli atti partecipativi.
Infatti
il diritto, in quanto la “cosa” di cui il testo legale parla, è segnato
dall’indeterminatezza.
Un�opera
d�arte ha un carattere vincolante non già in virtù dell�intenzione dell�autore,
ma perché ha una pretesa di verità da rispettare.
Del
pari ci dobbiamo sottomettere alle regole del gioco, se vogliamo praticarlo e a
quelle di una cultura se vogliamo essere comunicativi.
Orbene,
l�ermeneutica rifiuta la centralità dell�intenzione proprio perché rivolge
tutta la sua attenzione alle condizioni entro cui ogni intenzione può essere
formulata e acquista senso.
Insomma,
il senso da comprendere non viene dall’intenzione, ma da qualcos’altro e
comunque non può essere compreso senza di esso[52].
L�attenzione
dell�ermeneutica filosofica si rivolge a quelle forme di vita comune che il
discorso stesso costruisce e istanzia.
Il
suo problema centrale non è quello della determinazione dei significati
all’interno di un senso già costituito, come potrebbe essere quello di una
cultura o di un linguaggio già esistenti e praticati.
Questa
è una questione di interpretazione, che presuppone già costituito il linguaggio
dell’interazione e si muove dentro un mondo già segnato dalla reciprocità,
dalla cooperazione e da un senso intersoggettivo contestuale, che in qualche
modo guida l’interprete e costituisce un vincolo nei confronti dell’opera di
iscrizione dei significati[53].
Il
vero e proprio problema della filosofia ermeneutica è quello della comprensione
di ciò che è estraneo e ciò è possibile solo in quanto si colga un senso comune
tra il nostro mondo e quello a cui appartiene il testo da comprendere.
La
scoperta di questa comunanza non è possibile attraverso conoscenze puramente
teoriche e astratte, ma solo nell’evento pratico del discorso, in cui prende
forma la partecipazione ad una impresa comune.
Ciò
che è comune tra il mondo del testo e il mondo dell’interprete è il fine
pratico, cioè la rilevanza del testo nei confronti dell’azione da compiere.
Se
non si entra nell�ottica della conoscenza pratica non è possibile afferrare le
istanze della filosofia ermeneutica.
Questo
non è il luogo per difendere la dimensione conoscitiva della ragion pratica,
che, dopo essere stata a lungo misconosciuta , solo di recente viene rivisitata
dalla cultura filosofica[54].
Tuttavia
è bene chiarire un equivoco ancora oggi persistente.
Quando
si parla di �conoscenza pratica�, non si intendono affrontare questioni di
applicazione delle conoscenze teoriche, ma ci si vuole riferire ad una vera e
propria forma di conoscenza, che ha le sue procedure tipiche, le sue pretese di
verità e una sua �oggettività�.
La
conoscenza pratica è quella conoscenza che è parte integrante del processo che
conduce all’azione.
In
questo non si possono separare descrizione e prescrizione, conoscenza e
decisione, essere e dovere essere, perché altrimenti si frantumerebbe l’unità
dell’azione comune rappresentata dalla situazione discorsiva.
Dal
punto di vista ermeneutico non ha senso caratterizzare un discorso come
prescrittivo o descrittivo, perché ogni discorso, di qualsiasi tipo sia, è
insieme l’uno e l’altro.
Dobbiamo
ribadire che la filosofia ermeneutica ha per oggetto la problematica della
comprensione del senso delle imprese comuni e ritiene che esso non si trovi al
di fuori dei concreti eventi discorsivi.
La
�cosa� di cui parla il testo vive nella pratica del comprendere e
dell�interpretare. Proiettarla nell�empireo delle idee eterne significherebbe
obliare ancora una volta la ragion pratica.
A
questo punto per una filosofia ermeneutica del diritto si pone la domanda
cruciale : cosa può dirsi del “senso del diritto”?
In
che modo ci si può riferire alla “cosa-diritto”?
Tutto
questo nostro discorso è stato rivolto a rispondere a questa domanda e lo si è
fatto partendo dalla problematica dell’interpretazione giuridica in cui prende
forma la “cosa-diritto”, così come la prospettiva ermeneutica richiede[55].
Ma,
poiché la comprensione precede e giustifica l’interpretazione, bisogna ora, in
conclusione, gettare almeno un timido sguardo sulla stessa comprensione del
senso del diritto nella consapevolezza che è difficile evitare il pericolo di entificarlo
in qualche modo.
La
�cosa-diritto� non è un�idea, non è un valore e non è neppure un insieme di
procedure sociali. Ma è un�impresa comune tra essere liberi e autonomi, ma
bisognosi gli uni degli altri per realizzare ognuno una vita ben riuscita.
Questa
impresa cooperativa si sostanzia in attività guidate da regole ed è volta� a coordinare le azioni sociali.
Ma
tutto ciò è ancora tropo generico, perché potrebbe essere applicato altrettanto
bene ad altre sfere della vita pratica, come la morale, la politica e
l’economia.
A
questo punto diventa decisiva la questione del metodo da adottare per
raggiungere l’obiettivo di una descrizione adeguata del diritto.
La
plausibilità di una filosofia ermeneutica del diritto riposa, infatti, nella
capacità di esibire un approccio proprio e convincente alla comprensione della
“cosa-diritto”.
A
questo proposito bisogna escludere due strategie di accostamento che pur sono
diffuse nell’ambito degli studi filosofici-giuridici, ma che non si adattano ai
presupposti filosofici dell’ermeneutica come sopra indicati.
Innanzitutto
bisogna prendere atto delle inadeguatezze del metodo analitico, così come è
stato introdotto nella scienza giuridica a partire dalla analytical
jurisprudence di Austin.
Come
abbiamo visto nel capitolo precedente, tale metodo tende ad individuare il
diritto per una o più caratteristiche ritenute come specifiche.
Ogni
volta che riscontriamo presenti questi elementi essenziali dovremmo potere
essere sicuri di trovarci di fronte a fenomeni giuridici.
Anche
il giusnaturalismo moderno, come abbiamo scritto nel capitolo precedente, aveva
adottato la distinzione per genus et differentiam specificam al fine di
cogliere i caratteri differenziali del diritto rispetto alla morale, al costume
e alla politica[56].
Questo
metodo della caratteristica rilevante in linea di principio induce ad una
semplificazione della descrizione del diritto.
Esso
è stato individuato nel rapporto intersoggettivo, nel comando e, molto spesso,
nella sanzione.
Queste
inquietudini della teoria del diritto stanno a testimoniare l’inadeguatezza di
ogni eccessiva semplificazione, perché la complessità di un fenomeno può ben
appartenere alla sua stessa definizione.
Di
conseguenza le più mature applicazioni del metodo della caratteristica
rilevante registrano una crescita delle note ritenute essenziali alla
definizione di diritto, ma con ciò stesso si va perdendo il rigore e
l’efficacia del metodo.
In
ogni caso ciò che resta in ombra è il problema della scelta del punto di vista
da assumere per cogliere in tutta la sua ampiezza il senso del diritto.
Una
volta scelta una prospettiva, allora il gioco è fatto e si potrà essere più o
meno coerenti nella teoria.
Ma
il vero problema è quello delle ragioni che abbiamo per ammettere certe
caratteristiche ed eluderne altre dalla definizione di diritto.
Questo
problema non può essere risolto dal solo metodo analitico, perché richiede la
precomprensione del senso del diritto[57].
L�altro
modo di accostamento al senso del diritto, che non dobbiamo confondere con
quello ermeneutico, è quello che Bobbio ha chiamato �la filosofia del diritto
dei filosofi� ben distinguendola da quella dei giuristi[58].
Si
tratta di una filosofia del diritto applicata, cioè nell’applicare le
concezioni filosofiche generali al diritto, traendo da esse ispirazione per
chiarire il suo posto e ruolo nell’ambito di una complessiva visione del mondo.
