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CAPITOLO QUARTO
ERMENEUTICA ED ANALITICA:
DAL CONTRASTO ALLA COLLABORAZIONE
1. Ermeneutica ed analitica: un�antitesi superabile
Quando un fenomenologo come Maurice Merleau-Ponty, nel corso di un colloquio
di Royaumont svoltosi tra molti autorevoli filosofi analitici ( da J. O. Urmson
a B. Williams, da P. F. Strawson a W. V. Quine, da J. Austin a R. Hare) da un
lato e prestigiosi esponenti della filosofia continentale di orientamento esistenzialistico
e fenomenologico ( da J. Wahl a C. Perelman, da F. Alquiè a L. Goldmann) dall�altro,
chiese all�analitico Gilbert Ryle se si potesse dire d�accordo con il proprio
programma di ricerca, si vide rispondere: �Spero proprio di no!�
[1]
.
Si
era nel 1958 e, in effetti, le distanze che in quel momento contrapponevano
i principali orientamenti della filosofia analitica alle pur tra loro diverse
prospettive della filosofia continentale apparivano immense ed incolmabili.
Oggi,
a dispetto della grande diversità e della lontananza dei punti di partenza,
è divenuto ormai perfettamente visibile che la svolta linguistica rappresenta
il tratto peculiare della filosofia contemporanea, sì che l’incontro tra
le due grandi tradizioni che dominano il filosofare del Novecento, ossia l’indirizzo
empirico-logico- analitico da una parte e quello fenomenologico-esistenziale
ermeneutico dall’altra, può ormai dirsi per molti riguardi, anche se non
senza problemi, compiuto
[2]
.
E�
certamente vero che, se si spinge all�estremo l�unidimensionalità delle rispettive
metodologie, filosofia analitica e filosofia ermeneutica sembrerebbero contraddistinte
da una insanabile contrapposizione: se ci si limita anzi a considerare le sole
tradizioni di pensiero da cui vengono i due diversi orientamenti, si dovrebbe
concludere per una loro incompatibilità radicale.
Sotto
questo punto di vista la filosofia analitica ( come d’altra parte anche
il positivismo logico e la semantica) da un lato e la filosofia ermeneutica
(come pure la filosofia dell’esistenza e la fenomenologia) dall’altro,
ancora più ed ancora prima che antitesi relative all’orientamento oggettivo
e di metodo della riflessione, esprimono inconfondibili antitesi universali
proprie della mentalità umana non a caso tradottesi nel tempo in una precisa
geografia della cultura.
Nominalismo
ed empirismo, predominanti nel campo culturale di tradizione anglosassone si
trovano da sempre contrapposti alla tradizione esistenzialistica e soggettivistica
della cultura continentale, d’impronta soprattutto tedesca.
Senso
ed ontologia �versus� metodologia della scienza: si tratta in effetti, almeno
in apparenza, di interessi filosofici divergenti e radicalmente contrapposti,
divisi da una abisso nella metodologia filosofica
[3]
.
Ma
al di là della pur rilevante constatazione (su cui più avanti si ritornerà),
per cui è maggiormente fruttuoso porre in relazione filosofia analitica ed ermeneutica
sul piano delle indagini regionali piuttosto che su quello degli antefatti teorici
delle concezioni filosofiche generali, sul quale fortemente divergono per portata
e per metodo del procedere, anche su questo ultimo terreno preme subito sottolineare
come dall’interno stesso dello sviluppo speculativo delle due tradizioni
di pensiero si sia venuto predisponendo, negli ultimi decenni, il terreno per
un avvicinamento e per un incontro
[4]
.
Si
pensi, solo per addurre qualche esempio, a come l’originaria istanza di
un rigore assoluto, propria del neopositivismo logico, si sia progressivamente
disciolta dall’interno della corrente analitica attraverso le forme disciplinate
di autocritica di un Quine, di un Sellars o di un Davidson, che mostrano sempre
più chiaramente l’insufficienza dei soli punti di vista logico-formale
e percettivo-fattuale, fino al conclusivo convertirsi, in Richard Rorty, in
una filosofia pragmatistica ed ermeneutica del linguaggio, volta alla “conversazione”
[5]
.
Giungendo
a maturità “dopo” la dissoluzione posthegeliana del concetto di
totalità, “dopo” la critica nietzschiana della soggettività, “dopo”
la critica epistemologica dell’ideale dell’esattezza matematica,
“dopo” l’abbandono wittgensteiniano della teoria verificazionista
e referenziale del significato, il “Linguistic Turn”, ossia la costituzione
del linguaggio come oggetto privilegiato dell’indagine filosofica si pone
sempre più al centro dell’intero pensiero filosofico occidentale (e in
questo senso investe, sia pure in modi diversi, sia l’ermeneutica sia
la filosofia analitica)
[6]
.
Le
questioni della filosofia si sono ormai largamente trasformate, in modo assai
profondo, in questioni di linguaggio.
E�
il passaggio da un pensiero imperniato sui classici rapporti di soggetto-oggetto
ad una riflessione concentrata sulle relazioni tra linguaggio e mondo, tra parola
e cosa.
Nel
mondo antico, e ancor oggi nell’idea comune, esistono, in termini tra
loro separati, una realtà, un pensiero che la pensa e un linguaggio che la espone;
nei più maturi sviluppi della riflessione contemporanea, invece, il linguaggio
cessa di essere considerato come mero strumento di una rappresentazione, che
resta però esterna al contenuto del pensiero, per acquistare una propria autonoma,
già presente dignità.
La
nostra esperienza del mondo è sempre preliminarmente condizionata dalle categorie
linguistiche che pratichiamo ed ereditiamo in quanto appartenenti ad una determinata
tradizione.
La
parola guadagna la sua densità come luogo a partire dal quale è possibile il
darsi delle cose.
Ma
questi esiti comuni in tanto sono resi possibili, in quanto la svolta linguistica
opera una decisa presa di distanza critica nei riguardi delle forme trasmesse
dalla metafisica tradizionale e muove da un interrogativo di fondo, riguardante
la sensatezza della tradizione filosofica precedente.
Entrambe
le prospettive si articolano, se pure in modi diversi, come filosofie della
crisi: e la coscienza della crisi rappresenta già l’esplicitazione di
un senso e il recupero di un’universalità del pensiero.
L�operazione
teoretica fondamentale, di non ritorno, che sostanzia questo tessuto filosofico
largamente comune, è appunto rappresentata dall�uscita dalla soggettività e
dalla critica del paradigma della filosofia della coscienza.
Come
si può, e a quali condizioni, parlare ancora oggi di “soggetto”?
Per offrire risposta a questo interrogativo, davvero centrale nel dibattito
filosofico odierno, occorre imboccare una strada indiretta e percorrere quella
che Paul Ricoeur ha chiamato “la via lunga del linguaggio”
[7]
.
La
filosofia della coscienza, polo non più ultimo ed unico del pensiero riflesso,
si vede assegnati i propri limiti nel riconoscere la speculazione come dipendente
dalla filosofia del linguaggio: e questo, sia nel senso che il linguaggio rappresenta
l’orizzonte più ampio entro cui essa si costituisce, sia nel senso che
la coscienza si trova già orientata dai modi della sua formulazione linguistica
[8]
.
Al
di fuori dell�esperienza del proprio appartenere al linguaggio il pensiero non
si sa pensare: quanto ci è possibile riconoscere come un pensiero, possiede
l�intrinseca caratteristica di trovare espressione in un linguaggio; questo
ultimo si pone perciò come �istitutivo� dei significati, anche nella loro valenza
pratico-ermeneutica.
Ogni
comprensione, anche ontologica, viene dunque ad esprimersi in primo luogo e
sempre nel linguaggio.
Chiudendo
con una incrollabile certezza del pensiero moderno, la preminenza della coscienza
come autocoscienza che da Cartesio in avanti contraddistingue lo scenario della
modernità filosofica, la considerazione del soggetto come istanza seconda, come
sede non ultima, comporta lo sganciamento della trascendentalità dal soggetto
e fa del linguaggio il trascendentale che consente di riconoscere l’orizzonte
empirico, senza ridurvisi totalmente.
La
soggettività non è più quella determinazione che, sola, pone il senso e l’orizzonte
delle altre.
Quest�orizzonte
sta al di fuori della coscienza, è nel linguaggio, che ha in sé gli elementi
della pluralità e dell�intersoggettività, fondati sulla comunicazione: è dunque
in esso che si rende visibile ciò che è reale oltre la coscienza del singolo.
Le
cose assumono forma in quanto l’uomo le parla, ossia le interpreta.
Se
la filosofia analitica ha imposto la crucialità del rapporto parola-cosa, la
filosofia ermeneutica ha per parte sua persuaso della coscienza storica, della
dimensione finita (rispetto ad una ragione non situata e, in senso idealistico
astrattamente spiritualizzata) dell’azione, della conoscenza e del linguaggio.
Radicalmente
ed intrinsecamente storica è la comprensione che l’uomo ha delle cose
e di se stesso e, proprio in quanto siamo esseri finiti, il linguaggio ci è
conforme
[9]
: storicamente e linguisticamente condizionati sono non soltanto
la soluzione che offriamo ai problemi dell’esperienza, ma il fatto stesso
di porli e le modalità secondo cui essi vengono di volta in volta formulati.
In
quanto avviene nell�esistenza, l�essere stesso è finito
[10]
.
Il
punto di vista da cui di caso in caso ci situiamo e a partire dal quale entriamo
in rapporto con gli altri e con le cose, non può che essere dunque relativo
e particolare.
Ponendo
in luce la località e la particolarità di ogni fondazione, che non è una fondazione
assoluta, ma avviene dentro un particolare contesto storico-linguistico e a
partire da esso, la prospettiva ermeneutica ha ridimensionato la teoria del
fondamento e situato nel proprio specifico ambito la ragione: essa infatti coglie
il senso dei paradigmi e dei termini chiarendo come essi siano di fatto utilizzati.
Il
significato più profondo degli enunciati lo si enuclea analizzando cosa con
essi si fa, le azioni che per il loro tramite si compiono.
è
una prospettiva, questa, che non contrappone l’espressione linguistica� alla realtà, ma che, per seguire Austin, considera
come fare cose con parole.
La
filosofia ermeneutica condivide dunque con la filosofia analitica del linguaggio
ordinario, che pure perviene a simili conclusioni per altre vie, la consapevolezza
che il significato delle cose può ricavarsi osservando come le parole siano
di fatto, in un contesto concreto, impiegate.
Quale
che sia la relatività in cui essa si mostra, l’esperienza linguistica
oltrepassa però, nel contempo, la relatività di ogni posizione d’essere
[11]
.
Il
trascendentalismo del linguaggio non sopprime la realtà dell’esperienza,
ma la costituisce.
Nel
linguaggio si rende così visibile ciò che è reale oltre la coscienza del singolo;
ma, a differenza della coscienza, esso è rappresentabile secondo regole controllabili.
Il
linguaggio, ricondotto al livello dell’intersoggettività pratica, dal
momento che l’autosufficienza del soggetto empirico non ha più legittimazione
bastante a determinare il senso complessivo, trova la sua nuova legittimazione
nei processi intersoggettivi, in cui si radica la possibilità dell’universalizzazione
della conoscenza, della verità.
Ma
questa pluralità, questa intersoggettività non vanno tanto concepite come molteplicità
irrelata di soggetti, il che significherebbe riproporre il vizio del paradigma
soggettivistico, quanto come il prodotto del processo dialogico e comunicativo
che costituisce i soggetti e fornisce loro identità ed individualità.
Dunque
necessaria pluralità del linguaggio, nel senso che le persone, le azioni, le
istituzioni, le tradizioni possono essere oggettivate come comprensibili solo
in quanto siano soggetti di possibili interazioni: i significati possiedono
sempre validità intersoggettiva.
Il
linguaggio è il ritrovarsi plurale degli uomini nel mondo che parlano in comune.
