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155. L'OPERA ILLUMINATRICE DELLE MENTI IN FRANCIA

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Se la nazione francese dopo la metà del secolo XVIII vide diminuita la sua predominanza politica e l'importanza del suo posto nel mondo, parve che ad un tempo la Francia intellettuale si ponesse all'opera per assicurarsi durevolmente la direzione dell'intera umanità. Rimane difatti titolo perpetuo di gloria per l'avere reso patrimonio comune quello, che va sotto il nome d'«idee moderne», e di avere spinto avanti nel senso di queste il corso degli avvenimenti nello sviluppo storico dell'umanità con maggiore efficacia di ogni altra influenza. Occorre tuttavia accennare a due circostanze non tanto per ridurre questa gloria della Francia nella storia dell'incivilimento, quanto per delimitarla con maggiore esattezza.

La prima circostanza, che ha valore decisivo, è che la luce, che proveniva dalla Francia nel campo religioso-filosofico, in quello politico-filosofico e in quello sociologico, ha operato con maggior frutto nelle nazioni straniere, nei loro governi, negli Stati e nei loro principi di quello che non operasse per lungo tempo ancora nella Francia stessa.

Per questo è essenziale il notare che le relazioni del governo francese con le idee, che divenivano onnipotenti nella parte colta della nazione, sono state di separazione assoluta, senza far torto a un tentativo episodico di avvicinamento, che dovremo poi narrare. Vi era da un lato la Francia dominante e come centro di energie storicamente decrepite la Corte, incapace di occuparsi in modo realmente serio dei problemi e delle idee, che interessavano profondamente tutto il resto della società, e non in grado a comprenderli con onestà ed intelligenza; capace al più di una benevolenza personale, quale ci si presenta in Luigi XVI, annullata però dalla sua ristrettezza di mente, e del resto capace ancora tutt'al più di giocare in modo semi-frivolo con le novità, concepite come un contributo della moda, capace di una insignificante civetteria di cultura e di progresso intellettuale.

Dall'altro lato la falange crescente e dilagante degli intelletti di primo, di secondo e di terz'ordine, che si adoperavano a formulare e a diffondere le nuove idee. Secondo quanto fu già detto, erano in grado di comprendere, forse spingendosi fino a divenire ingiusti, come continuassero insistentemente in una decadenza insanabile le classi superiori del loro Stato e della loro nazione, tutti coloro che stavano al governo o godevano di privilegi derivanti da uffici o da un'antica eredità, mentre in paesi stranieri e innanzi tutto in personalità come quella di Federico II e di Caterina II, si offrivano loro vivaci e mutui rapporti di affinità intellettuale e di intellettuale ammaestramento.

Questa é una delle osservazioni che dovevamo fare, che cioè nella sua propria patria il movimento intellettuale francese conserva del tutto il carattere di un'opposizione contro il mondo ufficiale, fatta da privati per vie letterarie.
Ma anche qui vi é una condizione o limitazione storica, sia pure nascosta e che ad ogni modo si sottrae ad un biasimo affrettato. È questa appunto la profonda inconciliabilità storica tra le nuove idee e il carattere di quella monarchia e di tutto lo sviluppo nazionale della Francia, che fino a quel tempo aveva cercato in ogni cosa l'accentramento, il collettivo, l' uniformità, quindi appunto il contrario del risvegliarsi e dell'insorgere della personalità.

E l'aver riconosciuto questo ci porta ad accennare anche alla seconda circostanza, di cui dobbiamo ancora parlare a proposito dell'importanza storica universale e del merito di questo periodo del progresso intellettuale della nazione francese. In fondo non é una proprietà intellettuale della nazione francese quella che gli apostoli della diffusione dei lumi e dell'emancipazione personale hanno divulgato, con una certa probabilità che dovesse poi attuarsi, ma é invece la proclamazione di un ideale cresciuto sopra un suolo straniero, sopra il suolo inglese.
Poniamo questo come noto e tutto ciò che é qui caratteristico, sorprendente, apparentemente contraddittorio e che dobbiamo far rilevare, rientra di nuovo nella linea della logica storica universale, più comprensiva e più grandiosamente intesa. Con tutto questo non si deve affatto dire che, data la presenza di eminenti rappresentanti della regalità e della monarchia, che sapessero vedere e volere con una specie d'istinto d'artista, non fosse stato possibile in ogni caso di evitare la rivoluzione del 1789, e di trapiantare tranquillamente e con buon successo anche sul vecchio terreno storico e sul carattere psicologico nazionale della Francia i germi di concetti politici, sorti sopra un suolo straniero e frutto di straniera esperienza.

Anzi forse con successo più reale che non sia avvenuto più tardi sul terreno rimasto libero dopo la «tabula rasa» della rivoluzione, che anche ha mostrato di aver la mano felice soltanto nelle cose, nelle quali essa con rapidità rivoluzionaria confermava e compieva le tendenze dello svolgimento propriamente francese.
Con altre parole la rivoluzione ha certo condotto a termine la «France une et indivisible» col suo accentramento, col grande macchinismo di funzionari e di prefetture e con l'«égalité» politica radicalmente attuata, ma ha però molto meno posto la nazione stessa in uno stato genuino ed effettivo di partecipazione della cittadinanza al governo, favorendo soltanto la formazione di una classe speciale di politicanti di professione, col loro seguito di egoisti, di cacciatori d'impieghi, e di sfruttatori.

Non ha creato minimamente un paese di cittadini generalmente liberi, illuminati, non oppressi e che da se stessi decidono il loro destino. In questo rapporto pratico la madre delle veementi teorie di libertà e di prosperità cittadina, con una caratteristica somiglianza ad altre nazioni latine, sta pur sempre anche oggi molto indietro per esempio alla Danimarca o alla Svizzera, per tacere di altri maggiori Stati.

Non già le energie storiche dell'«ancien régime» francese, col carattere e quindi con i sentimenti che avevano allora, ma soltanto le attitudini letterarie della Francia potevano assumere l'impegno di diffondere le forme e le idee politiche, maturate in Inghilterra.
Ed anche in questo la cultura politica e i progressi raggiunti già nell'Inghilterra, contenta del proprio stato, richiedevano un tale intervento, perché quella forma e quelle idee potessero essere rese evidenti e fatte conoscere agli altri popoli. A questo lo spirito francese era adatto più di ogni altro, con quella agilità che lo caratterizza meglio che non la sua moderata originalità, e con quell'arte non mai raggiunta da altri di formulare le cose in modo ingegnoso, chiaro fino all'evidenza ed efficace.

Sino alla fine del secolo XVII l'Inghilterra non aveva avuto quasi alcuno scambio pacifico con la sua vicina, la Francia, e le due nazioni avevano influito pochissimo l'una sull'altra. In nessun paese meno che in Francia, che si muoveva attorno a un assolutismo livellatore, si aveva intendimento e preparazione per ben comprendere il carattere più rilevante della storia inglese, vale a dire il governarsi da se stessa e il decidere del proprio destino, come faceva quella nazione, e per comprendere quello che deriva dai diritti e dai doveri di un'indipendenza simile, l'educazione cioè e il rinvigorimento delle attitudini individuali per operare insieme l'uno a fianco dell'altro.
A questo poi si doveva da un lato l'impallidire in Francia dell'astro centrale ed abbagliante del «Roi Soleil», mentre questi ancora viveva, e dall'altro il vantaggio politico guadagnato dall'Inghilterra fin dal termine della guerra per la successione spagnola.

Furono prima le scienze naturali dell'Inghilterra protestante e l'indirizzo speciale dato da essa alla filosofia, che attirarono presto e con vigore i Francesi sulle medesime vie. Soltanto questi dalle scienze specializzate hanno tratto opportunamente la materia per una educazione più generale; da essi furono trasmesse alle nazioni del continente così le scoperte di Newton, come il mondo ideale, dischiuso da Locke e dai suoi seguaci.
Per opera loro fu reso popolare soprattutto il tentativo di cercare nelle scienze naturali la risposta alle questioni generali, che interessano l'intera umanità, le questioni cioè intorno a Dio e all'Universo; e fu reso così popolare che anche questa volta il figlio illegittimo della scienza della natura, l'occultismo, le così dette scienze occulte, ebbero un grave colpo da questa corrente propagatasi dalla Francia.

E in certo modo ebbe anche un diritto autentico ad esistere; poiché all'antica affinità della superstizione e dell' occultismo si accompagna ora una vera fratellanza sociale, che può stringere con essi anche l'opera illuminatrice e di cui dovremo parlare ancora in seguito.

