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04 - L'ALLEGRO PAPATO DELLA RINASCENZA


Imperversò il nepotismo. Qui Sisto IV con i nipoti. Ma Alessandro VI (Borgia) fece di peggio.

Da tempo il papato era ritornato da Avignone a Roma. La cristianità ed i romani avevano ardentemente reclamato questo ritorno, e, quando l'insistenza degli oppositori riuscì a provocare lo scisma del 1378, i francesi e i tedeschi si affaticarono a ripristinare l'unità della Chiesa sotto un papa romano. E l'unico grande risultato del concilio di Costanza fu che al posto di tre papi avversi l'uno all'altro ne venne eletto uno solo, Martino V. Questo romano della famiglia Colonna nel 1418 poté far nuovamente il suo ingresso nell'antica residenza del papato.

Ciò ebbe per conseguenza che il papato si trovò ricondotto in mezzo ad un movimento culturale, che si era sviluppato in un periodo fortunato di libertà dal dominio di papi ed imperatori, ma in ultima analisi era animato dallo stesso spirito del papato.
Da secoli l'idea del papato era andata strettamente congiunta a tutti i movimenti nazionali dell'Italia, e spesso ne era stato il principale esponente. Ai tempi dell'esilio avignonese (1309-1376) era proprio alla curia dei papi che si era verificato il contatto e lo scambio della cultura italiana e della cultura francese, così profittevole allo sviluppo intellettuale, e gli effetti ne erano stati evidenti.
In nessun altro luogo si potevano trovare tanti chierici nello stesso tempo, e quindi tanti letterati; in nessun altro luogo, dopo l'estensione data dalla curia al suo sistema di imposte e di tasse, vi era un paragonabile movimento d'affari e di denaro; in nessun altro luogo l'interesse per le lettere e per le arti era così antico e così consono all'indole stessa dell'autorità spirituale dei papi.
E quindi da tempo nell'esercito degli scrivani, notari, segretari della curia, e fra i suoi prelati e cardinali avevano germogliato e messo radici tendenze umanistiche ed antiche. Si era edificato, dipinto, rimato e studiato già ad Avignone; e tanto più lo si fece a Roma, dove lo stesso ambiente offriva sempre nuovi e numerosi incentivi.

Ma a Roma il papato dovette pure lottare con nuove difficoltà e resistenze, ed il lento penetrare dello spirito politico del rinascimento nella mentalità dei curiali e dei papi generò nuovi problemi politici, che richiesero nuove soluzioni. Solo dall'influsso combinato delle antiche tradizioni del papato, del nuovo spirito della cultura italiana, degli stimoli dell'ambiente di Roma, delle lotte per la restaurazione dello Stato della Chiesa, e delle difficoltà offerte dalle relazioni politiche con gli Stati italiani e con le potenze straniere, come la particolare figura del papato del rinascimento, che ben presto assunse un posto preminente nel suo sviluppo ed esercitò su di esso una profonda influenza.

Il disfatto dominio dello Stato della Chiesa, il quale, secondo antichi e controversi privilegi imperiali, doveva estendersi diagonalmente attraverso l'Italia Centrale da Roma sino alle foci del Po, dovette essere ricostituito e mantenuto con i mezzi usuali in quest'epoca, cioè l'astuzia politica e la spada di brutali condottieri; i papi inermi più d'una volta ebbero a tremare di fronte alle pretese di questi capi di bande armate o di cardinali legati in armatura di guerra; e quasi immutata perdurava inoltre l'ostinata indocilità del popolo di Roma, nel quale, non diversamente che ai tempi di Arnaldo da Brescia (m. nel 1155) e di Cola di Rienzi (m. 1354), le antiche tradizioni mantenevano sempre vivo un pizzico di spirito rivoluzionario repubblicano.

I primi pontificati del XV secolo furono completamente immersi in simili angustie e difficoltà; tuttavia le loro ripercussioni sul carattere politico del papato non si manifestarono che a lunga scadenza, e non è con l'attività politica ma con l'opera svolta a favore delle lettere e delle arti che il papato si segnala al suo primo apparire sulla scena del Rinascimento.

