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145. LUIGI XIV AL SOMMO DELLA SUA POTENZA


LUIGI XIV rappresentò la più elevata personificazione della dignità regale. Era di statura alta e imponente e di persona proporzionata. La salute e la vigoria del suo sviluppo fisico assecondavano il suo contegno maestoso, che, unito alla grazia di ogni movimento, lo faceva apparire come già predestinato dalla natura al regno.


La costante robustezza della sua persona destava in tutti meraviglia, poiché egli non conosceva né stanchezza, né malattia. Nell'anno 1675 introdusse l'uso della maestosa parrucca a ricci, che da Versailles conquistò le classi elevate di tutta l'Europa.

Il suo volto era sempre grave, ma non arcigno, i modi benigni ed affabili, cosicchè i benefici che accordava ricevevano in quel modo sereno un doppio valore. Considerò sempre come affatto disdicevole il mostrare eccitazione e passione mentre invece il dominio di sé stesso e un'incrollabile equanimità come le più alte virtù del re simile a un dio.

Nessuno si ricordava di aver veduto i suoi lineamenti belli e freddi sfigurati dalla collera o dal dolore. La morte di alcuno dei suoi più fidati servitori, anzi di persone della sua stessa famiglia, producevano in lui, almeno esteriormente, un così piccolo cambiamento come una fortuna inaspettata. Se il suo esempio incoraggiava la scostumatezza, egli però vigilava rigorosamente affinché la sua corte portasse un'impronta esteriore di convenienza di onestà.

Costante nelle sue simpatie e nelle sue avversioni, lasciava passare tranquillamente piccole mancanze dei suoi familiari, ma castigava inesorabilmente quelle maggiori, specialmente se offendevano la sua autorità e la sua dignità. Le adulazioni a lui rivolte non erano mai troppe. La sua intera vita fu una rappresentazione teatrale, tuttavia eseguita con tanta arte che soltanto gli osservatori più acuti lo notavano. La monarchia, così sublime e consapevole del proprio valore, era circondata da una rigorosa etichetta, che rassomigliava ad un culto prestato alla divinità.
Così il sovrano doveva essere innalzato ad un grado senza paragone superiore a quello di tutte le classi della nazione. Luigi XIV non voleva più essere, come il suo avo Enrico IV, «il primo gentiluomo del suo regno», ma un essere sollevato in luogo inaccessibile sopra le cime più eminenti dell'aristocrazia.
Il numero delle cariche di Corte e dei servizi, che i grandi dovevano prestare personalmente al re, fu notevolmente accresciuto; i funzionari della Corte di ogni sorta formavano un intero esercito, 3.000 uomini. Così l'alta nobiltà viveva in un'oziosa servitù dorata, mentre gli affari veramente gravi erano amministrati da plebei.

Il maggior privilegio dei signori ragguardevoli era quello di potere assistere all'abbigliamento mattutino del re, di porgergli la camicia, l'acqua da lavarsi, l'abito da mattina. E una cosa simile avveniva quando il monarca alla sera si coricava. In tal guisa il dominatore del mondo dal suo destarsi al suo addormentarsi era circondato dalle adorazioni e dai servizi delle persone più nobili della Francia. In questo bizantinismo vi era molto calcolo politico. Come poteva restare un senso d'indipendenza e un sentimento d'amor proprio in uomini, che si contendevano l'onore di porgere al re la scodella o di abbottonargli l'abito?

«Voi dovete esser persuaso - così Luigi XIV ammaestra suo figlio - che i re sono signori con poteri illimitati e hanno dalla natura il pieno e libero possesso di tutti i beni, quelli che appartengono agli ecclesiastici, come ai laici. Sono nati per possedere tutto e per comandare a tutti. È volontà di Dio che ognuno, il quale sia nato suddito, obbedisca senza un giudizio proprio».

Tuttavia egli prese sul serio anche i suoi doveri di re. Se in fondo egli aveva troppo poco genio per non assoggettarsi alla direzione dei suoi consiglieri, aveva pure un sano giudizio, sufficiente per riconoscere se era bene o male servito e in modo conforme o no alle sue mire. I ministri dovevano sempre stare all'erta, senza negligenze, senza stanchezza. Tutto questo sistema con la instancabile attività e vigilanza del governo centrale, con l'inflessibilità nelle decisioni già adottate, rafforzato e consacrato dalla ferma volontà o dall'illimitato potere di punire del monarca, formava una rete così ingegnosa e così infrangibile sull'intero regno che nessun suddito poteva sottrarvisi, nessuno straniero esimersi dall'ammirarla.

Alla lettera Luigi non ha pronunciato il famigerato «lo Stato sono io»; ma in verità era la sua opinione. Non si doveva parlare dello Stato, ma del «servizio del Re, dell'interesse del Re, dell'amore del Re». Venti milioni di Francesi erano soltanto gli zeri dietro all'immensa unità del monarca.
Luigi XIV credeva di poter mostrarsi superiore alle leggi della morale. La sua consorte Maria Teresa, una mite signora di tendenze religiose, fu da lui trattata sempre con rispettoso omaggio; in compenso essa non s'ingerì mai nelle pubbliche faccende né negli innumerevoli intrighi amorosi del marito. Hanno goduto più durevolmente il favore del re la signora de la Valliére e la marchesa di Montespan, ma anch'esse non poterono esercitare la minima influenza sugli affari dello Stato. Anche di fronte alle sue amiche Luigi rimase sempre il sublime capo coronato del regno.

In Parigi si faceva vedere soltanto nelle occasioni solenni, e solo quando la sua presenza vi era indispensabile. Il ricordo dei procedimenti rivoluzionari della «fronda» gl'ispirava un'invincibile avversione verso i suoi «buoni Parigini». Egli non voleva poi dimorare in un luogo, dove la moltitudine del popolo poneva alquanto nell'ombra la sua maestà; preferiva invece di troneggiare in una residenza da lui stesso creata, dove non vi fosse nulla, che non procedesse da lui o a lui non appartenesse, dove il mondo era costituito dalla monarchia, dalla corte, dai servitori e dagli operai regi.
Meno probabilmente per evitare la vista della chiesa di S. Dionigi con i sepolcri dei re, che per divenire egli stesso il creatore della sua dimora, abbandonò St. Germain, che era stato fino allora la residenza estiva dei re borbonici, e cominciò con immensa spesa a trasformare il piccolo castello boschivo di Versailles in un grandioso palazzo, abitato poi da ogni monarca e degno del dominatore della cristianità. Vi lavorarono talora 20.000 uomini e 6000 cavalli.