L' intero circolo degli «illuminatori delle menti» e dei precursori della rivoluzione intellettuale in Francia si gettò con ardore nello studio delle scienze e della filosofia della natura. Anche questo, guardando le cose nel loro complesso, fu piuttosto un dilettantismo colto delle persone intelligenti, e forse delle più intelligenti, anziché un'opera seria ed originale di cultori profondi di una disciplina speciale.
Voltaire ha scritto intorno a Newton ed ha composto una memoria sul fuoco, lodata dalle accademie, Montesquieu ci ha dato dei lavori sulla meccanica dell'eco e sugl'insetti, Rousseau si é occupato di botanica e di chimica. Diderot, a dire il vero, e specialmente d'Alembert erano dei veri matematici e sono quelli, che con la celebre «enciclopedia» posero mano nel modo più serio a fondare la cultura del pubblico dei lettori sul nuovo pensiero, sorto dalle scienze naturali. Anche questa grande opera di compilazione, sulla quale ritorneremo, deve la sua origine all'impulso diretto prodotto da un modello inglese.

É poi come un'immagine dell'intero lavoro di cultura e di educazione popolare, compiuto dai Francesi nel secolo XVIII, il fatto che la loro enciclopedia é anche oggi in tutte le bocche e il suo modello inglese é abbastanza dimenticato dal maggior numero. Le scienze naturali e la filosofia, edificata sopra di esse, sono una delle serie d'impulsi venuti dall'Inghilterra: la seconda, contemporanea all'altra e seguita dai Francesi con non minore vivacità e passione, é il lavoro intellettuale intorno all'essenza e ai fini dello Stato ed alla costituzione politica della società, opera che anch'essa si riannoda ai modelli inglesi.

Sta qui innanzi e sopra gli altri Carlo di Sécondat, barone di Labréde e di MONTESQUIEU (1689-1755). Fu un giureconsulto di nascita degno di nota, che fin da giovane occupò importanti uffici, poi seguendo le sue tendenze letterarie rinunciò al beneficio ossia alle rendite di quelle cariche - espressione che, dato il sistema della venalità degli uffici, é giustificata anche in chi voglia essere urbano - e in seguito visse viaggiando oppure dimorando nei suoi possedimenti.
Tra i più notevoli interpreti o promotori della trasformazione intellettuale politica in Francia, o più esattamente del formarsi di un nuovo pensiero politico, Montesquieu è l'unico che provenga dall'antica aristocrazia, proprietaria di terre. Gli altri vengono su dalle classi medie o dal basso, circostanza che non é affatto priva di valore per quella mancanza di contatti, da noi già ricordata, tra l'«ancien régime» e la Francia geniale e riformatrice, e per il persistere di un tale difetto.

Nel 1721 Montesquieu cominciò l'attacco contro lo Stato, in cui era tenuta la sua patria, con il suo scritto più originale, ma bensì di pura critica negativa. Questo scritto, cioè le «Lettres persanes», con una finzione, che si offre naturalmente ed è preferita per simili scopi, sotto forma di lettere dirette da un viaggiatore asiatico, ingenuamente imparziale e affatto disinteressato, ad un personaggio immaginario, contiene una esposizione tanto spiritosa quanto inesorabile di tutta la costituzione politica della Francia.
Nella loro forma veramente graziosa, nella tranquillità signorile di un'apparente obiettività, nella loro ironia superiore, che mai esce dai suoi confini, esse sono un perfetto capolavoro, al quale non fu negato un successo clamoroso, "rumoroso" e straordinariamente gustato anche dal pubblico colto e indipendente e fin dai circoli che esso colpiva.

A questo seguirono nel 1733 le «Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza», da noi già ricordate all'inizio del nostro lavoro. Qui il supposto viaggiatore persiano di un tempo parla come un grave giudice storico dell'antica Roma, e di nuovo e da un altro punto di vista, anche questa volta senza uscire sensibilmente dalla sua parte, sottopone la Francia del suo tempo ad una critica ampia ed efficacissima, facile ad applicarsi e facile ad apprezzare.

Dopo un intervallo di oltre una dozzina di anni comparve poi nel 1748 l'opera principale del Montesquieu «De l'Esprit des lois» ( Lo spirito delle leggi). In essa si compie il passo dalla critica e dalla comparazione alla dottrina positiva. L'opera non è altro che una proposta di un sistema di organizzazione politica, di una ricostruzione dell'edificio dello Stato, grazie alla forza creatrice del pensiero umano; ha quindi origine da una teoria, non però immaginata in modo indipendente, ma da una teoria, che prende le sue dottrine e i suoi argomenti dalla costituzione e dalle istituzioni inglesi, e cerca di trasformare e illustrare in principi e in massime esattamente formulate la pratica inglese, venuta su in modo così organico.
In questo consiste l'importanza storica e la durevole efficacia di questo libro, cioè negli accenni politici all'Inghilterra, che hanno poi un valore generale. Da quel tempo nell'uso della lingua francese il nome d'Inghilterra acquista il significato di una bella utopia; in frasi innumerevoli, nel Voltaire e in altri, incontriamo la parola inglese usata senz'altro, quando si vuole esprimere una condizione di cose «ideale» o «sana».
D'allora in poi il modello inglese è divenuto una cosa in certo modo sottintesa in ogni ragionamento di argomento politico o pubblico, e di qui é derivata la conseguenza, al cui influsso tutti oggi ancora siamo soggetti, che le forme costituzionali inglesi, sorte storicamente dalle condizioni particolari di quel regno insulare e dello spirito positivo di quel popolo, siano divenute formule dogmatiche nel resto d'Europa per ogni pensiero politico liberale.

Questa fu l'azione straordinaria e d'importanza storica, esercitata dal libro «Dello spirito delle leggi», tenendo conto anche della circostanza che la descrizione e l'esposizione sono piene nei loro particolari di errori e di affermazioni arbitrarie, e che il libro molte volte si sostituisce alla realtà delle condizioni inglesi. Solo in parte questi errori e queste aggiunte si devono spiegare con una certa minore capacità del mondo letterario e giornalistico francese a penetrare oltre la superficie fino al fondo delle cose.
In sostanza la causa sta nel metodo stesso, che fu seguìto, - cioè nel non dedurre e spiegare le varie competenze e i freni costituzionali dalla cognizione del loro complicato svolgimento storico, ma nel volerli concepire come un organismo meditato logicamente, ossia tradurli, in un tutto organico, in un sistema e ricavarli di nuovo da questo per via di analisi.
Avviene perciò involontariamente che si vuole in tutto riuscire a scoprire una chiarezza e una limpidità, che non può mai possedere il risultato di una evoluzione storica, ma solamente il prodotto di una creazione artificiale e di una logica indipendente.

Al campo di tali limitazioni e separazioni sistematiche, piuttosto suggerite dal modello che attuate in esso, appartiene specialmente la separazione dei poteri giudiziario, legislativo ed esecutivo, trovata ed esposta dal Montesquieu, il cui difetto fu già constatato nel modo più sensibile appunto in Francia in seguito a numerosi inconvenienti e a violazioni tradizionali di quel principio medesimo; esso poi non esisteva minimamente in Inghilterra nel modo, in cui fu dal Montesquieu esposto, proclamato e in certo modo ammesso come la scoperta ammirabile e desiderata della pietra filosofale politica.
Appunto coll'esporre questo ed altri principi simili ed affini l'«Esprit des lois» ha per lo più spiegato la sua efficacia ed ha acceso gli animi per la semplicità con la quale quei principi furono in esso formulati.

Questo libro divenne il catechismo politico dei precursori intellettuali della rivoluzione, come anche dei rivoluzionari stessi, e la separazione dei poteri diventò l'ultima parola, la vera formula fondamentale di una compiuta ricostruzione dello stato moderno. All'ulteriore efficacia storica, raggiunta da questa formula, non si toglie importanza e valore col persuadersi che l'esperienza secolare, compiutasi felicemente in Inghilterra, che si credeva l'avesse già preceduta, si riduce soltanto a delle tendenze, mentre, per ricordare questo solo esempio, il parlamento legislativo inglese fino ai nostri giorni non ha rinunciato alla sua alta competenza giudiziaria.

Ma l'importanza dell'«Esprit des lois» sull'ulteriore svolgimento storico è riposta nel libro stesso e da esso dipende come una cosa di fatto. L'efficace svolgimento delle idee in quel libro non solo ha dominato l'assemblea nazionale costituente del 1791, ma si riannoda fondamentalmente con i sistemi costituzionali e col parlamentarismo sorto nel secolo XIX, e fino ai nostri stessi tempi ha determinato essenzialmente le lotte costituzionali e i loro risultati. Ed avendo conseguito una validità riconosciuta e, per così dire, canonica, è trasformato da lungo tempo in un elemento storico, che non ci sembra più una teoria originale.