Pluralità,
ma anche carattere pratico del trascendentale: mentre la filosofia speculativa
misconosceva il carattere pratico delle sue condizioni di produzione e di realizzazione,
la filosofia post-speculativa si pone invece il problema della prassi sociale
come medium ineliminabile del processo conoscitivo
[12]
.
2. La convergenza
specifica tra analitica ed ermeneutica
Se
si accentra infatti l�attenzione sui rapporti specifici tra filosofia analitica
e filosofia ermeneutica, si può senza fatica riscontrare come molte tra le più
corpose barriere che si frapponevano tra i due orientamenti siano venute a cadere
o comunque� ad indebolirsi in seguito
ad un duplice movimento di convergenza, del resto emblematicamente simboleggiato
su un versante dal rapporto sempre più intenso con alcuni esiti della filosofia
analitica di un autorevole ermeneutico come Paul Ricoeur e ben rappresentato,
sull’altro versante, dalle crescenti aperture in senso ermeneutico di
un Quine o di un Putnam, oltre che, come si è detto, di un Davidson o di un
Rorty.
Un
doppio movimento di convergenza: sul piano dell’analisi filosofica la
rottura, da Wittgenstein a Quine, dell’esclusività, propria del primo
positivismo logico, del riferimento atomistico alle proposizioni quali unità
di base del linguaggio, ha un effetto dissolutore dello scientismo, svincolando
la filosofia analitica dalla strettoia dell’obbligatoria e limitante connessione
tra significato e verifica empirica, dal dogma della corrispondenza tra proposizioni
e costituenti della realtà.
Le
tappe sofferte di questo progressivo processo di liberalizzazione percorso dalla
filosofia analitica, che ha via via rotto con l’originaria accentuazione
dell’aspetto logico, con ciò evitando il rischio di rimanere prigioniera
di esiti nominalistici, sono dunque rappresentate: anzitutto dall’abbandono
del collegamento necessario tra enunciati ed oggetti, tra proposizioni linguistiche
della scienza e stati empirici della realtà; poi dall’elezione dell’analisi
linguistica delle proposizioni scientifiche ad ambito esclusivo dell’analisi.
Infine,
dalla relativizzazione del linguaggio scientifico, collocato accanto agli altri
universi linguistici e alle forme di vita che loro corrispondono
[14]
.
L�intreccio
[15]
tra linguaggi e forme di vita, delineato dalla filosofia
del secondo Wittgenstein e poi proseguito da Taylor e Winch, apre di conseguenza
l’orientamento analitico, nel suo versante “performativo”,
ad un più vivo interesse per i concetti di azione, di intenzionalità e di motivazione
pratica.
In
particolare, il riconoscimento del ruolo giocato dall’intenzionalità conferisce
alla filosofia analitica la dimensione dell’intervento attivo del soggetto
nel mondo, precedentemente preclusa dalla mera analisi descrittiva dei rapporti
tra mente, linguaggio e mondo e dall’obiettivismo di un’osservazione
neutrale� dei dati, che non supponeva alcun ruolo significativo
per il soggetto.
Ciò
ha condotto alcuni sviluppi della filosofia analitica, di particolare interesse
per il mondo giuridico, ad ampliare l’ambito di significanza del discorso,
ammettendo la significanza di svariate forme di enunciazione non dichiarativa
[16]
.
Una
volta problematizzato il presupposto della corrispondenza tra mondo e linguaggio
descrittivo, e passata in secondo piano l’attenzione per il suo aspetto
denotativo, il linguaggio non viene più a esprimere la rappresentazione ed il
ragguaglio del compimento di un’azione, ma serve al realizzarsi dell’azione
medesima.
Questa
nuova segnalazione, da parte analitica, del ruolo non puramente teoretico, ma
pratico ed interessato della conoscenza, cui si riconnettono una critica ed
un ridimensionamento dell’obiettivismo, si presta naturalmente a significative
convergenze con la problematica ermeneutica: il significato di una asserzione
non può venire compreso se non alla luce di condizioni interpretative attinenti
alla situazione comunicativa.
Ciò
che viene implicitamente posto in questione è il modo oggettivante reificante,
con cui l’agire umano è stato considerato dal sapere scientifico, ossia
come oggetto di considerazione meramente descrittiva e constatativa.
Nel
momento in cui l�azione umana viene assunta come campo dell�indagine di un sapere
teoricamente rigoroso e neutrale, capace soltanto di osservarne e descriverne,
quasi fosse un oggetto neutrale, i meccanismi e le regolarità, ma non di essere
concretamente orientato da tale sapere riferito all�agire, la considerazione
dell�agire stesso non può che risultarne necessariamente ridotta ed impoverita
[17]
.
Da
questo punto di vista il tentativo della teoria analitica dell’azione
elaborata nell’ambito anglosassone di riconnettere il momento conoscitivo
e il momento attuativo delle azioni chiarendo le strutture di una attività diretta
ad uno scopo, si muove in perfetto parallelismo rispetto alla tendenza filosofica,
sviluppatasi soprattutto in Germania, nel senso di una riabilitazione della
filosofia pratica, ossia di una forte ripresa dell’interesse per i grandi
problemi etici, economici, giuridici e politici dell’agire umano, che
concentra la propria attenzione sulla peculiarità pratico-orientativa del sapere
che si riferisce all’agire
[18]
.
Per
converso, sull�altro lato del movimento pendolare, l�ermeneutica filosofica,
già sempre volta a sottolineare come il comprendere ermeneutico si leghi con
un orientamento all�agire e come il linguaggio si configuri insieme quale veicolo
della tradizione e quale tramite del suo superamento, è venuta imprimendo alle
proprie formulazioni una crescente, progressiva linguisticità: il linguaggio
non è soltanto il medium universale della vita umana, la condizione di possibilità
della nostra comprensione e della nostra conoscenza, ragione per cui l�ermeneutica
può anche definirsi come una riflessione sulle dipendenze dal linguaggio, ma
lo stesso essere che può venire compreso.
La
cosa di cui occorre cogliere la realtà e decifrare il senso, si risolve in linguaggio.
Nell�un
caso come nell�altro, comune è il riconoscimento dell�impossibilità di aggirare
il medium linguistico: non solo, ma la svolta va precisamente nella direzione
dell�ordinary language, rispettivamente inteso come forma in cui il mondo viene
vissuto e come espressione comune e pubblica di un atteggiamento normativo proprio
degli agenti sociali, che àncora la dialettica del linguaggio e della società
al mondo della vita.
Naturalmente,
precondizione prima di questo nuovo interscambio è una autoriflessione, consapevole
delle rispettive insufficienze della propria impostazione e della necessità
di un loro coraggioso superamento: da una parte i problemi ermeneutici del senso
e della verità delle proposizioni vanno affrontati e risolti all’interno
di regole pragmatiche, sì che vengono escluse la possibilità e la stessa idea
di una comprensione tacita, scissa dalla mediazione linguistica; ma, dall’altra
parte, il linguaggio non ha più solo valore di sistema strumentale di segni,
ma consiste anche di intenzioni e di processi soggettivi, che eccedono una mera
empiricità osservabile.
Una
volta acquisita
[19]
consapevolezza della crisi di ciò che per gli analitici rappresenta
l’unità linguistica di base, vale a dire la proposizione, si pone immediatamente
il problema relativo all’ammissibilità o meno di una�
referenza proposizionale.
Più
precisamente, se consideriamo il linguaggio nel suo carattere di atto discorsivo
più che nel suo contenuto proposizionale, la questione diviene se e in che senso
si possa parlare di una referenza con riferimento al discorso.
Il
modello del discorso consente di riprendere in termini nuovi, in un senso meno
dicotomico, la vecchia polemica tra spiegare e comprendere.
Se
è vero che, nell’analisi semiotica o semantica dei testi si rivela il
carattere paradigmatico del loro configurarsi rispetto alla strutturazione del
campo pratico nel quale gli uomini agiscono, i discorsi sono a loro volta delle
azioni, cioè conservano un legame che non è soltanto di tipo mimetico con l’agire
effettivo
[20]
.
Il
nesso strutturale tra linguaggio ed azione, che in scienze umane come la giurisprudenza
diviene oggetto eminente dell’analisi scientifica, mal si lascia inquadrare
nel principio cartesiano della spiegazione, soltanto descrittivo di connessioni
fattuali verificabili, e di necessità involgente un procedimento di tipo oggettivamente
classificatorio
[21]
.
Quand�anche
spieghiamo, ossia riferiamo, con un�ascrizione di enunciati e di significati,
le parole a concetti chiari e distinti, ancora non ne conosciamo il significato,
poiché ci troviamo nella necessità di comprenderle; ovvero, non potendo prescindere
dalla dimensione intersoggettiva della comprensione, abbiamo l�esigenza di dovere
ancora interpretare la �cosa� di cui esse parlano
[22]
.
Rispetto
al discorso ordinario, la forma particolare del “diskurs” non si
limita a scambiare informazioni ed opinioni, ma presuppone la validità di determinate
connessioni di senso.
Noi
comprendiamo il significato di un atto linguistico, quando sappiamo a quali
condizioni esso potrebbe essere accettato come valido.
La
necessità di attenersi al discorso immunizza dal pericolo di facili ricadute
ermeneutiche nel soggettivismo.
Qualsiasi
comunicazione presuppone un’intesa sul modo di comunicare e sul senso
pragmatico dell’interazione: i parlanti utilizzano delle espressioni linguistiche
al fine di intendersi relativamente a situazioni di fatto.
Dunque,
è innegabilmente presente negli atti linguistici un contenuto intenzionale sia
in Habermas che in Kaufmann.
La
reintroduzione dell�elemento intenzionale nell�ambito di un�analisi puramente
linguistica significa ed implica il passaggio da ciò che la lingua fa a ciò
che il parlante fa.
In
altri termini, se l�intenzione è ciò che la regola semantica implica non appena
l�atto enunciativo si trasforma in un atto del parlante, l�aspetto che davvero
caratterizza il discorso, in contrapposizione alle unità linguistiche più elementari,
è per l�appunto costituito da questo rinvio al parlante.
Non
solo, ma l�elemento intenzionale, come ha mostrato in una serie importante di
saggi Paul Grice, non si limita a farci comprendere il ruolo degli atti mentali
nello svolgimento del discorso, ma può implicare anche la volontà di raggiungere
un effetto sul partner del discorso, per il tramite del suo riconoscimento dell�intenzione
[23]
.
Si passa dall� �utterances meaning�
all� �utterer�s meaning�.
Nella
dimensione del discorso il riconoscimento non rappresenta un fattore aggiuntivo,
ma fondamentalmente costitutivo del significato.
Averne
consapevolezza significa orientare la direzione del discorso non più soltanto
sul senso o sul significato, ma piuttosto su colui con cui si parla, sull’intenzione,
come attesa di riconoscimento dell’intenzione del parlante.
Il
medium linguistico, se considerato nella chiave tematica degli atti linguistici,
implica perciò uno spostamento di prospettiva, nel senso dell’atteggiamento
performativo di un parlante che vuole intendersi su qualcosa nel mondo con un
altro parlante.
Il
linguaggio non è più pensato come descrizione di stati di cose, ma fondamentalmente
come comunicazione tra persone.
In
tal modo, tra i soggetti di una comunicazione dialogica si dà indefettibilmente
una contemporanea metacomunicazione intersoggettiva sul significato pragmatico
e contestuale del comunicare, sull’adeguatezza degli enunciati alle cose
e sulla possibilità di distinguere in ogni momento tra intendere e fraintendere
(nelle convinzioni di fondo della più ortodossa filosofia analitica, invece,
più che luogo dell’intendersi il linguaggio è il luogo del fraintendersi,
cui occorre porre rimedio con una rigorosa definizione dei termini utilizzati).
Quest�accordo
[24]
sul fatto che gli enunciati “valgono”, quest’intesa
implicita non vanno scambiati� con il
contenuto del singolo atto discorsivo, e dunque vanno oltre le asserzioni linguisticamente
fissate, ma nel contempo rappresentano il presupposto di possibilità dello� scambio linguistico.