Già sotto il pontificato di Eugenio IV (1431-47) comincia l'immigrazione su vasta scala di artisti e letterati a Roma, e, sebbene Eugenio sia stato costretto a rimanere per molti anni lontano da Roma, trasferendo la sua corte a Firenze, dove svolse le trattative unioniste con i Greci, tuttavia appunto a Firenze la sua corte subì l'influenza dell'ambiente e si imbevve fortemente delle idee e tendenze umanistiche dominanti; di modo che non desta sorpresa che dopo la sua morte il collegio dei cardinali abbia elevato alla tiara proprio un autorevole umanista nella persona di Nicolò V.

Egli non era né principe né figlio di principi; tutt'altro; era anzi di modesta origine borghese, e la sua elevazione fu piuttosto uno schietto fenomeno della rinascenza, in quanto si volle in lui onorare la dottrina e la svariata cultura intellettuale come era intesa a quei tempi.
Nicolò V non era invano vissuto lungamente a Pisa ed a Firenze, dove aveva veduto che cosa possono compiere dei grandi signori illuminati per le lettere e per l'erezione di magnifiche opere architettoniche. Ond'é che il già così povero Tommaso Parentuccelli, divenuto papa, progettò con l'aiuto di Leon Battista Alberti una vasta opera edilizia che nientemeno doveva rinnovare l'intera città Leonina: strade, mura, torri, la basilica di S. Pietro e i sacri palazzi.

E per lo meno iniziò l'opera; tanto che ancora oggi noi possiamo vederne un residuo, la piccola cappella di Nicolò V coi commoventi affreschi del Beato Angelico. La biblioteca vaticana onora in Nicolò V il suo vero e proprio fondatore, e l'elenco dei suoi libri personali dimostra quanto gli stessero a cuore i classici e quanto attaccamento avesse per loro.

Dopo di lui si ebbe una sosta, perché lo spagnolo papa Calisto III si mostrò poco amico della nuova cultura: ma appunto per questo parve tanto più splendido il trionfo quando a soli tre anni di distanza salì al seggio di S. Pietro Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, un umanista, sebbene dotato di qualità del tutto diverse da quelle di Nicolò V.

E se anche il pontificato di questo papa Pio II non corrispose a tutte le speranze che molti avevano riposte in lui, tuttavia é un fatto significativo che abbia ottenuto la suprema dignità spirituale un uomo di simil genere e di così discutibile passato. Enea Silvio era il perfetto umanista modellato sugli antichi, poeta e storico, ma nel tempo stesso uomo d'azione e uomo politico di rara perizia e duttilità. Egli impersona il carattere dell'ambiente di Roma come Leon Battista Alberti quello dell'ambiente di Firenze.

Come Roma era più universale di Firenze, per quanto questa fosse più originale, così la vita e l'attività di questo papa fu più complessa, multiforme e vasta di quella di un gentiluomo fiorentino.
Già la sua carriera precedente lo aveva condotto ad operare in un campo più largo che non fosse quello della vita comunale italiana d'allora o quello d'uno staterello italiano; egli aveva cambiato spesso partito e padrone, e con molta abilità era salito dall'ufficio di segretario a quello di cancelliere, poi a quelli di vescovo, arcivescovo, cardinale.

Sebbene la sua inclinazione e la sua intelligenza per le cose d'arte sia stata sempre assai inferiore al suo interesse per gli studi umanistici, pure appena divenuto papa si affrettò a nobilitare la sua cittadina natale di Corsignano col nome di Pienza (da Pio, il nome ch'egli aveva assunto come papa) e ad abbellirla di sontuosi edifici. Del papato egli accolse e sviluppò per l'appunto le tendenze universali e si infervorò sinceramente per l'esecuzione d'una grande guerra contro i Turchi; come sostenitore di questa guerra il suo nipote e successore lo fece raffigurare negli affreschi della Libreria del Duomo di Siena: al congresso dei principi a Mantova e nel porto di Ancona in attesa delle galere cristiane.