Sta a fianco del Montesquieu, presso a poco quale suo contemporaneo, quale figlio della medesima generazione, Francesco Maria Voltaire, vissuto lungamente e fino all'ultimo con una grande freschezza di spirito (1694-1778); fu parigino e figlio di un modesto impiegato della Camera dei Conti di Parigi, chiamato Arouet; poi con una trasposizione delle lettere «Arouet 1(e) j(eune)» si acquistò quel «nom de guerre», che sostituì presto il suo nome di famiglia e lo ha quasi fatto dimenticare.
Ragazzo brutto e storto, con quello spirito incisivo ed aggressivo, che incontriamo così spesso in figuri simili, il giovane Arouet fu educato nel collegio dei gesuiti «Louis le Grand», e imbevuto fino al midollo di quella nozione dura della vita, che è propria del gesuitismo.
Si scorge solo molto più tardi in Voltaire quella tendenza ad uno svolgimento senza scopo etico e ad una rinuncia spontanea realistica, ma, come si deve far notare, egli si va continuamente sollevando; una certa rassegnazione troppo ricca di esperienza e troppo cosciente, di fronte alla moralità complessiva del mondo, gli è propria nondimeno anche in quest'epoca.

Questo pessimismo, che non si deve considerare come giustificato almeno per quello che riguarda la tendenza dell'evoluzione morale dell'intera umanità, si spiega tuttavia in questo caso con l'ambiente ed anche con le teorie del tempo, in vista delle quali quell'ambiente cercava la propria liberazione, nel modo più appassionato in Rousseau. Così dobbiamo in sostanza spiegarci che un uomo come Voltaire nelle sue riflessioni senili ritorni in generale al concetto che la virtù francamente consiste nell'essere reciprocamente indulgenti e nel perdonarsi mancanze e colpe.

Nei primi anni della sua giovinezza Voltaire fu introdotto dal suo padrino, l'abate di Chateauneuf, nei circoli più elevati della dissolutezza geniale del tempo della reggenza, dove era un piacere piccante il vedersi vinti dallo scherno frivolo e spietato di questo rappresentante della gioventù e della borghesia. Poi, dopo maneggi di ogni sorta e viaggi in compagnia di signori ragguardevoli, la sua tragedia Edipo (1718) gli procura una posizione letteraria riconosciuta, una pronta fama e ben coltivata. Ma quel mezzo medesimo che lo fa brillare, cioè la sua lingua tagliente e malefica, e la sua passione per l'intrigo conducono il giovane scrittore, agitato da una smania febbrile e l'ambizioso uomo di mondo a rischiosi conflitti con persone, che conoscono la loro posizione e la loro influenza; riceve un carico di bastonate da dei servi, vede più volte la Bastiglia ed è esiliato da Parigi.

Appunto da questo deriva la dimora di Voltaire in Inghilterra durante gli anni 1726-1729, che doveva avere un'importanza rilevante non solo per il suo svolgimento personale, ma anche per l'attenzione, che allora si destava in Francia per le cose inglesi; era quello il tempo, in cui in Inghilterra Newton era al sommo della sua gloria scientifica e Voltaire arrivò a vedere da vicino il tramonto di questo astro rilucente sopra ogni altro (+ 1727).
Con ardore egli mise mano ai nuovi elementi di cultura moderna, che in Inghilterra gli si offrivano; si gettò nello studio delle scienze e della filosofia naturale, intraprese quello delle opere del Locke, fondatore dell'empirismo psicologico e teorico delle facoltà della conoscenza, in cui il Locke diviene il precursore più importante del criticismo kantiano.
Per lo studio del Locke Voltaire assunse quello stretto rapporto con la scuola deistica inglese, che determinò la sua situazione personale di fronte alle questioni religiose. Divenne nel tempo stesso discepolo delle idee politiche dei circoli «whigs», e di quelle tendenze si fece propagatore fra le nazioni europee, mentre l'indirizzo pedagogico del Locke si riannodava in Francia al Rousseau, che lo continuava, sollevandosi ad una propria originalità.

Dopo il ritorno di Voltaire a Parigi compaiono le sue «Lettres philosophiques», che hanno per soggetto l'Inghilterra e ad essa fanno rivolgere lo sguardo di tutto il mondo dei lettori, divenendo il Voltaire così il precursore più importante del Montesquieu nei suoi futuri accenni a quella nazione.
Anche allora, prima che si sapesse chi aveva scritto le «Lettres persanes», al Voltaire non era dispiaciuto di essere lui indicato come supposto autore; ora poi nelle manifestazioni e nelle forme più svariate della sua vastissima attività letteraria, egli diviene il critico delle istituzioni politiche e delle condizioni della Francia di quel tempo.
Certo, per quanto le sue vie di nuovo si separino e vadano determinandosi con maggiore precisione, la tendenza principale e speciale della sua lotta e della sua critica si rivolge sempre contro la gerarchia avida e ricca, ambiziosa e potente, che rendeva stupido il popolo. Anche in questo campo il Voltaire nulla ha veramente apportato, che non fosse già stato detto prima di lui; tuttavia da lungo tempo l'assalto contro il clero, pur così resistente, non era stato condotto con tanta decisione e con tanta incomparabile superiorità.

Con accesa ma pur ponderata passione e con pregevole serietà quest'uomo, celebre per il suo scherno e per la sua ironia, entra in questa lotta intellettuale, così a lui personale e che riempie tutta la sua vita. Questo assalto prende tutto il suo vigore appunto perché si solleva fin da principio molto più in alto di una frivola ricerca dell'effetto, e perché chi prende la parola non è un ateo e non pronuncia una semplice negazione. In ogni tempo il Voltaire si è opposto all'ateismo radicale ed al materialismo come un uomo, a cui la nuda negazione appare quale una arida limitatezza di mente, che non ci soddisfa.
Nessun pretesto polemico, come scrive egli una volta, può scusare specificamente l'ateismo, e il suo famoso e popolare «Ecrasez l'infame», che egli pone come un «Delenda Cartago» alla fine delle sue lettere, si riferisce con ben custodita distinzione soltanto al clericalismo in se stesso; come il substrato di ogni ignoranza attiva e passiva amorosamente coltivata, di ogni egoismo ed intolleranza ipocrita il clericalismo è per lui l'« infame ».

Il Voltaire rimane sempre il rappresentante delle vedute personali positive, che egli si era appropriate in Inghilterra; egli sa distinguere lo spirito dalla materia e non può fare a meno, per il suo stesso volere, della energia di una fede ricercatrice e dell'innalzamento umano al di sopra del dominio di ciò che è ponderabile. Più volte egli si é dedicato a tradurre nei suoi scritti questo suo modo di vedere ed ha preso parte ai tentativi filosofico-naturalistici intesi a dimostrare l'esistenza di Dio. La sua inesorabile opposizione di fronte al clero sta nel più intimo rapporto con la persuasione rispettabile da lui manifestata, che nulla più del sacerdozio si oppone in modo impacciante e pernicioso alla vera religiosità, al desiderio e alla capacità dell'uomo di innalzare moralmente se stesso.

E questa opinione, questa persuasione egli sostiene con tutte le armi della sua vasta cultura, del suo spirito superiore e del suo sapere, certo poco profondo, ma appunto per questo tanto più piacevole ed efficace sul gran pubblico. Così diviene l'uomo più ascoltato in Europa, appunto a cagione di questa sua lotta, alla quale tutte le nazioni, le cattoliche come le protestanti, sono ugualmente disposte, ed egli da parte sua fornisce all'anticlericalismo del tempo argomenti, formule e frasi significanti, che una immensa serie di altri scrittori si adopera a diffondere e ad illustrare.

Federico il Grande fin dal 1736, quand'era principe ereditario, aveva scritto al Voltaire e coltivato delle relazioni con lui, con il maestro della lingua e dello spirito, riconosciuto come il primo scrittore d'Europa, ma altresì con l'uomo, che sembrava additare una via verso la liberazione e la pacificazione al principe ereditario, il quale cercava attorno a sé un concetto sicuro del mondo. Nel 1750 Federico invitò il Voltaire a Berlino e a Sanssouci. È noto che quell'amicizia, ben coltivata da ambedue le parti negli anni precedenti, non poté tuttavia reggere quando si trattò di passar la vita l'uno a fianco dell'altro. Fu come uno scintillìo delle due personalità in quel vivace scambio fra il re e lo scrittore ambizioso e adulato, un episodio nel quale sgorgavano elevati e spiritosi «bons mots» nel circolo di Sanssoùci; ben presto però si fecero sentire anche le dissonanze e la critica, pronunziata sul grand'uomo da un re di sguardo aquilino e che non inghiottiva certe cose, nella sua superiorità aristocratica. Federico voleva fare il Re di tutti, di ogni cosa e su tutto, mentre Voltaire voleva fare e restare re delle sue idee.

Come accadeva spesso nella vita di Voltaire, anche questa volta fu la sua sbrigliata maldicenza, che lo scacciò dal paradiso dei circoli aristocratici da lui raggiunto, e gli fece trovare una sede più felice soltanto in una vita ritirata e campestre, limitandosi ad agire per mezzo della parola scritta. In particolare le relazioni tra Federico e lui furono turbate specialmente dalle sue contese, vittoriose per la sua prontezza di lingua, col Maùpertùis, il rigido presidente dell'Accademia di Berlino, riorganizzata da Federico, uomo certamente dotto dal punto di vista accademico e rispettabile da quello umano. Né meno però vi contribuirono quegli artifici finanziari senza riguardi e non di rado impuri del Voltaire, che avevano mutato in uomo dovizioso il povero figlio d'impiegato e il libero scrittore.

