Non
può negarsi che la analytical jurisprudence, soprattutto nelle seminali
indicazioni fornite da Bentham sul carattere linguistico dell�analisi dei
concetti giuridici e sul modello di definizione � contestuale � da adottare,
abbia anticipato metodi e temi poi effettivamente impiegati dalla filosofia
analitica del diritto, in particolare da Hart, autore che prende espressamente
le mosse dalla formulazione del positivismo giuridico presentata da Bentham ed
Austin.
Va
ricordato però che, fra analytical jurisprudence e filosofia del diritto
analitica vi è una sostanziosa differenza di carattere metodologico, che
riguarda il modo stesso di intendere l�analisi concettuale[2].
L�analytical
jurisprudence intende l�analisi in un senso debole, non precisamente
caratterizzato dal punto di vista filosofico, cioè come un metodo che procede a
una disarticolazione e ad una scomposizione, nei loro elementi costitutivi,
delle nozioni sottoposte ad immagini; la filosofia analitica del diritto
intende invece l�analisi in senso forte, con una marcata caratterizzazione
filosofica, cioè un�analisi condotta in modo programmatico e tendenzialmente
esclusivo sul linguaggio in cui vengono espressi i problemi filosofici e
teorici di volta in volta considerati rilevanti.
Vari
studiosi ritengono che sia possibile esaminare tre principali tradizioni di
ricerca.
La
prima tradizione di ricerca oggetto del nostro studio è la prima ad assumere
esplicitamente la filosofia analitica (nella sua versione neopositivistica)
come modello di riferimento.
Si
tratta del realismo giuridico, nella posizione offertane, già a partire dagli
anni Trenta, da uno dei suoi principali esponenti, Alf Ross.
La
seconda tradizione di ricerca, sulla quale ci si concentrerà maggiormente, è
quella componente della Scuola analitica italiana che, negli anni Cinquanta,
tenta di offrire una rilettura analitica del normativismo Kelseniano.
All�interno
di questo gruppo di studiosi ci si soffermerà in modo particolare sulle tesi di
Bobbio e Scarpelli.
La
terza tradizione è quella che fa capo ad Hart ed alla sua particolare posizione
teorica, che si colloca a metà strada tra Ross e Kelsen.
2. Ross e lo �strict positivism�
Al
di là di questi e di altri elementi comuni, il realismo giuridico scandinavo
presenta anche molte differenze interne, sulle quali non è possibile
soffermarsi.
E�
importante rilevare, invece, che, anche se nel corso della sua storia culturale
tale movimento si è ricorrentemente accostato alla filosofia analitica,
tuttavia soltanto con Ross questo accostamento assume la valenza di un vero e
proprio presupposto filosofico costitutivo della sua teoria giuridica.
La
versione del neopositivismo adottata da Ross è quella che si sviluppa negli
anni Trenta-Quaranta (prima in Europa e poi negli Stati Uniti) e che sceglie,
come oggetto privilegiato di analisi, il linguaggio della scienza.
Per
definire questa versione del neopositivismo può essere opportunamente usata la
locuzione �positivism in a strict sense� o �strict positivism�[5].
Molti
ed importanti sono gli aspetti dello strict positivism che sono condivisi da
Ross: il rifiuto radicale della metafisica, l�immagine� verificazionistica della scienza e la
funzione predittiva, su base induttiva, attribuita alle ipotesi scientifiche e
la concezione della filosofia come meta-scienza.
Nel
secondo capitolo di �On Law and Justice�[6] Ross
affronta la tradizionale questione del valore scientifico di quell�insieme di
attività dei giuristi positivi da lui etichettata come legal scienze ma che
Vittorio Villa[7] chiama dogmatica
giuridica.
Si
tratta di una questione su cui si sono esercitate intere generazioni di
filosofi del diritto, che hanno utilizzato, per dare una risposta affermativa o
negativa, i modelli di scientificità di volta in volta dominanti.
Il
suo obiettivo, pertanto, è quello di saggiare l�eventuale valenza empirica
della dogmatica; nel fare ciò, egli prende in considerazione, come esempio
paradigmatico, il modo in cui i giuristi declinano la nozione di validità
giuridica.
Da
parte dei giuristi continentali tale ultima nozione viene normalmente intesa
nel senso attribuitole dal giuspositivismo normativistico, così come viene
riproposto, in chiave teorica più sofisticata, da Kelsen: la validità è
caratterizzata come una sorta di �proprietà� che una norma acquista nel momento
in cui è prodotta in accordo con le norme di grado superiore che disciplinano
le modalità della sua produzione e gli organi deputati a tale attività; tale
proprietà esprime la cosiddetta �forza vincolante� della norma, cioè il fatto
che essa sia in grado di produrre effetti normativi per la condotta dei
cittadini.
Ross
dissente completamente da questa impostazione tradizionale: egli innanzitutto,
in perfetta sintonia con l�assunto metodologico centrale della filosofia
analitica, riformula la questione della validità come questione sul senso di un
certo tipo di asserti, per l�esattezza di quelli, prodotti dai giuristi, che
predicano la validità di una certa norma appartenente ad un sistema giuridico
nazionale[8].
Una
volta chiarito questo punto pregiudiziale, la metodologia di Ross prende due
strade diverse, a seconda che il suo obiettivo sia, di volta in volta, di
carattere descrittivo oppure prescrittivo[9].
Nei
limiti in cui l�obiettivo di tale metodologia sia quello di descrivere cosa
fanno normalmente i giuristi quando cercano di individuare il diritto valido e
di esporne il suo contenuto, allora essa non può che riconoscere come raramente
i giuristi si limitino a questo tipo di esposizione; la loro attività, insieme
a questo, assolve anche ad una funzione�
- non scientifica - ma politica, nel senso che produce direttive rivolte
alle corti, con le quali i giuristi cercano di influenzare i comportamenti decisionali
dei giudici relativi a quali norme essi dovrebbero considerare come valide e a
quali contenuti dovrebbe essere ad esse assegnato in sede di interpretazione.
Da
un punto di vista prescrittivo, invece, Ross è convinto che sia possibile
suggerire un modello metodologico che proponga ai giuristi, sia per la nozione
di validità che per tutte le altre nozioni di loro competenza, un insieme di
regole metodologiche adeguate per costruire nozioni che sono scientifiche nello
stesso senso in cui lo sono quelle prodotte dalle scienze naturali.
La
proposta di Ross è espressione di un atteggiamento metodologico di tipo monistico:
il metodo della scienza è uno solo, ed è, in prima istanza, quello posto in
essere dagli scienziati naturali.
Le
altre scienze, principalmente quelle umane, se vogliono anche esse essere
considerate come discipline scientifiche a tutti gli effetti, devono
conformarsi ai criteri metodologici discendenti dal modello, anche se ciò
dovesse comportarne una massiccia �riconversione metodologica�.
Proprio
una operazione di questo tipo viene proposta da Ross ai giuristi, in un
contesto in cui il lavoro di questi studiosi, avente a che fare con materiali e
concetti di carattere normativo, è sempre stato considerato come ben
difficilmente assoggettabile a criteri di carattere empirico.
Per
Ross tutto dipende dalla accettazione integrale del principio di verificazione,
che per lui costituisce la regola metodologica fondamentale per ogni tipo di
attività che voglia essere qualificata come scientifica[10].
L�oggetto
di cui i giuristi dovrebbero occuparsi, in altri termini, non sarebbe più
costituito dai materiali normativi, ma dai fatti, né più né meno delle altre
scienze: in questo caso di fatti psico-sociali.
Stando
così le cose, gli asserti sulla validità delle norme vanno per Ross
interpretati come ipotesi predittive relative a fatti futuri.
Le
decisioni dei giudici su quali norme applicare costituiscono, quindi, la base
empirica di controllo delle asserzioni revisionali dei giuristi.
Nel
fissare le condizioni logiche cui deve sottostare l�analisi dei concetti
giuridici svolta dai giuristi, Ross si muove in perfetta coerenza con le
premesse epistemologiche[11].
Se,
infatti, si accetta integralmente il principio di verificazione nella sua
versione forte, che postula la riducibilità totale del linguaggio teorico al
linguaggio fattuale, allora non si può che negare l�autonomia del significato
delle nozioni teoriche: queste ultime svolgono, in buona sostanza, la funzione
di strumento di connessione tra i dati esperiti, che di regola �consente di trasformare le descrizioni delle
osservazioni passate in previsioni di osservazioni future.
Sulla
base di queste premesse, l�esito meta-teorico non può che essere quello di una
concezione strumentalistica delle teorie.
A
questo esito giunge anche il percorso di Ross, che adesso è possibile
analizzare con riferimento all�esempio paradigmatico di analisi concettuale
prescelto da Ross stesso, cioè all�analisi del concetto di diritto soggettivo ed
in particolare del diritto di proprietà.
Ross
rileva che, se il compito della dogmatica giuridica si limitasse ad una mera
riformulazione delle norme giuridiche vigenti, allora essa dovrebbe produrre
minuziosamente il contenuto delle varie norme giuridiche, ad esempio di tutte
quelle che disciplinano le varie situazioni in cui le persone, avendo acquistato
delle cose, possono adire le vie giudiziarie nei vari casi in cui il possesso
della cosa venga messo in pericolo, danneggiato, etc.
Il
compito della dogmatica giuridica non può però per Ross limitarsi a questo:
essa deve, al contrario, concettualizzare le norme giuridiche in modo da
riportarle ad un ordine sistematico e da offrire una esposizione semplificata
del diritto vigente[12].
Ebbene,
questo è possibile attraverso l�uso di opportuni strumenti di presentazione:
nel caso delle situazioni sopra citate, ad esempio, il giurista può inserire il
termine �proprietà� per indicare un unico tipo di connessione sistematica
sussistente tra tutta una serie di fattispecie che disciplinano l�acquisto di
cose e tutta una serie di conseguenze giuridiche alle prime connesse.
Ross
precisa, tuttavia,� che il vocabolo
�proprietà� non ha qui alcun significato semantico; esso non designa qualche
fenomeno che si inserisca tra la fattispecie e le conseguenze giuridiche
derivate, ma costituisce soltanto una buona tecnica di presentazione, un mezzo che
consente di rappresentare visivamente il contenuto di un insieme di norme
giuridiche.
Può
essere utile infine aggiungere una ulteriore osservazione sull�immagine di
diritto che viene fuori da questa teoria.
Non
si tratta affatto di una immagine valutativamente neutrale; alla sua
costruzione concorrono invece anche scelte di valore, che, nel privilegiare
alcuni valori giuridici rispetto ad altri, finiscono per additare alle nostre
organizzazioni giuridiche alcune finalità a preferenza di altre.
In
particolare, il valore prescelto sembra essere quello della efficienza ottimale
delle prestazioni del sistema giuridico, cioè quello concernente il buon
funzionamento della macchina del diritto, che si ottiene quando esso è demandato
all�opera dei funzionari pubblici, cioè i giudici.
3. La collocazione
della filosofia analitica italiana del diritto nell�ambito del movimento analitico
In
realtà, nei suoi primi passi, la filosofia analitica italiana del diritto ha
recepito alcuni atteggiamenti di pensiero del movimento analitico nella sua
veste di �positivismo logico�, ma in più ha attivato una problematica interna
che ha avuto un suo sviluppo proprio, formando una tradizione settoriale di
pensiero dotata di suoi principi interni e di una ortodossia (o di tentativi di
ortodossia).
Sulla
formazione di questa tradizione locale ha agito la problematica strettamente
giuridica, che è fornita di vincoli propri, nonché la situazione culturale
italiana del dopoguerra, che recava ancora i segni del razionalismo
illuministico, dello storicismo crociano e dell�idealismo gentiliano con
l�aggiunta dell�esistenzialismo.
Per
questo è vano andare in cerca di riscontri puntuali tra l�evoluzione della
filosofia analitica in generale e quella della filosofia analitica italiana del
diritto.
Si
è visto che la maggior parte delle dispute interne �alla scuola di Bobbio�
riguarda problematiche giuridiche (o teorico-giuridiche) piuttosto che
puramente filosofiche.
Di
conseguenza le premesse filosofiche tendono a concentrarsi in alcune assunzioni
preliminari, che circoscrivono l�orizzonte di pensiero e costituiscono la carta
d�ingresso nel �club� della filosofia analitica italiana del diritto.
Rimetterle
in discussione significa porsi in atteggiamento critico nei confronti della
tradizione analitica italiana della filosofia del diritto.
La
�scuola di Bobbio� racchiude una varietà ampia di posizioni diverse, in cui il
comune denominatore è davvero �minimo�.
Questo
si può senz�altro individuare in un atteggiamento comune logico-analitico, ma
poi c�è grande differenza nel modo di coniugarlo con l�empirismo e di farlo
valere nello studio del diritto.
Per
Bobbio, esso è messo in opera alla luce di una attenta separazione tra giudizi
di fatto e giudizi di valore.
Scarpelli
si muove nell�ambito del prescrittivismo ed applica il convenzionalismo
carnapiano ai valori morali e giuridici intesi come universi di senso
esistenzialmente presupposti.
Tarello
si serve abilmente del metodo logico-analitico come un�arma corrosiva, cioè per
mettere a nudo il carattere ideologico dei discorsi sul diritto.
Altri
lo coniugano in vario modo con il realismo giuridico scandinavo.
Altri
ancora ne sviluppano esclusivamente la sua dimensione logico-formale.
In
generale si può affermare che la filosofia analitica italiana del diritto segue
il filone analitico risalente a Carnap[14] e
non già la linea di pensiero che va dal �secondo Wittengstein� a Ryle ed Austin[15].
Ciò
significa che ci si rivolge alla Ideal-Language Philosophy piuttosto che alla
Ordinary-Language Philosophy, nella convinzione che la rigorizzazione del
linguaggio serva ad eliminare le trappole linguistiche ed i problemi fittizi[16].
L�obiettivo
del secondo Carnap è notoriamente quello di puntare sulla sintassi logica del
linguaggio come calcolo di strutture formali dei segni che in ultima istanza
riposano su convenzioni.