Se
un parlante si intende con un altro parlante su una cosa, condizione del loro
intendersi è che entrambi riconoscano gli enunciati come adeguati alla cosa.
Nulla
nei discorsi pragmatici dell’esperienza può costituirsi senza implicare
il piano metacomunicativo dell’intesa inespressa.
Il
concetto di agire comunicativo non suggerisce prescrittivamente ciò che gli
uomini dovrebbero fare: con esso si prende invece atto che gli esseri umani
debbono comunicare e che a questo sono costretti ogni giorno dalla stessa vita
quotidiana
[25]
.
Come
nel rapporto e nello scambio sociale sono gli altri che ci attribuiscono e consentono
una identità, così nel dialogo linguistico e nel circolo di interazione che
esso involge è l’interlocutore che ci “attesta” e ci modifica.
Anche
su questo piano, non potendo mai stare separatamente in sé stesso, il sé, che
pure è destinato a passare attraverso le peripezie di un rapporto ermeneutico
con la propria soggettività, implica l’altro in un modo del tutto intrinseco:
egli deve interpretarsi come parlante e come agente, non può cioè prescindere
dal rapporto costitutivo ed essenziale con l’alterità.
Nella
necessità che pone di interpretare sé e gli altri, anche il linguaggio rivela
inesorabilmente l’impossibilità del singolo di rinchiudersi in se stesso
e il suo costitutivo bisogno dell’incontro con l’alterità.
Mediante
queste connessioni di senso, il linguaggio apre ai parlanti un orizzonte di
possibili azioni ed esperienze: sullo sfondo di questa intesa, attorno alla
quale i soggetti capaci di comunicazione e di azione comprendono e si comprendono
vicendevolmente, il medium linguistico vale senz’altro come qualcosa che
precede e struttura i soggetti parlanti ed il mondo, ma d’altro lato è
solo nella prassi orientata all’intesa di una comunità linguistica che
può realizzarsi e “consistere” l’interazione tra i mondi vitali
linguisticamente strutturati.
In
altri termini, il linguaggio non è semplicemente qualcosa di predefinito e già
strutturato cui soggiacere nei modi della dipendenza, ma il prodotto di un autonomo
agire comunicativo circolarmente intrecciato con l’apertura linguistica
del mondo.
Si
potrebbe a questo punto, per la verità un po’ affrettatamente, obiettare
che queste, dell’Einverstandnis o della Verstandigung, come telos intrinseco del linguaggio umano, rimangono come acquisizioni
fortemente legate alle tesi ermeneutiche o ermeneuticamente condizionate di
un Gadamer o di un Habermas.
Ma
l�osservazione non è affatto convincente, tanto è vero che anche su questo terreno
dobbiamo registrare la profondità della convergenza che esiste oggi tra alcune
posizioni ermeneutiche e analitiche, soprattutto grazie ad un movimento che
va dalla filosofia analitica all�ermeneutica
[26]
.
Che
altro significa, infatti, da parte di un teorico analitico della conoscenza
dichiaratamente relativista e scettico come Davidson, la rottura con una concezione
del linguaggio come sistema strumentale di segni in cui il riferimento all’oggetto
sia ancora in discussione, e la correlativa, peculiare acquisizione secondo
cui il riferimento al mondo che il linguaggio, inteso non come sistema formale
artificialmente creato, ma come totalità viva, costitutivamente implica, si
esprime in una pretesa di verità che sta prima di qualsiasi ponte gettato tra
parole e fatti?
Per
comprendere meglio, si deve avere già compreso.
Il
�terzo dogma dell�empirismo�- dopo i due dogmi brillantemente denunciati da
Quine, con la sua celebre critica del dualismo carnapiano tra giudizi analitici
e giudizi sintetici � sta esattamente nella descrizione e constatazione avalutative,
basantesi sulla dicotomia schema concettuale/contenuto empirico, di una esperienza
non interpretata e che rimarrebbe in sostanza collocata al di là di tutti gli
schemi concettuali, i paradigmi conoscitivi e le visioni del mondo.
In
dichiarata adesione ai programmi olistici del più influente allievo americano
di Carnap, Willard Van Orman Quine, la semantica del significare di Davidson,
fatti cadere gli ultimi residui empiristici dell’analisi, presuppone così
un rapporto costitutivo tra gli enunciati linguistici: quando si intende qualcosa
di determinato e di specifico, va tacitamente assunto qualche cosa, o forse
di più, di non tematizzato.
Senza
dubbio i soggetti che agiscono in modo comunicativo sperimentano ogni volta
il proprio mondo vitale come un tutto intersoggettivamente condiviso: uno sfondo,
questo, che solo in seguito verrà tematizzato e differenziato.
In
un primo tempo ermeneuticamente dischiuso dalla precomprensione, questo mondo
vitale viene allora soltanto in un secondo momento ricostruttivamente oggettivato.
Ed
è su questo terreno che si potranno distinguere le pluralità di referenze di
un medesimo discorso.
Tutto
ciò che in ambito ermeneutico si riassume sotto la cifra del concetto di precomprensione
acquista rilievo epistemologico in quel tessuto di apprendimento pre-scientifico,
in quel legame di ritorno tra la scienza e la vita, che precede e condiziona
lo “spiegare” proprio della conoscenza scientifica
[27]
.
Se
poi ci collochiamo sul piano specifico del fenomeno giuridico, che altro rappresenta,
in ultima analisi, questo fondo indisponibile non tematizzato, di cui parla
Davidson, se non quella base di valori comuni, quella “prassi complessa”,
che nell’uso costante e vivente delle norme, nei criteri identificativi
del diritto valido, nella teoria e nella pratica della interpretazione giuridica
appaiono in una determinata comunità linguistica come predominanti?
E
non sarebbe certo troppo arbitrario avvicinare questo pre-giudizio condiviso,
questo sfondo di un insieme di atti linguistici al punto di vista interno, sul
quale Hart edifica il suo modello di diritto, dal punto di vista di un comune,
necessario rinvio, nell’un caso come nell’altro, all’attività
dei consociati ed alla loro interrotta prassi sociale, ossia ad un’attività
ermeneutica e dei testi normativi e dei fatti sociali.
Come
Hart ha mostrato, il diritto è infatti indissociabile dalla pratica sociale
che lo rende effettivo e nel suo insieme osservato: l’ “aspetto
interno” delle regole, la dimensione normativa della vita sociale, che
è propria al diritto, si lasciano in effetti afferrare soltanto nel comportamento
degli agenti che, partecipando ad una medesima pratica sociale, adottando dei
criteri comuni di condotta e di relazione alle situazioni in cui si dice esista
una norma
[28]
.
Questo
senso pragmatico metacomunicativo, che solitamente non viene mai problematizzato,
ma viene sempre dato per acquisito, in cui sono soddisfatte le pretese implicite
di validità della comunicazione, costituisce l’oggetto della referenza,
cioè il criterio in grado di verificare la validità e la legittimità del discorso
all’interno dell’interazione data.
Spiegare
e comprendere, fin dalla teorizzazione di Dilthey, che ne caratterizza la distinzione
in termini oppositivi, sostanzialmente escludendo però il primo termine a vantaggio
del secondo, mostrano entrambi un’irresistibile vocazione a porsi come
termini alternativi ed esclusivi, relegando ciascuno di essi il proprio termine
antagonista in una posizione inessenziale e subalterna.
In
effetti, nell�unità della scienza del Circolo di Vienna per un verso e nella
ricordata opposizione diltheyana� per
altro verso, si determinava esattamente questa reductio ad unum del polo antagonista:
o si “spiega” nel senso dello scienziato, o si “comprende”
nel senso dello storico.
Se
lo spiegare si riferisce all’aspetto oggettivo, il comprendere si riferisce
a quello soggettivo.
Se
il primo agisce attraverso una catena obbligata di cause e di effetti, il secondo
attiene invece al modo con cui si accede ai fatti.
In
una parola, lo spiegare è in temporale, il comprendere è storico
[30]
.
Non
si dà tuttavia descrizione e spiegazione dei fatti che possa astrarre dal modo
con cui si guarda ad essi e che possa prescindere dal prender parte ad una comunicazione
intersoggettiva; la comprensione del linguaggio non è possibile al di fuori
di una forma di vita che incarni una serie di regole e di pratiche condivise.
Come
anche, per converso, non si dà orientamento nel mondo a prescindere dalle spiegazioni
necessarie per percorrere tale orientamento.
Ma
se nell�orientamento analitico logico-empiristico di Russell, Schlick e del
primo Wittegenstein esisteva fondamentalmente il solo momento della spiegazione,
di cui la comprensione è soltanto un modo, potendo essa tutt�al più predisporre,
in via ausiliaria, il materiale empirico da utilizzare, il new dualism, maturato
poi nel contesto analitico, coglie poi assai bene l�impossibilità, per la comprensione,
di intromettersi nella connessione esplicativa nomologico causale.
Da
Dray a von Wright, lo sforzo di mediare tra comprensione e spiegazione causale
sviluppa una vigorosa critica nei riguardi del modello di spiegazione nomologico-deduttiva
prospettato da Hempel e Oppenheim e, contestando un illegittimo trasferimento
di concezioni e ideali dalle scienze naturali a quelle umane, cambia sensibilmente
la prospettiva analitica, che giunge così a superare, grazie al tema della intenzionalità,
il dilemma comprensione versus spiegazione, come tipi differenti di intelligibilità
scientifica.
Il
rischio implicito nella posizione degli ermeneutici romantici consisterebbe
invece nel confinare come estranea alla comprensione, in nome della soggettività
dell’appropriazione del messaggio, ogni analisi di tipo oggettivante.
Con
l�effetto, per l�appunto, di liquidare, in nome dell�irriducibilità delle scienze
umane a quelle naturali, lo spazio epistemologico e metodico della causalità
e della spiegazione.
Vanno
pertanto chiaramente contestate e respinte le posizioni estreme, ossia da un
lato la pretesa della spiegazione di fornire il solo modello metodologico valido;
ma dall’altro anche la pretesa della comprensione di riportare per intero
a sé la spiegazione, vista come mero corollario dell’evento comprensivo,
in quanto riconduce e riduce, almeno nelle sue più radicali formulazioni, il
mondo dei fatti al mondo dei segni
[31]
.
Lo
spiegare nomologico e il comprendere ermeneutico si escludono vicendevolmente
e proprio per questo motivo sono complementari.
Tra
comprendere e spiegare si dà insomma, se almeno non se ne voglia offrire un’immagine
semplificata e riduttiva, una dialettica, complessa e necessaria, di reciprocità:
l’un polo non può fare a meno della mediazione obbligata dell’altro,
che tuttavia abbisogna dell’apporto necessario del primo per meglio adempiere
alla sua funzione
[32]
.
In
altre parole, comprensione e spiegazione, lungi dal porsi come dimensioni antagoniste,
sì che il loro rapporto non potrebbe non costituirsi in termini di eliminazione
dell’una ad opera dell’altra, come per molto tempo ci hanno indotto
a credere gli analitici empiristi da un lato, gli ermeneutici romantici dall’altro,
sono in effetti dimensioni complementari: quale modalità di orientarsi nel mondo,
il comprendere trova di volta in volta le spiegazioni più utili per realizzarlo.
Che
il comprendere giochi un ruolo rilevante nelle spiegazioni dei dati del mondo
percepiti, pare assai difficilmente negabile.
Ma
anche le scienze ermeneutiche non possono non ricorrere a procedimenti di tipo
ipotetico-deduttivo: qualunque interpretazione del particolare, come Josef Esser
ha mirabilmente dimostrato per l’interpretazione giuridica, che ha il
suo vero punto di partenza nel caso particolare, prende avvio con una ipotesi,
cioè con una supposizione, che, nel prosieguo dell’iter del comprendere,
viene confermata ovvero confutata e corretta.