Ebbe così origine un mondo, il quale anziché bello può dirsi splendido e meraviglioso. Tutto vi é superbo, sontuosamente decorato, ostentato, colossale, ma senza vera bellezza, senza uno stile perfezionato, senza un solo tratto, che allieti o sollevi l'animo. Nel parco Le Nôtre tracciò un'infinita e noiosa miriade di viali e di boschetti potati, di templi, di teatri, di pergolati, di grotte d'ogni sorta, dagli alberi sgraziatamente maltrattati. Tutta la natura é mutilata, rimodellata, sforzata al servizio del gran re. Un esercito di statue abita questo verde palazzo dalle linee rigide; ma come questo non è un vero giardino, così Giove, Venere, Giunone, Nettuno non sono là realmente le divinità classiche degli antichi, ma sembrano anch'essi dei cortigiani di Luigi, che partecipano ad una rappresentazione teatrale.
Monarchi e nazioni di pietra giacciono sotto i piedi di un Ercole o di un Alessandro pure di pietra, che naturalmente non è anch'esso altri che il «Gran Re». Tutta Versailles, la vivente con 50 o 60.000 abitanti come la morta, era là soltanto per la presenza di Luigi e solo per lui. Costò al re 150 milioni di lire (livres).

In mezzo allo splendore e alla gloria del presente Luigi non si dimenticava del futuro e, come nelle sale e nelle statue di Versailles, volle sopravvivere per i posteri anche nei racconti e nei canti degli scrittori. Sperava così di poter dominare e abbagliare il giudizio della storia non meno dell'opinione dei suoi contemporanei. Concesse benefici a dotti e a poeti, non già mosso da nobile entusiasmo per le scienze e per la poesia, ma pensando con questa magnanimità puramente a sé stesso, alla sua fama, alla sua glorificazione. Anche a dotti stranieri furono elargite delle cambiali sui banchieri del re cristianissimo, accompagnate da lettere lusinghiere: Olandesi, Tedeschi, Italiani e, cosa notevole, uomini semplicemente insignificanti, dai quali si poteva aspettarsi che i benefici loro largiti li indurrebbero a far l'elogio dell'augusto donatore.

Si deve in ogni caso confessare che Luigi non concepiva meschinamente il suo fine di glorificare sé stesso per tutti i tempi e sentiva e comprendeva la gloria, che a lui poteva provenire dalle opere dello spirito.
Egli amava circondarsi non solamente di cortigiani, di funzionari, di generali, ma anche dei più notevoli fra i grandi scrittori del suo regno. Dei raggi da loro irradiati si riflettevano su di lui ed accrescevano il fulgore del sole regale; egli appariva come il centro anche delle aspirazioni intellettuali, la personificazione dello spirito francese in tutte le sue tendenze. Voleva dire non solo «lo Stato sono io», ma anche «io sono la Francia».
Allettato dal favore del re, il circolo degli scrittori gli si schiera intorno; essi acconsentono alle aspirazioni e alle sue idee, sono i suoi servitori al pari di Colbert e di Louvois, di Turenna e di Lussemburgo, si adattano alla loro parte di manifestare il loro talento e il loro studio tutti ugualmente per la gloria di uno solo. Sono come un coro di angeli che cantano inni di lode intorno al trono della divinità. In questo senso, equivalente a una bestemmia, lo stesso Luigi s'immaginava la cosa, egli che si era scelto come divisa: Deo minor, sed orbe major.


La costruzione del Louvre

Luigi nel 1672 si era dichiarato protettore dell'Accademia Francese e le aveva costruito e concesso il palazzo reale del Louvre per le sue sedute. Con l'aiuto di Colbert creò l'accademia delle iscrizioni e delle belle lettere e quella delle scienze naturali. Si provvide pure alle arti; queste al pari dovevano stare al servizio del gran monarca, glorificare le sue gesta, adornare la sua dimora, abbellire le sue feste e rappresentare anch'esse la maestosa dignità e l'ordine ben disciplinato, che emanava dalla persona di Luigi XIV.
Fu all'inizio fondata un'accademia di pittura, poi una scuola francese d'arte a Roma. Seguirono un'accademia di architettura e una di musica. Questa sollecitudine continua per la letteratura e per l'arte era il lato più bello dell'egoismo da sultano proprio del re Luigi, e questi gli è in massima parte debitore di quell'aureola che anche oggi risplende attorno all'«epoca di Luigi XIV».

Così viene designato il massimo svolgimento di quella tendenza letteraria veramente unilaterale e molto ristretta, che sì chiama il periodo «classico» della poesia francese. In Pietro Corneille dura ancora un certa linea, per quanto sottili, ad una rappresentazione individuale dei caratteri; si sentono nei suoi versi, spesso sublimi, degli echi del periodo più libero dì Enrico IV e di Maria dei Medici; il suo seguace ed emulo Giovanni Racine, già vittorioso durante la giovinezza dì Luigi XIV, più abile nella sceneggiatura, dalla lingua più scorrevole, possiede però vigore e individualità di gran lunga minori. I suoi eroi e le sue eroine dì così delicato sentire, col loro linguaggio elegante, armonioso e amabilmente bamboleggiante, sono le copie genuine della società dì Versailles: Greci, Romani, Ebrei, Asiatici - come comparivano sulla scena in parrucca, cappello e spadino e si rivolgevano la parola, chiamandosi «monsieur» e «madame» - così pensavano, sentivano e parlavano tutti come cortigiani dì Luigi XIV. Alessandro, Agamennone, Tito erano poi il «Re Sole». Soltanto dal volubile favore del monarca il poeta sì aspettava gioia o dolore. In lui vedeva il suo ideale; la collera dei re accelerò la sua morte.

Come noi troviamo in Racine più retorica che vera poesia, così anche altrove nell'arte poetica dell'età di Luigi XIV, senza un'intima elevazione su quello che é utile e vantaggioso, predomina il senso pratico, che da Luigi si trasmise all'intera nazione. Una calma riflessione critica é il carattere preminente di quell'arte; essa é specialmente rappresentata da Nicola Boileau. Nei suoi versi freddi, ma ben torniti, questi cerca di fare accogliere esclusivamente anche nell'arte poetica il tirannico dominio della regola, dell'etichetta e dell'intelligenza sana, cioè superficiale, quale allora prevaleva nella vita.
Una simile tendenza é pure quella di La Fontaine, scrittore impareggiabile di favole, adoratore di una ragionevolezza pratica, facile e amabile, piuttosto animata che appassionata, tutta sentimento ma senza entusiasmo, che moralizzava e speculava senza asprezza e con un pieghevole adattamento alla religione dominante - eccellente nel suo genere, come una comoda e soave morale officiale.

É cosa caratteristica del colorito razionale dello spirito francese di quel tempo che appunto allora nascesse il genere dello scrittore propriamente moralista. Il suo vero creatore è il duca de La Rochefoucauld nelle sue «Massime» ingegnose, malinconiche, spesso vere e sempre brillanti. Più superficiali, più miti e variati, più attraenti per la folla sono i «Caratteri» di La Bruyére, serie di saggi, scritti per la società dalla mano leggera di un filosofo, che si propone d'istruire piacevolmente e sorridendo. Da questi gradevoli schizzi morali non é lungo il cammino alle seducenti lettere della signora di Sevigné, a questo specchio limpidissimo della corte di Luigi XIV.