Universale fu pure l'indirizzo ultimo dei suoi studi; egli infatti, servendosi in parte di materiali desunti dagli antichi, in parte di relazioni di viaggiatori, incominciò a dettare una grande descrizione storico-geografica del mondo, una Cosmografia. Il commercio italiano si era allora da tempo spinto profondamente nell'interno dell'Asia, e già 150 anni prima il giovane veneziano Marco Polo aveva con occhi curiosi e indagatori seguito suo padre e suo zio fin nel paese dei Tartari; ora l'alta cultura intellettuale della sua patria si sforzò sulle notizie ed osservazioni particolari di costruire la scienza geografica.

Pio II non fu certamente l'ideale di un papa, come guida morale e spirituale, ma è certo che con questo dotto pontefice e scrittore di memorie l'immensa ricettività di questa epoca prese possesso anche della cattedra di S. Pietro.

Attorno ai papi umanisti cominciarono ora veramente a fiorire i curiali umanisti. Ciò che verso la fine del XIV secolo si era andato preparando nella cerchia degli alti funzionari della Curia, maturò verso la metà del secolo XV: fra i segretari apostolici troviamo i più cospicui rappresentanti della nuova cultura, e di costoro più di uno guarda con occhi molto mondani da sotto i suoi abiti ecclesiastici. Tale ad es., Poggio Bracciolini (1380-1455), uno degli umanisti multilaterali e più gagliardi; egli nella sua lunga vita girò per varie città, fece e scrisse molti motteggi di cattiva lega e maligni, anche per il commovente martirio di Hus non trovò che un sorriso di compassione, e tuttavia fu nel suo genere anche un apostolo.

Quello stesso uomo infatti che nel Bugiale della cancelleria papale dava l'avvio alla sua irrefrenabile maldicenza e a Firenze nell'entourage di Eugenio IV si svillaneggiava nel modo più vergognoso col Filelfo, era pure un instancabile ricercatore e raccoglitore soprattutto di manoscritti ed uno studioso assiduo e laborioso fino all'abnegazione.
Lo stesso fervore per le ricerche erudite e per gli studi antiquari dimostrò verso la metà del XV secolo Flavio Biondo da Forlì (1388-1463), che può chiamarsi il padre della scienza della antichità romana e per la sua cronaca «Historiarum decades tres ab inclinatione imperii Romani» anche il primo investigatore della Storia del Medio Evo.

Su tutti però emerge Lorenzo Valla (1407-1457) che merita di essere ancora oggi stimato come uno dei più acuti ed intelligenti filologi. Benché, come quasi tutti gli altri ecclesiastici e studiosi del suo tempo, sia stato poco incline a tradurre in pratica le sue convinzioni, pure nel campo teorico affrontò con più audacia di ogni altro problemi di critica storica, di filosofia e di politica, e già a lui non fu risparmiato il conflitto con le autorità dominanti.

Egli mise in berlina la vecchia dialettica e schernì la grammatica tradizionale, e se nel dialogo «de voluptate» finì per non negare la vittoria al pensiero filosofico cristiano, tuttavia la dottrina epicurea della liceità e bellezza di ogni godimento trovò nel suo Beccadelli un strenuo difensore e per di più dotato della più pericolosa efficacia persuasiva.
La Chiesa accolse questo libro senza turbarsene gran che. Invece essa si sentì profondamente ferita, allorché Lorenzo Valla, trovandosi alla corte di Re Alfonso di Napoli, contestò al papa, il quale ancora una volta appoggiava le pretese della casa d'Angiò, la sua alta signoria feudale sul regno di Napoli, dimostrando che la donazione di Costantino, sulla quale essa si basava, era una falsificazione.
L'Hutten rievocò più tardi e diffuse largamente questo scritto polemico e critico, allo stesso modo che Erasmo reputò degni di pubblicazione gli studi critici del Valla sul testo della traduzione latina della bibbia, la così detta Vulgata. Lorenzo Valla rimase bensì per un certo tempo lontano da Roma, ma, ritornatovi sotto Nicolò V, chiuse tranquillamente gli occhi come canonico in Laterano.

Si sbaglierebbe ritenendo che il movimento intellettuale rappresentato da questi uomini non abbia urtato in reazioni forti e talora pericolose. Tuttavia conflitti di una certa gravità non se ne ebbero, se non quando furono in gioco interessi politici.
Nella città di Roma vi era anche troppa materia infiammabile, e quando la curia, dietro i passatempi accademici e le conventicole erudite del grammatico Pomponio Leto e dello storico Platina, fiutò delle manovre politiche, li sottopose a processo penale, per quanto poco dopo la procedura sia stata sospesa e il tutto messo agli atti.