Tutti
partono dalla convinzione che il senso del diritto dipenda da una visione
generale del mondo e sia precostituita da questa.
In
realtà ciò è vero solo in quanto la nostra precomprensione è sempre guidata da
una, spesso inconsapevole, presa di posizione nei confronti del mondo e della
portata della nostra conoscenza, ma non lo è nella misura in cui il senso delle
nostre attività si costruisce proprio nel praticarle e nelle forme di vita che
si intessono nella storia.
Quando
la filosofia ermeneutica parla della “cosa-diritto”, non intende riferirsi a
qualcosa di precostituito, di cui gli eventi storici sarebbero una più o meno
perfetta applicazione, ma è volta a comprendere proprio il senso di un
determinato tipo di attività che è persistente nella storia e che si individua
per le finalità e i beni da raggiungere.
Bisogna
riconoscere che è difficile per la filosofia ermeneutica custodire questa
prospettiva radicalmente storica senza cadere nel relativismo culturale, che
impedirebbe qualsiasi definizione universale (e quindi anche quella del
diritto).
Come
conciliare l�affermazione della storicità dell�esperienza umana con la pretesa
che i testi parlino di qualcosa di cui sono essi stessi la manifestazione e il
prodotto, cioè con la pretesa della priorità del senso sul testo?
E�
proprio la difficoltà di rispondere in modo convincente a questa domanda che ha
spinto la filosofia ermeneutica del diritto a coniugarsi e completarsi con
altre concezioni filosofiche, a volte inclinate più verso lo storicismo e altre
volte più propense all�idealismo assoluto o all�antologia.
In
ogni caso con ciò stesso l’ermeneutica ha ammesso la sua insufficienza in
quanto filosofia, dando ragione a quelli che vogliono ricondurla alle più
modeste origini� di �arte
dell�interpretazione� e nulla più.
Il
pensiero di Arthur Kaufmann[59] è a
questo proposito emblematico.
Egli
parla di una �struttura ontologica del diritto�, che giustifica il suo
approccio ermeneutico.
C�è
il diritto perché� vi sono uomini e
perché l’uomo è un animale sociale bisognoso di diritto.
Quindi
da una antropologia filosofica, segnata da una libertà che deve dar forma a se
stessa con l’orientamento ai valori nella storia, deriva il modo d’essere del
diritto, che è la concretizzazione del giusto nella sua temporalità.
Qui
sono ancora evidenti le tracce della dipendenza dell’ermeneutica da una
filosofia della persona umana.
Siamo,
ancora una volta, di fronte ad una filosofia del diritto applicata.
In
generale, nel pensiero giuridico tedesco l’ermeneutica è ampiamente sviluppata
sul piano del metodo della scienza giuridica, ma poi è giustificata in quanto
funzionale ad una concezione filosofica non propriamente� (o non specificamente) ermeneutica.
Una
filosofia ermeneutica del diritto dovrebbe aspirare a superare questa
alternativa tra la filosofia del diritto dei filosofi e quella dei giuristi,
tra una filosofia del diritto applicata e una filosofia del diritto derivata.
Se
la comprensione del senso del diritto è indispensabile per il conoscere e
l’agire giuridico, allora nell’uso del metodo sarà già implicita la presenza di
una visione filosofica più generale[60].
Tutto
ciò risulterà più chiaro dalla considerazione del metodo di ricerca proprio
della filosofia ermeneutica, cioè del metodo del caso esemplare o del caso
paradigmatico.
Nella
ricerca del senso dei fenomeni culturali o delle “cose umane” il metodo
migliore non è quello di cercare l’elemento comune, perché ciò appiattisce una
nozione verso il basso e ne mortifica le possibilità e le ricchezze di
manifestazione, in cui più chiaramente si mostra il senso.
Il
bello si coglie meglio nelle cose più belle e il buono nelle azioni
Bisogna,
pertanto, scegliere in via d’ipotesi i casi emblematici ed accettati da tutti,
dei fenomeni culturali studiati per mettere a punto il senso principale del
concetto che si vuole definire.
I
casi periferici, a loro volta, appariranno come esempi impoveriti o mancanti di
qualcosa o, comunque, dubbi.
Essi
saranno chiariti proprio sulla base dei legami significativi che hanno con il
caso principale.
Questa
comunanza permette l’estensione analogica del concetto, che mostra così la sua
autentica universalità.
E�
solo nel caso emblematico che il principio o la ratio della definizione è più
facilmente individuabile.
Se
partissimo dai casi dubbi non riusciremmo mai ad approdare alla comprensione della
pienezza del senso delle cose umane.
Se
vi sono casi dubbi, è perché vi sono casi non dubbi ed è da questi che bisogna
prendere le mosse per chiarire gli altri.
Non
si deve credere che questo metodo sia, a differenza dell’altro, di tipo
deduttivo; al contrario esso si presenta come il modo più corretto di indagine
induttiva.
Aristotele
lo aveva esteso anche alla sua filosofia della natura[61].
La
ricerca induttiva non procede dallo scrutinio di tanti casi singoli per
astrarre da essi l’elemento comune mediante generalizzazioni.
Questo
è possibile solo a posteriori per scopi didattici o espositivi, quando si è già
trovato l’elemento comune.
Al
contrario, nella ricerca si procede da un caso particolare assunto come
emblematico in via ipotetica e si verifica se esso possa offrire
un’universalità autentica.
L�importante
è scegliere accuratamente il caso paradigmatico e non dimenticare che si tratta
solo di un�ipotesi da verificare, che può e deve essere abbandonata se è priva
di portata universale[62].
La
dimensione ermeneutica del metodo del caso principale è fuor di dubbio, ma essa
risiede non tanto nel procedimento d’indagine quanto piuttosto nell’esigenza
della precomprensione del senso all’interno della quale operano i processi di
selezione della riflessione.
Il
reale punto di partenza si trova in un universale indeterminato o in una
conoscenza approssimativa, ma, solo liberandosi dal fraintendimento, si potrà
arrivare alla determinatezza dei principi e, quindi, alla comprensione del
senso.
Si
tratta ora di applicare questo metodo di ricerca alla descrizione del diritto.
Il
problema cruciale è quello della scelta di ciò che potrebbe valere come caso
paradigmatico di diritto in quanto maggiormente rappresentativo del suo senso
principale.
In
questo dobbiamo essere guidati dalle nostre convinzioni più consolidate e
diffuse, poiché già possediamo l’esperienza del diritto e abbiamo una
precomprensione indeterminata di esso.
Possiamo
ragionevolmente ritenere che l’obiettivo della pratica giuridica sia quello
della coordinazione delle azioni sociali, della risoluzione delle controversie
e della riparazione dei danni dell’interazione.
Possiamo
anche pensare che la pratica giuridica porti con sé l’esigenza che non tutte le
soluzioni dei conflitti siano accettabili, ma solo quelle che ritiene “giuste”
o “non ingiuste”[63].
Possiamo
forse dire che il valore-guida della pratica giuridica sia la soluzione giusta
e pacifica dei conflitti sociali e che ciò normalmente richiede un’autorità
legittima che detti criteri di condotta non contraddittori e praticabili.
Possiamo
forse, infine, notare che l’obiettivo del diritto è quello di offrire standard
comuni di azioni per la guida del comportamento dei membri di una comunità
politica, cioè quello di creare una rete di regole e di aspettative stabili che
consenta ai singoli di esercitare l’autonomia personale in una logica di
interazione.
Queste
convinzioni diffuse inducono a vedere nel modello dello “stato di diritto”, che
pure è un prodotto recente dell’evoluzione giuridica, quel caso paradigmatico
di cui andiamo in cerca.