Di gran lunga superiore a questi scrittori e alla schiera innumerevole degli ingegni minori é Moliére, il maggior poeta che la Francia abbia mai prodotto. Come ogni poeta comico, anche Moliére si avvale di quei tipi, che il suo tempo gli offre. Quello che nello scrittore di tragedie é degno di riflessione, nel poeta comico é una necessità. Le grandi qualità dell'uomo guadagnano nell'essere vedute ad una grande distanza, libere da ogni offuscamento; le piccole, che dipinge lo scrittore di commedie, sono trasformate dalla differenza delle epoche fino a divenire irriconoscibili. Ma in Moliére é appunto geniale il saper sollevarsi sopra quello che è mutevole e passeggero, per raggiungere quello che é costante ed eterno. I suoi personaggi vestono l'abito del loro tempo, ma nel loro intimo carattere sono tipi immortali della natura umana, poiché costantemente ed in ogni periodo si rinnovano. Egli non mette lo specchio dinanzi agli occhi soltanto dei suoi contemporanei, ma agli uomini di ogni tempo, finché essi rimarranno uomini.

I grandi scrittori di Luigi XIV derivano tutti da un unico genere anteriore, più libero e individualmente più indipendente; essi erano tutti già formati e pronti ad operare, quando quel monarca prese in mano le redini del potere. Del fatto che il suo sistema di governo non agiva neppure in modo da creare e da eccitare un moto negli spiriti, non saprebbe darsi prova migliore della decadenza intellettuale, incominciata nella seconda metà del suo regno.
Morti gli uomini eminenti, che erano sorti prima del suo avvento al trono, non ve ne fu più nessuno, che stesse al pari di loro anche lontanamente; ma di questi ne rifiorirono, quando durante la reggenza, come nei primi decenni del regno di Luigi XIV, spuntarono di nuovo tempi più liberi sotto l'aspetto politico e religioso.

L'azione sfavorevole del dispotismo egoistico di Luigi, appare anche più chiaramente nell'arte. La ragione di questo é che Luigi e Colbert, mentre agivano solo mediatamente sulla letteratura, esercitavano un'influenza diretta sull'arte, la opprimevano pensosamente e violentemente sotto il sistema dell'unità e dell'uniformità, improntato secondo l'organismo dello Stato. Ogni ramo dell'arte fu costretto a mettersi e ed entrare nell'abito di corte.
La pittura si riannodava alla scuola italiana dei Caracci, l'eclettismo si mutò in Francia in una stilizzazione azzimata cortigiana. Questa tendenza deleteria riportò la vittoria più completa nel preferito e vero pittore di corte di Luigi, in Carlo Le Brun (16 i 6-i 69o), artista di grande ingegno, di ricca fantasia e di una facile abilità nel disegno, ma privo di sentimento profondo, di slancio e di elevazione ideale, intento solo ad una decorazione abbagliante al servizio dell'onnipotente sovrano. Con innumerevoli quadri di battaglie e pitture allegoriche Le Brun celebrò la gloria di Luigi XIV. Da lui e dalla sua scuola esce la degenerazione della pittura francese, il suo passaggio a una vuota pittura di maniera, che deve considerarsi come la decadenza più profonda di ogni arte.
Si tenne del tutto indipendente da lui il ritrattista Mignard, fino, leggiadro, eppure vero.
La plastica francese fu al pari della pittura dominata dall'Italia e appunto dal Bernini, a noi già noto. La sua maniera esageratamente naturalistica, che andava a finire in un effetto abbagliante e in un rozzo blandimento del senso, piacque tanto a Luigi XIV che il re chiamò il Bernini a Parigi, lo ricevette con onori principeschi e lo scelse a suo consigliere per tutte le opere di scultura e di architettura. I principali rappresentanti della tendenza berniniana in Francia furono Girardon e Puget. Anche qui, soltanto il ritratto dette opere pregevoli per merito dell'eccellente scultore lionese Coyzevox.

Luigi più di ogni altra arte amava l'architettura, perché le sue opere più delle altre colpiscono l'occhio e soprattutto fanno vedere la potenza e la ricchezza di colui che fa edificare, mentre nella plastica e nella pittura il committente si eclissa del tutto dietro all'artista. Però appunto in quest'arte prediletta il re fu punito dalla falsa tendenza dello spirito da lui favorita e promossa, poiché essa poté compensare soltanto con della sovrabbondanza e con una pompa tediosa la mancanza d'ispirazione e d'invenzione. I due Mansard, zio e nipote, non seppero che innalzare per centinaia di milioni di franchi delle fabbriche gigantesche, sovraccariche nei particolari, ma nel loro complesso limitate e fredde. Di gran lunga migliore delle altre é la facciata principale del Louvre di Claudio Perrault col suo grandioso colonnato davanti ai piani superiori; ma Perrault deriva ancora da un periodo anteriore e non divenne mai favorito di Luigi XIV.

Ecco dunque i meriti di questo re rispetto alle arti; col suo favore egli le ha soltanto rovinate e col suo amplesso egoistico ha soffocato in esse ogni nobile germe.

Ma in quale condizione erano le scienze ?
Durante tutto il suo regno non vi e alcun grande storico, alcun importante giurista, alcun naturalista di prim'ordine. Tutto ciò che richiede slancio, entusiasmo, vita ed anima non trovò modo di progredire sotto il dispotismo uniforme, soffocante ed assorbente di Luigi. In tutta la Francia egli soltanto doveva essere ascoltato - e quindi i suoi sudditi ammutolirono.
Tanto più favorito e coltivato fu lo studio paziente, senza pretese, perseverante, l'erudizione fredda ed arida, specialmente se prometteva di arrecare un utile immediato allo Stato e alla monarchia.

Anche la Chiesa francese stava del tutto soggetta all'influenza del principe, che in essa conferiva tutte le dignità e s'ingeriva in tutti i particolari dell'ordinamento ecclesiastico. Luigi introdusse il sistema pernicioso di nominar vescovi non più uomini importanti, come i grandi oratori sacri Fénelon, Bossuet, Bourdaloue, ma i suoi favoriti personali o dei nobili bisognosi, senza riguardo ai meriti morali o intellettuali.
Anche la Chiesa doveva divenire uno strumento della sua potenza, un istituto del tutto dipendente dalla corte. Quando venne in lotta col papa per il motivo dell'estensione a tutta la Francia della «regale», cioè del diritto di riscuotere le entrate vescovili durante la vacanza della sede, convocò un concilio nazionale, che nei famosi «quattro articoli » del 1682 proclamò la subordinazione del papa al concilio generale e l'indipendenza del potere temporale da quello spirituale.

Questi articoli divennero la base della «Chiesa gallicana», che (a dire il vero) cambiava semplicemente la soggezione alla Curia con quella alla Corona, ma tuttavia aveva un carattere nazionale, ed era separata da quelle estere.