Tuttavia
questa lezione carnapiana nella sua ricezione italiana non esclude l�estensione
dell�analisi ai territori del linguaggio comune, di quello valutativo e di
quello prescrittivo, secondo le istanze del secondo Wittengstein.
Questo
positivismo logico molto moderato non determina così una chiusura nei confronti
delle �scienze dello spirito�, cioè della comprensione del mondo
storico-sociale.
Si
deve intendere che non si è rimasti legati alla �spiegazione� delle scienze
della natura, pur rifiutandosi recisamente l�oggettività dei giudizi di valore.
Il
positivismo logico è inteso da Bobbio non già come riferito agli stati di cose
a cui è rivolta la scienza, ma come analisi delle proposizioni della scienza,
cioè del linguaggio nel quale si parla delle cose.
Ciò
vuol dire che l�interesse è rivolto piuttosto alle condizioni di possibilità di
un�intersoggettività comunicativa delle verità scientifiche, problema questo
che era già proprio quello delle �scienze dello spirito�.
Il
positivismo logico ha� così elaborato una
semantica costruttiva riguardante i linguaggi di calcolo, che sono considerati
come gli strumenti di precisione della scienza[17].
Questi
sistemi artificiali del linguaggio, al cui interno sono solo possibili giudizi
logici e derivazioni logiche, non possono avere valore di scienza teoretica, ma
solo di prassi non ulteriormente fondabile.
Infatti
tra la realtà fattuale e la scienza si è interposto il linguaggio.
Il
collegamento tra la semantica costruttiva di Carnap e quella
storico-ermeneutica non poteva essere certamente valorizzato dal
neopositivismo, che ha proceduto ad un riduzionismo comportamentistico delle
scienze dello spirito.
Resta
però il fatto che nessun scienziato della natura può �spiegare� qualcosa senza
insieme partecipare ad una comunicazione intersoggettiva, che è oggetto
d�indagine delle scienze dello spirito.
Lo
spiegare, pertanto, appare racchiuso dal comprendere, può avere luogo solo
all�interno del comprendere.
�La
scienza giuridica, d�altra parte, non è conoscenza della realtà
extra-linguistica, ma interpretazione del significato di certe affermazioni
sulla realtà�[18].
�A
ben guardare, di empirico alla scienza giuridica resta solo il linguaggio della
norma, che è l�unico risultato di un processo reale, quello appunto, in cui la
norma è stata posta�[19].
Conseguentemente
il problema centrale non è più quello neopositivistico della referenza, ma quello
�ermeneutico� della comprensione del mondo dei significati intersoggettivi.
Tuttavia,
se è ermeneutico il problema, non lo è il metodo di approccio usato dalla filosofia
analitica italiana del diritto.
Pertanto,
quando si tenta di rimediare alla crisi dell�empirismo della filosofia
analitica italiana del diritto coniugandola con il realismo giuridico, in
effetti vorrebbe impedire che l�analisi linguistica raggiunga questi esiti
�ermeneutici�, che sono i più conseguenti.
Si
produce così una sorta di incompatibilità tra analisi linguistica ed empirismo
o, meglio, tra gli esiti dell�una e la esigenze dell�altro.
Questo
vuoto empirico, a cui l�analisi formale del linguaggio normativo conduce,
spinge ad affiancare ad essa in qualità d�indagine comprimaria la ricerca sui
rapporti tra diritto e società.
E�
di moda accusare i filosofi analitici del diritto di essere rimasti ancorati a
posizioni neopositivistiche e comunque sordi agli sviluppi dell�analisi
filosofica.
Tuttavia
vi sono studiosi[20] che difendono l�operato
dell�analisi da loro praticata.
Questo
comunque dipende più da motivazioni giuridiche che da ragioni filosofiche.
E�
stato il vincolo posto dall�oggetto dell�analisi, cioè dal diritto, che ha
costretto ad un uso libero dei metodi analitici.
Si
potrebbe anzi affermare che, ogni qualvolta il filosofo analitico è restato
legato alla esperienza giuridica e alle sue esigenze, si è avvicinato di più
agli sviluppi recenti dell�analisi filosofica e alle problematiche della filosofia
ermeneutica.
4. La Scuola analitica
italiana ed il �broad positivism�
La
filosofia del diritto era rimasta fino ad allora del tutto separata dalla
scienza giuridica.
C�era
una filosofia giuridica dei filosofi del diritto che, salvo poche eccezioni (si
pensi alle teorie del diritto di Adolfo Ravà e di Alessandro Levi e ad alcuni
studi teorici dello stesso Bobbio) era di stampo giusnaturalistico, o
spiritualistico, o neo-kantiano o neo-idealistico e comunque incline alla
metafisica.
E
c�era una filosofia giuridica dei giuristi e del ceto giudiziario che era di
tipo acriticamente giuspositivistico e tecnicistico � informata all�idea del
diritto come sistema unitario di norme e principi, dell�interpretazione come
ricognizione del significato oggettivo delle leggi e della dottrina giuridica
come scienza descrittiva � o peggio, come nelle discipline penalistiche, di
tipo positivistico ed antropologico.
Sul
piano epistemologico questa filosofia giuspositivistica dei giuristi si
risolveva nella gelosa difesa dell�autonomia metodologica della scienza del
diritto, anzi delle diverse discipline giuridiche particolari e in una sorta di
autocelebrazione della sua tradizione millenaria.
Esistevano
poi dei filosofi del diritto come Giuseppe Capograssi che assecondavano e
concelebravano la filosofia dei giuristi e proprio per questo erano
universalmente amati ed apprezzati.
L�atto
di nascita della filosofia giuridica analitica italiana è di solito
identificato con l�ormai classico saggio di Norberto Bobbio intitolato �Scienza
del diritto e analisi del linguaggio� ed apparso nel 1950 sulla �Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile�[24].
In
quel saggio, che è un po� il manifesto programmatico del nuovo indirizzo,
l�empirismo logico e l�analisi del linguaggio vengono presentati e proposti
come le basi epistemologiche di una filosofia del diritto quale filosofia della
conoscenza giuridica, in un duplice senso: in quanto metodologia o metascienza
della scienza del diritto e in quanto analisi del linguaggio giuridico usato
dal legislatore.
Bobbio
indica, su questa base, i due nuovi compiti di una filosofia giuridica
d�impostazione empirico-analitica: l�indagine sullo statuto epistemologico
della scienza del diritto, nonché sui metodi di formazione e di controllo dei
concetti e delle teorie giuridiche e per altro verso, l�analisi del linguaggio
legale e la rielaborazione del discorso legislativo, onde purificarlo delle sue
vaghezze ed ambiguità, risolverne le antinomie, colmarne le lacune e
realizzarne l�intera unità sistematica.
Il
saggio programmatico di Bobbio, unitamente agli studi di teoria generale dello
stesso Bobbio e a quelli più propriamente di analisi del linguaggio e di
metodologia giuridica di Uberto Scarpelli che gli fanno subito seguito,
inaugurano una stagione nuova, orientando la filosofia del diritto, contro i
tradizionali approcci metafisico-giusnaturalistici o idealistico-storicistici,
a un rapporto più stretto, di tipo critico e metascientifico, con la scienza
giuridica.
Il
progetto era ambizioso e dirompente.
Esso
puntava a rompere l�isolamento culturale non solo della filosofia del diritto
ma anche della scienza giuridica.
Assegnando
alla prima il ruolo di riflessione critica sulla seconda ed assumendo le
operazioni dei giuristi come oggetto di analisi, di critica e di prescrizioni,
esso attentava alla tradizionale autonomia metodologica, che poi equivaleva, in
sostanza, all�elevazione a modello normativo di ciò che di fatto i giuristi
facevano.
L�importanza
del saggio di Bobbio del 1950 va ben oltre il rinnovamento da esso promosso
nella filosofia giuridica italiana[25].
Esso
inaugura anche � insieme agli �Studi per un nuovo razionalismo� di Ludovico
Geymonat apparsi già nel 1945 � un rinnovamento più generale della cultura filosofica
italiana, svincolandola dall�influenza fino ad allora dominante della cultura
tedesca in favore di quella di lingua inglese[26].
Dobbiamo
infatti riconoscere che, grazie all�intensa opera di Bobbio e di Scarpelli nei
primi anni Cinquanta, la filosofia del diritto è stata la disciplina filosofica
attraverso la quale la filosofia analitica ha fatto il suo primo ingresso in
Italia.
Infine,
se si esclude qualche sporadico intervento di qualche anno prima[27], si
può affermare anche che la filosofia del diritto italiana è stata la prima,
rispetto a quelle di altri paesi, nella quale si è realizzato l�incontro con la
filosofia analitica.
Perfino
in Inghilterra questo incontro e il conseguente rinnovamento della filosofia
giuridica avvennero, per opera di Herbert L. A. Hart, soprattutto
successivamente, pur se innestandosi assai più linearmente nella tradizione
benthamiana ed austiniana degli studi di analytical jurisprudence e del
giuspositivismo inglese.
E�
infatti del 1952 la lezione inaugurale �Definition and Theory in jurisprudence�
svolta da Hart all�atto dell�assegnazione della cattedra di Jurisprudence dell�Università
di Oxford che è anche essa, come il saggio di Bobbio di due anni prima, un
manifesto programmatico del nuovo orientamento.
Con
una differenza[28] rilevante dall�approccio
di Bobbio, legata alla diversità della tradizione inglese di common law
rispetto a quella italiana di diritto codificato: mentre Bobbio aveva auspicato
l�introduzione nella teoria del diritto - da lui caratterizzata come �formale�
in aderenza all�insegnamento Kelseniano - dei metodi convenzionalistici e
costruttivistici elaborati dal neopositivismo logico e solo nella
giurisprudenza, ossia nell�interpretazione della legge, del metodo dell�analisi
linguistica, Hart propone il metodo del linguaggio usato sia dal legislatore
che dai giuristi quale strumento per la ridefinizione e la ricostruzione� così del significato delle norme come dei
concetti e delle teorie giuridiche.
In
Italia le due anime della filosofia giuridica analitica - quella
logico-empiristica e quella dell�analisi del linguaggio - hanno di fatto
convissuto, anche nelle opere dei medesimi autori.
Si
forma, alla scuola di Bobbio, una nuova generazione di filosofi del diritto, che
rompono con la sterile tradizione metafisica che aveva separato la filosofia
giuridica dalla scienza del diritto e dalla pratica giudiziaria e assumono come
programma l�analisi di quel particolare universo linguistico che è il diritto
positivo e il controllo razionale delle operazioni metalinguistiche su di esso
compiute dai giuristi e dagli operatori giuridici.
Le
coordinate della nuova scuola sono, oltre al�
metodo analitico, il positivismo giuridico nella versione kelseniana e
un approccio laico e neo-illuminista ai problemi giuridici che coniuga, in
opposizione al nuovo giusnaturalismo cattolico e al vecchio idealismo
metafisico, rigore scientifico ed impegno civile e politico: perseguendo,
secondo le parole di Uberto Scarpelli, �la chiarezza e l�onestà dell�intelletto
grazie alla chiarezza e all�onestà del discorso�[29].
Gli
anni Cinquanta e Sessanta sono gli anni nei quali le nuove metodologie
analitiche sembrano più promettenti, anche a causa delle maggiori certezze
epistemologiche, del più forte fervore progettuale, di una maggiore omogeneità
e di un più intenso e costante scambio intellettuale tra gli esponenti del
nuovo indirizzo.
Non
è possibile qui ripercorrere gli sviluppi della scuola attraverso i numerosi
saggi e corsi di teoria del diritto, di metodologia della scienza giuridica e
di logica giuridica prodotti in questo ventennio dallo stesso Bobbio e dai suoi
primi allievi, come Uberto Scarpelli, Giovanni Tarello, Giacomo Gavazzi, Amedeo
Giovanni Conte, Mario Losano e Giorgio Lazzaro.
Ad
Uberto Scarpelli[30], in particolare, si
devono i primi studi di analisi del linguaggio giuridico, di semantica del
linguaggio normativo e di metodologia della scienza giuridica, che svelano non
solo la fecondità dell�analisi linguistica, ma anche - in contrasto con l�idea
bobbiana e kelseniana della purezza formale della teoria del diritto - la
dimensione inevitabilmente politica che proprio l�approccio convenzionalistico
e le giustificazioni pragmatiche richieste dalla stipula dei concetti e dalla
costruzione delle teorie imprimono all�intera scienza giuridica.
Giovanni
Tarello, a sua volta, muovendo da un approccio realistico-analitico, sottopone
ad una revisione epistemologica ancora più radicale il vecchio giuspositivismo
dogmatico e le pretese di scientificità, mostrando che le norme non sono
oggetto pre-esistente, ma il prodotto dell�interpretazione e delle
manipolazioni dei giuristi e conferendo una originale rilevanza metateorica
alla storiografia della cultura giuridica, da lui promossa a banco di prova
della sua concezione della scienza giuridica come politica del diritto[31].
Fino
alla seconda metà degli anni Sessanta, l�indirizzo analitico si presenta
peraltro come sostanzialmente unitario.
I
suoi esponenti sono accomunati da un lato dalla battaglia comune contro la
tradizione metafisica e, dall�altro lato, dalla condivisione di una medesima
concezione del diritto: dall�idea che il diritto è, essenzialmente, un
linguaggio.
Sotto
questo aspetto, in effetti, ben più che in altre discipline filosofiche,
l�incontro tra filosofia giuridica e filosofia analitica era un incontro
obbligato.
Il
diritto, infatti, altro non è che un mondo di segni prodotti da atti
linguistici espressi da attori istituzionali (legislatori, giudici e
amministratori) e di significati ad essi associati dagli interpreti, siano essi
operatori giuridici o giuristi.