Esso
ci aiuterebbe a discernere anche i casi imperfetti o dubbi, cioè quelli in cui
gli obiettivi del diritto sono raggiunti in modo ancora inadeguato per
l’insufficienza delle istituzioni giuridiche e politiche, per la confusa
formulazione delle regole, per la commistione tra il giuridico e il non
giuridico o altri difetti del genere[64].
Proprio
perché possiamo disporre di un modello più compiuto di diritto siamo in grado
di individuare la presenza del giuridico anche nelle società primitive o
culturalmente differenti, in cui tuttavia possiamo riconoscere le stesse
finalità ed esigenze, anche se espresse in forme e modi imperfetti.
Ciò
significa che non ogni caso di diritto lo è allo stesso modo, ma è tale in modo
più o meno pieno e compiuto, perché più o meno chiare e distinte ne sono le
finalità e più o meno adeguati ne sono gli strumenti.
Partendo
dall�idea che il diritto è quella realtà il cui senso è servire alla giustizia[65],
sottolineiamo che l�eguaglianza formale non può bastare se è vero che essa può
convivere con le disuguaglianze sostanziali, come la storia ampiamente
dimostra.
Un
modello compiuto di diritto non può essere indifferente nei confronti dei
contenuti delle sue regole.
E�
per questo che oggi lo �stato costituzionale di diritto� si presenta come
candidato preferibile al ruolo di caso emblematico.
Ma
la sua interpretazione è ancora cosa controversa.
Può
esso rappresentare quella universalità autentica di cui il teorico va in cerca?
Può costituire veramente il luogo in cui il senso del diritto si svela
compiutamente?
La
giustificazione della scelta di un modello storico come caso principale è un
momento fondamentale nell’elaborazione di una filosofia ermeneutica del diritto
che voglia difendersi dall’accusa di storicismo.
Certamente
è la tendenza a considerare le nostre istituzioni come superiori a quelle del
passato, ma ciò deve essere dimostrato sul piano della ragionevolezza.
In
questo processo di giustificazione si incontrano e si scontrano modi diversi di
autocomprensione tra cui scegliere sulla base del principio della priorità del
senso sul testo[66].
Una
filosofia ermeneutica del diritto considera gli sforzi giuridici di organizzare
la vita sociale come tentativi più o meno riusciti di edificare società giuste,
nonostante le drammatiche smentite della storia[67].
Ciò
che risulta irragionevole alla luce di questa finalità è destinato prima o poi
ad essere travolto e spazzato via per gli effetti devastanti della pratica.
La
ragion pratica è verificata dai risultati delle sue applicazioni più che dal
valore astratto dei suoi principi.
La
ragionevolezza o l�irragionevolezza si debbono misurare sulla base dei contesti
determinati, degli impegni assunti e delle circostanze di fatto.
I
modelli ideali di società possono essere sempre utili strumenti di critica, ma
alla fine dei conti è la giustizia o l’ingiustizia di una società concreta
quella che conta.
In
questo si mostra la differenza tra il bello e il giusto.
Queste
considerazioni aiutano a comprendere meglio cosa una filosofia ermeneutica deve
chiedere al senso del diritto.
Il
caso paradigmatico, di cui va in cerca, rivela il senso del diritto, ma questo
non si identifica con un modello o con un assetto sociale[68].
In
ogni modo, però, il giusto e l’ingiusto nel diritto non riguardano la società
nel suo complesso, ma le azioni che debbono essere compiute per tutelare le
aspettative legittime, per risolvere le controversie e per riparare i danni dei
torti.
L�azione
da farsi è sempre concreta e individuale.
Nel
diritto l�analogato principale del giusto è la concreta e determinata azione
giusta, mentre la giustizia della norma, quella dell�ordinamento e quella della
società sono analogati secondari.
Per
questo l�influsso dell�ermeneutica sul pensiero giuridico si è rivolto
soprattutto ai processi di concretizzazione, cioè alla problematica del
rapporto tra la necessaria generalità della norma e la giustizia del caso
concreto.
La
giustizia dell�azione dipende da una lunga preparazione che comincia da
lontano: le istituzioni politiche, l�assetto sociale, il sistema normativo,
l�apprezzamento dei valori, le aspettative maturate, le pratiche
giurisprudenziali e i concetti giuridici.
Ma
in ultima istanza la decisione finale conserva sempre in qualche modo la sua
creatività, perché è un atto della ragion pratica.
E�
questo propriamente il luogo di quella giustizia a cui si rivolge il senso del
diritto.
Ed
è per questo che una filosofia ermeneutica del diritto, mentre difende il
primato della comprensione, vede nell’interpretazione-applicazione il luogo
della realizzazione del senso del diritto.
Il
diritto richiede l�interpretazione perché tende alla giustizia, non solo e non
tanto perché è il prodotto della volontà di una autorità legittima.
5. Figure e momenti
del dibattito giuridico ermeneutico contemporaneo
Infatti,
a poco più di cento anni dalla sua nascita, giuristi, filosofi, filosofi e
teorici del diritto si trovano in modo convergente impegnati in un rinnovato
sforzo di ridefinizione e rimeditazione del pensiero bettiano[70].
Nella
inconsuetamente grandiosa e sgomentante ampiezza dell’opera bettiana, che si
stende per circa mezzo secolo coprendo con sicura autorevolezza molti campi
della scienza giuridica (dalla romanistica al diritto processuale, dal diritto
civile, commerciale e internazionale alla teoria generale del diritto)
l’attenzione cade su quella monumentale summa dei problemi ermeneutici, che è
rappresentata dalla “Teoria generale dell’interpretazione”.
Si
può ben dire che il problema ermeneutico costituisca sotto molti riguardi
l’autentico tessuto connettivo, il fattore non sempre detto, ma reale, di
continuità, capace di legare in una solida intelaiatura gli svariati e
specifici momenti della ricchissima opera di Betti giurista e tecnico del
diritto.
Nell�analizzare
la teoria dell�interpretazione giuridica di Betti, è necessario infatti muovere
da un presupposto da tenere sempre fermo: quello della non esclusività e della
non autosufficienza del punto di vista giuridico.
Il
diritto non è, nella visione bettiana, un universo chiuso, delimitato, bastante
a se stesso, ma lo strato spirituale di un processo di realizzazione dello
spirito la cui vita si obiettivizza anche in altre forme rappresentative: un
concetto, questo, che riprendendo la teoria idealistica dello spirito
oggettivo, mostra il rilevante influsso su Betti della filosofia di Dilthey,
Nietzche e Bergson.
Ciò
che conferisce� unità di senso al diritto
è precisamente la sua natura di totalità spirituale, di unità organizzata in se
stessa coerente: esso è dunque “ordine giuridico in quanto integrato e
sviluppato a dovere da chi lo interpreta, detta la massima della decisione di
possibili conflitti e, attraverso la massima, determina l’agire richiesto dal
diritto nella vita sociale”[71].
Per
le vie di una solitaria, quanto puntigliosa attenzione sia per gli aspetti
generali del problema ermeneutico, sia per i profili specificamente giuridici
della problematica interpretativa, l’antinormativismo storicistico bettiano
perviene ad esiti sostanzialmente non dissimili, nel senso del riconoscimento
della creatività e della produttività della funzione dell’interprete, da quelli
della più accreditata metodologia giuridica contemporanea, di cui condivide la
critica del preteso automatismo della sussunzione sillogistica e il fermo
rifiuto di quelli che definisce i “surrogati matematici del processo
interpretativo” proposti dal neopositivismo logico[72].
Creativo
è l’atto ermeneutico, poiché esso realizza l’accostamento e la sintesi tra
l’astrattezza della legge e la concretezza della situazione storica che si
tratta di qualificare giuridicamente, anche se non si tratta di un ricreare
subordinato, derivato, vincolato� ad una
oggettività irriducibile.