Gli stranieri riconoscevano con ammirazione la superiorità della Francia di Luigi XIV. Temuti e potenti all'esterno, i Francesi apparivano ad un tempo amabili ed esperti in tutti i mestieri e le arti della pace. Mentre si erano resi quasi del tutto indipendenti dalla importazione straniera, le loro merci furono avidamente ricercate in tutti gli altri paesi d'Europa per la loro fabbricazione solida e di buon gusto; in compenso molti milioni affluivano ogni anno nel regno. L'agricoltura procacciava cereali sufficienti, i migliori vini del mondo, gli oli più fini, i legumi più gustosi, la seta greggia più abbondante.
Il numero degli abitanti da dieci milioni alla fine del secolo XVI era salito a venti. Il centro industriale e commerciale di questo regno fiorente era Parigi. Era già fin d'allora la capitale delle industrie di lusso; nei tessuti e nei panni le sue fabbriche superavano quelle inglesi, nel ricamo in oro ed argento come nella seta quelle lombarde, nel vetro e nel cristallo quelle veneziane.

Colbert non fece nascere in questa laboriosa Parigi nessuna antipatia per il re; oltre alle manifatture che vi fondò, agli edifici monumentali che vi eresse, lavorò con un ardore, che ricorda i giorni del secondo impero, al suo abbellimento, cioè al suo rinnovamento.
Così nei primi due decenni del governo personale di Luigi. Tuttavia per l'azione delle sue guerre continue, dei carichi immani da esse imposti al paese, dell'inesorabile sistema fiscale di governo, e del pregiudizio fondamentale arrecato da Colbert all'agricoltura, la Francia prese gradatamente un aspetto diverso e più fosco.
Non si creò impunemente quella potenza militare senza esempio, che spaventò e tenne in scacco l'intera Europa. Per quanto elevate fossero le imposte, esse non bastavano a mantenere l'esercito, e la maggior parte delle tassazioni fu di nuovo addossata alla parte povera della nazione; i non privilegiati furono obbligati ad alloggiare gratuitamente i soldati in marcia.- Dovunque gli abitanti fuggivano dinanzi alle loro estorsioni e ai loro maltrattamenti. Il cittadino dovette abbandonare all'esattore delle imposte la metà delle sue rendite, le terre perdettero il loro valore per la quantità dei carichi che gravavano su di esse, il numero dei fallimenti aumentò in misura spaventosa.
Nei rigidi inverni migliaia di persone trovavano la morte per mancanza di nutrimento, di abiti, di fuoco. Sono queste le ombre cupe del regno di Luigi XIV. Di simpatia, di compassione, di cuore per la «canaille» nel «Re Sole», nei suoi ministri, tanto egoisti quanto servili, nei suoi cortigiani risplendenti d'oro, non è naturalmente il caso di parlare.

Ad onta del crescente impoverimento del popolo il re si compiaceva di un lusso senza limiti, e la nobiltà doveva imitarlo in questo, anche a costo di rovinarsi. Tutto quello che circondava la monarchia doveva rifulgere di uno splendore abbagliante. Questo lusso favoriva in sommo grado un profondo rilassamento dei costumi, a cui il re stesso dava incitamento. Le favorite regali dominavano la « società » e uomini e donne della nobiltà come della borghesia si abbandonavano senza riguardi alla peggiore scostumatezza. I mezzi per questa vita si cercava molte volte di procurarseli con la «polvere d'eredità » della marchesa di Brinvilliers, che a causa di molti venefici fu giustiziata nel 1676. Con i suoi intrugli prometteva ai poveretti ambiziosi, ricchezza e celebrità.
Anche più lontano giunsero le relazioni della Voisin, che vendeva polveri erotiche per gli amanti respinti, o intrugli venefici per le vendette; e vendeva pessimi servizi a dame dissolute. Quando fu portata dinanzi al tribunale, furono coinvolte dei più gravi delitti le persone più altolocate della corte, fino al maresciallo di Lussemburgo e alla Montespan. Però si finì con il lasciare andare i maggiori colpevoli, mentre i piccoli perirono sul rogo o sulla ruota.

Sotto un tale aspetto si presentavano le qualità morali di quei brillanti cortigiani, soliti a risplendere tra i raggi del «Re Sole». Questa gente naturalmente non si dispensava da alcuna cerimonia servile e umiliante. Non disturbato da alcun richiamo, suggerimento, consiglio, Luigi, come un tempo gli imperatori romani, fu dominato a poco a poco dall'effetto di un cesarismo onnipotente.
Luigi cominciò a scegliere i suoi favoriti non secondo la loro capacità, ma secondo il suo capriccio e a trattare poi sempre più rigidamente e tirannicamente i suoi ministri benemeriti. Nulla può caratterizzare le idee di questo sovrano meglio del diario da lui concepito e riveduto. In questo egli si esprime con un'ingenua chiarezza: la vita e i beni dei sudditi appartengono senza condizioni al re; i ministri sono soltanto i suoi commessi, ogni grandezza e gloria deriva da lui solo. Richelieu e Mazarino non sono mai esistiti; la grandezza della Francia comincia solamente con Luigi XIV.

Colbert cadde pure lui in disgrazia, perché esortava il re alla parsimonia e cercava di guarirlo dalle folli prodigalità. Il suo emulo Louvois fece il possibile per aumentare sempre più questi pessimi rapporti. Esaurito dal terribile sovraccarico di lavoro e oppresso da malattie, Colbert si abbatté; morì il 6 settembre 1683 a sessantaquattro anni. D'allora in poi Louvois rimase senza contrasti padrone del campo. Adulando senza limiti il suo signore, adattando ogni suo progetto alla sua sete di gloria, alla vanità e alla insaziabile ambizione; e nell'agire così Louvois si dimostrava sempre quello che era: un servitore ubbediente e pieno di ammirazione, in realtà egli era molto più del re era la ruota motrice della politica interna ed esterna. A questo prezzo poteva permettersi tutto quanto stava sotto di lui. Divenne addirittura onnipotente e trattò gli altri ministri come suoi sottoposti. Arricchì sé e la propria famiglia con cariche onorifiche e proventi di ogni specie. Nel modo più rovinoso diresse la politica estera della Francia. Non era più il caso di parlare della geniale conformità ad un disegno prestabilito, della previdente accortezza di un Lyonne, uso a tener conto di tutte le circostanze, della misurata prudenza del suo successore Pomponne: una violenza brutale, un'arroganza sfrenata, un'audacia senza confini, una costante violazione del diritto - eran questi i mezzi, coi quali Louvois pensava di mantenere e di accrescere la grandezza della Francia, con i quali tuttavia finì col porre in armi l'Europa intera contro di essa e fu causa così della sua decadenza.
Dei favoriti e un primo ministro: quanto siamo già lontani dal Luigi dell'anno 1661 !