Si aggiunsero delazioni e invidiucce di altro genere; con la partenza del Voltaire nel 1753 e con la nota visita fatta fare da Federico dai gendarmi al suo bagaglio (come se fosse un ladro di polli) , hanno termine queste relazioni personali, che permisero tuttavia in seguito un mite carteggio, determinato dal bisogno sempre vivo di uno scambio generale di pensieri.

Il luogo trovato da Voltaire per esercitarvi, ancor più libero da incidenti personali, l'ufficio di sacerdote della più bella opera illuminatrice delle menti, quale personaggio intellettualmente preminente in Europa, fu Ferney, a un'ora e mezzo a nord-ovest da Ginevra.

Nel 1758, nel piccolo territorio di Gex, appartenente alla Francia, comprò le signorie di Tourney e Ferney, e in quest'ultima edificò il suo piccolo castello, sontuoso nel suo buon gusto, da quel ricco gran signore che era diventato. Qui Voltaire, sazio del suo adoperarsi a proprio favore e giunto ad un riposo così segregato andò svolgendo quell'operoso altruismo, che corona i suoi ultimi decenni di allori anche umanamente meritati. Diviene il riformatore benedetto del territorio della sua piccola signoria, pone il suo genio finanziario e tutta la sua arte pratica di mondo al servizio del benessere di quelli che lo circondano, attira a Ferney gli artefici speciali di quella regione, i fabbricanti di orologi, - anche il ginevrino Rousseau proveniva dalla loro classe, - costruisce per loro delle case e divide la grande proprietà in 26 poderi, li dà loro in affitto ( ma non a fondo perduto ma con un affitto a riscatto Fu il primo proprietario terriero a farlo in Europa. Una concezione nuova.
Gli atti sono a Ferney, nella casa di Voltaire e nella biblioteca di Ginevra. Una soluzione la sua che avrà una grande influenza su Maria Teresa. Mentre in Francia per arrivarci non fu sufficiente una Rivoluzione, ce ne vollero due.

Voltaire riesce a fare della sua Ferney una sede di lavoro cittadino, rapidamente divenuta prospera, da quel povero nido quale l'aveva trovata.
A Ferney visse gli ultimi suoi 20 anni circondato da una piccola corte personale e seguitando (una vera mania) a mettere personalmente a dimora piante di ogni tipo nel suo immenso giardino. Già sessantenne era convinto di non sopravvivere ad esse, invece campò altri 22 anni. E ogni volta dopo il "rito" affermava: "questa non la vedrò mai grande"; invece le piante messe a dimora anno dopo anno iniziarono ad essere migliaia. Non le dimenticò nemmeno sul letto di morte. "Sì, nella mia vita ho fatto qualcosa! Ho piantato tanti tanti alberi". Alcuni sono ancora lì nel parco.


Nel grande parco della sua villa di Ferney erige anche la chiesa, che con orgoglio palese offre a Dio:

"DEO EREXIT VOLTAIRE MDCCLXI" - e nel fatto é l'unica chiesa, che, com'egli fa notare con soddisfazione, sia stata eretta nel mondo cattolico all'idea di Dio e non a Maria o a qualche santo.


Nella quiete di Ferney, Voltaire diviene il benefattore pratico del paese, il tutore sociale (come oggi diciamo) e ben presto il franco difensore contro l'oppressione. La sua lotta contro l'intolleranza e contro il dispotismo dei preti trova e prende la forma, che deve agire sul gran pubblico in modo senza paragone più efficace di ogni opposizione astratta, anche se combatte ancora nei modi voluti dal gusto dell'epoca; egli coglie i casi adatti a produrre una sensazione generale per la loro evidente chiarezza.

Vi era allora in Tolosa uno stimato mercante protestante chiamato Giovanni Calas; uno dei suoi figli era passato al cattolicesimo e ciò aveva fatto nel paese un gran rumore; siccome poi nel 1761 il secondo figlio di lui, Marco Antonio Calas, sano e robusto era stato trovato improvvisamente morto nella casa del padre, la plebaglia affermava che questi lo aveva ucciso per non dovere assistere a una nuova abiura di un suo figlio. Senza prove e nonostante tutte le sue proteste d'innocenza Giovanni Calas fu condannato a morte col supplizio della ruota e quindi giustiziato. Voltaire ne abbracciò la causa e la seguì con attività instancabile per mezzo di scritti volanti e nel tempo stesso di ricorsi indirizzati fino al re; dopo aver sollevato la pubblica opinione su questo caso fino al massimo grado di eccitazione, riuscì ad ottenere che nel 1763 il Consiglio di Stato di Versailles a voti unanimi e col consenso del re richiedesse gli atti del processo. Si venne così fra il consenso di tutta la Francia, alla revisione del processo, accertando che il figlio morto del Calas non aveva voluto farsi cattolico, e poi all'assoluzione postuma del Calas già giustiziato e alla concessione di un risarcimento alla famiglia di lui.

Un altro caso simile si riconnette a questo; quello di Paolo Sirven, fuggiasco e condannato a morte, riparato nel 1762 a Ferney presso Voltaire. Il vescovo di Castres gli aveva fatto rapire una figlia per convertirla al cattolicesimo; ma poiché la ragazza in seguito alla violenza subita invece che cattolica era divenuta pazza, e poi, rimandata alla casa paterna, si era gettata in un pozzo, si volle che ciò fosse opera del padre. Anche questa volta vi fu accusa e condanna e vi ebbe la sua parte l'abilità dei preti di far credere al popolino che le cose più incredibili presso i protestanti avvengono e sono possibili.

Di nuovo ottenne Voltaire nel 1771 l'annullamento della sentenza, ed egli, istituitosi da sé stesso difensore, poté trionfare sulla giustizia di Stato, da lungo tempo odiata ed esercitata col sistema della venalità delle cariche, cui rimproverò amaramente: "le sono occorse due ore per condannare a morte un uomo rispettabile e nove anni per mettere in chiaro la sua innocenza".
Lo stesso Voltaire non ha saputo di aver portato il suo soccorso in cosa più rilevante, e questo è risultato molto più tardi soltanto dagli archivi. Appunto al principio dell'anno 1760 il ministro Saint-Florentin stava già per porre in scena una persecuzione generale dei protestanti con la cooperazione del popolo basso, sistematicamente aizzato contro di loro, della quale quei due casi sono esempi locali.
A questo per la fortunata energia di uno solo, non solamente si pose riparo, ma si ottenne pienamente l'effetto opposto, cioè di destare contro le macchinazioni clericali un movimento profondo e durevole in favore della tolleranza, della pace religiosa e della libertà di coscienza.

Così il clero e l'amministrazione tradizionale della giustizia in questo movimento diretto contro di loro sono ravvicinati insieme quali oggetti affini di un'opposizione crescente e passionale, mentre dall'altro lato s'incontrano le parole significanti di tolleranza religiosa e di umanità universale, mentre si chiede una maggiore considerazione dei diritti vitali di ogni singolo individuo umano.
Quando nell'anno 1764 il milanese marchese Cesare Beccaria, già discepolo degli enciclopedisti francesi, pubblicò il suo scritto «Dei delitti e delle pene», Voltaire si uni a questo campione di una limitazione legale della repressione punitiva e di una proporzione tra la pena e il delitto, e contribuì anche considerevolmente alla grande fama e alla diffusione che Beccaria ebbe nel maggior numero delle lingue europee, di cui pubblicò nel 1766 un «Commentaire».

E di nuovo poté prendere dalla vita reale un caso recente per dare una potente ed attuale efficacia alle sue illustrazioni teorico-letterarie. Allorchè difatti nel 1766 due giovani di nobile nascita non si levarono il cappello davanti ad una processione, furono condannati dal tribunale di Abbeville, l'uno, come istigatore, allo strappamento della lingua, al taglio della mano destra e ad essere bruciato a fuoco lento, l'altro alla «semplice» decapitazione. Quest'ultimo, il de la Barre, fu decapitato dopo una tortura addizionale, l'altro il D'Etallonde, riuscì fortunatamente a fuggire e divenne poi luogotenente nell'esercito di Federico il Grande. Sono casi simili, scelti fra gli altri e così rilevanti, che in verità dovevano rendere possibile e giustificato dinanzi alla civiltà e al gusto del tempo il truce «Ecrasez l'infame».

Ed anche per noi non fu senza importanza che fossero mostrate con un paio di esempi così concreti le condizioni contro cui si lottava, per far comprendere lo zelo fanatico del movimento d'illuminazione delle menti e le correnti antireligiose del secolo XVIII, anche a coloro che potrebbero ora stringersi nelle spalle di fronte ad una civiltà più conciliante ed ispirata ad una pacifica tolleranza, e per farci comprendere ancora il radicalismo ostile alla chiesa della rivoluzione che seguì.