Convergenti
con i risultati di tale metodologia sono anche la tesi della pluralità degli
ordinamenti giuridici e la consapevolezza dell’inesauribilità del processo di
concretizzazione del diritto.
In
realtà l’ordinamento giuridico è, secondo Betti, qualcosa che non è, ma si fa,
in accordo con l’ambiente sociale storicamente�
condizionato, proprio per opera assidua di interpretazione.
Perenne
e non mai condotto a termine è il compito dell’interpretazione, necessario
tanto per mantenere l’ordinamento efficiente e funzionante in relazione a
quelle strutture dell’agire sociale che il diritto stesso riconosce e semantizza,
quanto per attuare la stessa operazione interpretativo-applicativa della
singola norma ai singoli casi concreti che�
via via si presentino; e questa opera, che Betti definisce di
adattamento, di adeguazione, di integrazione di sviluppo della legge, si lega
indissolubilmente alla prospettiva storicistica di un reale inteso come
processo inesausto di realizzazioni spirituali tradottesi in forme rappresentative.
Nell�interpretazione
giuridica la ratio della norma è individuabile a partire da una riflessione sul
suo fondamento logico ed assiologico, che sappia tenere insieme l�esigenza,
perenne, di coerenza intrinseca dell�ordinamento e la sua conformità alle
esigenze sociali storicamente determinate[73].
Nella
intrinseche aporie del non sempre felicemente risolto eclettismo filosofico
bettiano, l’ispirazione storicistica appare legata a moduli e agli stilemi
ottocenteschi della scuola storica del diritto, nonché alla concezione storica
dei valori, ben più che alle correnti fenomenologiche: è in particolare, in
nome di un intimo e solidale rapporto tra il singolo e la comunità, vista non
solo come precedente il diritto ma neppure disposta a dissolversi nello stato,
che prendono corpo sia il rifiuto antinormativistico di Betti di esaurire la
realtà giuridica nella legge statuale, sia la critica del liberalismo e
dell’individualismo.
Ma,
filtrato e riletto secondo un’ottica storicistica che riconnette costantemente
il diritto al grado di evoluzione storica�
cui sono pervenute determinate società e civiltà, è anche� forte l�influsso della vigorosa e ripetuta
sottolineatura della rilevanza� dello
spazio valutativo dell’interprete nell’apprezzamento delle esigenze della vita
sociale sottostanti al diritto e nella ponderazione degli interessi in gioco.
L�insistenza
sulla centralità della distinzione tra interpretazione soggettiva e oggettiva
della legge, ormai largamente abbandonata dalla più recente metodologia del
diritto, in quanto si fonda su una distinzione rigida tra volontà del
legislatore e volontà della legge, incapace di prendere atto dell�inesistenza
di una formulazione definitiva della legge stessa, appare invece maggiormente
datata: ma è da essa che discendono sia l�ampia tematizzazione del rapporto tra
valutazioni originarie immanenti nella legge e loro modificazioni successive
sia l�analisi della problematica dell�interpretazione della legge e della sua
efficienza evolutiva.
Oggi
risulta sicuramente molto difficile non concordare con l’opinione generale secondo
cui “Verità e metodo” di Gadamer costituisce una delle maggiori elaborazioni
filosofiche dell’ermeneutica del Novecento.
Va
sottolineato tuttavia che quando il filosofo italiano Franco Bianco ha
polemicamente evidenziato che l’ermeneutica non può considerarsi come un
orientamento di pensiero unitario e che essa non è perciò riducibile in modo
univoco ad espressione di una forma di pensiero che si leghi esclusivamente
alle forme tematiche del nichilismo e della crisi della filosofia, si è
riaperta “una questione Betti” nella cultura europea[74],
sulla quale ora ci soffermiamo, dopo averla accennata precedentemente.
Si
tratta essenzialmente di riconsiderare che prima, contemporaneamente e dopo
Gadamer, l’ermeneutica europea ha battuto anche altre direzioni di ricerca, sì
che non pare accettabile né dal punto di vista teorico, né da quello
filologico, una sorta di riduzione-identificazione dell’ermeneutica di oggi con
il solo filone, pur eccezionalmente importante, dell’ontologia
heideggeriana-gadameriana[75].
Tra
le molteplici e ramificate direzioni che le teorie dell’interpretazione sono
venute assumendo nel corso di questo secolo, una delle espressioni salienti è
indubbiamente costituita dal tentativo bettiano di preservare l’obiettività
metodica e scientifica del comprendere dalla ricerca di un metodo capace di
garantire l’oggettività dell’interpretazione.
La
notevole quantità di scritti lasciata da Betti, testimonianza di una non comune
erudizione, merita una valutazione e un ripensamento più attenti e meditati: si
vuole infatti riproporre al centro dell’attenzione un problema assai discusso
in taluni paesi, principalmente negli Stati Uniti d’America, relegato invece in
secondo piano nei più recenti sviluppi dell’ermeneutica filosofica in Italia, ossia
l’antico problema dell’oggettività dell’interpretazione, al cui sistematico
approfondimento Betti ha recato cospicui contributi al pensiero, nel quadro di
un ambizioso tentativo di fornire un metodo, cioè un insieme coerente di
criteri che consentano di guidare il lavoro interpretativo.
La
complessa e tuttora controversa figura di questo studioso interpreta in forme
rigorose l’esigenza obiettivistica e metodologica ( e dunque antigadameriana)
di una parte significativa della teoria ermeneutica contemporanea; si può
quindi legittimamente assumere come emblematica e idealtipica della
rivendicazione di un più limitato tentativo di edificare in chiave ermeneutica
una metodologia generale della scienza dello spirito, che si muove in direzione
antitetica rispetto all’ambiziosa pretesa di universalità avanzata dalla
ermeneutica filosofica.
E�
proprio la circostanza per cui quanti mirano a difendere una concezione
obiettiva e metodica della verità trovano nel progetto di Betti un sicuro
alleato, che contribuisce a spiegare la relativa attualità dell�opera di Betti
nel contesto anglosassone, notoriamente più preoccupato dalle questioni
epistemologiche[76].
Altra
figura importante della cultura ermeneutica del diritto è quella di Donald
Dworkin.
Dworkin
opera in un paese, gli Stati Uniti, dove imperava la filosofia analitica,
recuperando i motivi della filosofia continentale.
La
sua posizione giuridica è peraltro incomprensibile fuori dal sistema di common
law statunitense[77].
La
sua filosofia giuridica si oppone principalmente alla jurisprudence di Hart[78] per
tre ragioni: riflette sul diritto statunitense più che diritto in generale; lo
fa sulla base di valutazioni morali, di contro alla avalutatività hartiana;
recupera motivi dell’ermeneutica continentale.
Se
si ricordano i significati attribuiti a suo tempo ad “ermeneutica”, è facile
accorgersi che l’opera di Dworkin ha a che fare con ognuno di essi: si occupa
di interpretazione, facendone anzi l’aspetto centrale del diritto; allude alla
tradizione ermeneutica e civetta con l’ermeneutica gadameriana; dà per scontato
il dualismo metodologico, estremizza l’hermeneutic point of view e aderisce
all’ermeneutica “analitica”.
Ognuno
di questi riferimenti, peraltro, appare quasi occasionale, nell’opera di un
giurista così coinvolto nel dibattito politico e costituzionale statunitense:
Dworkin non può certo considerarsi un filosofo del diritto in senso stretto,
che applichi al diritto una filosofia generale ermeneutica, ma semmai un filosofo
del diritto in senso ampio, che riflette sul diritto statunitense raccogliendo
anche suggestioni ermeneutiche.
La
notorietà di Dworkin data dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando
sceglie il suo maestro Hart come bersaglio di un più generale attacco al
giuspositivismo.