Ad ogni modo questo è certo e manifesto; che nella seconda metà del XV secolo, sotto l'influenza, in parte della nuova cultura, in parte della politica, si verificò fin nelle più alte sfere della curia un graduale e deciso abbandono degli ideali ascetici, e ben presto vi dilagò una robusta mondanità.
Le immense e sempre crescenti entrate della curia favorirono il lusso e i godimenti d'ogni genere e sempre più sfrontata divenne la corsa alla conquista di un posto a tale opulento banchetto.
Si lottò per questo ad armi scoperte, con la corruzione, col pugnale e col veleno; ma anche con quell'abile e magnifica messa in scena della propria personalità, quanto a figura, contegno e sfoggio di talento, senza di cui non si poteva in quest'epoca avere successo.

Da Sisto IV ad Alessandro VI la contraddizione tra sacerdozio e tenor di vita aumentò nei papi fino ad un limite intollerabile. Questi uomini sfacciatamente mondani dovettero il pontificato essenzialmente alla loro astuzia calcolatrice ed alla mancanza di scrupoli nella scelta dei mezzi; e da ultimo nelle cerimonie ecclesiastiche non avrebbero meritato che una parte figurativa come i dogi veneziani o gli imperatori bizantini d'una volta e non certo di Papa.
Più nessuna traccia di vero spirito e di abitudini sacerdotali, e la stessa protezione accordata alle arti e alle scienze non fu ispirata che al desiderio di magnificenza esteriore ed alle tradizioni principesche mondane.

Sisto IV si fece redigere dal maligno Platina la storia dei papi, ed incaricò i migliori pittori d'Italia di ornare di dipinti la cappella, che da lui porta il nome di Sistina. Alessandro VI fece lo stesso per l'appartamento Borgia.
Ma quanto l'incantevole semplicità d'animo che spira dai visi, raffigurati su quelle pareti dall'arte fiorentina, e umbra dall'epoca, ci inganna sul vero carattere i temperamento di coloro chi commisero l'opera ovvero delle persone che a scopi adulatorii vennero ritratte nei vari dipinti!

Un male tipico del papato mondanizzato di quest'epoca fu il nepotismo, il favoreggiamento prima dei nipoti e parenti e ben presto dei figli naturali dei papi e dei loro discendenti. I papi dotarono di larghi appannaggi costoro e si servirono di questi uomini di spada e cardinali devoti come puntelli della loro dominazione temporale.
Sisto IV ne ebbe particolare abbondanza; Innocenzo VIII fu il primo che riconobbe pubblicamente il proprio sangue; Alessandro VI impose egli stesso una macchia imperitura ai propri figli Cesare e Lucrezia Borgia.
Notevole come nella lotta per assurgere a potenza, acuitasi in forma morbosa, questi nipoti siano presi da una febbre criminosa di far presto a sfruttare il loro breve periodo di fortuna per afferrare più che potevano, e come in ogni loro atto si riveli spaventosamente la loro ignobile origine.
Il loro lusso è insensato, fuori di ogni misura e fastidioso; le sontuose feste date dal giovane cardinal Riario (1473) quando Eleonora d'Aragona, la sposa del duca di Ferrara, passò per Roma, si ripeterono anche per occasioni di minori importanza e non fa meraviglia che il giovane cardinale a soli 27 anni abbia dovuto pagare il suo tributo alla morte.

Non si può vincere l'indignazione a pensare quale fossi l'aureola di santità e l'immensa potenza di questi papi, la cui parola bastava a cancellare il più grave peccato ed a sciogliere i popoli dal vincolo del giuramento, la cui benedizione faceva curvare a terra l'intera cristianità, e a leggere poi come prolificassero in segreti concubinati ed arricchissero i propri figli, come procurassero col denaro dei mariti compiacenti alle loro concubine, e come dispensassero ogni sorta di favori a chi stava a cuore alle loro degradate amanti e figliuole.