Va
anzi sottolineato che entrambe le dimensioni del conoscere mostrano l’esigenza
- e ne traggono beneficio – di funzionare in coppia e di richiamarsi ed
integrarsi vicendevolmente, al fine di un loro più sinergico operare nell’intero
campo ermeneutico
[33]
.
Ciò
che davvero occorre è avere a disposizione, come hanno dimostrato, pur in modi
diversi, von Wright e Ricoeur, un modello misto, che combini intenzionalità
e causalità secondo un intreccio complesso: può prevalere, secondo i casi, una
versione a dominante comprensiva (come in Ricoeur), ovvero una versione a dominante
esplicativa (come von Wright), ma comunque non si può in alcun modo prescindere
da una teoria generale ermeneutica, capace di avvalersi al suo interno dell’apporto
e dell’una e dell’altra, pur riconoscendone le differenze; e che
quindi non mutili forzosamente la complessità e pluridimensionalità dell’evento
ermeneutico riducendo l’una all’altra.
Questo
modello misto, basato sulla dialettica necessaria tra spiegare e comprendere,
in cui la comprensione vede la spiegazione non come suo antagonista, ma come
suo complemento e mediazione, non è certo suggerito da discutibili intenti di
eclettismo metodologico, ma al contrario è imposto dalla stessa natura “mista”
dell’azione, che, in quanto intervento nel corso quotidiano delle cose,
non si impegna in sfere della realtà separabili e irriducibili, ma si vede in
qualche modo costretta a congiungere e connettere in sé momenti intrecciati
di comprensione e di spiegazione, di intenzionalità e di causalità, di conformità
e di innovazione.
La
scienza esplicativa, lo spiegare, non possono completamente prescindere dal
comprendere, per il semplice fatto che anche la scienza è essa stessa una pratica,
anche se una pratica teorica, che è radicata nella prassi delle relazioni prescientifiche
con cose e persone e che possiede una sua finalità interna.
Anche
lo spiegare è perciò dipendente da condizioni di comprensione di volta in volta
specifiche.
L�etica
dialogica e trans-soggettiva della scuola di Erlanger, quella discorsiva di
Habermas o quella trascendentale di Apel si caratterizzano, come è noto, per
la comune convinzione che le questioni pratiche possano e debbano essere risolte
in un contesto dialogico-comunicativo, solo però alla condizione di superare
le strutture tipiche della retorica tradizionale.
Ciò
però implica in primo luogo l’abbandono del topos, ossia�
del valore vincolante attribuito all’opinione tradizionale, in
secondo luogo l’elaborazione di una logica dell’argomentazione e
in terzo luogo l’individuazione di un principio fondamentale sulla cui
base quella logica dell’argomentazione possa operare
[34]
.
Questo
principio fondamentale è appunto individuato non al di fuori del dialogo e del
linguaggio, come era avvenuto per la filosofia morale tradizionale, ma proprio
al loro interno, in modo tale che il linguaggio non costituisce soltanto lo
strumento per rispondere alle questioni pratiche, ma anche il fondamento nel
quale individuare i criteri di queste risposte.
Ma
se il linguaggio è heideggerianamente “casa dell’essere” o
si trova wittengsteinianamente connesso alla forma umana della vita, resta in
piedi l’interrogativo centrale: se esso possa essere al tempo stesso l’habitat
comunicativo dell’esperienza ed il suo criterio fondativo e regolativo.
In
altre parole un appunto comune che si può forse rivolgere tanto alla prospettiva
analitica quanto a quella ermeneutica è che presupponendo entrambe, se pure
in modo diverso, che il linguaggio sia in assoluto l’orizzonte intrascendibile
di ogni esperienza, esse saltano a piè pari il problema filosofico delle esperienze
che si costituiscono prima della soglia linguistica o in una certa indipendenza
da essa; proprio perché, dopo la svolta linguistica, tale soglia non può più
essere oltrepassata se non in tematizzazioni che a loro volta sono elaborate
linguisticamente
[35]
.
Il
livello pre-linguistico dell’esperienza, la dimensione di apertura al
mondo non ancora mediata dal linguaggio sono per l’appunto ciò che consente
la successiva elaborazione linguistica e l’organizzazione dei significati
in enunciati.
Non
tutto è riducibile completamente al linguaggio, ma senza dubbio esistiamo nella
misura in cui il nostro rapportarci agli altri e� alle cose è in ogni caso mediato dal nostro
necessario essere parlanti: prima di trovare le proprie forme espressive, l’intenzione,
quale momento in cui si saldano conoscere e volere, è necessariamente oscura.
Il
comunicabile si distingue e si staglia dal fondo dell’incomunicabile,
in quanto il
logos sia in grado di esprimere quella parte intenzionale della
vita, capace di uscire, proprio grazie al discorso, dagli aspetti di silenzio
e di chiusura pur presenti nel vissuto
[36]
.
Una
messe di problemi di non poco rilievo rischia così di rimanere esclusa dall’orizzonte
dell’analisi, ovvero di venire filtrata unicamente attraverso la mediazione
linguistica.
In
fondo già le indagini fenomenologiche di Husserl ne “La crisi delle scienze
europee”, relative ai rapporti tra espressione e significato, nel tematizzare
la relazione tra l’espressione linguistica e il suo valore di verità,
ponevano con precisione il problema dei rapporti tra pre-filosofico e filosofico.
Lo
stesso concetto di azione, nella sua più pregnante connotazione specifica, fa
problema: è ben chiaro infatti che il linguaggio è sempre atto linguistico,
ossia possiede una dimensione pragmatica, è agire; non ogni agire è però atto
linguistico
[37]
.
Vi
sono forme di azione non discorsiva o pre-discorsiva.
Nella
sua definizione peculiare l’agire è anzi qualcosa di diverso dal parlare:
e pur riconoscendo che i relativi ambiti non possono essere totalmente separati,
si tratta di non cancellare queste differenze, che�
rivestono invece non poca rilevanza.
Tra
linguaggio e realtà non è dunque mai garantita una totale saldatura: se lo si
sostenesse, si ricadrebbe nel dogma dell’empirismo logico del neopositivismo,
frutto del mito razionalistico di una trasparenza totale della realtà, che si
sentiva dispensato dalla necessità di fare i conti con l’insuperabile
finitezza della mediazione linguistica.
Eppure,
replicherebbe quanto meno l’ermeneutica, qualunque critica dei limiti
del linguaggio che possa essere avanzata nulla toglie alla preminenza del linguaggio
stesso, all’essenziale linguisticità del fatto del comprendere.
Se
l�uomo può fare esperienza solo di ciò che perviene al linguaggio, questo non
significa che la realtà si riduca ai testi, che sussista una totale omologazione
tra linguaggio ed azione, ma ribadisce soltanto il carattere eminentemente linguistico
delle categorie attraverso cui �facciamo� esperienza.
L�esito
forse più interessante, anche se non certo unico, di tale progressivo avvicinarsi,
fino a convergere, di due campi inizialmente avversi come quello analitico ed
ermeneutico è nella presa d�atto, largamente comune, del carattere in senso
forte intersoggettivo posseduto dall�orizzonte linguistico del significato.
Le
azioni linguistiche, il mondo della vita linguisticamente strutturato, presuppongono
un costitutivo rinvio agli interlocutori del discorso per un verso, al mondo
descritto e rappresentato dal linguaggio per altro verso, come totalità vive
che sono in realtà il risultato di un processo: in una parola viene in primo
piano la dimensione dell’interazione soggettiva di chi vuole intendersi
con altri su qualcosa nel mondo.
Volendo
utilizzare la terminologia proposta dalla teoria degli atti linguistici di Austin
e Searle, possiamo dire che il terreno specifico di convergenza tra ermeneutica
e analitica è insomma rappresentato dal livello della forza illocutoria dell’atto
linguistico, da quanto noi, parlando, facciamo.�
Che
cosa implica questo tipo di acquisizioni sul piano del nostro problema specifico,
quello del diritto?
Certamente
la teoria degli atti linguistici offre degli apporti interessanti e fruttuosi
per approfondimenti nel campo giuridico, un ambito nel quale la parola, pronunciata
o scritta, occupa comunque un ruolo di primo piano
[38]
.
Ma
se ci poniamo il problema della rilevanza e della fecondità o meno del modello
proposto dalla teoria degli atti linguistici nell’universo del discorso
giuridico, dobbiamo offrire delle risposte articolate sui piani, tra loro diversi,
dei diversi linguaggi nei quali usano esprimersi i vari soggetti giuridici.
Si
potrebbe anzitutto distinguere tra atti di legislazione e atti di interpretazione.
Per
quanto riguarda i primi dobbiamo subito osservare che identificare le norme
giuridiche con gli enunciati, ossia con l’insieme delle parole usate dal
legislatore, non è comunque sufficiente: essendo la norma sempre qualcosa “di
più” della sua formulazione linguistica (diversamente il testo normativo
non dovrebbe essere interpretato), esisteranno sempre delle norme che non si
riesce a fare corrispondere, e dunque ad identificare con le forme linguistiche
utilizzate dal legislatore.
Il
contenuto della norma non è generalmente riducibile ad un singolo atto, ma va
necessariamente esteso ad una pluralità� di
atti (o di situazioni) diversi.
L�apporto
specifico dell�ermeneutica può contribuire a focalizzare quella che Manfred
Riedel
[39]
ha suggestivamente chiamato la “dimensione acroamatica
del linguaggio”, il rapporto tra la parola, detta o scritta, e le sue
molteplici interpretazioni, che inevitabilmente rimandano al di là di essa,
il legame dell’uno con il molteplice che sta necessariamente sul suo sfondo
[40]
.
Anche
con riguardo al diritto, trova una sua specifica conferma il fondamentale principio
ermeneutico per cui il testo e l’interpretazione si producono reciprocamente.
Nel
processo di comprensione del diritto rischia perciò di essere fortemente fuorviante
fermarsi al solo piano del linguaggio legislativo, come sequenza radicalmente
empirica di segni, senza continuamente integrare l’atto linguistico legislativo
con l’uso che di tale linguaggio è effettuato nel processo di comprensione
del diritto da parte dell’interprete.
Volendo
adottare la terminologia della Speech Acts Theory si può anche dire che non
bisogna unicamente arrestarsi al livello del locativo giuridico, ma occorre
collocarsi sul piano della funzione illocutiva, che viene realizzata da tutti
coloro che “dicono” il diritto.
E�
perciò senz�altro fondato riconoscere che il fenomeno giuridico si identifica
largamente con un fatto linguistico: ma molto meno fondato è identificare la
teoria del diritto con l�analisi del linguaggio del (solo) legislatore.
La
tendenza a ridurre la norma all’enunciato del soggetto emittente istituzionalmente
dotato di autorità minimizza infatti il contributo offerto all’esperienza
linguistica da altri soggetti prima e dopo il momento dell’emissione del
precetto.
La
possibilità di stipulazioni convenzionali, propria del linguaggio giuridico
in quanto linguaggio specialistico, è garantita dall’apertura preliminare
e indisponibile del linguaggio naturale, senza cui l’intesa ed il discorso
riguardo al diritto non sono neppure concepibili.
Non
solo: ma il significato �non semplice� della proposizione può essere colto non
a livello atomistico e di �disserzione� microscopica dell�atto linguistico individuale,
bensì sul piano �solistico� del suo collegamento con una molteplicità, se non
con l�insieme degli enunciati linguistici.
La
parte non può che ricevere significato dal tutto e nel tutto in cui si trova
inserita.
Non
è possibile chiarire concetti giuridici fondamentali, come quelli di obbligo,
di dovere e di potere, ma, ancor più, affermare la forza vincolante e la pretesa
di obbligatorietà del diritto se si toglie il collegamento della singola proposizione
linguistica con il tutto
[41]
.
E�
dunque sul terreno specificatamente giuridico che si manifesta una peculiare
difficoltà, per il rifiuto analitico di accedere ad unità linguistiche che trascendano
il piano atomico della proposizione
[42]
.