Questo
ultimo non ha mai goduto di troppa popolarità negli Stati Uniti, qualsiasi cosa
“giuspositivismo” abbia di volta in volta indicato; lo stesso Dworkin usa il
termine soprattutto per due tesi, solo in parte riferibili ad Hart.
In
primo luogo si tratta delle tesi delle fonti, per la quale l’intero diritto
sarebbe riconducibile alle sue fonti di produzione, rappresentate dai fatti
quali l’austiniano comando del sovrano o la regola come pratica sociale
hartiana; in secondo luogo, si tratta dell’idea antiformalista e giusrealista
secondo la quale i giudici legifererebbero nei casi di penombra.
Queste
due tesi sono oggetto di un attacco frontale già ne “I diritti presi sul
serio”, del 1977, che raccoglie saggi pubblicati a partire dagli anni Sessanta[79].
L�ormai
famoso controesempio invocato da Dworkin contro il giuspositivismo hartiano è
il seguente: nel caso Riggs vs Palmer, deciso da un tribunale dello Stato di
New York nel 1889, si discuteva se un tale, nominato erede dal nonno e poi
riconosciuto colpevole di averlo ucciso al fine di ereditare, conservasse
nondimeno il diritto all�eredità.
Il
problema sorgeva dal fatto che né le leggi né i precedenti giudiziali validi
nello stato di New York menzionavano l’uccisione del testatore come motivo di
esclusione dall’eredità: sicché era possibile sostenere, come fece uno dei
giudici chiamati a decidere, che privare l’assassino dell’eredità equivalesse a
cambiare il diritto vigente sulla base di principi morali.
Secondo
la teoria che Dworkin chiama giuspositivismo, in effetti, l’alternativa che si
presentava ai giudici era proprio questa: o ammettere senz’altro che l’omicida
ottenesse l’eredità, sulla base del diritto vigente, oppure creare diritto
nuovo, in base a norme (non giuridiche, ma) morali[80].
La
Corte decise invece, a maggioranza, che le leggi dello Stato dovessero
interpretarsi alla luce del principio - ricavabile solo da precedenti
giudiziari relativi a casi completamente diversi – secondo il quale nessuno può
trarre beneficio dal proprio illecito: nel caso in questione, l’assassino del
testatore non può trarre beneficio dall’omicidio.
Questa
decisione mostrerebbe come il diritto non consti solo di norme esplicite e
specifiche, cioè di regole, ma anche di norme implicite e generiche, i
principi.
Le
regole, sufficienti per risolvere i casi chiari, sarebbero cioè integrate nei
casi oscuri dai principi, senza che si debba mai ricorrere alla discrezionalità
giudiziale.
Proprio
questo sta a cuore al liberal Dworkin: che, almeno nelle materie riguardanti i
diritti individuali, che sono appunto quelle coperte dai principi, il giudice
non debba mai creare diritto, come avverrebbe invece quando le corti usano
argomenti relativi al benessere o all’utilità sociale, chiamate politiche.
La
sfida portata da Dworkin al giuspositivismo era abbastanza ambiziosa e gli
argomenti usati abbastanza confusi, da suscitare una discussione che dura
ancora oggi.
La
prima cosa ad attirare l’attenzione è stata proprio la distinzione regole/principi:
le regole si applicherebbero alla maniera del tutto o niente, cioè sarebbero o
valide o invalide in base alla regola di riconoscimento hartiano e in caso di
conflitto una renderebbe totalmente o parzialmente invalida l’altra; i
principi, invece, avrebbero una dimensione del peso o dell’importanza, nel
senso che, sfuggendo ai criteri formali o fattuali fissati dalla regola di
riconoscimento, in caso di conflitto potrebbe prevalerne uno in un caso,
l’altro in altri casi, a seconda del peso o dell’importanza assunti di volta in
volta.
Tale
distinzione tra norme e principi è stata successivamente superata da Dworkin,
che oggi considera tutte le norme alla stregua di principi[81].
La
seconda cosa ad attirare l’attenzione furono le conseguenze della distinzione
regole/principi sulla separazione giuspositivistica tra diritto e morale:
mentre le regole sono tali perché prodotte in un certo modo, in base a criteri
fattuali� o formali, fissati dalla norma
del riconoscimento indipendentemente dalla giustizia o dall’ingiustizia dei
loro contenuti, i principi non sarebbero riconoscibili in base a criteri del
genere, ma in base alla conformità del loro contenuto alla morale[82].
Da
questo punto di vista, la posizione di Dworkin si spinge ad una teoria dei
principi, cioè, tornerebbe all’indistinzione giusnaturalistica tra diritto e
morale, o tra diritto com’è e diritto come si vorrebbe che fosse.
La
terza cosa ad attirare attenzione è stata la teoria dell’interpretazione di
Dworkin, che si oppone non solo allo scetticismo giusrealista, ma anche alla
teoria mista di formalismo e scetticismo difesa da Hart: i principi, in
effetti, avrebbero proprio la funzione di escludere la discrezionalità
giudiziale nei casi oscuri, facendo sì che ogni caso abbia sempre una sola
soluzione corretta.
All�ovvia
obiezione che di fatto si danno spesso conflitti interpretativi, e che i
principi sembrano un rimedio peggiore del male, perché ogni giudice può
invocarne uno diverso, Dworkin risponde con una controbiezione tutt�altro che
ovvia: i conflitti interpretativi sarebbero imputabili ai limiti della mente
umana.
Nei
testi successivi ai �Diritti presi sul serio� e soprattutto in �L�impero del
diritto�, del 1986, Dworkin ha infatti superato l�opposizione regole/principi
adottando invece una teoria del diritto come interpretazione e/o come
integrità.
Questa
teoria ambisce appunto a spiegare il conflitto interpretativo: proprio il fatto
che nel diritto si diano normalmente conflitti di interpretazione, infatti,
costituirebbe un ulteriore ragione per abbandonare il giuspositivismo.
I
giuspositivisti vedrebbero il diritto come un mero dato di fatto e i concetti
giuridici come regole convenzionali per l’uso dei termini: questa visione,
peraltro, non spiegherebbe i conflitti interpretativi.
In
realtà il diritto non sarebbe un semplice fatto, bensì insieme un fatto e un
valore; i concetti giuridici, a loro volta, non avrebbero carattere
convenzionale, come preteso dagli analisti giuspositivisti, bensì
interpretativo.
Un
concetto interpretativo come quello di diritto è infatti oggetto non di mera
rilevazione di convenzioni linguistiche, ma di interpretazione: attività che si
distinguerebbe da tale rilevazione sia perché creativa o costruttiva, sia
perché potrebbe essere compiuta solo dal partecipante alla stessa pratica
sociale oggetto di interpretazione, e non da un osservatore esterno[83].
Se
l�obiettivo di Dworkin fosse ancora difendere il formalismo interpretativo,
peraltro, tutto ciò sarebbe solo un ulteriore autogol: fare
dell�interpretazione l�aspetto centrale del fenomeno giuridico evoca tutto
fuorché l�oggettività.
Che
si tratti di teoria ancora formalistica, d’altra parte, sembrerebbe confermato
dal maggior pregio che Dworkin le attribuisce: essa fonderebbe la verità
oggettiva delle affermazioni sul diritto, le quali sarebbero vere se
concordassero con, o derivassero dai principi di giustizia che forniscono la
migliore interpretazione costruttiva della prassi giuridica della comunità.
Il
diritto, da questo punto di vista, potrebbe paragonarsi ad un racconto a
puntate i cui diversi episodi sono scritti da diversi autori in base a un senso
di adeguatezza che permetterebbe loro di rispettare la congruenza dell’insieme.
Concludiamo
l�analisi sulla figura di Dworkin sottolineando come diversi studiosi del
diritto, tra cui Mauro Barberis, definiscano lo stesso Dworkin principale
esponente della cosiddetta �neoermeneutica�[84].