Ed
è chiaro come una simile concezione del diritto quale linguaggio �amministrato�
dai giuristi, secondo una felice espressione di Mario Jori[32],
conferisca alla filosofia analitica� - e
specificamente all�analisi del linguaggio giuridico e alla metodologia della
scienza del diritto� - un ruolo critico e
costruttivo nei riguardi del diritto medesimo e della scienza giuridica idoneo
a rifondare, su basi razionali, sia l�uno che l�altra.
Bisogna
tuttavia riconoscere, a distanza di quasi mezzo secolo, che un programma così
ambizioso - nel quale venivano a congiungersi la progettazione scientifica e
l�impegno civile e politico - è stato solo in piccola parte realizzato.
Si
è più volte parlato, in questi anni, della crisi, tuttora in atto, del
giuspositivismo analitico italiano.
Basti
ricordare i due saggi storici di Enrico Pattaro e di Mario Jori che, apparsi a
distanza di quindici anni, recano entrambi la parola �crisi� nel titolo: quello
di Pattaro del 1972 �Il positivismo giuridico italiano dalla rinascita alla
crisi� e quello di Jori del 1987 �Il giuspositivismo analitico italiano prima e
dopo la crisi�.
E
in effetti la crisi è avvenuta, sul finire degli anni Sessanta, a causa di una
pluralità di fattori, sia interni che esterni al nuovo orientamento[33].
Le
ragioni interne sono quelle di carattere epistemologico.
Emerge,
alla fine degli anni Sessanta, quella che viene avvertita, sia dai maggiori
esponenti dell�indirizzo che dai loro critici, come un�incongruenza o peggio
un�incompatibilità tra le loro due assunzioni di fondo: da un lato il
positivismo giuridico d�impianto normativistico, che di fatto comporta il
carattere normativo e non descrittivo della scienza e della teoria del diritto
e la non sopprimibilità dei giudizi di valore, così nella costruzione dei
concetti e delle teorie come nell�interpretazione del linguaggio del
legislatore; dall�altro le assunzioni metodologiche empirico - analitiche, che
al contrario sembravano escludere dal discorso scientifico ogni dimensione
valutativa e quindi precludere proprio alla scienza giuridica il requisito dell�avalutatività
e con esso lo statuto di �scienza empirica�, se non a costo di una sua rinuncia
all�opzione positivistica e di una sua conversione all�analisi gius-realistica.
I
due caposcuola, Bobbio e Scarpelli, di fronte a questa presunta
incompatibilità, sembrano dividersi: il primo dichiarando la crisi del
positivismo giuridico, evidenziando il conflitto tra i principi epistemologici
dell�avalutatività della scienza ed il carattere innegabilmente prescrittivo
delle operazioni dei giuristi ed infine orientandosi verso gli studi di
filosofia politica; il secondo ribadendo la propria adesione al positivismo
giuridico, esplicitando il carattere etico-politico oltre che prima che
scientifico di tale opzione e orientandosi a sua volta verso gli studi di
filosofia morale[34].
Si
è aggiunta la critica demolitrice, ad opera di Giovanni Tarello, dei concetti
di �norma� e di �ordinamento� - da lui intesi l�uno quale significato associato
dall�interprete agli enunciati normativi, l�altro quale inutile invenzione dei
teorici del diritto - che ha fatto ritenere ulteriormente indebolite le basi
empiriche della scienza giuridica.
Né
è risultata una profonda incertezza della filosofia gius-analitica degli anni
Settanta ed Ottanta sullo statuto epistemologico della scienza giuridica e una
sua oscillazione tra giuspositivismo e giusrealismo coperta talora dall�ambigua
etichetta di �post-positivismo giuridico�.
Si
è sviluppata, è vero, ad opera delle nuove generazioni, un�imponente produzione
di teoria del diritto, di logica e di metodologia giuridica.
Ma
sembra tramontato l�iniziale progetto bobbiano di una rifondazione
empirico-analitica dell�intera scienza giuridica e della stessa teoria del
diritto.
La
filosofia gius-analitica di questa seconda fase, oltre ad affinare i propri
strumenti logici e metodologici, si orienta piuttosto verso ricerche più
tecniche e specialistiche.
Innanzitutto
verso l�analisi logica e linguistica dei sistemi normativi in generale, non
solo giuridici ma anche etici, del costume, dei giochi e simili: si pensi agli
studi di logica deontica e a quelli sulle regole costitutive di Amedeo Giovanni
Conte e di Gaetano Carcaterra.
In
secondo luogo verso la riflessione sul metodo della scienza giuridica e su
aspetti e temi settoriali della teoria del diritto: come nei lavori di Letizia
Gianformaggio[35] sull�argomentazione e
sulla giustificazione razionale delle tesi giuridiche, in quelli di Mario Jori,
di Anna Pintore e di Vittorio Villa sul metodo giuridico e sulla dimensione
pragmatica così della scienza del diritto come della giurisprudenza , in quelli
infine di Riccardo Guastini[36] e di
Paolo Comanducci[37] sul ragionamento
giuridico, sulle fonti e le norme e sulla dinamica degli ordinamenti.
Queste
ricerche sembrano tuttavia rinunciare alle ambizioni originarie.
Anche
perché i dissensi emersi nel dibattito della seconda metà degli anni Sessanta,
anziché risolversi si accentuano, dando origine a due indirizzi diversi che si
rifanno più o meno apertamente alle tesi di Tarello e di Scarpelli: da un lato
l�orientamento gius-realistico di chi, come Riccardo Guastini, assegna alla
filosofia giuridica analitica il ruolo di una meta-giurisprudenza descrittiva delle
operazioni prescrittive e in ultima analisi politiche compiute dai giuristi
positivi, ritagliando in essa anche lo spazio di una teoria avalutativa del
diritto volta all�analisi logica semantica dei concetti giuridici da costoro
impiegati, dall�altro l�orientamento giusnormativistico di chi, come Mario
Jori, sostiene il ruolo prescrittivo e in ultima analisi politico della
meta-giurisprudenza quale strumento di controllo dell�attività conoscitiva dei
giuristi, o comunque rivendica, come Letizia Gianformaggio, l�onere della
giustificazione razionale dei discorsi dei giuristi e l�applicabilità della
logica ai discorsi normativi[38].
C�è
poi stato un secondo fattore di crisi, forse più decisivo: gli scarsi rapporti
che la filosofia analitica del diritto è riuscita a stabilire con la scienza
giuridica positiva.
Per
la verità questi rapporti sono sempre stati assai esili, anche nella fase iniziale
del movimento.
Da
un lato, infatti, la scienza giuridica non era e non è disponibile, se non
altro per le competenze tecnico-giuridiche che essi richiedevano.
L�interpretazione
auspicata tra filosofia analitica e scienza giuridica esigeva insomma che i
filosofi andassero a scuola dai giuristi e viceversa: che i primi esibissero e
sperimentassero e che i secondi adottassero i metodi dell�analisi linguistica e
della logica nella costruzione dei concetti e delle teorie e nell�impostazione
e nella soluzione dei concreti problemi giuridici.
Questo
incontro tra filosofi e giuristi è purtroppo mancato[39].
I
giuristi, salvo poche pur se significative eccezioni, hanno generalmente
ignorato i metodi suggeriti dalla filosofia analitica e, chiusi nel loro
tradizionale isolamento culturale, hanno continuato a difendere l�autonomia
anche metodologica delle loro discipline.
Si
contano poco più che sulle dita di una mano le opere di giuristi di qualche
rilievo che si sono avvalsi di metodologie analitiche.
Né
sono mancati i contributi dei filosofi del diritto all�analisi teorica e
dogmatica di settori specifici cui Giovanni Tarello ha mostrato la costruzione
prevalentemente dottrinaria ed extra-legislativa in accordo con più o meno
consapevoli politiche del diritto, al diritto costituzionale, di cui Riccardo
Guastini ha riformulato la teoria� delle
fonti in chiave analitica, fino al diritto penale e processuale-penale e ai
suoi fondamenti garantisti.
Ma
questi studi non riescono ad incrinare la tradizionale autonomia della scienza
giuridica: la quale - nonostante la crisi profonda dei suoi vecchi paradigmi
pandettistici e paleopositivistici generata dall�inflazione legislativa, dalla
perdita di centralità dei codici e dall�incrinarsi della stessa capacità
regolativa del diritto così nella sfera pubblica come in quella dei rapporti
privati - resta tuttora, sostanzialmente, impermeabile alla filosofia analitica[40].
Dalle
cose scritte fino ad ora dovrebbe risultare�
con chiarezza che l�indirizzo analitico italiano di filosofia e teoria
generale del diritto non è una scuola compatta ed omogenea, dalle idee e dalle
posizioni univoche[41].
Esso
è, oggi in special modo, una scuola solo in senso metodologico, non
sostanziale.
Si
può parlare di �somiglianze di famiglia�; si deve di conseguenza parlare anche
di �liti in famiglia�.
Taluni
hanno ritenuto di potere ciononostante individuare delle caratteristiche comuni,
quantomeno sotto forma di principi che il �vero� analista prende seriamente in
considerazione.
Una
caratterizzazione in questo senso del metodo analitico è stata compiuta da
ultimo da Mario Jori e Riccardo Guastini, ed è significativo che tanto il primo,
normativista[42], quanto il secondo,
vicino al giusrealismo[43],
ritengano costitutivi dell�atteggiamento analitico i principi della grande
divisione tra il prescrittivo ed il descrittivo e della distinzione tra giudizi
analitici e giudizi sintetici.
Con
la distinzione tra prescrittivo e descrittivo si individua il primo tratto
distintivo fondamentale della scuola analitica, cioè il divisionismo, con la
distinzione tra analitico e sintetico è possibile individuare la seconda
peculiarità, ossia l�empirismo.
Cominciamo
dal divisionismo[44]: esso colloca
immediatamente gli analisti italiani in posizione radicalmente critica verso i
giusnaturalismi vecchi e nuovi: qualunque cosa gli analisti italiani oggi
siano, certamente non sono giusnaturalisti.
Non
lo sono in sostanza, perché rifiutano ogni commistione tra il concetto del
diritto com�è ed il concetto del diritto come deve essere, non vogliono
compromettere la descrizione del diritto con le valutazioni.
Non
sono poi giusnaturalisti in senso metodologico perché escludono che i giudizi
morali siano oggettivi e conoscibili, sono cioè fieramente critici
dell�oggettivismo e del cognitivismo in metaetica.
Gli
analisti accolgono dunque la tesi del salto logico tra il descrittivo ed il
prescrittivo, e di conseguenza condividono la critica di fallacia naturalistica
mossa a chi pretende di ricavare prescrizioni da descrizioni; essi inoltre
negano che i valori possano essere conosciuti, che vi siano mai procedure
intersoggettive di un loro reperimento e accertamento.
Un
fondamentale test di appartenenza alla scuola analitica è pertanto
l�accoglimento della distinzione tra il descrittivo ed il prescrittivo, intesa
naturalmente, non come distinzione tra due sfere della realtà, bensì tra due
generi di discorsi.
E�
possibile distinguere alcuni momenti principali nelle discussioni analitiche
italiane sulla metaetica.
La
prima fase è quella dell�approfondimento delle implicazioni del divisionismo,
sul piano metaetico ed etico da un lato, sul piano semiotico dall�altro lato.
La
fase successiva è dominata dall�esigenza di consolidare una posizione
antidivisionista ormai adottata con decisione e di difenderla dagli attacchi
mossi contro di essa.
La
fase più recente è �caratterizzata da un
mutamento dell�atmosfera generale� che
faceva da sfondo al divisionismo delle origini.
Anche
in Italia oggi è in atto quella che è stata efficacemente chiamata la
�riscoperta della ragion pratica�, in etica e nel diritto.
Una
tappa assai significativa di questa recente fase della discussione e nel
contempo un documento che esemplifica in modo efficace il nuovo corso dei
dibattiti analitici, è dato dagli atti di un convegno analitico del 1984 sulla
giustificazione morale e giuridica[45].
Il
contributo più recente e al contempo più rimarchevole che la scuola analitica
italiana ha fornito alla �riscoperta� dell�etica normativa è �Diritto e
ragione� di Luigi Ferrajoli: un�opera incentrata sulla filosofia di giustizia
penale ispirata alla difesa di un modello prescrittivo di diritto penale minimo
e garantista[46].
E�
soprattutto l�atteggiamento divisionista e perciò naturaliter
antigiusnaturalista condiviso dagli analisti italiani che accentua
l�impressione della diversità di costoro rispetto all�esterno e della
compattezza interna caratteristiche della scuola di pensiero[47].
In
effetti l�antidivisionismo porta a troncare ogni possibilità di dialogo con la
parte avversa, non certamente perché esso, o il divisionismo a cui esso si
sottopone, si accompagnino ad una speciale insofferenza alle discussioni, bensì
per la divaricazione di linguaggio e problemi che ne consegue.
Il
giusnaturalista italiano coltiva in prevalenza la filosofia della giustizia e
la storia della filosofia, dato che la filosofia della giustizia include, a suo
avviso, l�indagine sulle manifestazioni dell�idea di giustizia nella storia.
Quasi
mai il giusnaturalista si fa teorico del diritto: solo eccezionalmente egli si
occupa, ad esempio, del problema della norma, dell�ordinamento giuridico,
dell�interpretazione, del ragionamento giuridico e via dicendo.
Invece
gli analisti possono a buon diritto essere considerati i principali artefici
della teoria generale del diritto italiana contemporanea[48].
L�altro
principio che caratterizza l�accostamento degli analisti italiani al diritto è
l�accoglimento della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici e
dunque l�empirismo, nella speciale versione del neoempirismo.
Gli
analisti italiani contemporanei, come già il Bobbio degli anni Cinquanta,
accettano nel complesso il modello neoempirista delle scienze naturali e
sociali e adoperano questo modello per vagliare lo status dei vari discorsi che
concernono il diritto.
L�adesione
ad un comune modello epistemologico non ha dato luogo, peraltro, a una
concezione analitica unitaria della scienza e della teoria del diritto.
Questa
circostanza si spiega agevolmente se si pone mente a due fattori principali.