La
microfisica del linguaggio, l’inseguimento “delle minuzie, cose
alle quali posso solo incitarvi”
[43]
, non sempre si adattano efficacemente alla realtà complessa
ed olistica del diritto, dove le microunità di base costitutivamente domandano
di essere correlate alle altre parti del tutto e, soprattutto, ad una misura
di carattere generale.
La
filosofia analitica del diritto si basa su un’ontologia dell’atomismo
logico, che struttura il mondo giuridico su fatti isolabili: ma caratteristica
indefettibile del diritto è che il complesso delle regole e dei materiali giuridici
costituisca una unità.
Come
da ultimo ha bene posto in evidenza Donald Dworkin, con la sua teoria del Law
and Integrity, il principio di integrità richiede, tanto nella legislazione,
quanto nella decisione giudiziaria, che il diritto sia concepito come unità,
in linea di principio coerente, e non come un insieme eterogeneo di leggi e
di decisioni giudiziali distinte ed isolate.
Dunque
il presupposto dell�unità del diritto si armonizza agevolmente con la microfisica
analitica; parrebbe perciò quanto mai opportuno che anche la filosofia analitica
del diritto si muovesse più coraggiosamente nella direzione dei più recenti
sviluppi della filosofia analitica generale, rivedendo finalmente in profondità
tale suo atomismo di fondo, nella prospettiva di una considerazione olistica
del diritto come linguaggio.
Per
quanto invece attiene la seconda categoria di atti linguistici, gli atti di
interpretazione, premesso che si possono incontrare difficoltà nel riconnettere
l’atto di interpretazione ad una soltanto delle diverse classi di atti
linguistici distinte dalla Speech Acts Theory, ossia gli atti locutivi, illocutivi
e perlocutivi, non si può non osservare che l’atto di interpretazione
si configura come qualcosa di più complesso e di diverso da una mera asserzione
o da una mera constatazione.
L�interpretazione
giuridica consiste in una
Rechtsfindug del senso più adatto alla coerenza logica ed assiologia del sistema
giuridico, ma anche in una Rechtsforbildung, che consentendo di applicare in concreto le norme giuridiche, rappresenta
costitutivamente uno sviluppo e una ri-formulazione di queste ultime con riferimento
alle porzioni sempre nuove di realtà individuate dal caso da regolare: una Rechtsforbildung che non può comunque confondersi con la creazione di
norme giuridiche nuove.
Se
[44]
l�atto interpretativo ha finalità eminentemente pratiche,
e si inserisce perciò in un sistema normativo che ha per fine di disciplinare
e guidare i comportamenti umani, uno dei pregi maggiori della teoria degli atti
linguistici sta proprio nel rammentarci il carattere d�azione degli atti di
linguaggio, la loro indissociabilità da contesti precisi d�azione: essa ci ricorda
che gli enunciati linguistici delle norme giuridiche non costituiscono una realtà
completa ed indipendente, che si potrebbe studiare in se stessa e per se stessa.
Anzi,
come già rilevava Deridda, il problema del linguaggio rinvia, da questo punto
di vista, a quello della traccia in generale, a tutto quanto in noi manifesta
l’opera dell’altro.
E�
ben difficile perciò erigere una linea di distinzione assolutamente netta tra
il sistema linguistico e la singola creazione linguisitica individuale
[45]
.
L�enunciato
non è che un elemento di uno o più atti sociali compiuti entro un certo contesto
storico intersoggettivo.
Certo,
tutti i discorsi indirizzati ad altri si qualificano per una certa funzione
illocutiva: come noi parliamo sempre a certi precisi fini, così l’atto
linguistico relativo alle norme giuridiche possiede sempre una finalità illocutiva.
Essa
però non è più solamente identificabile come voleva la prima filosofia analitica
italiana del diritto, con la funzione prescrittiva di disciplinare i comportamenti.
Il
modello, di tipo imperativistico e coattivo, di un diritto la cui funzione è
sempre e solo quella di guidare unidirezionalmente la condotta, di costringere
a fare – cui simmetricamente corrisponde un atteggiamento di passiva obbedienza
da parte di organi giurisdizionali e privati cittadini – oltre ad essere
ingenuo, non rende conto della configurazione attuale del fenomeno giuridico
che, nei contesti occidentali di Welfare State, si caratterizza sempre più per
funzioni di tipo promozionale e per un’inarrestabile� - anche se non sempre positiva - tendenza ad
una crescente consensualizzazione
[46]
.
Appare
perciò ben più aderente alla realtà attuale il qualificarlo come discorso, come
gioco comunicativo e linguistico complesso che comporta l’interazione
di una serie differenziata di soggetti.
Oggi
non è più credibile l’operazione di restringere il diritto alla sola dimensione
linguistica qualificata dal soggetto emittente (il legislatore) e dai suoi enunciati,
assunti come originari.
Né
si può persuasivamente sostenere che il momento interpretativo si riduce ad
un’ascrizione sostanzialmente estrinseca al senso e finalizzata ad atti
linguistici individuali.
L�interprete
non è infatti soggetto isolato e �secondario� in questa rilevante opera di ascrizione
dei significati.
Al
contrario egli agisce collocandosi dentro una reale comunità linguistica� e dentro un universo giuridico già contraddistinto
dalla comunicazione e dall’implicito accordo
[47]
.
Già
nell’uso del linguaggio idee derivate dalla lingua corrente circa i rapporti
familiari ed extrafamiliari, come pure concetti di natura valutativa relativi
alla vita intima o personale o anche a quella economica, predeterminano e continuamente
condizionano la portata dei corrispondenti testi giuridici.
Il
pregio dell�interpretazione giuridica è di porre in massima evidenza l�aspetto
necessariamente cooperativo del rapporto che si stringe tra creatori, interpreti
delle regole e tutti i soggetti impegnati a diverso titolo nel contesto applicativo
di queste ultime.
L�interpretazione
non può situarsi in un contesto meta-linguistico, giacché il significato coappartiene
all�impiego stesso del linguaggio.
Ed
è precisamente su questo piano che si può fruttuosamente utilizzare l’apporto
della filosofia ermeneutica, con la sua tesi che la fondamentale polisemia delle
parole non può essere ridotta che per il tramite dell’ “azione contestuale”
del discorso.
Il
significato di una espressione polisensa non soltanto si rivela come dipendente
dal contesto, ma addirittura come determinato dal contesto stesso: decisivo
è, comunque, il processo di fissazione di un’espressione in un contesto,
che consente di limitarne la plurivocità.
Perciò
la riduzione della plurivocità non si può tanto conseguire su un piano puramente
testuale, quanto piuttosto su di un piano contestuale, dove per contesto deve
intendersi sia il contesto, linguistico e istituzionale, di enunciazione, sia
il contesto di applicazione ad una situazione di tipo particolare.
Il
testo giuridico legislativo non è mai autonomo ed a-contestuale.
Il
linguaggio generalmente non rigoroso del legislatore acquista un significato
maggiormente univoco nel particolare contesto enunciativo o applicativo in cui
viene usato
[48]
.
L�ermeneutica,
ed in particolare l�ermeneutica giuridica, si può per l�appunto definire come
l�arte di precisare fini non ancora precisati
[49]
.
Un
linguaggio giuridico univoco in un senso davvero rigoroso si potrebbe però raggiungere
soltanto sul presupposto di un’altissima astrazione, e dunque dell’esclusione
di ogni significativo rapporto con la realtà: non per nulla è proprio solo per
il tramite di termini di significato forzatamente generico che l’individuabile
può essere attinto dal linguaggio.
Un
simile linguaggio non abbisognerebbe, a ben vedere, di alcuna interpretazione,
proprio perché in esso rimarrebbe ben poco da interpretare.
Ogni
linguaggio orientato alla realtà - e dunque anche il linguaggio giuridico –
non si può pertanto “univocamente” legare all’univocità.
Ciò
tuttavia non toglie affatto che la molteplicità dei significati e delle parole
presenti negli enunciati giuridici non possa essere ridotta o addirittura eliminata
in sede di interpretazione.
Ogni
interpretazione pretende di essere univoca proprio perché l’ipotesi da
cui muove l’ermeneutica è per l’appunto che una interpretazione
esprima esattamente un senso.
Se
non si potesse attribuire ad una interpretazione un determinato senso, non si
potrebbe neppure discutere, criticare, approvare o respingere tale interpretazione.
Resta
il fatto che a livello di atto linguistico l’interpretazione giuridica
può configurarsi diversamente, in relazione alla diversa funzione e alla diversa
autorità del soggetto interpretante all’interno del sistema�
giuridico.
In
quanto atto di organo dotato di autorità, l’atto interpretativo del giudice
realizza effettivamente l’attribuzione del significato stabilito all’enunciato,
eliminando ogni incertezza.
In
questo senso l�atto giudiziale è modificativo della realtà, dando la certezza
dell�esistenza del fatto istituzionale.
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4. L�atteggiamento
della filosofia analitica italiana del diritto nei confronti dell�ermeneutica
L�avvicinamento
tra la corrente analitica e quella ermeneutica è stato ostacolato dal fatto
che in Italia il pensiero di Betti abbia rappresentato per molti l�unico esempio
conosciuto di ermeneutica e di filosofia ermeneutica
[50]
.
Senza
stare a discutere se Betti possa considerarsi in senso proprio un “filosofo”
ermeneutico, di fatto lo è stato per i filosofi analitici italiani del diritto
e ciò ha spento in loro il desiderio di conoscere altri esempi di filosofia
ermeneutica.
Ciò
che disturba è soprattutto la tesi della cultura come “oggettivazione
dello spirito”, che permetterebbe di andare oltre il linguaggio alla ricerca
di supposte entità spirituali o dell’eccedenza di contenuti assiologici
normativi.
Il
linguaggio non è per l’ermeneutica uno strumento forgiato dall’uomo
per dominare le cose, ma la manifestazione o il disvelamento dello spirito umano.
Di
conseguenza l�ermeneutica sembra rigettare ogni teoria delle convenzioni segniche,
perché innanzitutto si tratta di ascoltare e accogliere ciò che già l�uomo trova
costituito nel suo mondo vitale.
In
questa prospettiva tra la filosofia analitica italiana del diritto e l’ermeneutica
esiste una differenza abissale.
Per
la filosofia analitica l’ermeneutica è il luogo della fabulazione, non
già della conoscenza.
Essa
non dovrebbe pretendere di dare alcun valore di verità alle sue proposizioni.
Un
altro ostacolo alla presa in considerazione dell’ermeneutica come metodo
scientifico dello studio del diritto è stata la sua ascrizione alle scienze
sociali, cioè nel senso della sociologia comprendente di Weber.
La
grande influenza che il pensiero kelseniano ha esercitato sulla filosofia analitica
italiana del diritto ha rafforzato la tendenza alla netta distinzione tra il
metodo giuridico e il metodo sociologico.
Di
conseguenza l�approccio ermeneutico inteso in senso weberiano non si ritiene
utilizzabile per lo studio della norma giuridica.
Tuttavia
il successivo influsso del pensiero di Hart e, segnatamente, la descrizione
della norma dal “punto di vista interno” ripropone nella sostanza
la questione ermeneutica.
Un
terzo
[51]
, e ancora più decisivo, ostacolo risiede nella convinzione
dominante della filosofia analitica italiana del diritto che la scienza e la
teoria della scienza siano l’oggetto fondamentale della filosofia.
Per
la filosofia ermeneutica, invece, al posto della scienza c’è la vita (Dilthey),
al posto della ricerca della certezza quello della saggezza, al posto della
razionalità la ragionevolezza, dell’epistème la phronesis
[52]
.
Ma
la filosofia analitica italiana del diritto non prende in considerazione il
superamento gadameriano dell’empatia di Dilthey e, pertanto, è disposta
a concedere spazio all’ermeneutica solo nell’ambito del procedimento
di scoperta, negando ad essa ogni rilevanza nell’ambito del contesto di
giustificazione.
Un
quarto ambito di conflitto tra analitica ed ermeneutica riguarda la concezione
del linguaggio.