6. La dimensione
ermeneutica del processo
Tramite
il processo si pongono in essere una serie di attività volte ad individuare gli
eventi e gli accadimenti, al fine di ascriverne la giuridicità, attraverso
un’opera di selezione e di ricostruzione, di significazione e di
qualificazione.
Tali
attività rimandano all’utilizzo degli elementi di prova acquisiti[85].
Entra
in gioco il complesso degli atti di carattere interpretativo mediante i quali
il giudice forma il proprio convincimento intorno all’esistenza dei fatti della
causa� e che consentono di predicare la
logicità
e la congruenza del ragionamento probatorio.
Esso
implica il rispetto delle condizioni epistemologiche mancando le quali un
insieme di elementi probatori non è da considerare “prova adeguata”.
La
prova, dunque, assume una valenza centrale sia nella fase di formazione del
convincimento, sia in quella di controllo della sua fondatezza.
Nel
processo il giudice svolge un’attività conoscitiva diretta a ricostruire, a
partire da certi accadimenti noti e con le informazioni raccolte, una
situazione concreta verificatasi in precedenza e della quale egli non ha né può
avere esperienza diretta.
Si
tratta di far ricomparire presente quello che è passato; di far rivivere il
passato e ripresentarlo come presente.
In
questo senso è legittimo affermare che il processo ha un carattere
eminentemente ermeneutico[86].
Nel
processo si realizza, infatti, una appropriazione di ciò che è
La
coscienza ermeneutica mantiene una tensione tra orizzonte del passato e
orizzonte del presente e permette la comprensione di un passato che è
accessibile solo nella forma di un testo.
Nel
giudizio giurisdizionale, infatti, gli eventi passati presentano,
fondamentalmente, le caratteristiche che Ricoeur, in analogia con i tratti
costitutivi della scrittura, individua come suscettibili di definire la
leggibilità dell’azione[87].
Tali
eventi si fissano attraverso il loro strutturarsi in concatenazioni di segni,
sicché il loro ordine appare definito da una rete significante.
Tale
significatività rende possibile la loro leggibilità.
Gli
eventi, inoltre, si autonomizzano nel senso che il loro sviluppo sfugge agli
autori possedendo una storia propria che permette, tra l’altro, la loro
registrazione e documentazione.
E�
possibile pertanto parlare di traccia degli eventi stessi.
Infine,
si aprono ad una pluralità di interpretazioni in virtù dell’opera di
narrativizzazione, su di essi condotta, che conferisce loro senso, sì da
costruire possibili intrecci differenti su uno stesso corso di eventi.
In
tal modo si costituisce una rappresentazione implicante una selezione di segni
e, dunque, una decisione che dà forma alla situazione descritta.
Giudicare
significa prendere posizione, da parte del soggetto conoscente, nei confronti
di questa rappresentazione.
Gli
eventi su cui verte il processo, in quanto elementi linguisticamente trasmessi,
esigono per essere compresi una trasposizione che si concretizza in una
mediazione, operata dall’interprete, del passato con il presente.
Il
giudizio, in quanto attività che adempie alla funzione di identificare con
precisione azioni e comportamenti e di attribuire responsabilità ad essi
collegate, è un modo specifico con cui all’interno dell’esperienza giuridica si
sottrae contingenza agli eventi.
L�evento
risulta inseparabile dal contesto linguistico.
Ciò
che accade è anche ciò di cui si parla in maniera significativa, è ciò che ci
interessa, che ci appare importante.
L�evento
si presenta, nella sua temporalità, novità, singolarità, non ripetibilità,
contingenza, come evento storico, la cui comprensione è sempre una
ricostruzione.
La
significatività dell’evento, allora, dipende da un insieme di intenzioni,
motivi, valori, finalità, che lo rende intelligibile.
La
storicità dell’evento, in tal modo, si connette all’attività di
rappresentazione e di configurazione posta in essere dal soggetto conoscente
che istituisce un rapporto tra il passato evocato e il presente sul quale tale
passato si ritiene mantenga la propria efficacia[88].
Nel
processo l�evento, tuttora efficace, è sottratto all�oscurità del passato ed è
ricostruito nei suoi particolari concreti, compresi nella loro dimensione
spaziale e temporale e nella loro rilevanza attuale, entro l�unità di senso
dell�esperienza giuridica, al fine di una definizione normativa della
situazione giuridicamente assunta come �caso�.
Per
il diritto, infatti, il passato esiste solo in quanto può illuminare il
presente.
Il
passato, allora, non è che il prologo, che si utilizza ai fini della
qualificazione del presente.
Da
questo punto di vista, il processo costituisce un momento rilevante di quella
appropriazione del tempo realizzata per mezzo del diritto, di quel tentativo
più generale di sottrarre gli eventi all’oblio che caratterizza la struttura
esistenziale dell’uomo.
Parlare
di efficacia attuale dell’evento significa riferirsi ad atti compiuti nel
passato i cui effetti si protraggono nel tempo.
Nel
processo il passato è revocato, ricostruito, per statuire una regola di
condotta che valga per il presente ed il futuro.
Il
giudice, procedendo attraverso segni, rende presente il passato per giudicarlo.
Tutto
il processo è, come abbiamo visto, una mediazione tra passato e presente ed è
volto a ricostruire azioni passate imputabili a soggetti identificati, che ne
risultino responsabili.
Il
giudice, così, indaga in ordine all’esistenza degli elementi che consentono di
parlare di imputazione, intenzionalità, responsabilità delle azioni.
Al
di là della configurazione giuridica della responsabilità, sottolineiamo che il
tema risulta connesso a quello dell’identità e della permanenza del soggetto
nel tempo.
Ciò
si collega alla storicità come contrassegno ontologico distintivo dell’uomo.
La
responsabilità rimanda ad atti compiuti nel passato che hanno il medesimo
autore: colui che è chiamato a renderne conto.
Ciò
si innesta all’interno dell’aspetto sincronico e diacronico della relazionalità
intersoggettiva e della garanzia e della sicurezza del suo svolgimento.
Si
può dire che l’immediatezza dell’azione consapevole è travalicata dalla
prefigurazione del giudizio altrui successivo rispetto all’agire[89].
La
responsabilità si connette alla coscienza del fatto che ciò che si è compiuto
nella vita non si potrà staccare dal soggetto, dovrà essere a lui riferito.
In
questa prospettiva è da sottolineare che la prova rappresenta un tentativo di
inserire un elemento di convalidazione nella dialettica esistenziale che lega
l’io agli altri.
Nel
giudizio il problema è di ricostruire un momento della vita di un soggetto
agente, che è chiamato a dare conto del proprio comportamento passato a
garanzia e rinforzo di un dovere di comportamento[90].
Tale
dovere, a sua volta, può essere giustificato mediante un riferimento alla
dimensione coscienziale del tempo che si esplica nella interpretazione di
passato, presente e futuro.
Ciò
all’interno di un universo di discorso cognitivo-direttivo avente rilevanza pratica,
dove i soggetti sono compresi e si comprendono in quanto agiscono liberamente e
dove ad essi sono attribuiti doveri e diritti, sono riferiti comportamenti ed
imputate conseguenze positive o negative[91].
La comprensione degli accadimenti e dei comportamenti
non è riproduttiva; non riguarda, cioè, un qualcosa di oggettivato e/o da
oggettivare[92].
Essa
si pone, piuttosto, come una ricostruzione in cui l’iniziativa della ricerca
non appartiene al dato, ma all’interrogazione avanzata dall’interprete nella
direzione di un interesse pragmatico che si realizza nell’attività di selezione
e valutazione, viste come momenti costitutivi per il riconoscimento della
regola del caso.
Nel
processo si viene a realizzare per eccellenza una relazione ermeneutica del
giudice con il passato.