A Berlino Voltaire aveva compiuto il suo «Siècle de Louis XIV» (1751) e l'«Essai sur les moeurs et l'esprit des nations» (comparso nel 1754). Ambedue appartengono alle sue opere di maggiore importanza. Piene di superficialità nella parte reale, al pari di altri suoi libri storici semiromanzeschi, si presentano però liberi da ogni impaccio, da ogni dubbio che potesse sorgere nello scrivente, un'esposizione sommamente geniale, che per la trattazione storica trae profitto in modo brillante delle cognizioni derivate in genere dalla lettura. Contrariamente al puro fine della storia, quale noi la comprendiamo dal Ranke in poi, queste opere ebbero origine dalla tendenza ben nota del Voltaire a scrivere la storia come mezzo di agitazione.
Ambedue le opere sono destinate ad esporre il concetto storico-filosofico che la storia dell'umanità, seguendo la sua direzione naturale, si muove verso un progresso, visibile nella continua trasformazione dei popoli e degli Stati, che però al compimento spontaneo di questo progresso si oppongono talora degli ostacoli e questi non possono agire altro che in modo nocivo. Quindi queste considerazioni contengono un avvertimento rivolto ad ambedue le parti prima della rivoluzione, che per Voltaire non é affatto la salvezza, ma disturba quello sviluppo organico.

La particolare lotta volterriana contro la Chiesa ha qui di nuovo la sua parte, poiché il saggio ricordato tratteggia lo svolgersi della lotta storica della sana volontà nell'incivilimento umano contro gl'impedimenti e la degradazione, cagionata sempre dal sacerdozio, molte volte prevalente durevolmente, e lo fa con una esposizione multilaterale, acuta e in alcune parti inconfutabile.

Nel campo speciale della filosofia della storia, il «Saggio», a prescindere dalle sue tendenze e dalle sue debolezze, tiene un posto molto importante come tentativo di una storia dell'incivilimento, fondata sopra idee generali, anche per il suo modo metodico di formulare le idee nel dominio della storia. Appartiene alle opere che esercitano una forte azione eccitatrice, e nella storia letteraria precorre le «Idee sulla filosofia della storia dell'umanità» dell'Herder e la sistemazione della filosofia della storia, compiuta con metodo più rigoroso dal Kant e dai filosofi idealistici tedeschi.

 

A fianco di Montesquieu e di Voltaire, di questi due uomini, uno dei quali era di nascita notevole e l'altro notevole si era fatto, sta un "Diogene", in parte volontario e in parte costretto, GIAN GIACOMO ROUSSEAU (1710-1778). Ginevrino, figlio di artigiani, venuto in lite con i suoi, diviene un diseredato e quasi un rtandagio. non riesce mai a liberarsi dagli impicci, dalle condizioni più subordinate, più umilianti e per lo più non molto onorevoli, che determinano la sua sorte. La sua vita é piena di equivoci, di avversità, di contraddizioni ed egli stesso é privo di un carattere disciplinato e rispettabile, cosa che s'incontra così spesso nei sognatori, e, secondo una legge psicologica, non difficile a determinarsi. Ma Rousseau, più di tutti i suoi illustri contemporanei, si trova in contrasto con tutto il suo ambiente e sempre cerca di sfuggirgli, così è di gran lunga il più originale e veramente il solo originale tra quegli scrittori francesi, che hanno divulgato le idee direttrici della grande rivoluzione e del secolo, che le tenne dietro, fino ai nostri stessi giorni.

Dopo una gioventù, che egli diffusamente racconta nelle sue «Confessions», giunse trentenne nel 1741 a Parigi. Era «bohemien» e un musicista, privo di guadagni, sgraziato, debole di volontà, che soltanto in un circolo di intimi rivelava il suo spirito. Era inoltre un giovane pieno di una stima altissima di se stesso, propria anche questa di indoli simili alla sua; e questa indole ha finito di compiersi in lui in seguito alle strane relazioni, che diventavano alle volte domestico salariato e di consolatore; relazioni egli ben presto si trovò con signore attempate, tuttavia ancora capaci di un vivace sentimento femminile.

I circoli letterari lo trattavano come uno di quei compagni originali e improduttivi, dei quali anche in altri tempi sono stati così propensi a farsi un idolo. A Parigi Rousseau annoda con la celebre Teresa quella relazione, il cui vincolo unico ma tenace fu poi la forza dell'abitudine; i figli da lei avuti furono da Rousseau mandati senza alcun segno di riconoscimento all'ospizio dei trovatelli, per potere lui scrivere tranquillamente le sue efficaci teorie sulla riforma dell'educazione della gioventù.
La relazione con quella sua amante piuttosto mediocre e ignorante, che sposò dopo venticinque anni, e gli inizi poco onorevoli di lui ancor giovane nel campo dell'amore femminile, gli lasciarono però una specie di verginità dell'anima e con essa la possibilità di scrivere il libro più incantevole sull'amore profondo, genuino e delicato e sul diritto sovrano del cuore contro le durezze della vita, cioé «La Nouvelle Héloïse».

Rousseau divenne scrittore soltanto nel 1750. Tra i temi messi a pubblico concorso, che sono una delle istituzioni stabili della Francia così propensa alla retorica, era stata posta dall'Accademia di Dijon la questione: «Il risorgimento delle scienze e delle arti ha contribuito a rendere più puri i costumi?». L'accademia senza alcun dubbio si aspettava una affermazione motivata nella forma più elegante possibile; ricevette invece tra gli scritti ad essa pervenuti sulla domanda proposta un NO incisivo. La motivazione di questo NO assai sconcertante é scritta con una logica superiore, con una grande quantità di punti di vista, a cui non si era mai pensato, con un ardore e una finezza di linguaggio tali che il premio accordato dall'accademia non fu soltanto l'effetto mordace dell'autore che si chiamava G. G. Rousseau, ma c'era dell'altro. Molto.

Si erano allora ad un tratto manifestate le riflessioni accumulate e generalizzate di un uomo, che in mezzo a una cultura aristocratica e raffinata sentiva nel sovreccitamento dei suoi nervi delicati di non potersi consolare del suo proletariato né dell'inciviltà della sua condizione personale e domestica. Con un balzo improvviso assale la società del suo tempo nella sua parte più lodata, riconosciuta anche dai pensatori dell'opposizione più radicale, cioè nel risultato accumulato dalle arti e dalle scienze, in tutta insomma la sua cultura.
E procedendo a considerazioni obiettive e liberatrici, nega ad un tempo ogni possibilità di riconciliare quell'incivilimento tanto lodato con la naturalezza violentata e sfigurata e di fondarlo nuovamente su questa. E qui poi si mostra il lato singolare della cosa; a quella stessa negazione ed opposizione diviene ad un tratto favorevole anche una grande parte della Francia, così piena di gusto, di grazia elegante e così ben educata, dal pubblico borghese da lungo tempo ridestatosi fino a quello aristocratico, svogliato e sopravvissuto a se stesso; si prende in mano questo famoso scritto per l'amore di ciò che é pungente e si depone poi sotto la violenta impressione di un rivolgimento avvenuto nelle proprie idee o con proponimenti pieni di entusiasmo.

Così si esplica la formula del Rousseau, che, sorta dai suoi istinti più personali di opposizione, si raffina e si sottrae fino a divenire la somma delle sue riflessioni logiche: «ritorno alla Natura».
Nell'anno 1755 compare lo scritto «Discours sur l'inégalité parmi les hommes». Vi é detto: "la condizione originaria di uguaglianza degli uomini allo stato di natura non fu minimamente migliorata, come si ammise finora, ma fu unicamente guastata dal potere organizzato dello Stato e dalla proprietà; e questo é dimostrato dal fatto che anche il carattere originale e primitivo andò in essa perduto".
Lo stato di natura é qui già concepito come fine a se stesso, come l'ideale. L'antico sogno popolare del paradiso terrestre e dell'età dell'oro é qui di nuovo risorto dalla complicazione delle condizioni odierne, ed ha trovato il suo profeta cosciente in questo sognatore. Però tutto é qui. Un'investigazione scientifica vi manca del tutto. Non si erano fino a quel momento studiati i popoli allo stato di natura seguendo il metodo etnografico, né più generalmente lo stato di natura in se stesso con i metodi etnologico e storico. Si avevano vaghe descrizioni romanzesche e non verificate intorno agli Indiani del Canadà e nulla di più. Non si sospettava ancora nulla quali durezze e quali orrori esistessero nei primordi della storia dell'umanità, che doveva vincerli solo per gradi e progressivamente, e non si era pervenuti ancora a questa nozione.