Inoltre si mostrava sempre più spaventoso lo spettro del disavanzo annuale. Nei cinque anni dal 1684 al 1688 salì a 82 milioni di «livres» che si cercò di coprire con prestiti e anticipazioni. Veramente il re spese in un anno due milioni per acquisto di diamanti e quindici milioni di «livres» per costruzioni di edifici (insieme 102 milioni di franchi). E questo stesso monarca ebbe la crudele audacia di rispondere al suo ministro, che lo esortava alla parsimonia: «l'esosita delle imposte mi fa pena, ma esse sono tutte necessarie».

In tutto il paese regnavano il malcontento e il disgusto: non passava un anno senza grandi o piccole sollevazioni in qualche provincia. Ma esse erano soffocate nel sangue. Sempre più grave, sempre più molesto s'imponeva il dispotismo su tutte le classi della popolazione. Questa perdette a poco a poco il coraggio di resistere apertamente; si lagnò soltanto di nascosto. Il gran re così trionfava sui propri sudditi. Non fu quindi più disturbato e così poté rivolgere all'esterno la sua forza formidabile, per «portare la Bastiglia anche nei paesi stranieri», secondo l'energica espressione del Grande Elettore.

Il documento della pace di Wesfalia era stato redatto ancora in latino. D'allora in poi in segno del dominio politico e intellettuale, che la Francia esercitava in Europa, il francese divenne ovunque la lingua della diplomazia e della buona società. E questa non é del tutto una cosa puramente esteriore. Quando ogni uomo colto rese familiare il francese più della propria lingua materna, fu nello stesso tempo colmo d'idee, di tendenze, di aspirazioni e di opinioni francesi, e il modo speciale dei Francesi di essere, di pensare e di operare penetrò in tutti i popoli dell'Europa incivilita.
Parigi e Versailles apparvero come il centro non solo della Francia, ma del mondo. Di là non solo risuonavano i comandi del gran re, che decidevano della guerra e della pace, del bene e della sventura dei popoli, ma uscivano pure sull'Europa piena di ammirazione le opere dello spirito, studiate con la più alta considerazione e celebrate dagli uomini colti di ogni nazione.
Di là provenivano le leggi della moda e del « bon ton », eternamente mutevoli, eppure rigorose e tiranniche, e dagli stranieri seguite con sommissione quasi più dei decreti del semidio di Versailles. Il mondo signorile voleva vestirsi solamente di stoffe francesi, lavorate artisticamente da sarti, da cappellai, da calzolai parigini. Per compiere la propria educazione non si andavano più a cercare gli accorti nobili veneziani o le antiche e celebri università di Padova e di Bologna, e nemmeno la mite società poetica della Firenze medicea: verso Parigi soltanto si recavano in pellegrinaggio giovani cavalieri, principi e principesse per ricevere nella sede del gusto più fino le sue novità e poi tornarsene in patria quali apostoli entusiasti del carattere brillante francese , inebriante, amabile, spiritoso.

Come un tempo al termine dell'evo antico la cultura greco-romana abbracciava in modo uniforme tutti i popoli dall'Eufrate alle Colonne d'Ercole, dal Sahara alla muraglia dei Pitti nella remota Britannia, - così nell'epoca di Luigi XIV la cultura francese si stendeva su tutto l'Occidente. E non soltanto s'imitò all'estero il costume francese e la lingua, ma anche la sapiente dottrina politica, che aveva raggiunto risultati così sorprendenti.

Il sistema mercantile di Colbert trovò plauso da ogni parte con le sue alte tariffe doganali, i divieti d'importazione e i benefici di Stato nei campo dell'industria. Non il libero reciproco scambio, ma la reciproca esclusione parve che fosse la base normale del commercio internazionale.
Specialmente nella Germania, povera, desolata, lacerata, materialmente e moralmente misera della guerra dei trenta anni produsse un'impressione abbagliante ed irresistibile questo mondo francese, che brillava per potenza, ricchezza e spirito. Dalla nobiltà e specialmente dalle corti, che imitavano meschinamente il modello dato da Versailles, la smania di tutto francesizzare passò a tutte le classi della nazione. Parve di essere fini se si storpiava la propria lingua con qualche po' di francese; si disprezzò la pesante e tarda lingua materna o almeno si cercò di abbellirla col maggior numero possibile di parole francesi. Le punzecchiature garbate nei rapporti sociali, il contegno frivolo e presuntuoso, il prendere alla leggera la vita e la morale, il compiacersi gaiamente e senza scrupoli di ciò che piace ed eccita i sensi deliziavano ogni ceto sociale.

A questo si accoppiava spesso bizzarramente l'innata pedanteria tedesca. Anche nella letteratura questa maniera franceseggiante cominciò naturalmente ben presto a dominare. Nella prima metà del secolo XVII la poesia tedesca era ancora soggetta all'influenza della scuola idealistica della poesia italiana, i cui maestri erano il Tasso e il Rucellai. Martino Opitz batté del tutto questa via. Ma dopo di lui fece subito irruzione la tendenza franceseggiante. La seconda scuola poetica della Slesia mostrò tutti i vizi del preziosismo. La materia é insulsa e inoltre scurrile, la forma senza naturalezza ed ampollosa, mentre la massima importanza si attribuisce a sciocchi artifici poetici. «Maestri», che rifuggivano da questa arte falsa, straniera sul suolo tedesco, sono il consigliere di Breslavia Cristiano Hoffmann di Hoffmannswalclau, come il giurista Gaspare di Lobenstein.

Anche nelle arti del disegno in questi tristi tempi la Germania perde ogni indipendenza ed originalità. La pittura non poteva sottrarsi alla decadenza generale della nazione tedesca e perdette al pari di questa ogni sicurezza di sé ed ogni carattere. Con un insipido eclettismo, accostandosi ai modelli francesi ed italiani, fìnì col perdere nella sua miseria anche l'abilità tecnica.
L'onnipotente gusto francese dimostrò anche più la sua influenza nell'architettura, poichè gli immensi palazzi edificati da Luigi XIV destarono l'ammirazione e l'invidia operosa dei principi tedeschi. Ognuno di questi volle possedere la sua Versailles, la sua Marly: imitare con tutta la fedeltà possibile questi edifici divenne il tema e lo scopo di tutti gli architetti. Nulla rimase della vivace abbondanza, delle ricche strutture dello stile del rinascimento, ma solo la fredda solennità e le massi imponenti dei modelli del re Luigi.