Non appena elevato al soglio pontificio il cardinale Rodrigo Borgia si affrettò a far cardinale il fratello della sua bella e giovani amica Giulia Farnese e Cesare Borgia, suo figlio, nato dalle sue relazioni con Vanozza Catanei (1493). I contemporanei erano pur vero di manica larga e di bastardi se ne vedevano in giro in tutti le corti, ma ad onta di ciò non era facili nobilitare con impudenti atti di legittimazioni dei figli di preti, e quindi occorsero rilevanti dilapidazioni di beni della chiesa per ottenere che alla fine la nobile casa d'Este accogliesse nel suo seno la figlia del papa, Lucrezia Borgia (1502).

Suo fratello Cesare l'aveva, a soli 24 anni, resa vedova già due volte; al suo primo marito egli aveva rubato l'onore ed il piccolo principato che possedeva; il secondo lo aveva fatto pugnalare nelle stesse sale del Vaticano, e, visto che il ferito minacciava di risanare, lo aveva fatto strangolare.
Questo Cesare Borgia, fra i tipi equivoci di questi rampolli e parenti di papi, é la figura più raccapricciante. Ben presto egli rinunciò alla dignità di cardinale e di arcivescovo per sposare una principessa di Navarra e con l'appoggio della Francia, con l'aiuto di suo padre sempre ligio ad ogni sua voglia e di un indescrivibile sangue freddo nel perpetrare il delitto, formarsi una signoria propria.

Uno dopo l'altro molti dei tirannelli esistenti entro lo stato della chiesa dovettero sgombrare dinanzi alle sue truppe o ai suoi sgherri. Era tale l'idolatria dell'epoca per lo splendore e il successo che costui trovò larga e sconfinata ammirazione; egli era infatti altrettanto audace e sfrontato, quanto suo padre era ricco, bello d'aspetto e seducente.

Verso la fine del XV secolo il quadro delle suddivisioni politiche d'Italia si era straordinariamente semplificato. La Lombardia era ripartita fra la Repubblica di Venezia, il ducato di Milano e i piccoli principati dei Gonzaga e degli Estensi.
La Toscana era sotto il dominio di Firenze che si era annesse anche Pisa, Arezzo, Pistoia ed un'altra numerosa serie di piccoli città; accanto a Firenze non restava che Siena, come comune di qualche importanza. I rimanenti vasti territori dalle foci del Po ai confini del Reame di Napoli erano considerati appartenenti allo Stato della Chiesa. Qui si agglomeravano non pochi piccoli feudatari della Santa Sede, vecchie e nuove signorie.

Per impadronirsi di queste signorie lottarono tra loro baroni e cardinali, papi e nipoti di papi; Cesare Borgia era sulla buona strada per prendersene la maggior parte, quando la morte lo salvò dalla rovina che senza dubbio lo avrebbe colpito alla morte del padre. Caduto lui, gli antichi padroni ritornarono nei propri domini. Lo Stato della Chiesa confinava al sud il Regno di Napoli che a datare dalla conquista di Alfonso d'Aragona (1442) comprendeva nuovamente la Sicilia.

Attualmente regnava in questo Stato la sua linea bastarda, ma anch'essa già manifestava la stessa degenerazione della corte angioina. Sembrava che il libertinaggio tradizionale della corte napoletana non potesse essere più sanato: Ferrante spinse di nuovo agli estremi il suo dispotismo capriccioso; egli riuscì a domare una congiura dei baroni, ma mentre era ancor giacente sul letto di morte, le sorti di suo figlio erano già minacciate dall'avanzata dei francesi.
Il reggente del ducato di Milano, Ludovico il Moro, li aveva calcolatamente chiamati in Italia, perché desiderava sbarazzarsi del proprio nipote titolare del ducato, che era genero del Re di Napoli. La cavalleresca monarchia e nobiltà francese si mostrò incline ad una così romantica impresa; giacché la corona francese aveva rapidamente riconquistato i grandi suoi feudi, come la Borgogna, la Provenza, l'Anjou, il Maine e da ultimo la Bretagna, ed ora reclamava anche Napoli come pertinenza dell'eredità degli Anjou.