Mentre la Francia, presa in parte da un entusiasmo fantastico e in parte trovando la cosa divertente, si abbandonava a questo nuovo idillio pastorale della natura, di cui un Rousseau le dava la conferma filosofica, mentre anche un Voltaire esponeva in certo modo a scopo polemico il principio opposto del progresso vivente nella storia dell'umanità, era riservato alla filosofia della storia tedesca d'indicare in modo sicuro il vero cammino seguito nella «educazione del genere umano». Tutti gli errori fondamentali non impediscono però all'autore del «Discours » di dimostrare in una gran quantità di punti speciali e con osservazioni eccellenti quanto siano più sane le condizioni sociali semplici di fronte alle manifestazioni della Francia assolutista e della sua società del rococò, e di accumulare tante e giuste osservazioni critiche ed anche precetti ragionevoli; non impediscono nemmeno che il pubblico l'intenda come tali e li accetti decisamente.

Nei 1762 seguono l'«Emile ou sur l'éducation», il vangelo pedagogico della profezia della natura secondo il Rousseau, e ad un tempo nella medesima primavera il vangelo politico, cioè il «Contrat socia». Qui dunque, in queste due opere, la discussione, da critica che era, diviene positiva, il concetto del ritorno alla natura tenta di farsi creatore. I particolari nell'«Emile» sono per buona parte contrari al buon senso, meschini rispetto alla cultura e alla esperienza, errati dal punto di vista della dottrina. Ma quello che vi è di essenziale e di efficace, quello che anche oggi noi ricerchiamo bramosamente come un problema ancora insoluto, è l'invocazione a seguire un'educazione naturale, a respingere ciò che é tortura del fanciullo e a rispettare la vita propria di questo.

Su quell'errore fondamentale storico ed etnografico dei felici primordi dell'umanità, da noi già accennato si fonda poi in ogni punto il «Contratto sociale». In questo libro é di nuovo bandita ogni idea di progresso nella evoluzione umana, prima ancora che sia esposta, prima che sia fatta oggetto in generale di una seria considerazione; ed anche qui si forma un programma, richiesto in fondo soltanto dall'opinione, nel quale si appunta ogni desiderio di liberazione e di miglioramento. Lo Stato e la società hanno avuto origine nei tempi primitivi, sani e pacifici da un passo spontaneo, da un contratto. L'uomo, che era naturalmente del tutto libero, con una libera decisione di chi pure era forte, rinunciò ad alcuni suoi diritti a vantaggio dei beni che la collettività gli garantiva.
Da questo principio, presupposto da Rousseau, si deduce tutta la critica da lui rivolta allo Stato e alla società quali sono poi divenuti, e si deduce ancora il contro-programma da lui esposto. Tutta la storia da quel passo primitivo in poi é degenerazione, falsificazione di un buon principio, è il risultato della malvagità, dell'errore e della stupidità insieme cospiranti. La questione di sapere perché l'uomo evoluto soffra e renda possibile questo peggioramento non turba l'esposizione dell'autore in modo significante. Da principio vi era uguaglianza assoluta, libertà dei partecipanti, limitata solo dal patto comune e piena sovranità del popolo. Il governo, nominato da questo, era puramente un organo delegato, interposto tra il popolo sovrano e il popolo suddito di se stesso.
Poiché questo era lo stato originario e naturale, l'ideale consiste nel ristabilirlo di nuovo, nel riporre nei suoi diritti la democrazia della libertà e dell'uguaglianza. In questo risultato finale, in questo programma pratico é riposta la forza immensa dei colpi, che il libro dà a tutto l'ambiente del corrotto assolutismo francese per la grazia di Dio, dell'«ancien régime» irresponsabile, intrigante ed egoista o che si trastulla in capricci.

Ed anche qui, in questo programma inteso ad una ricostruzione sociale, si fanno valere nei particolari dell'esposizione una quantità di osservazioni, di pensieri e d'istinti eccellenti ed originali. Così, la rappresentanza del popolo - di cui dall'«Esprit des lois» del Montesquieu in poi tutti parlavano - non era per il Rousseau il desiderio capitale, l'ideale.
"La rappresentanza popolare, che tutti lodano, così scrive con critica incisiva, è tutt'altro che la pura espressione della volontà del popolo e di una genuina sollecitudine per il pubblico bene; il governo parlamentare inglese in quanto vuol passare per la rappresentanza di una moltitudine pienamente libera, é una menzogna.
Determinare la «volonté générale» per mezzo di tutta la comunità adunata, e governare come potere esecutivo di questa immediata volontà popolare, questo sarebbe l'ideale".

Ma lo stesso Rousseau, se anche non vede che si può dubitare della piena eccellenza e saggezza della volontà generale, vede però che i popoli sono divenuti troppo grandi perché si possa determinare direttamente la loro volontà, e si sono allontanati troppo dalle prime formazioni politiche. Questo é possibile soltanto in piccoli Stati come gli svizzeri, dove - in Glarus, Uri, Unterwalden, Appenzell - anche oggi l'assemblea generale é in mano di tutti i cittadini. Così il libro, senza pregiudizio del vigore, con cui accenna alla tendenza da seguire e all'ideale, conclude in pratica con un «non liquet» ed anche in questo punto speciale viene ad urtare nel modo più evidente con la storia particolare della Francia, che fin dai primi tempi procede allo svolgimento di una grande nazione compiuta ed unitaria.

Ricordiamo anche questo. Il comune popolare del Rousseau sarà competente anche in materia di religione, come in ogni altra. Poiché è necessaria la religione e sono necessari ancora certi principi dogmatici come «sentiments de sociabilité», che il buon cittadino deve riconoscere. La fede in Dio, nell'immortalità, in un ricompensa e in un castigo oltre la tomba é sinceramente indispensabile - opinione molto pratica, molto umana, ma anche questa stabilita per un elevato idealismo sociale.
Da tutte le pagine di questo libro sgorga un abbandono appassionato, generoso e imperiosamente espresso al problema sociale; se non ci seduce la profezia che ci é additata, ci trascina ad ogni modo il profeta stesso; ed anche l'accusatore che si leva soprattutto contro chi ha infranto, corrotto, violato il patto sociale primitivo, contro i governanti e poi contro la grande ingiustizia della proprietà, che invade ed opprime.
La frase divenuta poi alata «La propriété c'est le vol » sta già scritta in una forma meno concisa, ma svolta per intere pagine nel «Contrat social» ; la frase del Proudhon, divenuta poi la fanfara del socialismo, è nel fatto soltanto la ripetizione di quella d'impronta del tutto simile, che il Brissot coniò, togliendola dal vangelo del Rousseau, e fino dal 1780 formulò così: «La propriété exclusive est un vol dans sa nature».

Sono queste le idee e teorie nuove, che agitano la società fino al fondo, e che il Rousseau predica con tendenze religiose, pedagogiche e politiche ad un tempo, a un'epoca sazia, scoraggiata, piena di bramosie e di odi, quelle stesse teorie, che d'ora in poi resteranno in prima linea oggetto dell'attenzione e delle discussioni di tutti.
Se gl'intelletti superiori, come Voltaire, potranno riservare loro lo scherno personale, accortamente mitigato, con tanto maggiore violenza queste richieste commuoveranno la volontà appassionata e comunicativa e il fanatismo la generazione giovane, di quella generazione che nel 1762 esce dalla sua fanciullezza e nel 1792 punirà in Luigi XVI il delitto della monarchia.

Tutti quelli che abbiamo ricordati finora, Voltaire compreso, non sono materialisti, ma si cercano un punto di vista personale ed un certo compenso in un deismo che sollevi l'animo, perché anch'essi di fronte al nudo materialismo rappresentano la sensibilità piena di gusto, la critica, lo spirito altero e insoddisfatto, o perché - come principalmente il Rousseau - nella loro indole complessiva sono edificatori e ideologi. Il Rousseau ha poi fatto fronte all'ateismo con l'avversione risoluta di un'anima idealista nell'«Emile», e nella professione di fede del vicario savoiardo, che é anche la sua.

Anche il materialismo, che quelli così con impegno respingevano, veniva dall'Inghilterra, come prodotto secondario della scienza e della filosofia naturale inglese, come puro risultato della freddezza di quel popolo, come una reazione isolata contro la sua ipocrisia. In Francia poi trova da riannodarsi almeno a un geniale e scherzoso scetticismo. Si può qui porre come suo più antico rappresentante Pietro Bayle (1647-17o6), autore del noto dizionario, dove egli quasi gode tra brutti aneddoti specialmente nel campo della storia morale della Chiesa, ed autore inoltre di molti scritti anteriori, che esercitarono pure un'influenza ironicamente dissolvente anziché illuminatrice, la quale appare in questo periodo e si osserva appunto in quegli scritti. Il Bayle, figlio di un predicatore riformato e convertito temporaneamente al cattolicesimo, ha molta somiglianza col Voltaire, più grande però e più serio di lui, per la straordinaria fecondità letteraria, per la pratica dello scherno sopra tutto contro le vecchie e nuove macchinazioni sacerdotali dai tempi di Erodoto in poi, per la medesima inclinazione al romanzo lubrico e per la medesima congenita sagacità nel riconoscere la sottomissione ai sensi del mondo religioso, specialmente delle persone del clero nella cura d'anime da questo esercitata.