Innanzitutto
occorre tenere conto del fatto che la condivisione del medesimo modello
epistemologico cela in realtà posizioni anche notevolmente diverse, versioni dell�empirismo
più o meno ampie o aperte.
A
complicare ulteriormente le cose interviene poi l�altro principio analitico,
ossia la distinzione tra il descrittivo ed il prescrittivo[49].
Infatti,
applicando tale distinzione al problema della scienza giuridica, ci si accorge
subito che esso si scinde in tre parti: il problema se la giurisprudenza cos�ì
come è sia di fatto o meno una scienza; il problema se la giurisprudenza così
come è, pur non essendo attualmente scienza, possa diventarlo, oppure no;
infine il problema se sia opportuno che la giurisprudenza operi
scientificamente, oppure no.
Tra
le risposte a questi problemi si possono avere incroci differenti.
Il
modello neoempirista di scienza è stato dunque assunto dagli analisti
innanzitutto come modello descrittivo ed adoperato per accettare se i discorsi
prodotti effettivamente dai giuristi si adeguassero ad esso e potessero di
conseguenza venire considerati scientifici[50].
Quasi
tutti gli analisti italiani oggi rifiutano alla giurisprudenza la patente di
scientificità.
Ma
questa convergenza rischia di apparire meramente estrinseca, finché non si
precisino le ragioni addotte per giustificare siffatta conclusione negativa.
Infatti
un conto è dire, come fa Scarpelli, che la giurisprudenza non è una scienza
perché ritaglia il proprio oggetto compiendo una scelta politica preliminare,
ciò che è inammissibile per un discorso che si ispiri ai canoni del
neoempirismo.
Un
altro conto invece è dire, come fa ad esempio Tarello, che la giurisprudenza
non è scienza perché non è una mera cognizione di norme.
Queste
divergenze si accentuano sulla seconda questione, se sia possibile che la
giurisprudenza si trasformi in un discorso scientifico[51].
Così
per alcuni analisti la giurisprudenza così come è attualmente praticata dai
giuristi positivi contemporanei non è una scienza e tuttavia potrebbe divenirlo
senza subire mutamenti radicali o quantomeno potrebbe trasformarsi in discorso
controllabile perché dotato di rigore: è la concezione di Bobbio degli anni Cinquanta,
condivisa nella sostanza da Scarpelli e da Jori, insomma dal ramo normativista
della scuola analitica.
Sul
versante scettico-realista si colloca la tesi opposta, implicita nelle idee di
Tarello e Guastini: la giurisprudenza così come è non potrebbe mai trasformarsi
in scienza e neppure in discorso rigoroso, senza mutare radicalmente la propria
natura; la giurisprudenza è intrinsecamente e per sua natura attività di
creazione di norme, quindi produttiva del diritto e non può mai essere pura
ricognizione di un diritto preesistente.
I
dissensi sul terzo punto, se sia cioè opportuno trasformare la
giurisprudenza� in disciplina� scientifica, parrebbero i più semplici da
esaminare e anche da comporre: dopotutto ci si potrebbe accordare sul modello
prescrittivo di scienza giuridica da prescegliere e raccomandarlo ai giuristi.
Inoltre
la storia insegna che i filosofi del diritto hanno ben poche possibilità di
successo allorché si pongono sul terreno della metagiurisprudenza prescrittiva[52] e
prescrivono alla giurisprudenza il modo in cui condursi.
E�
possibile che sia questa considerazione a spiegare come mai ben pochi altri
teorici neoempiristici del diritto siano giunti a proporre apertamente una
trasformazione radicale della giurisprudenza�
e un suo adeguamento ai canoni del neoempirismo[53].
Nessuno
dei teorici analitici italiani è comunque giunto a tale conclusione.
Tutti
hanno invece ritenuto opportuno lasciare che la scienza giuridica continuasse a
fare il proprio mestiere, nella convinzione che le esigenze della descrizione
scientifica empirica del diritto possano essere soddisfatte dalla sociologia
del diritto.
Divisionismo
ed empirismo condizionano profondamente il tipo di semiotica giuridica
elaborata e praticata dalla scuola analitica italiana di teoria del diritto.
La
semiotica giuridica degli analisti italiani è per l�appunto una semiotica
divisionista ed empirista: ciò significa in primo luogo che per l�analista
l�aspetto principale del linguaggio giuridico è il suo carattere prescrittivo,
il suo essere un discorso fatto per guidare la condotta; ciò significa in
secondo luogo che l�analista attribuisce importanza cruciale ai rapporti tra il
linguaggio, anche un linguaggio prescrittivo come quello giuridico, e la realtà
empirica extralinguistica, il mondo.
Queste
due idee riconducono la semiotica giuridica degli analisti italiani alla
famiglia delle semiotiche prescrittivistiche, alla cui elaborazione essi hanno
dato un contributo decisivo.
Il
prescrittivismo semiotico[54] è
animato infatti proprio dalle seguenti convinzioni fondamentali: la convinzione
che anche il linguaggio prescrittivo come il descrittivo sia dotato di una
componente semantica rappresentativa della realtà, e che il linguaggio
prescrittivo sia semanticamente diverso da quello descrittivo, perché
strutturato per esplicare la funzione di guida dei comportamenti.
Queste
due caratteristiche sono sufficienti a distinguere la semiotica praticata dagli
analisti dalle semiotiche che possono essere considerate non analitiche, perché
non motivate da analoghe preoccupazioni empiriste e divisioniste.
Questa
omogeneità di fondo non esclude che all�interno della scuola analitica possano
coesistere versioni della semiotica analitica e concezioni degli obiettivi
dell�indagine semiotico-giuridica anche notevolmente differenti.
Siccome
le idee semiotiche non hanno mai carattere ultimativo, cioè non rappresentano
mai il fondamento ultimo di posizioni filosofico-giuridiche, non meraviglierà
di sapere che le tendenze in cui ci si imbatte sul terreno dell�indagine
semiotica rappresentano la trasposizione di tendenze presenti innanzitutto sul
terreno filosofico giuridico.
E�
sul terreno semiotico che oggi è possibile cogliere i principali orientamenti
presenti nella teoria analitico-giuridica italiana, piuttosto che direttamente
sul terreno delle posizioni filosofico-giuridiche e delle etichette che le
designano.
E�
possibile dunque distinguere, all�interno della scuola analitica italiana, tra
una tendenza normativista ed una tendenza antinormativista in semiotica.
La
prima si caratterizza per la centralità conferita alla nozione di regola o
norma, intesa come significato, struttura o sistema normativo e per il fatto di
privilegiare un accostamento strutturale al diritto inteso come insieme
astratto di significati normativi.
La
tendenza antinormativista attribuisce invece centralità al problema
dell�interpretazione� e si caratterizza
per una concezione dell�interpretazione alquanto scettica e interessata per lo
più alla concreta attività interpretativa.[55]
Questa
semiotica mette in dubbio la legittimità di una descrizione normativista del
diritto e la sua autonomia da altri possibili discorsi sul diritto; in
particolare dal discorso su ciò di cui i significati normativi sono il
prodotto, cioè le ideologie dei giuristi; oltre che dal discorso sugli effetti
culturali e sociali che essi producono.
La
descrizione normativista astraente rappresenta per i suoi fautori una versione
più liberal dell�empirismo; per i suoi detrattori essa al contrario sarebbe
addirittura giusnaturalismo e comunque rappresenterebbe un allontanamento da un
empirismo rigoroso, che bandisce nozioni astratte come quelle di �struttura� e
�sistema�.
E�
evidente che l�impostazione semiotica giusrealista si accompagna� ad una maggiore propensione per gli studi che
Bobbio ha chiamato di metagiurisprudenza descrittiva e in generale per
l�indagine lessicale, ricognitiva dei discorsi effettivamente prodotti dai
giuristi, per la storia della cultura e delle ideologie giuridiche.
Significatamente
Guastini, esponente di questo orientamento, indica come obbiettivi principali
dell�analisi del linguaggio i seguenti: la registrazione degli usi linguistici,
la rilevazione di ambiguità sintattiche e semantiche, il disvelamento di
connotazioni di valore nascoste nei discorsi.
Viceversa
l�impostazione semiotica normativista si accompagna ad una maggiore propensione
verso la metagiurisprudenza prescrittiva e in generale verso l�analisi
ricostruttiva, l�elaborazione e l�uso di modelli, intesi come ricostruzioni
idealtipiche di discorsi giuridici effettivi.
Verrebbe
la tentazione[56] di chiarire questa
contrapposizione col dire che l�orientamento antinormativista si dedica alla
pragmatica giuridica, mentre quello normativista si occupa di semantica, se non
fosse che una delle divergenze maggiormente percepibili tra la semiotica
normativista e la semiotica giusrealista riguarda proprio il modo di intendere
la pragmatica giuridica ed i rapporti tra questo livello dell�analisi semiotica
ed il livello semantico.
Infatti
alcuni analisti specialmente giusrealisti intendono la pragmatica come uno
studio fattuale, sociologico, di tutti gli effetti dell�uso del linguaggio� e di tutti gli elementi contestuali che
caratterizzano l�emissione delle enunciazioni.
La
concezione opposta, che si accompagna di solito ad una impostazione normativista,
considera viceversa la pragmatica come una disciplina che si occupa delle
regole che tipicamente governano la comunicazione linguistica e non di tutti i
fatti che rilevano nel processo di comunicazione.
Naturalmente
queste differenti tendenze semiotiche nell�ambito della scuola analitica
italiana si concentrano sulla scelta dei temi oggetto di maggiore attenzione e
i due orientamenti semiotici finiscono per essere attirati da settori di
indagine� in parte diversi.
Ma
poiché, come si sa, nella teoria del diritto tutti i problemi sono tra loro
inestricabilmente collegati, così che affrontare un problema teorico-giuridico
equivale a doverne affrontare molti altri insieme, spesso le differenze di
impostazione semiotica di cui si è appena detto sono percepibili solamente
guardando al merito delle soluzioni fornite ai vari problemi, piuttosto che
alla scelta dei settori di studio.
In
riferimento ai concetti fino ad ora espressi, si può quindi concludere questa
analisi evidenziando l�aspetto in base al quale la scuola analitica italiana
prende le distanze dall�atteggiamento decisamente prescrittivo assunto da Ross
in sede di metodologia[57].
Essa,
nel suo versante normativistico, non ritiene opportuno prescrivere seccamente
regole metodologiche ai giuristi, soprattutto quando esse non tengono
minimamente conto di quanto essi normalmente fanno e sono abituati a fare (il
lavoro �su� norme�); ritiene più
opportuno assumere un atteggiamento di carattere ricostruttivo; non si tratta,
in altri termini, di persuadere i giuristi ad adottare un determinato metodo,
importato �dall�esterno�, ma piuttosto di proporre un modello esplicativo che
serva a comprendere meglio la valenza metodologica delle loro attività e a
selezionarne gli aspetti più significativi e rilevanti.
I
presupposti epistemologici di questo tentativo metodologico scaturiscono da
quella versione del neopositivismo (che si sviluppa negli anni Quaranta e si
consolida negli anni Cinquanta) che può essere etichettata con il nome di
�broad positivism�.
Si
tratta di una versione più �liberale� del neopositivismo, che da una parte
indebolisce i criteri di controllabilità empirica previsti� dal principio di verificazione (nella sua
versione rigida), introducendo forme di riducibilità parziale delle teorie ai
dati osservativi; dall�altra parte, sviluppa in modo molto più pronunciato le
tecniche di formalizzazione logica con cui viene analizzato il linguaggio della
teorie scientifiche, resosi ormai autonomo dal linguaggio osservativo.
5. L�interpretazione
della legge secondo la tradizione della filosofia analitica italiana
La
filosofia analitica italiana del diritto ha una sua propria tradizione, che
ovviamente si inserisce all�interno di quella più in generale
filosofico-analitica.
Questa
tradizione esiste per il semplice fatto che il movimento filosofico-analitico
non si era fino a quel momento molto interessato alla problematica giuridica.
Con
il possesso di una propria tradizione si intende la presenza di un complesso di
atteggiamenti di pensiero e di nodi tematici persistenti, pur all�interno di
conflitti e di posizioni profondamente divergenti[58].
Quali
sono gli elementi distintivi di questa tradizione di pensiero? Quale
atteggiamento di pensiero è strettamente necessario condividere per essere ammessi
al �club� dei filosofi analitici italiani del diritto?
Mario
Jori ha individuato quattro ambiti problematici tipici della filosofia
analitica in generale: la distinzione tra analitico e sintetico, tra discorsi e
metadiscorsi, tra essere e dovere essere, tra contesto di giustificazione e
contesto sociologico[59] .
Francesco
Viola crede che questa ultima identificazione della tradizione analitica in
generale non aiuti a rendere conto di pensatori che pure indubbiamente ad essa
appartengono, come ad esempio Quine, Davidson, Searle, Austin, Dummett[60].
Però
questa caratterizzazione può servire ad inquadrare la filosofia analitica
italiana del diritto.
Si
può dire che i principali aspetti caratteristici della filosofia analitica
italiana del diritto sono la teoria delle funzioni del linguaggio e il
prescrittivismo ad essa collegato, l�identificazione della norma come primario
oggetto di analisi linguistico-giuridica, il carattere esterno
dell�interpretazione rispetto al linguaggio giuridico, la scienza giuridica
intesa come metalinguaggio.
Queste
tesi sono sullo sfondo delle indagini di tutti i filosofi �analitici italiani del diritto, anche se
ovviamente ricevono articolazioni ed interpretazioni non sempre conformi[61].
E�
possibile additare alcuni indizi che permettono di accostare (ma non di
identificare) la filosofia analitica italiana del diritto alla corrente
analitica sostenitrice del dualismo metodologico (New Dualism), cioè al clima
contrassegnato dall�impatto della filosofia analitica con le scienze umane[62].