E�
in questo ambito di discorso che acquista rilievo l�affinità, più volte
sottolineata, tanto da diventare quasi un luogo comune, tra ricostruzione
giudiziale del �fatto� e ricostruzione storiografica.
Il
riconoscimento dell�analogia tra indagine giudiziaria ed indagine storiografica
trova il suo argomento fondamentale nella attenzione, comune ad entrambe le
pratiche, agli eventi relativi alle azioni umane, non direttamente esperiti
dall�osservatore, presi nella loro unicità, concretezza, particolarità e nella
connessa attestazione della loro verità.
Riconosciuta
la relazione ermeneutica che lega sia il giudice che lo storico agli eventi
passati, e la peculiarità del giudizio retrospettivo che essi compiono,
appoggiandosi a prove, attraverso un’attività di selezione, valutazione,
attribuzione di senso agli eventi da ricostruire sulla base di specifici
criteri di rilevanza, gli orientamenti che hanno concepito l’attività
giudiziale come indagine storiografica tendono, peraltro, a sottolineare le
diversità tra i due campi di ricerca, evidenziando le ristrette barriere che
delimitano l’indagine del giudice rispetto a quella dello storico.
Si
tratta di restrizioni che, in buona misura, definiscono i vincoli operativi e
cognitivi della pratica giurisdizionale.
Ciò,
invero, non significa contrapporre ai limiti normativi e strutturali che
incontra il giudice nell’attività di ricostruzione il carattere libero e
illimitato della ricerca storica.
Anche
l�indagine storiografica è una attività che incontra limiti, quanto quelli
forniti dagli interessi dello storico, dalle tradizioni di ricerca accettate,
dai paradigmi condivisi entro la specifica pratica a cui egli partecipa[93].
A
questo proposito è opportuno sottolineare che quella storiografica è una
pratica segnata da una pluralità e da una diversificazione di approcci.
Ciò
è testimoniato, oltre che dal panorama degli indirizzi della ricerca storica,
dalla articolazione del dibattito teorico e metodologico che riguarda il tema
della individuazione dello statuto epistemologico del sapere storico e ruota
intorno ai problemi della spiegazione, della comprensione e della narrazione e
dei loro reciproci rapporti.
Ciò
rende estremamente semplificatorio affermare l’analogia con l’attività di
indagine compiuta dal giudice e giustifica l’idea di chi ritiene che essa si
fonda su una immagine riduttiva, perché viziata da genericità, della attività
storiografica[94].
Spesso,
ad esempio, l�attività dello storico non riguarda la ricostruzione di
particolari e individuali, ma è interessata alla determinazione di costanti,
generalizzazioni, �leggi�, relativa ad eventi collettivi collocati in una
prospettiva temporale di breve o lungo periodo.
Proprio
qui viene meno la similarità rispetto all’oggetto di indagine tra storico e
giudice.
La
questione del procedimento conoscitivo attraverso cui il giudice ricostruisce i
“fatti”, pur partecipando, insieme all’indagine storiografica, agli aspetti
epistemologici di ordine generale connessi alla conoscenza indiretta di fatti
passati e muovendo da una esigenza profondamente ermeneutica, presenta, invero,
una propria specificità[95].
L�accertamento
processuale di come si sono svolti veramente i �fatti� non implica dunque,
esclusivamente, un giudizio di natura storica circa l�andamento degli eventi.
Infatti
la ricostruzione �fattuale� degli eventi accaduti in passato richiede che gli
elementi rilevanti siano condotti ai concetti costruiti nelle fattispecie legali.
[1] (1900-deceduto).
[2] Cfr. Mauro Barberis, �L�ermeneutica�, in �Filosofia del diritto. Una introduzione storica�, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 87.
[3] (1890-1968).
[4] Vedi pag. 30 e ss.
[5] Cfr. ultima opera citata pag. 89.
[6] Confronta sul tema �H. G. Gadamer, �Warheit und Methode�, tradotto in �Verità e metodo�, 1960, pag. 312 e ss.
[7] (1910).
[8] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Precomprensione, principi e diritti nel pensiero di Josef Esser. Un confronto con Donald Dworkin�, in �Ragione pratica�, 11, 1998, pag. 138-139.
[9] Cfr. Mauro Barberis, �Filosofia del diritto. Una introduzione storica�, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 90-91.
[10] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 422.
[11] Cfr. G. Capograssi, �Il problema della scienza del diritto�, in �Opere�, II, Giuffrè, Milano, 1959, pag. 337.
[12] Cfr. R. Orestano, �Introduzione al diritto romano�, Il Mulino, Bologna, 1987, pag. 45.
[13] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Ratio Juris�, 12, 1999, n�3, pag. 276.
[14] Confronta sul tema L. Mengoni, “Ermeneutica e dogmatica giuridica”, Giuffrè, Milano, 1996.
[15] Cfr. P. Ricoeur, �Interpretazione e/o argomentazione�, in Ars Interpretandi, 1, 1996, pag. 77.
[16] Confronta sul tema �Josef Esser, �Dogmatik zwischen theorie und
praxis�, 1974, pag. 517 e ss.
[17] Confronta sul tema H.G. Gadamer, “Verità e metodo” tradotto da G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1995.
[18] Cfr. L. Mengoni, �Voce Dogmatica giuridica� in �Enciclopedia Giuridica�, XII, Istituto dell�Enciclopedia Italiana, Roma, 1989, pag. 1.
[19] Cfr. Elena Pariotti, �La comunità interpretativa nell�applicazione del diritto�, Giappichelli, Torino, 2000, pag. 29.
[20] Confronta sul tema M. D. King, “Reason,
Tradition and Progressiveness of Science”, in “History and Theory”, 1971, pag. 3-32.
[21] Cfr. Elena Pariotti, �La comunità interpretativa nell�applicazione del diritto�, Giappichelli, Torino, 2000, pag. 31.
[22] Confronta sul tema Karl Popper, “Logica della scoperta scientifica”, tradotto da Trinchero, Einaudi, Torino, 1970.
[23] Cfr. D. Antiseri, �Epistemologia ed ermeneutica: il problema del metodo in Popper e Gadamer� in �Hermeneutica�, 1997, pag. 255.
[24] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 430.
[25] Confronta sul tema N. Luhmann, “Sistema giuridico e dogmatica giuridica”, tradotto da Febbrajo, Il Mulino, Bologna, 1978.
[26] Cfr. ultima opera citata pag. 432.
[27] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 435 e ss.
[28] Cfr. Paul Ricoeur, �L�ermeneutica e le scienze umane�, tradotto nel 1981, pag. 199.
[29] Cfr. S. Cremaschi, �Filosofia analitica e filosofia continentale�, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag. 45, 77.
[30] Confronta sul tema Franca D’Agostini, “Ontologia e fenomenologia del giuridico. Studi in onore di Sergio Cotta”, Giappichelli, Torino, 1995, pag. 301 e ss.
[31] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Il primato della comprensione”, in “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 439.
[32] Cfr. ultima opera citata pag. 440.
[33] Cfr. Maurizio Ferraris, �Storia dell�ermeneutica�, Bompiani, Milano, pag. 269-270.
[34] Confronta sul tema O. Apel, “L’influsso della filosofia analitica sul mio itinerario intellettuale”, in “Filosofia analitica e filosofia continentale” a cura di S. Cremaschi, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag. 209 e ss.
[35] Cfr. H. G. Gadamer, �Ermeneutica come compito teorico e pratico� in �Verità e metodo�, tradotto da R. Dottori, Bompiani, Milano, 1995, pag. 261.
[36] Cfr. Francesco Viola, �Il diritto come pratica sociale�, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 159.
[37] Cfr. Emilio Betti, �L�ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito�, a cura di G. Mura, Città Nuova, Roma, 1987, pag. 86.
[38] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe e Zaccaria, “La filosofia ermeneutica del diritto come filosofia pratica”, in “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 445.