Ebbe origine per la prima volta in Inghilterra l'espressione di «liberi pensatori», applicata a Giovanni Toland (1669 e 1778) e al suo circolo, che pareva traessero le conseguenze logicamente chiare e coraggiose dalle conquiste delle scienze naturali e dalle discussioni della filosofia. In questo caso scorgiamo (e non è cosa solita) che una manifestazione del tempo, procedendo dall'Inghilterra, acquista in Francia profondità scientifica e intima solidità, rappresentando un notevole contrappeso al contegno negativo degli spiriti deistici di questo paese, scorgiamo in altre parole che la Francia assume il lavoro di un'esposizione specializzata.

 

Diviene capo accademico dei liberi pensatori francesi JEAN LE ROND D'ALEMBERT (1717-1783), serio investigatore nel campo della matematica e della fisica e uomo integerrimo e disinteressato; é noto che Federico il Grande gli offrì e gli concesse una pensione annua e che l'Accademia Federiciana di Berlino si onorò di averlo come socio.

Accanto a lui sta DENIS DIDEROT (1713-1784), studente di teologia, poi di giurisprudenza, finalmente, come libero scrittore, giunto da opinioni deistiche a dubitare della loro consistenza critica e divenuto deciso campione del materialismo e dell'ateismo.
Fu anch'egli autore di una serie di romanzi lubrici, rimessi poi a nuovo e puliti in edizioni di lusso dalla nostra epoca, tanto affine spiritualmente a quella di lui, autore dei «Bijoux indiscrets» (1748) e di altri ancora, che tutti ad eccezione dei «Bijoux» furono del resto stampati soltanto dopo la sua morte. È questo lo sfogo più privato di quegli spiriti liberi, o meglio che si andavano da se stessi liberando e che cercavano di soddisfare se stessi con simili situazioni e fantasie sensuali. Appunto in questo gli uomini della liberazione rimangono ancora in se stessi più che altro servi, rimangono ancora soggetti a quella atmosfera soffocante sensuale, che avvolge il clericalismo da loro combattuto, e sono spinti pur sempre dalla nuova libertà umana a cedere senza resistenza a simili tendenze a metà o in tutto segrete, non ancora domate.

Una sensibilità raffinata e una profonda immoralità caratterizzano il secolo XVIII, - e sono pure le proprietà anche troppo efficacemente coltivate e tuttora oggetto degli assalti e delle critiche mosse contro il medesimo secolo, - ad onta delle piacevoli chiacchiere sulla virtù, di cui è del resto ripiena la rivoluzione, che si compie negli spiriti e nelle tendenze. Come un tempo il ciurmatore e la ciurmatrice sopravvissero alla trasmigrazione dei popoli e dai Romani decadenti passarono ai Germani usciti appena dalle loro selve, i quali soddisfecero con essi la propria curiosità, pure bollandoli col marchio di «gente infame», così la frivolezza generale, nonostante alcune figure isolate dottrinariamente rigide, come Robespierre, passa non affievolita dall'«ancien régime» attraverso la rivoluzione nella società e nella cittadinanza del termidoro, del direttorio e dell'epoca napoleonica.

E quello che abbiamo detto non vale solamente per la Francia, ma per l'Inghilterra così schifiltosa e per gli altri paesi grandi e confinanti con la Francia, non esclusa la Germania, dove soltanto il movimento della guerra d'indipendenza crea un mutamento profondo e sincero, e dove anche il romanzo si libera dalle aggiunte del femminismo e della lucidità, che tanto lo caratterizzavano nei primi decenni.
Il Diderot e il d'Alembert sono gli organizzatori dell'«Encyclopédie» o «Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers», apparsa a partire dal 1751 e che contò 28 volumi fino al 1772. Il Diderot ne fu il redattore e il d'Alembert ne scrisse tra le altre cose l'introduzione. Anche questa grande compilazione delle tendenze scientifiche popolari nel miglior senso della parola e di quelle per illuminare le menti, fu, come si é già detto, una imitazione di un modello inglese, della «Cyclopedia» dello Chambers, che si voleva all'inizio soltanto tradurre, poi fu decisa opera più estesa originale.

Ad onta o appunto a motivo delle molte difficoltà, che le procacciarono la censura ed altre vessazioni, l'enciclopedia é divenuta un libro d'importanza storica e lo ha pienamente meritato. La maggior parte dei contemporanei più celebri in Francia vi ha cooperato, e non soltanto i materialisti; essa procede verso il suo scopo di offrire illustrata la somma di tutto il sapere e di tutta la nuova dottrina in un francese gradevole e in una forma in certo modo comodamente unificata, però senza ristretta unilateralità e sempre in modo che una onesta tendenza verso le scienze esatte, siano portate all'intelligenza comune.
Accanto a questa impresa di divulgazione scientifica di primo ordine e di primaria importanza, vengono altre opere di scrittori secondari, sempre di vasta cultura, le quali, proprio come nel secolo XIX e nel nostro tempo, accoppiano e sempre accoppieranno alle vie obiettive di un'indagine, che esamina anche se stessa, dei titoli attraenti come quello di «Forze e materia».
Il ricco barone tedesco Holbach, stabilitosi e Parigi, nel suo «Systéme de le nature» (1770) si accinse a pronunziare le ultima parola decisive del materialismo, e spiegò tutti i procedimenti del pensiero e dell'anima come conseguenze meccaniche dei movimenti fisici, che hanno luogo nelle materia - attrazione, repulsione, inerzia. Del resto uomo onestissimo, oriundo del Palatinato, vivace, pronto, ospitale e filantropico, destinò i suoi beni al trionfo delle sue convinzioni e si meritò il titolo di splendido «tutore» degli scrittori dell'Enciclopedia.

Dovunque nelle letterature verso la fine del secolo XVIII incontriamo il ricordo di questo libro, molto considerato tre i suoi numerosi scritti per lo più polemici, antireligiosi ed anticlericali in Francia come negli altri paesi, e lo vedremo però anche non accettato da spiriti più finemente geniali come il Voltaire e Federico il Grande; come non si sentisse e suo agio, dopo aver letto quel libro indispensabile, ma così «cimmerio», grigio; profondamente noioso, lo racconta anche il Goethe in «Finzione e verità».

Appartiene al gruppo degli «illuminatori» di questo genere anche il Lamettrie (1709-1751), lo spiritoso scapestrato e semiavventuriere, cacciato dalla Francia dalla lega bizzarra dei preti e dei medici, da lui irritati e ingiuriati; dopo vari incidenti trova un rifugio con l'ufficio di lettore presso Federico il Grande, che però non lo tiene mai in grande considerazione. Simili al Lamettrie stesso, molto più ardito e frivolo che importante, sono anche le sue opere, caratterizzate già dai loro titoli, l'«Histoire naturelle de l'âme» (i745), «L'homme machine» (1748) e «L'homme plante» (1748).

Il fatto più importante e durevole di fronte a questa disinvoltura e a questa insufficienza, che corre temerariamente innanzi a briglia sciolta ed é oggi per lo più dimenticata, è l'impulso dato al tranquillo movimento scientifico e ad un progresso riflessivo e non precipitato, per opera della parte migliore del mondo letterario e teorico francese, educatosi in Inghilterra. Questo mira tacitamente e senza averne l'intenzione vera e propria a ritardare e ad arrestare, specialmente nel campo sociale, gli effetti di quell'altro radicalismo, tanto disinvolto e divenuto immensamente popolare, di quello che fa capo al Rousseau.
Questo avviene nel dominio dell'economia politica, dove ora sorge la nuova tendenza dei fisiocrati contro il sistema mercantile, derivato dalla scuola geniale del Colbert. La situazione personale del suo fondatore anche in questo caso caratterizza la grande parte presa dal dilettantismo buono, sano e fecondo e la minore dipendenza dagli specialisti in tutti questi lavori intellettuali francesi e la loro rilevante efficacia creatrice, conseguita appunto per non essere così ristretta la visuale né troppo forte il preconcetto.
Poiché questo fondatore della nuova scuola economica è il Quesnay (1691-1774), di grande capacità, ma di vocazione del tutto diversa, professore di chirurgia a Parigi e archiatro di Luigi XV. In uomini come lui ci si mostra favorevolmente la vastità del sapere e delle osservazioni e la versatilità dell'ingegno, oppresse allora meccanicamente da una specializzazione troppo progredita dei singoli campi dello scibile; doti che in Germania potevano pervenire nel Goethe ad un'altezza non mai raggiunta in seguito.
Il Quesnay si era impegnato a scrivere per l'Enciclopedia gli articoli sugli agricoltori e sui cereali ed aveva poi esposto separatamente risultati compiuti dei suoi studi nel suo «Tableau économique» (1758) e nella sua opera capitale, la quale ha dato il nome a tutta questa tendenza, «La physiocratie» (1767 - 1768). Il carattere fondamentale di questo nuovo concetto economico è innanzi tutto una decisa rinuncia al sistema mercantile tradizionale e dominante, con la sua unilaterale protezione e l'impulso pure unilaterale dato da esso al commercio e all'industria, con dazi protettori, monopoli, premi, sussidi, anticipazioni, campioni fissi, costruzioni di canali e di strade - e inoltre al principio mercantilistico che tutto si riduca a volgere più che sia possibile, l'esportazione e l'importazione, a vantaggio delle ricchezza propria della nazione. Vi si stabilisce poi la dottrina del maggior valore della produzione, contro la bilancia meccanica e l'eccedenza ottenuta nei casi favorevoli e contro l'idolatria del denaro. Si fonda e si propugna il principio che non si debbano promuovere l'industria e il commercio, ma solo la coltura del suolo. Dall'aver trascurato la parte della popolazione, che produce il vera valore, proviene tutta la miseria del paese, della moltitudine inferiore di contadini, e poi anche della proprietà fondiaria in generale e infine, anche se in unione con molti altri danni ed errori speciali, la condizione incerta delle finanze della Francia, pur così favorita dalla natura.