Questo
conflitto non riguarda tanto l’identificazione dell’ambito propriamente
linguistico, perché anche la filosofia analitica ormai ha abbandonato la tendenza
a ridurre il più possibile il linguaggio alla mera dimensione segnica (altrimenti
persino le stesse proposizioni, cioè i significati degli enunciati, apparirebbero
come qualcosa di estraneo al linguaggio così considerato).
Si
tende, invece, ad includere nel linguaggio anche tutto ciò che, pur non essendo
in senso stretto espressione linguistica o ciò di cui essa è direttamente veicolo,
è ad essa in qualche modo collegata �(l�intendere e il comprendere non sono espressioni
linguistiche e neppure dipendono da esse e tuttavia sono componenti essenziali
del linguaggio).
La
vera e propria differenza tra approccio analitico ed ermeneutico risiede invece
nel modo di intendere il linguaggio: per l’analisi il linguaggio è uno
strumento convenzionale o un’abilità pratica di orientamento nel mondo,
per la filosofia ermeneutica è la “casa dell’essere”, cioè
il luogo in cui l’uomo abita ed articola le sue esperienze.
La
filosofia analitica (soprattutto per influsso del positivismo logico) ha una
concezione poetica del linguaggio (il linguaggio è opera)
[53]
.
La
filosofia ermeneutica ne ha, invece, una concezione pragmatica (il linguaggio
è attività).
Se
il linguaggio è un mero strumento, allora sta di fronte al mondo che vuole esplorare,
controllare e dominare.
Di
conseguenza la concezione analitica del diritto sarà divisa tra la collocazione
del diritto nel linguaggio e la sua collocazione nel mondo o nella realtà sociale.
E�
per questo che l�identificazione del diritto con il linguaggio non può essere
considerata una tesi tipica della filosofia analitica italiana del diritto.
Sarebbe
una affermazione ontologica.
Bobbio
non l�avrebbe sottoscritta e Scarpelli ha sostenuto esplicitamente che la filosofia
non può essere ridotta ad un esame di parole e di strutture linguistiche
[54]
.
Bisogna
anche tener conto del forte influsso che il realismo giuridico ha esercitato
su alcuni filosofi analitici italiani.
La
doppia faccia del diritto, insieme entità linguistica e fatto sociale, induce
il filosofo analitico a riunificare ciò che la sua concezione del linguaggio
tenderebbe a separare, mettendolo così di fronte al problema tipico dell’ermeneutica.
A
questo processo di avvicinamento sollecitato dalle istanze dell’esperienza
giuridica non si accompagna però, da parte della filosofia analitica italiana
dl diritto, una trasformazione del metodo di indagine, che resta decisamente
impermeabile all’approccio ermeneutico.
Il
positivismo logico viene utilizzato da Bobbio per mostrare che il fulcro della
scientificità è ora spostato sulla possibilità di costruire linguaggi rigorosi
e che, quindi, anche la giurisprudenza è vera e propria scienza se procede ad
una rigorizzazione del linguaggio legislativo
[55]
.
Bobbio
è ben lontano dal ridurre la giurisprudenza ad una scienza logico-formale unicamente
intenta alla derivazione delle proposizioni.
Tuttavia
non è per il suo rapporto con la realtà empirica (o sociale) che la giurisprudenza
è una scienza, ma per il rigore del suo linguaggio.
Il
comprendere, pertanto, è sottoposto a due condizioni che però restano separate
nella teoria di Bobbio.
Da
una parte sta la condizione logica del rigore del linguaggio, per cui occorre
che “tutte” le parole delle proposizioni basilari e “tutte”
le sue regole d’uso, quelle di formazione delle proposizioni iniziali
e quelle della loro trasformazione in proposizioni derivate, siano chiaramente
fissate.
Questa
condizione vuole evitare il fraintendimento ed è a tutela dell’intersoggettività
del linguaggio.
Dall�altra
sta la condizione �empirica� del riferimento del linguaggio alla realtà sociale,
poiché �comprendere non si può senza avere ritrovato dietro il segno la cosa
significata�.
La
condizione logica conduce alla chiusura del linguaggio reso autosufficiente
dalla rigorizzazione delle sue regole d’uso.
La
condizione empirica fa uscire dal linguaggio verso il mondo esterno, verso la
realtà sociale che aiuta a comprendere ciò che si vuole dire nella norma, anche
se non è certamente ciò che la norma in quanto tale significa.
Questa
dicotomia tra logica ed esperienza deriva dalla concezione del positivismo logico
per cui il linguaggio è un mezzo di comunicazione che rinvia al mondo esterno.
Nell�approccio
ermeneutico, al contrario, c�è piena compenetrazione tra linguaggio e mondo.
Il
linguaggio è il luogo dell’articolazione del mondo della vita sociale
ed è incorporato nelle azioni
[56]
.
Se
si pensa che il comprendere ha luogo soltanto nell’applicazione, cioè
è un atto della coscienza storica che attua una fusione tra il mondo in cui
vive l’interprete e quello a cui il testo appartiene, allora non si potrà
sostenere alcuna autonomia del linguaggio giuridico, né arrivare a fissare in
modo compiuto le sue regole d’uso
[57]
.
Se
il diritto è il linguaggio dell’interazione sociale, non potrà essere
considerato separatamente dalle azioni in cui è incorporato e dalle pratiche
interpretative che lo fanno vivere.
La
rinuncia alla referenzialità del linguaggio, cioè alla sua corrispondenza con
il mondo esterno, almeno nel caso del diritto implica che il linguaggio stesso
diventi espressione del mondo della convivenza e della comunanza, del conflitto
e della interazione.
Non
avviene così nei linguaggi formali delle scienze, che sono soltanto veicoli
di comunicazione concettuale.
Nel
diritto si tratta di spiegare come è possibile che la lingua possa istituire
nomi, descrizioni, orientamenti normativi che nulla hanno a che fare con un
presunto ordine di fatti e come tuttavia questi discorsi costituiscano un “mondo”,
cioè il nerbo di una cultura� e la sostanza
della comunicazione quotidiana.
Il
linguaggio dell�interazione non si riferisce ad un mondo, ma è esso stesso un
mondo e una forma di vita che il giurista pratica per il fatto stesso di interpretarla.
Il
discorso sensato è indice e sostanza di un complesso di relazioni intersoggettive,
rende possibile l’intesa e l’accordo, il dissenso e la decisione,
rivelando così l’esistenza di una comunità e creandola nell’atto
stesso di manifestarla.
Il
pensiero di Hart si muove proprio in questa direzione quando accosta l’analisi
del linguaggio alla “sociologia descrittiva” e fa risiedere il comprendere
giuridico nelle asserzioni “interne”.
La
recezione italiana del �punto di vista interno� di Hart costituisce un passo
importante verso la prospettiva ermeneutica ancor più dell�interpretazione che
di esso ne ha dato MacCormick.
L�impegno
etico-politico del giurista nei confronti delle istituzioni consente lo stretto
collegamento tra la giurisprudenza e la pratica giuridica ed abbatte l�oggettualismo
neopositivista
[58]
.
Tuttavia
per la filosofia analitica italiana del diritto, persistentemente fedele alla
rigida dicotomia tra giudizi di fatto e giudizi di valore, ciò è percepito come
un fallimento dell’ideale empirico-analitico e come una rassegnata accettazione
della mancanza di valore della giurisprudenza come scienza.
Si
cercherà di recuperare allora questo “valore” nella teoria formale
o nella sociologia del diritto.
Alla
mentalità ermeneutica appare perfettamente ovvio che la scienza giuridica contenga
giudizi di valore
[59]
.
Questa
scienza appartiene ad una forma di vita che si articola anche attraverso i processi
interpretativi e conoscitivi.
Se
le cose stanno così, demonizzare come radicalmente soggettivistici tutti i giudizi
di valore conduce inevitabilmente allo scetticismo giuridico.
La
filosofia ermeneutica si sforza, invece, di introdurre criteri di controllo
dei giudizi di valore e di distinguere così tra fraintendimento e comprensione
nella convinzione che ciò sia possibile.
Per
la filosofia ermeneutica solo la comprensione fa problema, in quanto la certezza
del senso precede l’interrogativo del comprendere.
Il
senso già è dato prima che lo si comprenda, già appartengono ad una tradizione
prima di comprenderla, già vivo dentro il linguaggio prima di padroneggiarlo
come insieme di segni disponibili.
Tuttavia
il vero problema ermeneutico riguarda la comprensione degli altri linguaggi.
Il
comprendere deve assimilare ciò che è estraneo, abbattendo la distanza e la
lontananza delle forme linguistiche.
Ma
ciò non è possibile se non sulla base di una comunanza delle forme di vita.
L�ermeneutica
si presenta così come una lotta contro il fraintendimento di ciò che è già precompresso.
La
filosofia analitica italiana del diritto invece mette in questione la stessa
presupposizione di senso ed è così condotta a stabilire criteri apriori di senso
a prescindere dal contenuto.
Questi
possono essere la forma logica del linguaggio, la verificabilità empirica delle
proposizioni, l’efficacia pratica o un valore operativo.
Conseguentemente
la terapia linguistica ( che è la versione del “fraintendimento”
ermeneutico) si esercita proprio nei confronti della precomprensione di senso.
Ma
così si mette in pericolo la stessa possibilità del comprendere e si persegue
una eliminazione del fraintendimento che spesso non conduce all’intendimento
e alla comprensione.
5. Le prospettive
della filosofia analitica del diritto
E�
importante rilevare che una parte della filosofia del diritto analitica contemporanea
è interessata, per quanto spesso soltanto indirettamente, da quel processo di
�ridiscussione dei fondamenti� che attraversa la filosofia analitica nel suo
complesso e che finisce per incrinare l�unità concettuale che aveva contraddistinto
questo movimento, quantomeno sino alla metà degli anni Sessanta
[60]
.
Bisogna
rilevare, però, che non tutto il variopinto schieramento delle concezioni giusfilosofiche
analitiche è attestato su posizioni di revisione e di ripensamento critico della
received view.
Continuano
infatti a rimanere in campo degli orientamenti che rimangono fedeli alla impostazione
analitica originaria, di matrice sostanzialmente neopositivistica e/o prescrittivistica.
La
situazione è caratterizzata, insomma, da un forte pluralismo culturale, che
sussiste, peraltro, anche all’interno stesso dei due campi, quello “analitico”
e quello “post-analitico”, che si confrontano.
E�
indubbio che manca oggi un orientamento trainante, quale è certamente stato,
negli anni Sessanta e Settanta, quello espresso da Hart e dalla sua scuola.
A
ciò va aggiunto che la filosofia analitica non rappresenta più l’orientamento
assolutamente dominante, come accadeva, appunto, in quegli anni.
Essa
deve oggi confrontarsi con altri orientamenti molto vitali e combattivi: critical
legal studies, analisi economica del diritto, teorie dei sistemi autopoietici
e ovviamente ermeneutica
[61]
.
Soprattutto
con l�ermeneutica, come abbiamo visto, si realizzano oggi dei momenti di incontro
particolarmente fecondi, che in alcuni casi hanno prodotto significative convergenze.
Il
fatto è che sia le tendenze post-analitiche che l’ermeneutica giuridica
pongono l’interpretazione al centro della teoria del diritto ed entrambe
condividono un approccio practice-oriented, che cioè vede il diritto come l’esito
di complesse prassi di carattere interpretativo e applicativo anziché come un
insieme di oggetti.
Relativamente
alle tendenze giusfilosofiche analitiche contemporanee è interessante utilizzare
uno schema di classificazione che prevede l’adozione disgiunta di due
criteri, il primo di natura teorica, il secondo di natura filosofica.
Da
uno schema siffatto vengono fuori quattro tendenze, suddivise in coppie: le
prime risultano dall’adozione del criterio di natura teorica, le seconde
dall’adozione del criterio di natura filosofica.
Della
prima coppia di tendenze fa parte innanzitutto quell’insieme di posizioni
che prendono criticamente le mosse dal lavoro di Hart, estendendolo o correggendolo
in più direzioni.