Questa tendenza fu messa in voga a Berlino sotto il Grande Elettore da Giovanni Arnoldo Nehring, che era del resto un artista di grande talento, dal quale proviene il disegno dell'arsenale berlinese. Del resto sotto l'assolutismo illimitato derivato dalla Francia non si poteva parlare di una qualsiasi individualità, così nelle case allineate lungo le strade interminabilmente diritte ed uniformi, come negli uomini.
Né in modo meno assoluto che in Germania l'influenza francese dominava nella vicina Olanda. Il creatore della poesia olandese, Hooft, aveva ancora al pari di Opitz seguito interamente i modelli italiani. Ma il suo seguace Joost van der Vondel (1587-1679), nativo di Colonia, che a ragione come lirico é lodato quale il più egregio poeta del suo popolo, rivolse le sue mire principalmente al dramma e per freschezza e naturalezza rimane in esso di gran lunga indietro all'Hooft. Come Racine, che fu il suo modello, opera piuttosto con l'intelligenza che con la poesia, ci offre discorsi lunghi e altisonanti invece del lin
guaggio del sentimento e della passione e bada più alle regole dei classici che ai dettami della natura e della verità poetica.

Ma la pittura olandese conservava più fedelmente il suo carattere nazionale. Prima di tutto nel genere. Ora da quei dipinti sgorga un umorismo fresco ed originale per quanto talora grossolano, ora spicca in essi una fantasia prodigiosa e una sorprendente propensione allo stravagante - d'accordo col carattere libero, ardito, vigoroso, sensuale degli Olandesi di quel tempo, inclini allo scherzo e al rischio e tuttavia dediti alle arti belle. Jan Steen, l'allegro taverniere di Leida, che nei suoi dipinti pazzamente gioviali celebra, gli effetti del vino e della birra su tutte le classi della società, ci mostra così bene quanto sia intima la connessione di quest'arte col popolo.
E poi ancora i maestri, che principalmente dipingono la vita delle classi signorili con finezza e con grazia: Gerardo Terburg, che sa rappresentare con meravigliosa naturalezza le ricche stoffe degli abiti e Gerardo Dow, che dal suo maestro Rembrandt ha ricevuto il modo abile e sorprendente di trattare gli effetti di luce. Sono innumerevoli gli artisti che si ricollegano a questi due, i Metzu, Il Mieris, il Netzscher, lo Schulken e così molti altri, testimoni della vita animata e della feconda forza creatrice del popolo olandese di quei tempi.

Anche in un altro campo si manifesta l'affettuosa tendenza ad immergersi nella vita circostante, a comprendere con vivacità e ad ingentilire il mondo della natura e dell'uomo, il modo netto di sentire ciò che è piccolo e il dono di nobilitarlo per mezzo dell'arte, cioè nella eccellente pittura olandese di paesaggio. Al geniale Ruysdael tengon dietro numerosi scolari, che hanno un valore proprio, come Hobbema, De Vries e molti ancora. Attestano un felicissimo accordo con la natura le marine di Backhuysen - che é veramente un Tedesco di Emden - le quali ora rappresentano leggiadramente le attrattive dell'onda marina battuta dal sole, liscia o leggermente increspata, ora la terribile furia, l'impeto irresistibile delle acque fin dal profondo sollevate dalla tempesta.
Certo questa pittura olandese non ha raggiunto i soggetti e i fini più elevati dell'arte; però la sua vita fresca, svegliata, verace, che si beffa di tutti i ceppi imposti dalla convenienza e dalla menzogna cortigiana, le sue manifestazioni popolari sorte dal fondo dell'animo offrono un contrasto gradevole con la falsità, con le forme tornite, col cerimoniale insulso e senza cuore, con la pomposa servilità, quale in ogni ramo dell'arte procedette dalla Francia di Luigi XIV e conquistò tutti gli altri popoli d'Europa. Così soltanto si comprende tutto il valore della resistenza vittoriosa dell'Olanda.

Anche la filosofia e le scienze naturali percorrevano qui la loro propria via, non viziata dalle tendenze del momento.

Baruch Spinoza, nato ad Amsterdam il 24 novembre 1632, proveniva da una famiglia di Ebrei portoghesi, che avevan trovato nei liberi Paesi Bassi una patria più felice. Ricercando la verità, per un'ardente sete di sapere, il suo spirito energico e intrepido non si arretrò dinanzi ad alcuna conseguenza logica di ciò che egli aveva riconosciuto ed esposto come vero. Egli tolse di mezzo interamente quel dualismo tra anima e corpo, che Descartes aveva lasciato sussistere e che i seguaci di lui avevano tolto via soltanto esteriormente, per mezzo delle occasionali disposizioni della divinità; secondo Spinoza non vi é che una sola sostanza, Dio; il pensiero e l'estensione - il mondo spirituale e quello corporeo - sono soltanto modi, forme fenomeniche di Dio. Tutte le cose finite stanno in questa unica sostanza, provengono da Dio in seguito alla necessità eterna del suo essere. Libertà e spontaneità non hanno luogo in questo sistema né in quanto all'uomo né in quanto a Dio, ma tutto si svolge per la necessità razionale, che costituisce pure l'essenza di Dio. Tutto riposa su ragioni eterne, né vi è in alcuna cosa uno scopo, poiché questo presupporrebbe una precedente imperfezione nell'essenza della divinità, che é invece sempre perfetta. Da poche supposizioni, cui si dà forma di principi indipendenti di ragione, di assiomi, questa sistema é compiuto dal grande pensatore fin ai suoi ultimi particolari con rigore matematico e con logica inesorabile. Immergersi con ardore amoroso nella cognizione della sostanza unica, nell'amore di Dio, adattarsi all'ordine eterno del mondo e vivere ed agire secondo le norme della ragione, tendere solo alla conoscenza, raffrenando le brame mutevoli e passeggere - questi sono i doveri, che Spinoza pone all'uomo.

Così da un sistema metafisico di una necessità terribilmente coercitiva egli giunge ad un'etica pura e nobile, che per elevazione e grandezza morale appena fu raggiunta da ogni altra. Quale magnifico contrasto presenta questa dottrina dell' «ateo», dichiarato eretico in vita e dopo la morte, questa dottrina della ragione e della cognizione quali unici beni degni di esser desiderati, dell'amore puro e disinteressato verso il grande procreatore di tutto, di fronte alla ricerca dei godimenti, alla cupidigia, alle frivolezze, alla vana caccia di fasto, di pompa e di eccitamenti sensuali, che dalla corte del devoto e clericale Luigi XIV si erano diffuse in tutte le classi superiori !

Oltre a questo grande pensatore nel campo filosofico, la piccola repubblica dei Paesi Bassi di quel tempo produsse anche nel campo delle scienze naturali un genio di primo ordine in Cristiano Huygens (1629-1695). Col perfezionare il cannocchiale, il barometro, la macchina pneumatica ne fece degli infallibili strumenti scientifici e, adoperando il pendolo nella costruzione dell'orologio, rese possibile un'esatta misura del tempo. Scoprì l'anello di Saturno. Però molto maggiori anche di questi suoi lavori importanti tecnici ed astronomici furono i progressi, che per opera sua fece la cognizione delle teorie naturali.
Lo studio del pendolo lo condusse a stabilire le leggi della forza centrifuga - complemento delle leggi della gravità e non meno importante di esse. Fu anche il creatore della teoria del moto ondulatorio della luce, che per lungo tempo tenuta nascosta dalla teoria dell'emissione di Newton, nel XIX secolo ha riportato una splendida vittoria. Huygens ha già espresso chiaramente il principio della conservazione dell'energia delle forze naturali. Con il Galileo, di cui prese per base i lavori, e col suo avversario scientifico Newton forma la splendida triade luminosa degli eroi delle scienze fisico-matematiche nel secolo XVII.