Scarpelli
prende le mosse da quella che gli ermeneutici chiamerebbero una presupposizione
di senso: il linguaggio normativo deve pur avere un significato se la gente lo
usa con successo e, così facendo, effettivamente si comprende[63].
Bobbio
prende le mosse dal problema classico dell�epistemologia delle scienze umane, a
cui appartiene la giurisprudenza fornita di un oggetto che è insieme mutevole e
non fattuale.
Tuttavia
questo problema non viene risolto, invocando la specificità delle scienze
umane, ma mostrando� i mutamenti avvenuti
nella concezione delle scienze empiriche e formali ad opera del positivismo
logico.
Scarpelli
distingue tra �principio di significanza� e �principio di verificazione�[64] per
far posto al modo di riferimento dei significati di enunciati normativi.
Tarello
distingue tra una nozione rigida e una nozione larga di �proposizione� per fare
posto alle proposizioni normative prive di referente.
In
generale si può dire che lo sforzo della filosofia analitica è quello di
salvare l�intersoggettività del linguaggio e attraverso essa la comprensione.
La
filosofia analitica si riferisce preferibilmente al linguaggio, mentre, come si
vedrà nel capitolo successivo, l�ermeneutica privilegia il discorso[65].
Si
potrebbe dunque considerare il linguaggio come l�uso tipico di una lingua e il
discorso come l�uso concreto del linguaggio.
Potrebbe
pertanto sembrare che la differenza risieda soltanto nel livello di astrazione.
Infatti
nei testi della filosofia analitica italiana del diritto si parla indifferentemente
di linguaggio giuridico e di discorso giuridico, di linguaggio del legislatore
e di discorso legislativo con l�unico sottointeso di una differenza tra
astratto e concreto, cosicché tutto ciò che si attribuisce al linguaggio si
comunica per ciò stesso al discorso: al linguaggio normativo corrisponderà in
concreto un discorso normativo.
Insomma
il discorso non aggiunge niente al linguaggio se non la concretezza.
Per
la filosofia ermeneutica, si vedrà, le cose vanno diversamente.
Relativamente
al concetto di comunicazione linguistica, la concezione funzionalistica del
linguaggio considera la situazione di interlocuzione fondamentalmente come
un�azione d�influenza che un soggetto attivo esercita su un soggetto ricevente.
Il
modello originario resta pur sempre quello causale del tipo �stimolo-risposta�,
modello che non si adatta al processo semiosico[66].
Non
ha tanto importanza che nel linguaggio prescrittivo il soggetto attivo sia
considerato elemento costitutivo della norma, come in un primo tempo pensava Bobbio,
ovvero, a differenza di quello assertivo, come esterno ad essa.
In
ogni caso il linguaggio è qualificato in base agli effetti che è diretto a
produrre nel destinatario, cioè nel suo ruolo di guida� (diretta o indiretta) dei comportamenti.
Si
configura così la situazione dell�interlocuzione come una situazione di dominio
e, conseguentemente, il linguaggio è uno strumento per modificare il mondo
esterno e dirigere i comportamenti umani[67].
Ognuno
può rendersi conto di quanto volontarismo sia nascosto in questo approccio al
linguaggio.
Ma,
se questo è il luogo della comprensione, del discorso e del confronto, allora è
il luogo della ragione e della comunanza.
L�intendersi
e il comprendersi non significa essenzialmente esporsi alla influenza altrui,
né ricevere passivamente i messaggi, ma entrare in un circolo interattivo in
cui l�emittente e il ricevente non sono ruoli fissi, bensì posizioni mobili
interne al discorso.
Insomma
il linguaggio non si caratterizza per ciò che produce all�esterno, ma per
l�ambiente che costruisce al suo interno.
Di
conseguenza possiamo individuare un�altra precomprensione decisiva del filosofo
analitico, cioè lo sguardo costantemente rivolto al linguaggio ideale anche
quando analizza discorsi concreti o esamina il linguaggio ordinario[68].
Il
suo obiettivo finale è quello di ricondurre il discorso al linguaggio inteso
come modello tipico.
Si
presume che solo nel pieno rispetto del modello linguistico si realizzi in modo
pieno la trasmissione comunicativa.
A
questo punto si pone la questione cruciale se il diritto sia linguaggio o
discorso.
Se
le cose già dette hanno un senso, la differenza nella risposta è rilevante.
Nel
primo caso si è indotti a chiedersi a quale tipo di linguaggio si possa
ascrivere il diritto e la risposta scontata è che si tratti del linguaggio in
uso normativo o prescrittivo, la cui funzione è quella di guidare i
comportamenti, di far fare[69].
Nel
secondo caso bisogna partire dai discorsi che vengono da tutti di fatto
considerati come �giuridici� per estrarre da essi i canoni ricorrenti.
Che
poi la filosofia analitica italiana del diritto parta effettivamente dal
linguaggio è un altro problema[70].
Essa
non può che partire dai discorsi, dal discorso del legislatore, da quello del
giurista o dal quello del giudice.
I
discorsi sono da essa qualificati in base a soggetti emittenti individuati dai
ruoli istituzionali nella presunzione che si tratti per questo di discorsi
�giuridici�.
Tuttavia
poi nell�analisi linguistica il soggetto emittente viene messo da parte per
cercare di cogliere quella funzione del linguaggio che caratterizza i discorsi giuridici
e questa si individua nella funzione prescrittiva.
Per
questo il discorso dei giuristi fa problema, perché, pur appartenendo
all�ambito giuridico, sembra essere un discorso assertivo di prescrizioni.
Dal
punto di vista ermeneutico, come si vedrà poi meglio, non ha senso
caratterizzare un discorso come prescrittivo o descrittivo, perché ogni
discorso, di qualsiasi tipo sia, è insieme l�uno e l�altro.
Sostenere
che il linguaggio giuridico sia essenzialmente prescrittivo vuol dire
privilegiare un certo tipo di cultura giuridica, cioè quella fondata sul
modello del comando, sul primato del legislatore, sulla prevalenza di testi
scritti contenenti imperativi e così via, ma anche precludersi la possibilità
di sondare il diritto in tutta la sua ampiezza come linguaggio dell�interazione
sociale.
C�è
tuttavia un punto in cui filosofo analitico e quello ermeneutico convergono ed
è la considerazione olistica del diritto come linguaggio.
Entrambi
infatti avanzano l�esigenza di assumere una prospettiva globale per
caratterizzare sia il linguaggio sia il discorso.
Considerare
un linguaggio come prescrittivo significa guardare alla globalità della sua
funzione, così come considerare un discorso come giuridico vuole dire guardare
alla globalità del suo senso[71].
Alla
luce della preferenza per il linguaggio ideale deve anche essere considerato il
ricorso analitico all� �uso� da parte della filosofia analitica italiana del
diritto.
Il
ruolo dell�uso nella individuazione del significato è stato prevalentemente
inteso come rispetto delle regole d�uso che, in base alle convenzioni
presupposte, connettono i simboli tra loro e agli stati ed eventi non
linguistici[72].
In
questo modo si è potuto coniugare il riferimento alle pratiche effettive con il
compito di una purificazione dei linguaggi[73].
La
formulazione di regole d�uso, che quasi mai nella pratica sono linguisticamente
articolate, è, infatti, spesso una costruzione dell�analista.
Di
conseguenza il ricorso all�uso è in realtà il rinvio ad un gioco linguistico
che è stato messo a punto dall�analista sulla base delle pratiche effettive.
Seguendo
questo orientamento, si può passare dai linguaggi ordinari a quelli artificiali
nella convinzione di restare ancora legati ai primi.
Tuttavia
questo legame può diventare in molti casi solo una finzione di comodo, mentre
il peso della scelta dell�analista si fa sempre più decisivo.
In
ogni caso, il ruolo dell�uso ha qui rilievo dal punto di vista sintattico e
semantico.
La
teoria del significato come uso del secondo Wittgenstein non può essere
assimilata a questo orientamento.
Pertanto,
l�attenzione per l�uso indica la svolta pragmatica della teoria del
significato, ma di una pragmatica intesa in senso linguistico.
Quando
la semantica scopre l�autonomia dell�intendere e del comprendere, cioè del
senso, nei confronti della referenza, la pragmatica si apre alla teoria
dell�azione che non può essere ridotta ad un puro e semplice meccanismo di
stimoli e risposte psico-sociali.
Ora
la pragmatica è intesa come l�insieme delle analisi linguistiche che rendono
necessario il riferimento al contesto[74].
Se
infatti si tratta di cogliere il senso del discorso nel linguaggio ordinario e
se esso è dato dall�uso, allora lo stesso compito semantico è svolto dalla
pragmatica nella misura in cui essa indaga la genesi e l�articolazione concreta
del senso[75].
La
vitalità del senso non è più data dalla referenza, ma dalla sua operatività
nelle situazioni d�interlocuzione, cioè nelle relazioni non già tra proposizioni
e stati di cose ma tra locutori e interlocutori.
L�intenzione
del locutore e la recezione dell�interlocutore entrano a fare parte della significazione
completa e costituiscono il senso.
La
forza illocutiva degli atti linguistici diviene il tema principale della
comunicazione al posto del contenuto proposizionale.
Al
posto della referenza stanno ora l�intesa e l�accordo.
La
pragmatica linguistica subentra ad una semantica referenziale.
Si
potrebbe forse dire che al posto della referenza c�è il riferimento, cioè ciò a
cui i soggetti parlanti si riferiscono e che raggiunge il senso solo se è
co-riferimento, cioè il punto di incontro delle intenzioni degli interlocutori.
Ciò
implica che l�uso comprende� non solo le
regole per �fare riferimento� e quelle sintattiche, ma anche quelle che servono
per attribuire significati.
Si
possono ascrivere significati ad enunciati solo all�interno dell�intendere e
del comprendere, che quindi diventano fattori indissolubilmente legati al
significato stesso.
Questo
non è afferrabile se non all�interno di un atto di comprensione.
Senza
questo atto e al di fuori di questo contesto il significato ritorna ad essere
un enunciato puro e semplice da interpretare.
Il
significato è� insieme ciò che attraverso
l�enunciato è compreso e la comprensione stessa dell�enunciato.
Questa
evoluzione dell�analisi linguistica, che è in piena sintonia con le posizioni
ermeneutiche, può essere criticata sotto diversi aspetti, ma non c�è dubbio che
sia di aiuto alla comprensione dei discorsi giuridici più della semantica
referenziale dell�empirismo.
D�altronde
le esigenze stesse dell�oggetto studiato (il diritto) spingono in questa
direzione.
Ad
esempio, quando Scarpelli[76]
insiste sul fatto che i neustici non sono portatori di riferimenti ma solo
indicatori delle funzioni degli enunciati, ascrive nella sostanza al senso
queste regole funzionali.
Esse
riguardano la comprensione del linguaggio e, poiché concernono la
determinazione del significato, rendono la distinzione tra linguaggio descrittivo
e prescrittivo non più fondata sulla referenza ma sul senso.
La
fondamentale mossa strategica del movimento analitico è stata l�istituzione di
una piena corrispondenza tra l�unità linguistica di significato, cioè la
proposizione, e l�unità di significato giuridico, cioè la norma[77].
La
norma è una proposizione.
Bobbio
diceva che �un codice, una costituzione sono un insieme di proposizioni�[78].
Gli
enunciati sono i mattoni del linguaggio, così come gli enunciati normativi soni
i mattoni del diritto.
Le
proposizioni sono in senso pieno i significati degli enunciati.
L�analisi
tende a scomporre l�esperienza linguistica nei suoi elementi atomici ultimi e
questi sono gli enunciati e le proposizioni.
La
teoria analitica del diritto è, pertanto, condotta a collocare negli enunciati
normativi e nelle proposizioni normative gli elementi giuridici ultimi.
E�
possibile osservare quali effetti può avere nella teoria analitica del diritto
la crisi della proposizione come unità elementare di senso compiuto.
Della
crisi della proposizione i filosofi analitici italiani del diritto sono ben
consapevoli.
A
parte il riferimento esplicito a Quine e alla tesi che le proposizioni siano
qualificabili come vere o false solo come un insieme solidale, che troviamo in
Tarello, è sempre sembrato necessario sottoporre a revisione la teoria fregeana
della proposizione per adattarla al linguaggio in uso normativo.
Ne
risulta una crisi del modello ideale per cui ad ogni enunciato corrisponde una
proposizione.
Non
si tratta soltanto della constatazione che ad ogni enunciato può corrispondere
più di un significato proposizionale, cioè nel nostro caso più di una norma,
cosa che è ovvia nei linguaggi non tecnicizzati.
Bisogna
inoltre ammettere che il significato spesso per essere individuato ha bisogno
del collegamento tra una molteplicità di enunciati[79].
Questo
d�altronde è il senso dell�olismo, per cui i linguaggi sono comprensibili solo
in quanto totalità.
Se
nel discorso giuridico la compiutezza di senso non è fornita da ogni singolo
enunciato ma da grappoli di enunciati, allora è preferibile non parlare più di
proposizione� né di significato proposizionale,
il cui modello analitico semplice è il giudizio e riferirsi piuttosto ad una
totalità di senso.
Di
conseguenza anche il concetto di norma giuridica non può essere reso nei
termini della proposizione �analitica�, cioè quel reticolo di disposizioni che
riguardano una data materia giuridica e che Irti ben ha evidenziato nei micro-sistemi
normativi.
Sono
queste le unità di senso compiuto che costituiscono la spina dorsale dei
discorsi giuridici.
Insomma,
le disposizioni-norme singolarmente considerate non sono un microcosmo giuridico
significativo, cioè non hanno un�unità di senso giuridicamente compiuto né
realizzano un�autonoma unità giuridica di comunicazione.
D�altronde
la problematica giuridica ruotante intorno ai concetti di ordinamento, sistema,
struttura, coerenza e simili sta a testimoniare l�inadeguatezza dell�atomismo
analitico per la comprensione del linguaggio del diritto.
Concludendo
sull�argomento, l�unità minima di senso compiuto non può essere omologata sulla
base di considerazioni linguistiche astratte.