[39] Cfr. H. G. Gadamer, �Ermeneutica�, in �Enciclopedia del Novecento�, Istituto dell�Enciclopedia Italiana, Roma, 1977.
[40] Cfr. L. Lombardi Vallauri, �Corso di filosofia del diritto�, CEDAM, Padova, 1981, pag. 25 e ss.
[41] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 447.
[42] Cfr. ultima opera citata pag. 448.
[43] Cfr. E. Berti, �La classicità di un testo filosofico�, in �Ars interpretandi�, 2, 1997, pag. 7.
[44] Confronta sul tema L. Wittengstein, “Ricerche filosofiche”, a cura di Trinchero, Einaudi Torino, 1974.
[45] Cfr. �J. Hruschka, �La comprensione dei testi giuridici�, tradotto da De Giorgi, Esi, Napoli, 1983, pag. 74.
[46] Cfr. V. Mathieu, �L�uomo animale che interpreta� in �Il problema della fedeltà ermeneutica�, Armando, Roma, 1998, pag. 18.
[47] Cfr. Giuseppe Zaccaria, � Interpretazione e argomentazione nel discorso giuridico�, in �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 17.
[48] Confronta sul tema R. Alexy, “Teoria dell’argomentazione giuridica” a cura di M. La Torre, Giuffrè, Milano, 1988.
[49] Cfr. ultima opera citata pag. 19.
[50] Cfr. �J. Habermas, �Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia� a cura di L. Ceppa, Guerini, Milano, 1996, pag. 278.
[51] Cfr. �Francesco Viola, �Intenzione e discorso giuridico: un confronto tra la pragmatica linguistica e l�ermeneutica�, in �Ars interpretandi�, 2, 1997, pag. 53 e ss.
[52] Cfr. �H.G. Gadamer, �Verità e metodo� a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1983, pag. 133.
[53] Cfr. Uberto Scarpelli, �L�interpretazione. Premesse alla teoria dell�interpretazione giuridica� a cura di V. Tomeo, in �Società, norme e valori�, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 141 e ss.
[54] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Il diritto come evento discorso”, in “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 453.
[55] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “Il metodo della filosofia ermeneutica del diritto”, in “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 1999, pag. 455.
[56] Cfr. ultima opera citata pag. 456.
[57] Cfr. �J. Finnis, �Legge naturale e diritti naturali�, tradotto da F. Di Blasi, Giappichelli, Torino, 1996, pag. 4.
[58] Cfr. �Norberto Bobbio, �Giusnaturalismo e positivismo�, Edizioni di Comunità, Milano, 1977, pag. 43-44.
[59] Cfr. �A. Kaufmann, �La struttura ontologica del diritto� tradotto da G. Quadri, in �Rivista internazionale di Filosofia del Diritto�, 39, 1962, pag. 549-550.
[60] Cfr. Francesco Viola e Giuseppe Zaccaria, “L’interpretazione come luogo del senso del diritto”, in “Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto”, Laterza, Roma-Bari, pag. 458.
[61]Confronta sul tema W. Wieland, “La fisica di Aristotele. Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui fondamenti linguistici della ricerca dei principi in Aristotele”, tradotto da C. Gentili, Il Mulino, Bologna, 1993.
[62] Cfr. ultima opera citata pag. 459.
[63] Confronta sul tema K.
Larenz, “Richtiges Recht. Grundzuge
einer Rechtsethic”, Beck, Monaco, 1979.
[64] Cfr. ultima opera citata pag. 461.
[65] Confronta sul tema G.
Radbruch, “Rechtsphilosophie”, Scheider, Stoccarda, 1983, pag. 119 e ss.
[66] Cfr. ultima opera citata pag. 463.
[67]� In relazione al legame tra filosofia analitica e paradigma costituzionale della scienza giuridica vedi Luigi Ferrajoli, “La cultura giuridica nell’Italia del Novecento”, Laterza, Roma-Bari, 1996, pag. 105 e ss.
[68] Confronta sul tema �J. Esser, �Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto�, tradotto da S. Patti e G. Zaccaria, Esi, Napoli, 1983.
[69] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �L�antinormativismo bettiano� in �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 157.
[70] Confronta sul tema Giuliano Crifò, “Scritti scientifici di Emilio Betti”, in “Studi in onore di Emilio Betti”, I, Giuffrè, Milano, 1962, pag. 13-25.
[71] Confronta sul tema F. Bianco, “Oggettività dell’interpretazione e dimensioni del comprendere. Un’analisi critica dell’ermeneutica di Emilio Betti”, in “Quaderni Fiorentini”, 7, 1978, pag. 33-34.
[72] Cfr. ultima opera citata pag. 159.
[73] Confronta sul tema V. Frosini, “Emilio Betti e la teoria generale del diritto” in “Lezioni di teoria dell’interpretazione giuridica”, Bulzoni, Roma, 1991, pag. 201.
[74] Confronta sul tema F. Bianco, “Pensare l’interpretazione. Temi e figure dell’ermeneutica contemporanea”, Editori Riuniti, Roma, 1991, pag. 3-33.
[75] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Il problema dell�oggettività dell�interpretazione�, in �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 177.
[76] Confronta sul tema Giuseppe Zaccaria, “Ermeneutica e giurisprudenza. I fondamenti filosofici della teoria di H.G. Gadamer”, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 73-80.
[77] Confronta sul tema G. Ferranti, “Ermeneutica del pre-analitico. Su Heidegger e l’epistemologia” in “Aut Aut”, 1990, n�237-238, pag. 135-151.
[78] Cfr. Mauro Barberis, �Dworkin e la neoermeneutica� in �Filosofia del diritto. Una introduzione storica�, Il Mulino, Bologna, 2000, pag. 191.
[79] Confronta sul tema G. Vattimo, “La verità dell’ermeneutica”, in “Filosofia ‘88”, Laterza, Roma-Bari, 1989, pag. 227-249.
[80] Cfr. ultima opera citata pag. 192.
[81] Confronta sul tema Baldassarre Pastore, “Dworkin giusnaturalista?”, in “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, 1984, pag. 66-82.
[82] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Donald Dworkin e l�ermeneutica� in �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 197.
[83] Confronta sul tema F. Restaino, “Filosofia e post-filosofia in America”, Angeli, Milano, 1990, pag. 70 e ss.
[84] Vedi anche la teoria del� pragmatismo prescrittivo di Richard A.Posner� in Giuseppe Zaccaria, �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 247 e ss.
[85] Confronta sull�argomento Taruffo, �Aspetti della giustificazione delle decisioni giudiziarie�, pag. 272 e ss.
[86] Cfr. Baldassarre Pastore, �Aspetti del ragionamento probatorio�, in �Giudizio, prova, ragion pratica�, Giuffrè, Milano, 1996, pag. 125.
[87] Cfr. ultima opera citata pag. 126.
[88] Confronta sul tema �F. Carnelutti, �Responsabilità e giudizio� in �Rivista di diritto processuale�, 13, 1958, pag. 7.
[89] Confronta sul tema L. Bagolini, “Tempo obiettivato, tempo coscienziale e durata nell’esperienza giuridica” in “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, 1981, pag. 107.
[90] Confronta sul tema Uberto Scarpelli, “Riflessioni sulla responsabilità politica”, pag. 30.
[91] Cfr. ultima opera citata pag. 131.
[92] Confronta sul tema P. Veyne, “Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia”, tradotto da G. Ferrara, Laterza, Roma-Bari, 1973, pag. 13 e ss.
[93] Confronta sul tema P. Calamandrei, “Il giudice e lo storico”, pag. 397.
[94] Confronta sul tema E. Opocher, “Lezioni di filosofia del diritto. Il problema della natura della giurisprudenza”, CEDAM, Padova, 1953, pag. 107 e ss.