Si
segnalano due filoni di ricerca particolarmente significativi, denominati rispettivamente
exclusive legal positivism (ELP) ed inclusive legal positivism (ILP).
Entrambi
assumono come punto di partenza la discussione hartiana sul rapporto tra diritto
e morale ed in particolare la tesi secondo cui il giuspositivismo sarebbe caratterizzato
dal fatto di negare una connessione necessaria tra diritto e morale.
La
differenza tra le due prospettive, raccogliendo un suggerimento di Coleman,
si può caratterizzare in base alla distinzione intercorrente, in logica modale,
tra negazione interna e negazione esterna.
Ne
viene fuori che l�ELP, in accordo con la modalità della negazione interna, sostiene
la tesi che per tutti i sistemi giuridici è necessario che, ad esempio, la validità
di una norma non dipenda dalla rispondenza a criteri di natura etica; invece
l�ILP, in accordo con la modalità della negazione esterna, sostiene la tesi
che non è necessario che in ogni sistema giuridico la validità di una norma
dipenda dalla sua rispondenza a tali criteri.
Il
principale esponente dell’ exclusive positivism è Raz; tra i sostenitori
dell’inclusive positivism è d’obbligo menzionare quantomeno Coleman
e Waluchow.
La
seconda tendenza della prima coppia ricomprende tutti quegli orientamenti analitici
che, indipendentemente dal loro eventuale riferimento al pensiero di Hart, assumono
come punto di riferimento centrale della loro prospettiva teorica il ragionamento
giuridico, visto come un insieme di attività e di discorsi con finalità pratiche,
connesse all’applicazione ed all’uso sociale delle regole giuridiche.
La
teoria dell�interpretazione giuridica (che concerne il problema dell�attribuzione
di significato ad un enunciato giuridico) e la teoria dell�argomentazione giuridica
(che si preoccupa di indagare su quali sono e/o dovrebbero essere gli argomenti
che servono a giustificare una determinata attribuzione di significato ad un
enunciato giuridico) rappresentano le due sezioni più importanti della teoria
del ragionamento giuridico
[62]
.
Per
molte di queste teorie il fatto di attribuire all’interpretazione giuridica
un ruolo così centrale all’interno della teoria del diritto dipende dall’aver
optato, in linea ancora più generale, in favore di una concezione del diritto
practice-oriented, e dunque dall’avere ritagliato, all’interno del
campo di esperienza giuridico, le attività interpretative e applicative come
oggetti privilegiati di indagine.
Una
seconda coppia di tendenze �giusfilosofiche
analitiche discende dall’adozione del criterio di classificazione di natura
filosofica.
Qui
la distinzione che si impone è quella tra orientamenti giusfilosofici analitici
e orientamenti giusfilosofici post-analitici.
Qualificando
come orientamenti giusfilosofici analitici le posizioni contemporanee che continuano
ad appoggiarsi alla filosofia analitica di impostazione tradizionale, cui sopra
abbiamo fatto riferimento a proposito delle posizioni di Ross e della Scuola
Analitica di Bobbio, ci limitiamo a segnalare i principali presupposti epistemologici
e semantici, di matrice neo-positivistica,
che
fanno da sfondo a queste concezioni, di cui ampiamente parlato nel secondo capitolo.
Il
primo
[63]
è rappresentato dalla tesi della grande divisione tra linguaggio
descrittivo e linguaggio prescrittivo, all’interno della quale normalmente
è il linguaggio descrittivo ad essere caratterizzato con maggiore chiarezza
e precisione, in positivo, come linguaggio il cui obiettivo ideale è quello
di fornire una fedele rappresentazione della realtà.
Il
secondo è rappresentato dalla convinzione secondo cui l’analisi del linguaggio
giuridico, che rimane il metodo di analisi giusfilosofica privilegiato, deve
essere prevalentemente condotta usando gli strumenti della logica formale.
Il
terzo presupposto concerne la costante aspirazione di queste tendenze verso
forme di analisi del linguaggio che tendono non già a rendere conto dei linguaggi
in uso, ma piuttosto a costruire modelli ideali di linguaggio rigoroso e coerente.
Il
quarto presupposto riguarda la condivisione di tutta quella serie di dicotomie
a carattere epistemologico e semantico che fanno parte della “cassetta
degli attrezzi” di ogni filosofo neopositivista che si rispetti.
I
due autori il cui lavoro teorico ha contribuito più di tanti altri ad aggiornare
e a rafforzare il quadro di riferimento logico, epistemologico e semantico da
cui muovono le tendenze analitiche contemporanee di ispirazione neopositivistica
sono Alchourròn e Bulygin.
Il
loro �Normative Systems�, del 1971, ha costituito una tappa fondamentale per
lo sviluppo di questi orientamenti, soprattutto nell�area di lingua castigliana.
La
seconda tendenza è rappresentata da quegli orientamenti che cercano di mettere
a frutto, in ambito giusfilosofico, tutta una serie di recenti acquisizioni
di carattere epistemologico e semantico che provengono dal variegato panorama
della filosofia post-analitica.
Anche
qui non è possibile condurre analisi particolareggiate e sia in positivo che
in negativo si possono fare valere le osservazioni fatte valere nelle pagine
precedenti.
6. Alcuni problemi
�aperti� della teoria ermeneutica del diritto
Facendo
della condizionalità storico-culturale del comprendere giuridico, delle infrastrutture
del pensiero giuridico e delle aspettative di senso con cui sono interrogati
i testi un problema interno di razionalità della teoria giuridica, con ciò stesso
la metodologia ermeneutica ne esce più scaltrita e più critica
[64]
.
Il
fattore della precomprensione, intesa quale chiave decisiva di ogni scelta metodologica,
in quanto valutazione anticipata del risultato cui dà luogo la scelta di una
determinata soluzione, è un elemento prezioso per una raffigurazione epistemologicamente
più consapevole della complessità del procedimento di comprensione giuridica.
Da
Kant a Popper ad Horkheimer, si è acquisito che non sono possibili osservazioni
al di fuori di una qualche precedente conoscenza.
Il
merito dell�ermeneutica, portando allo scoperto la precomprensione quale momento
iniziale del comprendere giuridico, è di avere incorporato questo dato alla
teoria dell�interpretazione e così di avere elevato la descrizione del procedimento
di ricerca del diritto ad un piano epistemologicamente maturo.
Il
comprendere giuridico consiste nell’analisi, nella penetrazione e revisione
di uno schema progettuale di significato che è all’origine dell’accostamento
al testo e che è rettificabile se nel corso del processo di comprensione si
riveli inadeguato
[65]
.
Tra
precomprensione, quale atto di inizio del comprendere giuridico e reperimento
della massima di decisione, quale punto conclusivo, si stende una fitta rete
di sondaggi e di anticipazioni di possibili soluzioni che, grazie al metodo
dialogico delle domande rivolte al testo, consente di consultare i modelli normativi
in rapporto alle risposte che possono offrire per il conflitto dato.
In
questo procedimento il piano dogmatico è continuamente interrotto da riflessioni
relative all’accertabilità delle singole alternative� di soluzione.
Il
progredire non lineare del comportamento consiste perciò in una ininterrotta
posizione di ipotesi, in una loro successiva revisione ed infine in un loro
eventuale abbandono a favore di altre ipotesi.
Ognuno
dei passi alternati in cui esso si articola ha per scopo di chiarire l’altro
e insieme di approssimarsi all’obiettivo.
Dopo
la lezione dell�ermeneutica, la metodologia giuridica potrà legittimare la propria
validità solo riuscendo concretamente a dimostrare come l�interpretazione si
intrinseca tra la comprensione iniziale e quella finale.
Il
che tuttavia impone un chiarimento sui limiti della precomprensione.
La
precomprensione non è un concetto metodologico-prescrittivo, ma un concetto
analitico-descrittivo, che pone appunto un rilevante problema metodologico,
quello dei modi e dei controlli del passaggio dalla comprensione provvisoria
a quella conclusiva.
Prendere
consapevolezza non può avere per scopo di liberarsene totalmente o addirittura
di obbligare il giudice ad una interpretazione che ne prescinda, ma piuttosto,
per usare una espressione di Habermas, di “tematizzarla”, ossia
di trasformarla in elemento rintracciabile e comunicabile del procedimento interpretativo.
Nel
fatto stesso di portarla alla luce e di vincolarla alla necessità di argomentazione
può certamente stare il criterio di un’interpretazione razionale del diritto,
che non si limiti ad evidenziare le singole relativistiche precomprensioni,
ma costituisca apertura al dialogo. Anche se i modi ed i termini di questa necessaria
operazione comunicativa restano ancora questione in buona parte aperta
[66]
.
Un
altro problema che l�ermeneutica giuridica lascia sostanzialmente aperto è quello
rappresentato dal piano di analisi del processo.
Concependosi
essenzialmente come teoria della corrispondenza tra norma e caso, come ricostruzione
del lavoro interpretativo sui testi e a partire dai testi, questa teoria si
modella più sulla figura di un giudice che dialoga idealmente e interiormente
con gli enunciati normativi e con le attese sociali nella fase preparatoria
del procedimento, che sulla figura del dibattimento e del processo, come concreta
esperienza di comunicazione, di scontro di strategie, di confronto con la parola
parlata; come luogo in cui si prova a ricomporre la distanza tra la vicenda
esistenziale vissuta concretamente dai soggetti e la rappresentazione di questa
nel teatro del diritto.
Nel
processo il giudice non può non mettere in gioco la propria immagine della rilevanza
giuridica dei dati normativi e di fatto.
Uno
sviluppo importante dell’ermeneutica giuridica potrebbe avvenire proprio
nel porre il suo corredo metodologico al servizio di una moderna teoria del
processo
[67]
.
7. Conclusioni
In
[68]
quanto terreno eminentemente regionale e luogo di un’indagine
pratico vitale tra individuo e società, tipica di un sapere ermeneutico-comprendente,
l’ambito giuridico avrebbe potuto per eccellenza costituire il punto d’incontro
tra teorie analitiche e filosofia ermeneutica; incontro che, come si è detto,
si è già spinto assai più avanti sul piano, apparentemente più ostico, dell’integrazione
tra diverse tradizioni di pensiero e dei rapporti filosofici generali tra i
due diversi approcci.
Paradossalmente
proprio sul piano giuridico si sono invece determinate, almeno nel contesto
italiano, maggiori difficoltà ad individuare un terreno comune e fruttuoso di
dialogo e di convergenza tra i due diversi orientamenti: e questo per una serie
di motivi, che vanno da un’applicazione ancora troppo limitata della prospettiva
ermeneutica ai problemi filosofico-giuridici
[69]
, all�atteggiamento della crisi dei due pilastri (giuspositivismo
e Ideal Language Philosophy), su cui la filosofia analitica del diritto era
venuta costruendo le sue tesi centrali.
Per
promuovere ulteriormente un dialogo fruttuoso ed uno scambio di pensiero tra
“mondo” analitico e “mondo” ermeneutico è ora indispensabile
uscire da una serie di limiti e di genericità che rischierebbero, diversamente,
di minarne la possibile portata.
Ci
riferiamo da un lato all’ancor scarsa chiarezza nell’uso della categoria
fondamentale “analitico” e ad una certa indeterminatezza nel modo
stesso di considerare il linguaggio, che non accennano a scomparire nell’ambito
analitico; mentre sull’altro versante si può ragionevolmente imputare
all’ermeneutica una non sempre chiara applicazione del discorso ermeneutico-filosofico
ai problemi regionali del diritto.
Si
tratta probabilmente di appropriarsi degli strumenti analitici e di alcuni risultati
dell’impostazione analitica per allargarne l’orizzonte complessivo
ai temi ermeneutici della comprensione dell’individualità/intersoggettività
interpretative.
L�orizzonte
entro cui situarsi è quello di una filosofia di un linguaggio collocato nella
sua densità storica ed esistenziale.