In
effetti ogni tipo di discorso ha una sua unità minima di senso.
Bisogna
vedere quale sia questa unità minima nel discorso giuridico senza cadere nella
tentazione di dedurla in base a ciò che debba essere nella prospettiva generale
dell�analisi linguistica.
La
rinuncia alla proposizione può però indurre ad abbandonare anche la
significazione piena per un rifugio nell�enunciato-disposizione con la sua
compiutezza grammaticale, anche se con la sua indeterminatezza interpretativa.
Ma
ciò vorrebbe dire che il senso cade fuori del linguaggio e che la comunicazione
resta sempre un ideale irraggiungibile, restando frammentata nella disarticolazione
di messaggi puntiformi al modo dei tradizionali �comandi giuridici�.
Nonostante
il fatto che Bobbio abbia fin dall�origine stabilito una stretta equazione tra
l�analisi del linguaggio legislativo e l�interpretazione giuridica, non si può
dire che il modello di teoria del diritto elaborato dalla filosofia analitica
italiana del diritto sia di tipo �interpretativo�[80].
Come
è noto, Dworkin, di cui parleremo nel capitolo seguente a proposito della
filosofia ermeneutica del diritto, ha contrapposto le teorie semantiche del
diritto alle teorie interpretative del diritto[81].
Le
teorie semantiche hanno come obiettivo l�individuazione preliminare di ciò su
cui deve esercitarsi l�interpretazione giuridica.
Prima
di interpretare bisogna sapere quali �cose� debbono essere interpretate, cioè
quale è l�oggetto su cui si esercita l�interpretazione.
Questo
oggetto finirà per essere ciò che c�è di certo e di stabile nel diritto e
quindi la base privilegiata della scienza giuridica.
Le
teorie interpretative, invece, non partono da �oggetti� prestabiliti, ma
considerano il diritto come una prassi interpretativa all�interno della quale
prendono corpo le consolidazioni giuridiche.
E�
infatti attraverso l�attività interpretativa che apprendiamo qualcosa come
diritto o appartenete al diritto.
Persino
i criteri della validità giuridica sono individuati attraverso l�attività
interpretativa.
La
filosofia analitica, sia nel suo orientamento formalistico sia in quello
sociologico, ha seguito di fatto la via delle teorie semantiche del diritto,
mentre è ovvio pensare che le propensioni della filosofia ermeneutica vadano
verso le teorie interpretative del diritto[82].
In
realtà la questione se all�origine stia l�attività interpretativa o il prodotto
dell�interpretazione è indicibile alla stessa maniera della questione del
potere o della norma.
L�approccio
analitico all�interpretazione giuridica è dettato dal sospetto.
Qui
agisce il pregiudizio illuministico, per cui ogni interpretazione è una
manipolazione o, comunque, un intervento esterno sul testo.
Per
la filosofia analitica del diritto c�è un oggetto che precede
l�interpretazione� e questo è
l�enunciato.
L�interpretazione
è quella attività diretta ad attribuire significati agli enunciati.
Essa
stessa si concreta in espressioni linguistiche, che a loro volta saranno
interpretate.
Tuttavia
vi sono enunciati da cui si parte e questi sono quelli presi come oggetto
dell�analisi linguistica.
Questi
enunciati non sono considerati come a loro volta risultato di attività
interpretative, ma sono enunciati originari.
Ciò
fa comprendere la preferenza accordata al linguaggio del legislatore.
Infatti
tutti gli altri linguaggi giuridici (quello del giurista e quello del giudice),
appaiono come derivati da attività interpretative.
L�idea
dell�individuazione di un plesso di enunciati giuridici originari è persistente
nella filosofia analitica del diritto.
Da
questi prende le mosse l�interpretazione giuridica.
Per
questo nella teoria della filosofia analitica italiana del diritto
l�interpretazione non è pienamente pervasiva, proprio perché all�origine c�è
sempre qualcosa che non è considerato come prodotto di attività interpretativa,
anche se ciò può dipendere dai punti di vista[83].
Nel
giuspositivismo classico si era cercato di ovviare a questo inconveniente
attraverso la dottrina dell�intenzione del legislatore, per cui l�enunciato
legislativo non è considerato come l�origine prima dell�attività
interpretativa, ma esso stesso come una emanazione di un intendere originario.
Così
l�interpretazione era vista come il comprendere un intendere originario, cioè
un significato precostituito.
Ma
questa dottrina è ormai giustamente abbandonata da tutti per il suo carattere
psicologistico e per i suoi esiti meccanicistici in campo interpretativo[84].
Una
volta reciso a monte il legame tra l�intenzione e l�enunciato legislativo si
procede ad eliminare ogni biunivocità tra enunciato e proposizione.
L�atto
di ascrizione del significato normativo all�enunciato viene visto, seguendo
Kelsen, come fondamentalmente decisionale piuttosto che cognitivo.
Poiché
l�interpretazione conduce nelle sabbie mobili dell�incertezza e della
manipolazione, la teoria semantica del diritto la rende inoffensiva,
rivolgendosi ad enunciati già interpretati e confinando la stessa attività
interpretativa nell�ambito del contesto di scoperta.
Come
ha a ragione notato Tarello, la proposizione non è guardata nell�ottica
dell�attività interpretativa dalla semantica logica, che considera l�enunciato
come già interpretato, cioè già collegato ad un suo significato[85].
Tuttavia,
almeno quando si tratta dell�individuazione delle proposizioni precettive, non
si può trascurare il ruolo attivo dell�interpretazione, poiché gli enunciati
interpretati come esprimenti precetti non hanno, secondo Tarello, riferimento e
quindi sono forniti solo di senso.
E�
pertanto la comprensione del senso, e non già il riferimento al mondo, che
decide del tipo di proposizione e quindi, di significato.
Il
concetto di proposizione (e di significato) cambia in base agli esiti della
interpretazione.
C�è
qui quel capovolgimento dei rapporti tra senso e referenza che si può
considerare come il punto cruciale intorno a cui ruota la possibile
convergenza� tra filosofia analitica ed
ermeneutica.
Potrebbe
sembrare che in tal modo l�interpretazione sia penetrata in tutta la profondità
del linguaggio.
Ma
non è così.
In
realtà nelle posizioni analitiche considerate il senso resta sempre qualcosa di
attribuito o ascritto ad espressioni linguistiche con operazioni estrinseche e
manipolazioni ideologiche.
L�analisi
distrugge ogni compenetrazione originaria tra espressione linguistica e suo
senso e separa ciò che secondo l�ermeneutica non deve essere diviso a pena di
entrare nel labirinto del fraintendimento.
La
filosofia analitica, nella misura in cui non riesce a sostituire il venire meno
dell�intenzione dell�emittente, crede inevitabile rinunciare alla
presupposizione di senso.
Infatti
sostenere che �il senso non può essere imputato ad altri che a colui che compie
la trasformazione in oggetto�, cioè nel nostro caso al giurista che argomenta o
al giudice che decide, ma non al legislatore o all�enunciante originario,
significa nella sostanza rifiutare il principio per cui �per trasformare le
parole in senso va presupposto un senso�[86].
Due
atteggiamenti teorici impediscono alla filosofia analitica italiana del diritto
di ammettere presupposizone di senso, che però sarà recuperata
contraddittoriamente per altra via.
Il
primo di essi è la persistente considerazione del senso nell�ottica del
significato proposizionale.
Il
secondo, strettamente collegato al primo, è la considerazione
dell�interpretazione giuridica come fondamentalmente diretta ad atti
linguistici individuali, in cui si percepisce come ancora operante il vecchio
modello del comando.
Così
il ben giustificato rifiuto di un �significato precostituito� è parso
comportare anche il rifiuto della presupposizione di senso, poiché non c�è una
unità linguistica superiore all�enunciato e alla proposizione.
La
concezione ermeneutica del discorso consente, invece, di cogliere questa
dialettica tra senso e significato.
L�atto
interpretativo di singole espressioni linguistiche presuppone già costituito il
linguaggio dell�interazione e si muove dentro un mondo già segnato dalla
reciprocità e dalla cooperazione e da un senso intersoggettivo contestuale, che
in qualche modo guida l�interprete e costituisce un vincolo nei confronti
dell�opera di ascrizione dei significati[87].
Bisogna
riconoscere che la filosofia analitica italiana del diritto è ben consapevole
di questa prospettiva.
Qui
basti pensare all�attenzione che Tarello ha rivolto alla �cultura giuridica� e
alla tesi di Scarpelli per cui una teoria generale dell�interpretazione deve
prendere le mosse dal concetto di �atto linguistico sociale�.
Tuttavia
a questo i filosofi analitici del diritto accedono non in quanto �analitici�,
ma in quanto �del diritto�.
E�
la pratica dell�interpretazione giuridica che non può fare a meno della
presupposizione di senso, non già il loro modo di intendere l�analisi
filosofica.
Pertanto
mancano gli strumenti teorici per spiegare quella pratica, manca una teoria
adeguata del discorso, si resta sospettosi nei confronti del senso nel timore
di evocare chissà quale entità spirituale.
Una
teoria interpretativa del diritto dovrebbe fare rientrare la presupposizione di
senso all�interno del linguaggio e della pratica giuridica.
Il
diritto è insieme ciò che si interpreta e la stessa attività dell�interpretare.
L�interpretazione
non è giuridica, perché si dirige a certi oggetti linguistici, ma al contrario
sono questi oggetti �giuridici�, perché appartengono a quella prassi
interpretativa che chiamiamo �diritto� in base alla sua unità di senso.
La
scienza e la teoria del diritto dipendono strettamente dal modo di concepire il
significato giuridico, e quindi, l�interpretazione del linguaggio giuridico[88].
E�
possibile insistere sulla differenza tra una concezione del linguaggio come
prassi interpretativa, cioè come legato indissolubilmente alla dimensione
dell�intendere e del comprendere, e una concezione meramente �enunciativa� del
linguaggio, per la quale il comportamento linguistico è un evento fattualmente
accertabile.
Si
è anche detto che la filosofia analitica è in grado di assumere la prima
concezione, anche se resta spiazzata nei confronti del fenomeno del
comprendere.
Ma
ora dobbiamo osservare quali effetti l�una e l�altra posizione hanno sulla� concezione della scienza giuridica[89].
Per
Giovanni Tarello, l�interpretazione è una traduzione, cioè una sostituzione di
enunciati con altri della stessa o di altre lingue.
A
questa tesi si può replicare che il significato non è l�enunciato sinonimo, ma la
relazione stessa di sinonimia, altrimenti di fronte ad enunciati sinonimi
espressi in lingue diverse avremmo tanti significati diversi, mentre il significato
è uno solo.
In
realtà il significato non può essere assorbito dall�enunciato, ma è la sua
comprensione.
La
preoccupazione di evocare in tal modo fatti o oggetti mentali è fuor di luogo,
perché la comprensione appartiene indissolubilmente alla pratica linguistica.
In
ogni caso tale preoccupazione non legittima un riduzionismo che impedisce di
rendere conto adeguatamente della significazione.
A
questo punto risulta decisivo discutere un aspetto che forse rappresenta il
minimo comune denominatore tra le concezioni della scienza giuridica dei
filosofi analitici italiani del diritto, cioè la sua dimensione
meta-linguistica.
Anche
qui bisogna risalire a Bobbio[90] e
alla sua tesi per cui la scienza giuridica è diretta all�analisi del linguaggio/discorso
prescrittivo del legislatore.
Così
essa si configura come �discorso sopra un discorso�, cioè un meta-linguaggio
descrittivo.
Questa
tesi ha funzionato come una precomprensione per i filosofi analitici del
diritto della sua scuola, i quali, per quanto possano dissentire� tra loro, assumono come indiscusso sia
l�aspetto meta-linguistico della scienza giuridica, sia la considerazione del
discorso legislativo come quello più tipicamente �giuridico�, riguardando esso
le fonti del diritto.
Il
primo aspetto appare legato a posizioni filosofico - analitiche generali,
mentre il secondo riguarda il diritto.
La
prima è una tesi filosofica e la seconda una tesi ideologica, o comunque,
culturalmente determinata.
La
teoria dei livelli di linguaggio appare essenziale alla filosofia analitica
d�ispirazione neopositivistica, perché essa consente di assumere il linguaggio
come oggetto di descrizione allo stesso modo dei fatti osservabili.
Per
mantenere la differenza dei linguaggi è necessario che essi siano concepiti
come mondi chiusi e che il linguaggio superiore si limiti a descrivere i
significati già presenti nel linguaggio-oggetto senza introdurre alcun proprio
rapporto.
Tuttavia
questa esigenza si scontra con un�altra, ugualmente appartenete alla tradizione
analitica, cioè con quella della terapia linguistica.
Nessuna
terapia ha un carattere descrittivo, ma ognuna si concreta in un intervento sul
soggetto malato.
A
questo punto è difficile distinguere quando l�intervento del meta-linguaggio è
una semplice purificazione del linguaggio-oggetto e quando è una sua vera e
propria trasformazione e manipolazione.
Ma
esiste poi differenza tra purificazione e trasformazione del linguaggio?
Spesso
le trappole linguistico-concettuali consistono nel passaggio indebito da un
livello ad un altro, sia esso inconsapevole o fraudolento[91].
Ci
sarà bisogno, allora, di un terzo livello di linguaggio (un
meta-metalinguaggio) che assuma la funzione di giudice delle relazioni tra i
due livelli inferiori.
Guastini[92] ha
efficacemente dimostrato che la posizione di Bobbio, che è volta a limitare
solo a due i �livelli del linguaggio
concernenti il diritto (quello del legislatore e quello della giurisprudenza
nella duplice veste di dogmatica e di teoria formale), è insostenibile, in
quanto la scienza giuridica manipola apertamente il suo oggetto, quando ad
esempio introduce norme implicite o elimina norme esplicite.
Ciò
significa che la scienza giuridica non si comporta da vero e proprio
meta-linguaggio e si confonde spesso con il linguaggio-oggetto del legislatore.