L'Inghilterra ufficiale, da quando vi teneva corte Carlo II come vassallo agli stipendi del monarca francese, era veramente forgiata in tutto secondo il modello di Versailles. Una tendenza simile si diffuse poi con forza irresistibile almeno tra il ceto colto della città, in parte a motivo dell'esempio decisivo, che ne davano le classi più elevate e in parte come conseguenza di una reazione, che in se stessa non era affatto ingiustificata. Solo difficilmente la «lieta vecchia Inghilterra» aveva sopportato sotto il governo dei Puritani la soppressione di tutte le feste popolari, di tutte le gioie anche più innocenti - e con tanto minore ritegno, dopo il ritorno del legittimo sovrano, si gettò nel vortice dei piaceri. Il teatro era in sviluppo, seguendo in tutto i modelli di Francia. Il creatore del nuovo dramma inglese, Sir Guglielmo Davenant, cercava semplicemente di riprodurre Corneille nel suo « Assedio di Rodi ». Trovò con questo un plauso straordinario ed imitatori da ogni parte.

Anche Giovanni Dryden (1631-1700), il tipo più completo della società inglese nel periodo della restaurazione, dopo alcuni tentativi mal riusciti di un dramma «nazionale», si dette del tutto allo stile francese, così nelle sue tragedie, come specialmente nelle sue poesie liriche ed epiche, nelle quali imitò particolarmente Boileau. Esse ci mostrano i pregi francesi di una rima facile e sonora e di una grande correttezza di forma, ci fanno però sentire la mancanza di ogni vera attitudine poetica; prevale l'intelligenza, non il cuore ed il sentimento. Con tutto ciò egli ebbe un'influenza grandissima sui poeti di quell'epoca. I migliori lirici, come Waller e Marvel, passarono dalla sua parte, in quella del così detto «classicismo» francese.
Nella tragedia Otway compì l'opera di Dryden, col bandire dai suoi lavori gli ultimi ricordi del glorioso teatro della vecchia Inghilterra. In modo tanto più rozzo e sbrigliato questi medesimi poeti - Dryden, Otway e specialmente Wycherley -si esprimevano nelle commedie, il cui tono incredibilmente licenzioso é da loro designato come la riproduzione fedele dei costumi e del linguaggio della corte inglese di quel tempo.

In mezzo a tanta impudenza e a tanto fango ci offre un vero conforto il riconoscere che l'indagine scientifica, che in certo modo rappresenta la cittadinanza e il medio ceto, valente, onorato e poco toccato da quella corruzione, continuava senza aberrazioni la propria via, e così nelle scienze naturali come in quelle politiche poneva l'Inghilterra a capo delle nazioni europee. In conformità al carattere pratico degli Inglesi l'attività dei loro scienziatisi volse dapprima alla scienza meccanica. Copernico, Keplero e Galilei le avevano fatto fare dei progressi essenziali, ma soltanto Isacco Newton (nato nel 1643) le diede la sua vera base, sistematica e inoppugnabile. Professore di matematica a Cambridge, aveva già ritrovato il calcolo infinitesimale, quando non per un'improvvisa ispirazione, ma per mezzo di calcoli laboriosissimi, giunse a convincersi che i corpi celesti nei loro movimenti sono guidati in tutto da quelle medesime leggi della gravità per le quali sulla terra un oggetto cade al suolo.
Nel febbraio del 1684 Newton comunicò la sua grande scoperta alla «Società Reale» delle scienze; negli anni seguenti la condusse a termine nel modo più esatto in un'opera assai vasta; solo per mezzo dell'algebra superiore da lui recentemente riscoperta era potuto giungere a questo risultato. Si era così compiuto un fatto scientifico d'importanza inestimabile e tutta l'astronomia fisica era stata ricondotta a un'unica legge fondamentale meccanica.

Tutte le difficoltà astronomiche da quel tempo con l'aiuto dell'osservazione si possono spiegare e risolvere, partendo dalla legge newtoniana della gravitazione. Così fu dimostrata la concatenazione dell'edificio dall'universo. Ma ancora più del valore astronomico di questa scoperta è significante quello, che concerne la storia della cultura. In luogo della considerazione mistica della natura, che in ogni cosa vedeva arbitrio e miracolo, é sorta in quel tempo la persuasione di una rigorosa regolarità nell'universo. Newton ha assicurato la vittoria della tendenza che nel secolo XVII ebbe poi il nome di «naturalismo», cioè del concetto che spiega tutto quanto avviene con le leggi della natura, come una conseguenza necessaria da causa ad effetto.
Egli é stato perciò il promotore non solo della così detta «illuminazione delle menti» del secolo XVIII, ma anche in genere dei concetti moderni di natura e di universo.

La Spagna, un tempo avversaria dell'Inghilterra e della Francia, si mantenne più degli altri paesi esente dall'influenza francese. Il carattere del popolo spagnolo, chiuso, particolare, presuntuoso e soddisfatto di sé, la sua lontananza e la sua separazione materiale dal resto d'Europa gli hanno sempre fatto accogliere ogni elemento straniero più tardi e meno compiutamente di quello che avveniva nelle altre nazioni. Allora la scuola di Siviglia produsse il genio maggiore e più caratteristico dell'arte spagnola, Bartolomé Esteban Murillo (1618 al 1685). Mai pennello seppe rappresentare con tanta verità e con tanto diletto, in modo così vigoroso ed interessante, la vita delle classi inferiori ed originali del suo popolo, nessuno l'intima devozione, il desiderio inappagabile dei cuore verso il divino, l'inestinguibile ardore di uno spirito umano di alto sentire, che ad un tempo prorompe dal suo esterno inviluppo e lo consuma. Di fronte alle creazioni più nobili e più affascinanti della pittura italiana regge certo il paragoni quel fuoco ardente e che profondamente ci commuove, quale scaturisce dagli occhi delle Madonne del Murillo, quell'incanto del suo colorito e del suo modo di distribuire le luci, quell'abbandono che egli dà ai suoi soggetti, quel vigore e quell'energia con cui esprime la vita delle forme da lui create.