Dovevano perciò esser tolte di mezzo le limitazioni, che impedivano agli agricoltori di coltivare le loro terre lietamente, con libertà e con giovamento, cioè le prestazioni di lavoro - p. es. per la costruzione delle strade - e le eccessive imposizioni in modo speciale poi si doveva render libero il commercio dei grani tra produttore e consumatore.
Qui si toccava veramente il punto che urgeva. Poiché per creare all'attività degli artigiani condizioni il più possibile favorevoli, i grani dovevano essere venduti sui mercati soltanto di determinate città capoluoghi, mentre si vigilavano le vendite e i prezzi. Una serie di regolamenti, che in origine avevano voluto ovviare a certi danni, ma che d'altra parte e per se stessi e perché l'esecuzione dei relativi provvedimenti non si era mantenuta affatto consona alle buone intenzioni primitive, avevano condotto a una quantità di molestie, di enormità pratiche e naturalmente anche di interessi egoistici, avidi e rapaci fino all'inverosimile.

Il sistema fin allora seguito dell'inceppare la produzione originaria era divenuto odioso quanto nocivo, ed anche qui nei ragionamenti e nelle formule in uso si sente parlare di «innaturale» di «contro natura». Con questo non solo si giudicava il procedimento legale col diritto di una critica plausibile, ma in modo nuovo anche in questo caso si ricorreva come ad aiuto efficace alla parola significante di natura. Così nel fatto questo movimento benefico, liberatore e praticamente progressivo procede anch'esso parallelamente agli effetti delle idee utopistiche del Rousseau. Il nome stesso, che si dà la nuova scuola, quello di fisiocratica, esprime che la naturalezza deve dominare ed essa sola può essere l'elemento decisivo.

Nel principio teorico, ammesso dalla scuola fisiocratica, che si debba dar libero corso alla natura, ha la propria radice anche il principio della libertà economica in generale, in sostanza come una conseguenza trovata senza cercarla, cioè il diritto economico dell'individuo, dello spirito d'impresa. Giungiamo quindi anche da questo lato alla caratteristica già accennata al principio di questo capitolo; che cioè nei modi più svariati il nuovo pensiero, procedente dalla Francia o formulato o diffuso da essa, tende piuttosto a introdurre il principio vitale proprio dell'indole germanica nel diritto pubblico che esso fondava su basi intellettuali.
Quel pensiero si volge contro la piena solidarietà del sistema mercantile, contro la concentrazione di forza livellatrice entro i fissi confini della nazione e contro l'indulgenza verso le mediocrità faticose, che esprimono i vantaggi ma anche le pastoie del mondo francese romanico.
Con rapida conquista l'idea fisiocratica, sostenuta dal titolo significante di sistema naturale, prende nelle menti la sua via trionfale. Anche nei circoli, che fin allora si erano soltanto divertiti e trastullati e avevano dissipate le imposte sugli agricoltori, diviene di moda il conoscere le nuove idee economiche e l'intrattenersi su di esse con spirito e con intelligenza.
Anche dalle classi sociali superiori e questo é il lato serio della cosa - si rivolge una grandissima attenzione alle condizioni del paese e al suo bisogno di riforme. Le idee di riforma economico-sociale non conquistano certo la Francia superiore, ma un certo numero di singole personalità di quei circoli, che dispongono anche di una corrispondente cultura mondana. Dei vecchi circoli nobiliari il marchese di Mirabeau, il seniore, il padre, si fa difensore delle nuove tendenze economiche ed umanitarie nel suo «Ami du peuple» che si pubblica periodicamente; fra gl'intendenti che devono sorvegliare e regolare le entrate reali nelle singole province, sorge come rappresentante sperimentale di una riforma fisiocratica nella tassazione dei sudditi l'onesto Turgot, di cui presto parla tutta la Francia, su cui pone le sue speranze l'opposizione intellettuale e che incontreremo di nuovo come ministro di Luigi XVI.

Lo incontreremo inoltre come la personificazione bempensante e chiaroveggente della riforma e del rinnovamento dello Stato, che abbastanza presto doveva cozzare, nello stesso tempo, contro la pesantezza rigida degli ordinamenti sopravvissuti, e contro la mediocrità del nuovo re buono e di buone intenzioni, ma tirato qua e là e da se stesso e dagli altri.

L'ottimismo di facile contentezza, che fu la rovina di Luigi XVI, parlando in generale e a prescindere da singoli uomini pratici, come appunto Turgot, contradistingue d'altra parte la fiducia accordata alle nuove idee. Proprio con quella stessa universale attitudine all'entusiasmo, che aveva reso la Francia cento anni prima ed anche più oltre il campo adatto ad un sistema monarchico accentratore ed imponente, il quale assorbiva nella propria maestà tutte le forze della nazione, essa si abbandonò allora alla fede nelle nuove dottrine e nella rapidità, con la quale queste dovevano recare la salvezza non solo alla nazione, ma a tutti i popoli, all'intera umanità.
Senza prevedere che un principio, per quanto sia razionale, evidente ed inoppugnabile, non può tradursi in realtà, poiché la capacità di attuarsi sta sempre in contrasto con l'idea pura; i promotori di queste tendenze e di queste speranze, che ormai commuovono tutta la parte illuminata della nazione, pensano poco, non stanno a considerare, nè a provare né a riflettere, né riescono a trovare espressioni efficaci.

L'errore antico ed eternamente giovane, che pervade ogni vita umana, privata e pubblica, ha qui un esempio specialmente chiaro: disconoscere cioè che la nozione di ciò che é ragionevole o migliore, è sempre una parte inadeguata del far meglio. Nei problemi più difficili e più complicati della convivenza politica, economica e sociale, si crede di essere ormai giunti al nocciolo della questione, e con le affrettate conclusioni e con le nuove teorie si crede di avere in mano i problemi già risolti di fatto. E questa è pure la ragione per cui la trasformazione della Francia, intrapresa dalla Costituente e dalla Rivoluzione fino dal principio con tanto entusiasmo e con tanta devozione, nel suo insieme é giunta soltanto ad una affrettata demolizione e poca ricostruzione e a delle massime risonanti di liberazione e di felicità universale, tanto più che l'uomo che in quella Francia aveva il dono non comune di conoscere l'anima popolare e di possedere il sentimento della realtà, voglio dire il più giovane Mirabeau, le fu rapito troppo presto.
Mentre la rivoluzione, in una variopinta vicenda di esperimenti legislativi e di logorarsi di partiti, compiva il suo corso in se stessa e conduceva ad un nuovo cesarismo dispotico, era riservato solo alle successive epoche e alla cooperazione con le altre nazioni - che ricevettero impulsi fecondi o incoraggiamenti piuttosto dai prodromi intellettuali della rivoluzione che dallo sconvolgimento che seguì il 1789 - era dico riservato di lavorare ancora intorno ai problemi, riconosciuti dal secolo XVIII nel loro pubblico valore, e di risolverli per una parte, e di arrestarsi anche oggi nella loro discussione per altre parti e appunto per le più difficili.
Ma di quell'apprezzamento eccessivo delle idee francesi, di quella mancanza di sentimento della realtà, che sta in intima e reciproca relazione con la prima, per tacere delle disposizioni essenziali, ebbero colpa principalmente, come abbiamo già accennato, i troppo piccoli contatti per l'appianamento dei contrasti tra la Francia ufficiale e il dottrinario della critica privata e dell'opposizione, rimaste lontane dalla pratica del governo; in altri paesi invece ed anche in alcuni romanici, i principi stessi e i loro governi fino dalla metà del secolo XVIII personificarono in sé lo spirito della riforma, che procede di pari passo con l'esperienza, ed il progresso storico che può derivare dalla cooperazione di ambedue.

Ma di questi eventi parleremo in altri capitoli.
Dobbiamo soffermarci su una particolare lotta...

LA LOTTA CONTRO IL GESUITISMO > >

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