Sarà
allora necessaria una ulteriore moltiplicazione dei livelli linguistici.
Si
tratta di aggiungere un nuovo piano nell�edificio dei linguaggi attinenti al
diritto, un meta-metalinguaggio che prenda ad oggetto direttamente il
linguaggio del giurista e questo è costituito dalla teoria analitica del
diritto.
Questa
soluzione appare più conforme alla differenza tra filosofia e scienza, così
come è concepita dalla tradizione analitica.
Ma
anche essa è, almeno in campo giuridico, logicamente insostenibile.
Infatti
la teoria dei tre livelli di linguaggio richiede che il secondo (quello per
intenderci, della scienza giuridica) sia considerato un vero e proprio
meta-linguaggio.
Ma
esso lo è solo molto imperfettamente.
Di
fatto tra scienza giuridica e diritto c�è un intreccio inestricabile[93].
Se
i compiti del giurista sono quelli descritti da Bobbio, il suo linguaggio non
solo purifica, ma anche completa, corregge, accresce, determina, cioè in una
parola prosegue quello del legislatore.
E�
impossibile, allora, il compito del terzo livello linguistico, che è quello di
ben separare il linguaggio del giurista da quello del legislatore, a meno che
la meta-giurisprudenza, cioè la teoria analitica del diritto, non assuma
contraddittoriamente una dimensione prescrittiva.
L�alternativa,
già chiaramente delineata da Bobbio, è dunque quella tra una
meta-giurisprudenza prescrittiva, non sappiamo quanto analitica, che fa
violenza alla prassi effettiva della scienza giuridica, e una
meta-giurisprudenza descrittiva che non è in grado di distinguere tra scienza e
diritto, venendo meno all�originario suo compito analitico.
Si
può concludere tale discorso sottolineando che, almeno in materia giuridica,
sia consigliabile abbandonare la teoria dei livelli di linguaggio.
D�altronde,
sotto questo aspetto, il linguaggio giuridico si comporta come un linguaggio
naturale, che è al tempo stesso linguaggio-oggetto e il proprio
meta-linguaggio.
Esso,
in quanto si riferisce all�intero ambiente di una certa comunità, deve
necessariamente riferirsi anche a se stesso[94].
Se
al posto del linguaggio analitico mettiamo il linguaggio ermeneutico, la
possibilità di distinguere tra i differenti modi di articolare un discorso
giuridico riguarda il problema della sua applicazione.
Ogni
discorso giuridico è una applicazione del diritto e questo non esiste al di
fuori delle sue innumerevoli applicazioni.
Della
concezione ermeneutica del meta-linguaggio parleremo nel capitolo successivo.
Hart e la filosofia analitica del
linguaggio ordinario
All�interno
di queste ultime, infatti, ci si era mossi nell�orbita del neopositivismo,
anche se sotto due differenti interpretazioni.
Nel
caso di Hart, invece, il panorama filosofico cambia profondamente, perché entra
prepotentemente in scena una nuova concezione della filosofia analitica, quella
che per adesso, con qualche approssimazione, possiamo chiamare filosofia
analitica del linguaggio ordinario.
Si
tratta di un momento di rottura anche nei confronti delle concezioni
prescrittivistiche, che peraltro si sviluppano contemporaneamente a quella.
E�
pur vero che le concezioni prescrittivistiche allargano l�ambito dell�indagine
rispetto a quello su cui verte lo strict positivism, occupandosi anche di
linguaggi diversi rispetto al linguaggio descrittivo della scienza; ma esse,
tuttavia, lo fanno utilizzando le stesse tecniche e ponendosi gli stessi
obiettivi[96].
In
particolare il modello di analisi linguistica che si afferma con Hart è orientato
ad individuare i vari usi delle espressioni filosoficamente rilevanti nei
contesti ordinari dei multiformi �giochi linguistici� in cui esse vengono di
volta in volta enunciate, rintracciando le regole e le funzioni che sovraintendono
al loro uso �tipico� ed è orientato ad eliminare le distorsioni e
fraintendimenti che derivano da un uso non appropriato delle parole, ad esempio
un uso che la proietta al di fuori del contesto cui normalmente appartengono.
Hart
non trascura le rilevanti differenze fra la tradizione di ricerca oxoniense,
che fa capo ad Austin, e quella che fa riferimento al lavoro del �secondo Wittgenstein�,
ma preferisce mettere in evidenza gli aspetti in comune.
La
teoria hartiana del diritto si iscrive nell�orbita del positivismo giuridico
normativistico, e in particolare in quella tradizione di ricerca del giuspositivismo
che è costituita dalla Analytical Jurisprudence di Bentham ed Austin.
A
differenza di Bobbio e Scarpelli, Hart non si interessa della questione della
�scientificità� della dogmatica giuridica, e non solo perché siffatta attività,
in un sistema� di case law quale è quello
inglese, ha caratteristiche assolutamente differenti rispetto a quelle
possedute dalla dogmatica �di casa nostra�; ma anche perché, dal punto di vista
della sua impostazione giusfilosofica, la questione non è più quella di vedere
se il lavoro degli studiosi del diritto (giuristi o teorici che siano) è
accostabile a quello degli scienziati naturali, ma quello di accertare se le
loro affermazioni hanno un valore conoscitivo, e dunque riescono a rendere
conto, in modo veritiero di alcuni aspetti importanti della esperienza
giuridica.
Interpretata
in termini semantici, la domanda che Hart si pone è: quali sono le condizioni
di verità degli asserti espressi dal teorico del diritto relativi
all�esistenza, all�interno di un certo gruppo di persone, di regole e non già
di mere abitudini?
La
risposta è che la condizione fondamentale per la veridicità di tali �asserti su
regole� è data dall�accertamento della presenza, in una parte sufficientemente
rappresentativa dei membri del gruppo sociale in questione, di quello che egli
chiama punto di vista interno, e cioè una sorta di atteggiamento
critico-riflessivo che consiste nell�accettazione del modello di comportamento previsto
dalla regola come criterio per la propria e per l�altrui condotta.
Secondo
Hart, dunque, la teoria del diritto è in grado , a queste condizioni, di
offrire conoscenze affidabili sull� �oggetto� diritto e in primo luogo di fare
affermazioni con valore di verità sull�esistenza di regole[97].
Va
chiarito che il punto di vista interno non rappresenta, per Hart, un momento
insondabile della vita interiore delle persone; di esso, al contrario, si può
rendere conto �dall�esterno�, da parte cioè di osservatori interessati a
comprendere l�attività di rule following che si svolge all�interno del gruppo
in questione.
Gli
elementi di cui è composto il �punto di vista interno� sono infatti accessibili
alla osservazione.
Tali
elementi costitutivi sono: il fatto che le deviazioni sono considerate dai
membri del gruppo errori o colpe meritevoli di critica; il fatto che la deviazione
dal modello viene considerata, sempre dai membri, una buona ragione� per svolgere questa critica, che è dunque
considerata giustificata; il fatto che le idee sulla correttezza del modello di
comportamento richiesto si manifestano concretamente nelle critiche ai �non
osservanti�, nelle generalizzate �richieste di conformità�, nel riconoscimento
della legittimità delle critiche� e si
esplicano, sul piano linguistico, attraverso l�uso di enunciati contenenti
espressioni normative.
Le
tesi di Hart sul punto di vista interno, insieme ai loro corollari e �alle loro implicazioni, hanno suscitato un
numero infinito di discussioni critiche.
Ma
l�idea veicolata attraverso questa tesi troverà poi molta fortuna in teorie
successive, sia sul versante della filosofia del diritto analitica che su
quello della filosofia ermeneutica.
In
sostanza, la teoria di Hart ci dice che l�esistenza di una regola è un processo
che passa attraverso più mani e che trova un contributo necessario e
decisivo� ad opera dei partecipanti, cui
si richiede non già un ruolo passivo di �semplici osservanti�, ma un ruolo
attivo di soggetti che �accettano e usano
collettivamente la regola.
Non
c�è bisogno di sottolineare ulteriormente il cambiamento di prospettiva che
viene stimolato da queste considerazioni: quello che si propone, in altri
termini, è il passaggio da concezioni oggettualistiche del diritto, che vedono
il diritto come un insieme di oggetti, a concezioni anti-oggettualistiche, che
guardano al diritto innanzitutto come ad un insieme di attività sociali,
relative alla interpretazione, alla applicazione e all�uso sociale di regole
giuridiche.
Circa
l�analisi dei concetti giuridici teorizzata e praticata da Hart[98], ci soffermeremo
in particolare su tre tesi, che sono in qualche modo collegate tra di loro, sì
da costituire tre passaggi in sequenza del modello di analisi concettuale
suggerito dall�autore inglese: la tesi del significato come uso, la tesi che
critica il modello di definizione per genus et differentiam come punto di
partenza per la costruzione di una teoria giuridica che propone quantomeno
embrionalmente un modello alternativo, la tesi che postula la struttura aperta del
linguaggio giuridico.
Secondo
Hart, per definire e analizzare i concetti giuridici e in primo luogo il
concetto di �diritto�, non bisogna mettersi alla ricerca di connessioni, più o
meno dirette, dei termini che li connotano con la �realtà esterna�, ma,
piuttosto, sforzarsi di analizzare gli enunciati in cui essi ricorrono,
esaminando i modi in cui tali enunciati sono utilizzati.
Ad
esempio, l�analisi della nozione di �diritto soggettivo� non va sviluppata
cercando di scoprire i supposti fatti cui essa fa riferimento, ma piuttosto,
esaminando l�uso cui sono sottoposti gli enunciati nei quali essa ricorre, ad
esempio �x ha un diritto�.
E�
proprio l�indagine sull�uso a rivelare le condizioni in cui tale enunciato è
proferito� in modo appropriato.
Tra
tali condizioni vi è certamente quella relativa all�esistenza di regole facenti
parte di un ordinamento giuridico, che prevedono che altre persone, rispetto a
�X�, sono obbligate a compiere certe azioni, in dipendenza di una scelta fatta
da �x�[99].
Quanto
alla critica del modello di definizione per genus et differentiam, l�abbandono
del modello referenzialistico non costituisce, ad avviso di Hart, una sicura
garanzia contro la permanenza di posizioni essenzialistiche, in questo caso di
posizioni secondo cui la definizione deve preoccuparsi di identificare l�unico
uso corretto del definendum, attraverso l�individuazione di un insieme di
condizioni necessarie e sufficienti.
Contro
tale impostazione Hart[100]
rileva che la giustificazione per applicare espressioni generali come quelle
che connotano i concetti giuridici non risiede, nella maggior parte dei casi,
nella conformità a condizioni che ritagliano una categoria generale (il genus)
in cui inserire i concetti in questione, sulla base di caratteristiche in
comune possedute con altri concetti e che poi da essa ricavano una singola
species, sulla base di caratteristiche differenziali.
Il
punto importante che qui vuole sottolineare Hart è che, nel caso del diritto,
manca proprio questa categoria generale e dunque non è possibile rinvenire una
caratteristica comune che sia posseduta da tutte le varie regole, provenienti
dagli ambiti più diversi.
In
questi casi, in realtà, le diverse istanze di un termine generale sono
piuttosto legate insieme da �somiglianze di famiglia� e dunque dalla presenza
di proprietà non transitive.
Nel
caso delle regole giuridiche, in particolare, ci sono senz�altro delle istanze
centrali chiare (i casi paradigmatici) delle quali nessuna persona mediamente
colta negherebbe l�appartenenza alla categoria della �regola giuridica�; ma vi
sono anche dei casi dubbi, per i quali l�appartenenza alla categoria è
seriamente in discussione.
La
conclusione, gravida di conseguenze importanti, è che in tali casi avrebbe poco
senso, dal punto di vista teorico, fornire una definizione che si limiti a
descrivere gli usi correnti, registrando gli accordi e i disaccordi; quello che
ci vuole, invece, è una definizione costruttiva, che riesca a rispecchiare
l�accordo sui casi chiari, ma anche a fornire un modello in grado di far luce
sui casi dubbi, demarcando e classificando l�intero ambito di esperienza cui si
dà il nome di �diritto�.
In
altri termini ci vuole una vera e propria teoria delle regole[101].
Con
il terzo passaggio della sua proposta di analisi concettuale delle nozioni
giuridiche Hart fornisce una giustificazione filosofica unitaria delle sue tesi
precedenti.
Nel
capitolo di �The Concept of Law� dedicato alla interpretazione giuridica Hart
espone la tesi sulla struttura aperta del linguaggio giuridico, rimarcando che
in tutti i campi di esperienza� e quindi
non soltanto in ambito giuridico, vi è un limite alla guida che il linguaggio
stesso può offrire, quando impiega termini generali.
Il
motivo principale di ciò, prosegue Hart, è dovuto al fatto che noi abbiamo una
conoscenza soltanto parziale dei fatti, e che i nostri scopi sono relativamente
indeterminati.
Ad
esempio, nel formulare regole generali ci è precluso prevedere ogni possibile
combinazione di circostanze che possa verificarsi in futuro.
Per
ogni regola potrà pur sempre capitare che ci sia qualche situazione fattuale
nella quale la questione se la specifica situazione cada o meno nel suo spettro
di applicazione non può essere risolta con l�appello a convenzioni linguistiche
o a regole di interpretazione.
Il
punto[102] cui qui vuole arrivare
Hart concerne la teoria dell�interpretazione giuridica, e in particolare la
tesi secondo cui, quando si abbandonano i casi chiari di applicazione delle
regole, per raggiungere i casi situati nella �zona di penombra�, allora vi è
ampio spazio per l�attività discrezionale dei giudici.
Infine,
quanto ai valori che orientano queste opzioni teoriche, va detto che
l�attenzione di Hart si concentra, a differenza che per Ross e per Scarpelli,
sull�esigenza che le norme giuridiche vengano adattate, in modo flessibile,
alle multiformi e sempre nuove richieste di regolamentazione che emergono dai
casi concreti.