Di queste questioni si era discusso in Italia, ma non si aveva una idea precisa né di quel che avrebbe potuto accadere né della condotta da seguire. Carlo VIII calò in Italia nel 1494 e assunse tono da padrone; venne a Pisa ed a Firenze e pretese la sottomissione. I cittadini però gli tennero testa fieramente e lo minacciarono di suonare a stormo le loro campane; egli pel momento si rassegnò e marciò su Roma. Qui non poteva elevare pretese di sottomissione, ma costrinse l'inerme Alessandro VI a concedere ed approvare tutto ciò che gli piacque. Il regno di Napoli cadde poi nelle sui mani quasi senza colpo ferire. Questa conquista inaugurò la grande lotta fra la Spagna e la Francia, e le poste del gioco furono le maggiori signorie italiane.

A tal punto si ebbe un mutamento di stile nelle cose d'Italia. In un primo tempo i francesi si installarono a Milano e Ludovico il Moro finì la sua vita in una prigione francese. Da parte loro gli spagnoli dopo nuove lotte rientrarono in Napoli. Tra queste signorie straniere gli unici stati italiani d'importanza che rimasero in piedi furono Venezia, Firenze e lo stato della Chiesa; ma anche Venezia mantenne a fatica la sua posizione e Firenze subì delle perdite.
Il solo papato salì realmente a maggior potenza; esso godeva il privilegio di una certa inviolabilità, ed oltre a ciò ebbe nel nuovo papa Giulio II (1503-1513) un capo che, almeno come sovrano temporale e uomo di governo, era all'altezza dei tempi.

L'alta figura del cardinale Giuliano della Rovere spiccava già nel seguito di Sisto IV suo zio. Indubbiamente egli appartenne a quella generazione di principi della Chiesa intraprendenti, che considerava il papato alla stessa stregua che un condottiere o capitano considerava la signoria d'una città ovvero il seggio ducale di Milano. I mezzi che lo condussero al papato furono il denaro, larghe clientele, ostentazione di splendore e ambizione di dominio priva di scrupoli. Giulio II poi superò tutti i suoi predecessori e concorrenti per il fatto che il suo ideale non fu il godimento, ma il dominio, e il suo vero elemento la lotta per conseguirlo; di modo che egli incarnò la figura sotto ogni riguardo più perfetta di questi papi trasformati in sovrani temporali.

Egli non ebbe nipoti; era egli stesso soldato di temperamento ed anche di fatto, e di questa sua qualità diede prova nel crudo inverno del 1511 sotto il castello della Mirandola. Dimostrò pure di possedere abilità politica; prima si alleò con i francesi, aragonesi ed imperiali contro Venezia partecipando alla lega di Cambrai, e ad Agnadello i veneziani dovettero cedere il campo. Il dominio di terraferma di Venezia era alla mercé di Giulio II e questi se ne valse per mostrarsi benigno e in compenso stringere una alleanza anche più vantaggiosa con i veneziani, ma questa volta a danno dei francesi.
Tutti gli sforzi di questi ultimi e la stessa vittoria da loro riportata a Ravenna (1512) sotto la guida di Gastone de Foix furono vani; il papa riuscì a scacciare i francesi da Milano e quindi dall'Italia; un giovane Sforza fu insediato a Milano ed un Medici a Firenze, finora alleata della Francia. Un boccone amaro per i democratici fiorentini; ma indubbiamente questa specie di adunata degli italiani sotto la guida del papa ebbe una impronta grandiosa.

E Giulio II adunò alla sua corte anche tutti i migliori talenti nelle lettere e nelle arti. Benché personalmente non avrebbe avuto né attitudine né inclinazione per le arti belle, pure fu l'unico che nei suoi tempi abbia fatto eseguire grandi opere d'arte. L'era delle città libere era ormai passata, le signorie avevano ceduto il posto a pochi principati e questi pure erano quasi tutti in decadenza.

La Roma dei papi, che non aveva contribuito si può dire per nulla al sorgere della nuova cultura, ne raccolse senza fatica i frutti più maturi. Di fatti é
E' infatti per i papi che vennero create tutte quelle opere meravigliose che per noi rappresentano lo stile classico del rinascimento, o la rinascenza giunta al suo massimo sviluppo.

Un piccolo sguardo a questo periodo

L'ALTO RINASCIMENTO > >

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