Il
problema è di acquisire le strutture esistenziali del comprendere e dell’interpretare
muovendo dal linguaggio: se approfonditamente considerato, il nesso fondamentalmente
linguistico che il soggetto instaura con le cose e con gli altri, non può non
rivelare un carattere ermeneutico-esistenziale.
Le
problematiche della critica e della verifica possono essere introdotte nel quadro
della comprensione ermeneutica.
I
significati debbono potere essere analizzati nei contesti delle situazioni interattive
e intersoggettive: dunque sono presenti nel linguaggio non soltanto gli stati
di cose, cui le parole si riferiscono, ma anche le intenzioni dei parlanti e
nondimeno le relazioni interpersonali entro cui le parole sono chiamate a valere.
Le
intuizioni maturate nel quadro della filosofia analitica, soprattutto grazie
al modello intenzionalistico di Searle, oltrepassano perciò l’ambito analitico
e possono essere fatte fruttare in un più ampio quadro, quello di un contesto
di interazione soggettiva, nel quale le espressioni linguistiche soddisfano
funzioni pratiche.
Intendersi
su qualcosa con qualcun altro: ovvero l’espressione linguistica va correlata
al parlante, al mondo e all’ascoltatore.
Queste
tre dimensioni del significato non possono essere assunte isolatamente, ciascuna
come fondamentale e ad esclusione delle altre.
E�
anzi, il loro riconnettersi che conferisce al significato la completezza delle
sue dimensioni.
Ove
sappiano rinunziare alle proprie rispettive unidimensionalità, filosofia analitica
e filosofia ermeneutica si raccomandano oggi come aspetti non rinunciabili nell’edificazione
di una teoria del diritto come pratica sociale di tipo interpretativo e argomentativo,
che colleghi e tenga insieme i documenti legislativi e le prassi interpretative
che, grazie ai diversi attori della prassi giuridica, penetrano nella vita quotidiana
di una comunità storico-sociale
[70]
.
Non
dobbiamo credere ad una frattura tra una realtà “autonoma”, che
influenzerebbe il diritto e si svilupperebbe accanto ad esso, ed il diritto
medesimo: siamo noi che produciamo la realtà del diritto e la costruiamo enunciando
ciò che esso è.
Vi
è diritto là dove soggetti diversi discutono e sviluppano, immedesimandosi nella
prassi, proposizioni ed enunciati appartenenti a quella pratica interpretativa,
che, sulla base della sua unità di senso, denominiamo diritto
[71]
.
I
problemi complessi, cui in queste pagine ci siamo riferiti, come quelli della
referenza, della comunicazione e dell’accordo intersoggettivi, della necessaria
interazione tra comprendere e spiegare, si possono discutere ed avviare a soluzione
soltanto con una solidale unione degli sforzi analitici ed ermeneutici.
Se
è vero infatti che solitamente il filosofare si verifica meno nei manuali che
nel confronto aperto, l’avere avviato questa occasione di dialogo tra
filosofi del diritto analitici ed ermeneutici non può che lasciare ottimisti
per il futuro.
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[1] Cfr. Giuseppe Zaccaria, ��Ermeneutica versus analitica: un�antitesi insuperabile?�, in �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 105.
[2] Confronta sul tema G. Vattimo, “Filosofia ‘90. Oltre la svolta linguistica”, Laterza, Roma-Bari, 1991, pag. 11 e ss.
[3] Cfr. ultima opera citata pag. 106.
[4] Confronta sul tema �S. Veca, �Il linguaggio e altri enigmi�, pag. 117-131.
[5] Confronta sul tema Maurizio Ferraris, “Richard Rorty e la transizione dall’ermeneutica all’epistemologia”, in “Aut Aut”, 1986, pag. 123-129.
[6] Cfr. ultima opera citata pag. 109.
[7] Cfr. Paul Ricoeur, �I conflitti dell�interpretazione. Saggi di ermeneutica�, Parigi, 1969, tradotto da R. Balzarotti,1977, pag. 24 e ss.
[8] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 110.
[9] Cfr. H. G. Gadamer, �Verità e metodo�, 1960, tradotto da G. Vattimo, Milano, 1983, pag. 522.
[10] Cfr. M. Ruggenini, �I fenomeni e le parole. La verità finita dell�ermeneutica�, Ecig, Genova, 1992, 38.
[11] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 113.
[12] Confronta sul tema Mario Jori, “Semiotica. Gli strumenti del sapere contemporaneo”, Giappichelli, Torino, 1985, pag. 670-688.
[13] Cfr. Mario Jori, �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, il paragrafo �Tra ermeneutica ed analitica: dal contrasto alla collaborazione�, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 115.
[14] Cfr. ultima opera citata pag. 117.
[15] Confronta sul tema A.Pieretti, “Azione ed intenzionalità nella filosofia analitica “, Ecig, Genova, 1989.
[16] Confronta sul tema G. Carcaterra, “Il problema della fallacia naturalistica”, Milano, 1969, pag. 41 e ss.
[17] Cfr. ultima opera citata pag. 119.
[18] Confronta sul tema F. Volpi, “La rinascita della filosofia pratica in Germania”, 1980, pag. 11-97.
[19] Cfr. ultima opera citata pag. 121.
[20] Cfr. Paul Ricoeur, �Dal testo all�azione�, tradotto, pag. 8 .
[21] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Crisi della proposizione e referenza discorsiva�, in �Questioni di interpretazione�, CEDAM, Padova, 1996, pag. 120.
[22] Confronta sul tema �J. Habermas, �Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa�, pag. 76.
[23] Confronta sul tema Riccardo Guastini, “Teorie delle regole costitutive” in “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, LX, 1983, pag. 548-564.
[24] Cfr. H. G. Gadamer, �Decostruzione e interpretazione�, in �Aut Aut�, 1985, n�208, pag. 9.
[25] Cfr. Mario Jori, �Ermeneutica ed analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, il paragrafo �Precomprensione e rapporto costitutivo tra gli enunciati linguistici�, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 125.
[26] Cfr. ultima opera citata pag. 126.
[27] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �L�arte dell�interpretazione. Saggi di ermeneutica contemporanea�, il paragrafo �Ermeneutica giuridica ed epistemologia�, CEDAM, Padova, 1990, pag. 163.
[28] Confronta sul tema A. Catania, “Il diritto tra forza e consenso. Saggi sulla filosofia giuridica del Novecento”, Esi, Napoli, 1987, pag. 17-42.
[29] Cfr. Mario Jori, �Verso una teoria generale ermeneutica: una complementarietà di comprendere e spiegare� in �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 129.
[30] Confronta sul tema Mario Jori, “Saggi di metagiurisprudenza”, Giuffrè, Milano, 1985, pag. capitolo terzo.
[31] Cfr. ultima opera citata pag. 131.
[32] Confronta sul tema D. Sparti, “Se un leone potesse parlare. Indagine sul comprendere e lo spiegare”, La Nuova Italia, Firenze, 1992, pag. 145 e ss.
[33] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Ermeneutica e giurisprudenza. Saggio sulla metodologia di Josef Esser�, Milano, 1984, pag. 38.
[34] Cfr. Mario Jori, �La dimensione pre-linguistica: un problema per le due prospettive� in ��Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, Giappichelli, Torino,1994, pag. 133-134.
[35] Confronta sul tema L. Bottani, “La svolta ermeneutica” in “Filosofia”, XLII, fascicolo due, pag. 337-341.
[36] Cfr. ultima opera citata pag. 135.
[37] Confronta sul tema F. Volpi, “Ragione, linguaggio, mondo della vita: problemi filosofici della Summa sociologica di Habermas” in “La svolta comunicativa”, pag. 132 e ss.
[38] Cfr. Mario Jori, �Il carattere intersoggettivo del diritto come linguaggio� in �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 136.
[39] Confronta sul tema M. Riedel, “Sulla dimensione acroamatica dell’ermeneutica”,1990, pag. 163.
[40] Confronta sul tema �M. Vozza, �Rilevanze. Epistemologia ed ermeneutica�, Laterza, Roma-Bari, 1991.
[41] Confronta sul tema V. Frosini, “Contributi all’analisi del diritto”, Giuffrè, Milano, 1964, pag. 167-199.
[42] Cfr. ultima opera citata pag. 139.
[43] Confronta sul tema �J. L. Austin, �Una giustificazione per le scuse� in �Saggi filosofici�, pag. 168.
[44] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �L�arte dell�interpretazione. Saggi di ermeneutica contemporanea�, CEDAM, Padova, 1990, pag. 96.
[45] Cfr. Mario Jori, �Il giuspositivismo italiano prima e dopo la crisi�,Giappichelli, Torino, 1987, pag. 97 e ss.
[46] Confronta sul tema �Norberto Bobbio, �Dalla struttura alla funzione. Nuovi strumenti di teoria del diritto�, Giuffrè, Milano, 1984.
[47] Cfr. Francesco Viola, �Il diritto come pratica sociale�, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 107 e ss.
[48] Cfr. Mario Jori, �Gli atti linguistici di interpretazione� in �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 143.
[49] Confronta sul tema �M. Mathieu, �Manifesto di un movimento ermeneutico generale universale� in �Filosofia�, XLIII, 1992, pag. 202.
[50] Cfr. Francesco Viola, �Critica dell�ermeneutica alla filosofia analitica italiana del diritto�, nella raccolta di Mario Jori, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 73.
[51] Cfr. ultima opera citata pag. 74.
[52] Cfr. Francesco Viola, �Il diritto come pratica sociale�, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 197.
[53] Confronta sull�argomento P. Ricoeur, �Dal testo all�azione. Saggi di ermeneutica�, Jaka book, Milano, 1989, pag. 103-106.
[54] Cfr. Uberto Scarpelli, �Filosofia analitica e giurisprudenza�, Nuvoletti, Milano, 1953, pag. 20.
[55] Cfr. Norberto Bobbio, �Scienza del diritto e analisi del linguaggio�, in �Saggi di critica delle scienze�, De Silva, Torino, 1950, pag. 38.
[56] Cfr. Francesco Viola, �Critica dell�ermeneutica alla filosofia analitica italiana del diritto�, nella raccolta di Mario Jori,Giappichelli, Torino, 1994, pag. 77.
[57] Confronta sull�argomento Mario Jori, �Materiali per una storia della cultura giuridica�, IX, 1979, pag. 161-228.
[58] Confronta sul tema Umberto Eco, “Segno”, Isedi, Milano, 1973, pag. 130.
[59] Cfr. ultima opera citata pag. 79.
[60] Cfr. Franca D�Agostini e Nicla Vassallo, �Storia della filosofia analitica�, il paragrafo �Pluralismo� di Vittorio Villa, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pag. 384.
[61] Cfr. Franca D�Agostini e Nicla Vassallo, � Storia della filosofia analitica�, il paragrafo �Tendenze del dibattito attuale� di Vittorio Villa, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pag. 385.
[62] Confronta anche Luigi Ferrajoli, “La cultura giuridica nell’Italia del Novecento”, Laterza, Roma-Bari, 1996, pag. 99 e ss.
[63] Cfr. ultima opera citata pag. 388.
[64] Cfr. Giuseppe Zaccaria, �Al di là del giusnaturalismo e del positivismo giuridico� in �L�arte dell�interpretazione. Saggi di ermeneutica contemporanea�, CEDAM, Padova, 1990, pag. 66 e ss.
[65] Cfr. ultima opera citata pag. 67.
[66] Confronta sull�argomento C. Luzzati, �La vaghezza delle norme. Un�analisi del linguaggio giuridico�, Giuffrè, Milano, 1990.
[67] Vedi il terzo capitolo, il paragrafo “La dimensione ermeneutica del processo”.
[68] Cfr. Mario Jori, �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, Giappichelli, Torino, 1994, �pag. 145.
[69] Confronta sull�argomento A. Catania, �Ermeneutica e definizione del diritto�, in �Rivista di diritto processuale civile�, XXXVI, 1990, n�2, pag. 121-131.
[70] Cfr. ultima opera citata pag. 146.