Così
come per Ross, anche per Hart i giudici rappresentano il perno del sistema
giuridico, ma con la differenza fondamentale che il primo privilegia i comuni
aspetti psico-sociali� dei loro
comportamenti decisionali, mentre il secondo ne mette in evidenza la
condivisione� di giudizi normativi
all�interno di pratiche sociali dotate di una forte proiezione linguistica.
In
ogni caso, si può dire che l�equità del caso concreto, più che la certezza o
l�efficienza, sia per Hart l�esigenza più importante; ed è un obiettivo che i
giudici possono raggiungere adattando poco per volta il linguaggio generale e
astratto delle regole giuridiche ai casi concreti.
[1] Confronta sul tema Vittorio Villa, �La metagiurisprudenza analitica e la dicotomia descrittivo / prescrittivo� in �Studi in memoria di Giovanni Tarello. II: Saggi teorico-giuridici� Giuffrè, Milano, 1990.
[2] Cfr. Vittorio Villa, �Tre tradizioni� in �Storia della filosofia analitica�, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pag. 358.
[3] Tradizione di ricerca nata agli inizi del Novecento, dal lavoro filosofico di Hagerstrom ed annovera tra i suoi principali esponenti anche Lundstedt ed Olivecrona.
[4] Cfr. Vittorio Villa, �Ross e lo strict positivism� in �Storia della filosofia analitica�, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pag. 360.
[5] Locuzioni utilizzate per distinguere questa prima rigida versione del neopositivismo da un�altra, più aperta e liberale, che si sarebbe sviluppata in seguito e che è stata etichettata come �positivism in a broad sense� o �broad positivism�.
[6] Del 1958.
[7] Confronta sul tema Hans Kelsen, �Dottrina pura del diritto� tradotto da Losano, Einaudi, Torino, 1966.
[8] Lo schema offerto da Ross è �A (assertion) = D is� valid� law�.
[9] Cfr. Vittorio Villa, �La dogmatica giuridica come scienza sociale empirica� in �Storia della filosofia analitica�, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002, pag. 363.
[10] Confronta sul tema L. Bagolini, �La scelta del metodo in giurisprudenza�, in �Rivista trimestrale di diritto e procedura civile�, 1957.
[11] Cfr. Vittorio Villa,
�L�analisi dei concetti giuridici� in ultima opera citata pag. 366.
[12] �Confronta sul
tema Alf Ross, �On law and justice�, 1958.
[13] Cfr. Mario Jori, �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, �il paragrafo �Quale è la collocazione della filosofia analitica italiana del diritto nell�ambito del movimento analitico?� di Francesco Viola, �Giappichelli, Torino, 1994, pag. 68.
[14] Vedi Carnap, pag. 12 e 13.
[15] Vedi� Wittengstein, Ryle ed Austin,� pag. 8 e ss.
[16] Cfr. ultima opera citata pag. 70.
[17] Cfr. Mario Jori, �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto�, �il paragrafo �Quale è l�atteggiamento della filosofia analitica italiana del diritto nell�ambito del movimento analitico?� di Francesco Viola, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 71.
[18] Cfr. Norberto Bobbio, �Teoria della scienza giuridica�, Giappichelli, Torino, 1950, �pag. 169.
[19] Cfr. A. Baratta, �Il positivismo e il neopositivismo� in �La filosofia del diritto nel secolo ventesimo�, Giuffrè, Milano, 1977, pag. 19.
[20] Tra questi c�è Francesco Viola.
[21] Cfr. Luigi Ferrajoli, �Alle origini della filosofia gius-analitica italiana� in �La cultura giuridica nell�Italia del Novecento�, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag. 83.
[22] (1909).
[23] (deceduto).
[24] Cfr. Norberto Bobbio, �Scienza del diritto e analisi del linguaggio� in �Rivista trimestrale di diritto e procedura civile�, 1950.
[25] Confronta sul tema Uberto
Scarpelli, �Il linguaggio del diritto�, Led, Milano, 1994, pag. 95 e ss.
[26] Cfr. Luigi Ferrajoli, �La
cultura giuridica nell�Italia del Novecento�, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag.
86.
[27] Confronta sul tema E. Oppenheim, �Outline of a
logical Analysis of Law�, 1944 e cfr, Glanville Williams, �The Controversy
Concerning the Word Law�, 1945.
[28] Confronta sul tema M. Cattaneo, �Il concetto di diritto�, Einaudi, Torino, 1965.
[29] Cfr. Uberto Scarpelli, �Diritto e analisi del linguaggio�, Ed. di comunità, Milano, 1976, introduzione, pag. 10.
[30] Confronta sul tema �Mario Jori, �Uberto Scarpelli, giurista e filosofo� in �Rivista internazionale di Filosofia del Diritto�, 1994, numero 2, pag. 181 e ss.
[31] Confronta sul tema Giovanni Tarello, �Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto�, Il Mulino, Bologna, 1976.
[32] Cfr. Mario Jori, �Definizioni giuridiche e pragmatica� in �Analisi e diritto�, 1995, pag. 123.
[33] Cfr. Mario Jori, �Il giuspositivismo italiano prima e dopo la crisi�, Giappichelli, Torino, 1987, �Introduzione�, pag. 4.
[34] E� questa l�interpretazione del dissenso tra Bobbio e Scarpelli� e della crisi del giuspositivismo analitico italiano avanzata da Enrico Pattaro, in �Il positivismo giuridico italiano dalla rinascita alla crisi�, 1972, pag. 465 e ss.
[35] Confronta sul tema Letizia Gianformaggio, �Studi sulla giustificazione giuridica�, Giappichelli, Torino, 1986.
[36] Confronta sul tema Riccardo Guastini, �Lezioni di teoria analitica del diritto�, Giappichelli, Torino, 1982.
[37] Confronta sul tema Paolo Comanducci,�Assaggi di metaetica� , Giappichelli, Torino, 1992� e �Assaggi di metaetica due�, Giappichelli, Torino, 1998.
[38] Cfr. Luigi Ferrajoli,�Sviluppo e crisi del giuspositivismo analitico italiano� in �La cultura giuridica nell�Italia del Novecento�, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag. 96.
[39] Confronta sul tema Enrico Pattaro, �Il positivismo giuridico italiano�, 1972, pag. 163.
[40] Cfr. Mario Jori, �Il giuspositivismo analitico italiano prima e dopo la crisi�, Giappichelli, Torino, 1987, pag 64 e ss.
[41] Cfr. Anna Pintore and Mario Jori, �Law and
Language. The
[42] Vedi pag. 69.
[43] Vedi pag. 69.
[44] Cfr. Anna Pintore,
�Introduzione� in �La teoria analitica dei concetti giuridici�, Jovine, Napoli,
1990, pag. 3.
[45] Confronta sul tema
Letizia Gianformaggio, �Etica e diritto�, Angeli, Milano, 1986.
[46] Confronta sul tema Luigi
Ferrajoli, �Diritto e ragione�, Laterza, Roma-Bari, 1989.
[47] Cfr. Anna Pintore and Mario Jori,
�Law and Language. The
Deborah
Charles Publications, 1997, �Introduction� by Anna Pintore, pag. 8.
[48] Cfr. ultima opera citata pag. 10.
[49] Confronta sul tema
Giovanni Tarello, �Diritto, enunciati, usi�, Il Mulino, Bologna, 1974, pag. 76
e ss.
[50] Cfr. ultima opera citata pag. 12.
[51] Confronta sul tema Lombardi Vallari, �Corso di filosofia del diritto�, CEDAM, Padova, 1981.
[52] Confronta Norberto Bobbio, �Scienza del diritto e analisi del linguaggio�, 1950.
[53] Cfr. ultima opera citata
pag. 13.
[54] Confronta sul tema R.M. Hare, �The Language of
morals�, O.U.P.,
[55] Cfr. Anna Pintore and Mario Jori, �Law and
Language. The
[56] Confronta sul tema Riccardo Guastini e Paolo Comanducci, �Analisi e diritto�, Il Mulino, Bologna, pubblicati a partire dal 1990.
[57] Cfr. Vittorio Villa, �La Scuola analitica italiana e il broad positivism� in �Storia della filosofia analitica�, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pag. 369.
[58] Cfr. Francesco Viola, �La tradizione della filosofia analitica italiana del diritto� in raccolta di Mario Jori, Giappichelli,Torino, 1994, �pag. 80.
[59] Vedi pag. 24.
[60] Cfr. ultima opera citata
pag. 81.
[61] Confronta sul tema Mario
Jori, �Tendances en semiotique juridique�, in �Revue internazionale de
Semiotique Juridique� , 1989, pag. 277 e ss.
[62] Confronta sul tema
Landesmann, �The Dualism in the Philosophy of mind�, in �Review of Metaphysics�,
1965, pag. 324 � 349.
[63] Vedi pag. 62 e ss.
[64] Cfr. Uberto Scarpelli, �Contributo alla semantica del linguaggio normativo�, pag. 90.
[65] Cfr. Francesco Viola, �Le funzioni del linguaggio� in raccolta di M. Jori, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 83.
[66] Cfr. Umberto Eco, �Trattato di semiotica generale�, Bompiani, Milano, 1975, pag. 221.
[67] Vedi la distinzione tra uso del linguaggio come forma di dominio o come forma di servizio in Gadamer, �Verità e metodo�, a cura di Gianni Vattimo, Bompiani, Milano, 1983, pag. 362.
[68] Cfr. Uberto Scarpelli, �L�etica senza verità�, Il Mulino, Bologna, 1982, pag. 32.
[69] Confronta sul tema Riccardo Guastini, �Problemi di teoria del diritto�, Il Mulino, Bologna, 1980, pag. 10 e ss.
[70] Cfr. Francesco Viola, �Le
funzioni del linguaggio�, in raccolta di M.Jori, Giappichelli, Torino, 1994,
pag. 86.
[71] Confronta sul tema
Davidson, �Truth and Meaning�, 1984, pag. 17 � 36.
[72] Confronta sul tema Uberto Scarpelli, �L�etica senza verità�, Il Mulino, Bologna, 1982, pag. 16.
[73] Cfr. ultima opera citata pag. 87.
[74] Confronta sul tema �S.C.Levinson, �La pragmatica�, a cura di M. Bertuccelli Papi,� Il Mulino, Bologna, 1985, pag. 25.
[75] Cfr. ultima opera citata pag. 88.
[76] Cfr. Uberto Scarpelli, �Semantica giuridica�, Il Mulino, Bologna, pag. 998.
[77] Cfr. Francesco Viola, �Il primato della norma-proposizione�in raccolta di M. Jori, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 90.
[78] Cfr. Norberto Bobbio, �Teoria della norma giuridica�, Giappichelli, Torino, 1958, pag. 75.
[79] Confronta sul tema Norberto Bobbio, �Scienza del diritto e analisi del linguaggio�, De Silva, Torino, 1950, pag. 45.
[80] Cfr. Francesco Viola, �La teoria dell�interpretazione� in raccolta di M. Jori, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 93.
[81] Confronta sul tema D.
Dworkin, �Law�s Empire�, Fontana Press, 1986, pag. 32 e ss.
[82] Cfr. Francesco Viola, �Il diritto come pratica sociale�, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 25.
[83] Cfr. Francesco Viola, �La teoria dell�interpretazione� in raccolta di M. Jori, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 93.
[84] Cfr. Norberto Bobbio, �Il positivismo giuridico� Giappichelli, Torino, 1979, pag. 284 � 285.
[85] Cfr. Uberto Scarpelli, �L�interpretazione. Premesse alla teoria dell�interpretazione giuridica�, in �Società, norme e valori�, a cura di Scarpelli e Tomeo, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 145.
[86] Cfr. Letizia Gianformaggio, �Dalla semantica alla interpretazione dei precetti� in �L�opera di Giovanni Tarello�, pag. 61.
[87] Cfr. Francesco Viola, �Il diritto come pratica sociale�, Giuffrè, Milano, 1990, pag. 156.
[88] Cfr. Francesco Viola, �La scienza giuridica come metalinguaggio� in raccolta di M. Jori, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 98.
[89] Confronta sul tema Riccardo Guastini, �Lezioni di teoria analitica del diritto�, Giappichelli, Torino, 1982, pag. 27.
[90] Cfr. Norberto Bobbio, �Teoria della scienza giuridica�, Giappichelli, Torino, 1950, pag. 161.
[91] Cfr. Riccardo Guastini, �Lezioni sul linguaggio giuridico�, Giappichelli, Torino, 1985, pag. 95.
[92] Confronta sul tema Riccardo Guastini, �I giuristi alla ricerca della scienza (rileggendo Bobbio)�, in �Rivista internazionale di Filosofia del Diritto�, 1987, pag. 179 e ss.
[93] Confronta sul tema Francesco Viola, �Autorità e ordine del diritto�, Giappichelli, Torino, 1987, seconda edizione.
[94] Per le diverse definizioni di meta-linguaggio e i suoi rapporti con la scienza giuria si vedano anche le pagine di Letizia Gianformaggio, in Mario Jori, �Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto,�, Giappichelli, Torino, 1994, pag. 183 e ss.
[95] Cfr. Vittorio Villa, �Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo. Lezioni di filosofia del diritto�, Giappichelli, Torino, 1993, pag. 65.
[96] Cfr. ultima opera citata pag. 66.
[97] Cfr. Vittorio Villa, �Costruttivismo e teorie del diritto�, Giappichelli, Torino, 1999, pag. 243.
[98] Cfr. Vittorio Villa, �Teoria della scienza giuridica e teoria delle scienze naturali. Modelli e analogie�, Giuffrè, Milano, 1984, pag. 56.
[99] Cfr. ultima opera citata pag. 57.
[100]
Confronta sul tema C.B. Gray, �Positivism, Legal. The Philosophy of Law. An Encyclopedia�,
[101] Confronta sul tema� Hart, �The concept of Law�.
[102] Confronta sul tema Letizia Gianformaggio, �Garantismo e verificazionismo. Validità e vigore� in �Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli�, Giappichelli, Torino, 1993.