Dopo il Murillo soltanto Claudo Coello (morto nel 1693) potè sostenere la fama della pittura spagnola, però piuttosto in modo eclettico che con una potenza creatrice indipendente. Poi anche in questo campo quello che era nazionale e grande si sommerge nella decadenza universale del carattere spagnolo.
Nel dominio della vita dello Stato la Spagna esausta di uomini, di denaro e di talento politico non poteva del resto offrire ormai alcuna resistenza alla sempre minacciosa dominazione mondiale di Luigi XIV.
Non che questo re, come più tardi il primo Napoleone, avesse pensato a sottoporre di fatto immediatamente al suo scettro l'Europa intera; ma egli si era proposto di far sentire a tutti gli Stati la sua dominazione, di rendere in ogni luogo il suo volere decisivo senza contraddizione. Questo lo dimostrò nel suo attacco contro Genova nell'anno stesso della pace di Nimega.

Questa fiorente repubblica commerciale si trovava sotto il governo di una numerosa aristocrazia, alla quale soltanto spettava il diritto di esercitare il gran commercio e le funzioni del banchiere e dell'armatore e che per mezzo di istituzioni simili a quelle, che si erano svolte in Venezia, cercava di soffocare in germe la resistenza della piccola borghesia, del «popolo minuto», che si faceva valere di quando in quando. Da tempo antico questa nobiltà mercantile genovese si era alleata con la Spagna, procacciandosi ricchezza col suo commercio di denaro e anche solita prestar servizio nei suoi eserciti in qualità di intendenti od anche di ufficiali. Però gli uomini di stato francesi desideravano urgentemente di ridurre Genova alla loro dipendenza, per potervi sbarcare delle truppe nel caso di una guerra in Italia e anche per potere in tempo di pace dominare soli nel Mediterraneo occidentale.

Inflissero quindi ai Genovesi continue molestie per costringerli a sottomettersi; anzi per futili motivi Luigi XIV senza un qualsiasi preventivo avvertimento nel 1678 fece bombardare il sobborgo genovese di S. Pier d'Arena, la Lanterna é due forti.
Tuttavia le mire principali del gran re erano allora rivolte ai Paesi Bassi e alla Germania occidentale.

Nei trattati di Munster e di Nimega la diplomazia francese aveva lasciato aperta la questione se le cessioni accordate alla Francia dovessero intendersi nel loro senso più stretto, allora in uso, o nel senso precedentemente usato e più largo. Aveva del resto accennato subito che essa preferiva questo ultimo. Ad onta di ogni protesta dell'imperatore e dell'impero, Luigi aveva allora costretto a sottomettersi le dieci città imperiali e l'aristocrazia imperiale dell'Alsazia.
Dopo che fu conclusa la pace di Nimega, riferendosi a questi precedenti, sostenne una teoria, che non ha mai avuto il suo uguale in fatto di audace male interpretazione di diritti: tutti i possedimenti che nel tempo più remoto avessero mai ammesso dei rapporti di dipendenza con le province cedute alla Francia in quei due trattati di pace, dovevano nuovamente essere riuniti ad esse.

Questo condusse all'istituzione delle così dette «camere di riunione» presso i parlamenti di Metz, Besançon e Brisach. La parte interessata si eresse quindi a giudice nella propria causa e di fronte a principi e Stati, che se anche senza paragone più deboli, erano tuttavia non meno sovrani dello stesso re di Francia. Una duplice ed evidente violazione del diritto!
Le camere di riunione naturalmente aggiudicarono alla corona di Francia tutti i territori imperiali dell'Alsazia e fra questi la contea di Mónpelgard (Montbeliard) appartenente al duca di Württemberg. Tutti si sottomisero in silenzio. Nel modo più radicalmente svergognato procedette il parlamento di Metz, che dichiarò vassalli di vescovadi lorenesi i conti di Salm e Saarbrücken, il conte palatino di Veldenz e di Lüdzelsdein e il duca di Due Ponti e incluse in Lorena anche i possedimenti di Treviri.

Sulla riva sinistra del Reno superiore era rimasta all'impero tedesco una città sola, ma della massima importanza - Strasburgo, quel baluardo del germanesimo, di cui l'imperatore Carlo V, aveva detto che, se Strasburgo e Vienna fossero assediate contemporaneamente, egli si porrebbe in cammino prima di tutto per salvare Strasburgo.
Mentre Leopoldo I era tutto intento alla minacciosa guerra con la Turchia, il 27 settembre 1681 comparvero dinanzi a Strasburgo tre reggimenti di dragoni francesi, che interruppero le sue comunicazioni con la Germania. Due giorni dopo giunse Louvois e intimò la resa, altrimenti minacciò avrebbe messo tutto a ferro e fuoco. Il consiglio pusillanime ed anche corrotto nella sua minoranza si sottomise senza resistenza ad una capitolazione molto vantaggiosa per la città, che ebbe il solo difetto di non essere mai osservata.

Il 30 settembre (nuovo stile) 1681 Strasburgo fu consegnata ai Francesi e, invece di essere il baluardo della Germania contro la Francia, divenne la porta, da dove questa continuamente mosse i suoi assalti contro la Germania stessa.
La presa di Strasburgo non fu l'unico colpo che Luigi abbia rivolto contro il diritto e contro la libertà dell'Europa. Delle truppe francesi occuparono in piena pace Casale, la fortezza più importante dell'Italia superiore; la camera di riunione di Metz aggiudicò alla corona di Francia la massima parte del ducato belga di Lussemburgo. La fortezza stessa di Lussemburgo fu bloccata da reggimenti francesi, perché minacciava le città francesi di Longwy e di Thionville ! È evidente che, usando metodi simili, ve n'era abbastanza per porre sotto sequestro l'intera Europa.

Tutti erano irritati per questi atti di rapacità, compiuti in seno alla pace appena ristabilita. Ma da dove poteva derivare la forza di resistere, se l'Inghilterra era soggetta ai traditori Stuardi e l'imperatore era del tutto occupato da un attacco con i Turchi?
Istigato e sostenuto dalla Francia l'ambizioso gran visir Kara Mustafà si alleò con gli Ungheresi sollevatisi sotto Tókóly. Nel maggio del 1683 tra spaventose devastazioni vanzò con 230.000 uomini direttamente su Vienna. Carlo duca di Lorena, generale dell'imperatore, privo come era di ogni soccorso, dovette coi suoi 32.000 combattenti ritirarsi dinanzi a lui.
A quello di Vienna si collegava il destino dell'Europa; se quella città cadeva si davano in questa parte del mondo due casi possibili - divenire turca o francese. Tutto il mondo incivilito guardava con angoscia a Vienna, che dispiegò un eroismo inaspettato, grazie specialmente a un capitano ardito e avveduto, Ernesto Rüdiger, conte di Starhenberg, che oltre ai suoi 14.000 soldati armò anche 8000 cittadini e studenti. Soltanto la troppa lentezza di Kara Mustafà concesse tempo a questi armamenti e per poter rafforzare le mura; tuttavia a poco a poco il valore più tenace avrebbe dovuto soccombere agli attacchi continui di forze immensamente superiori.

Giunse allora il soccorso, re Giovanni Sobieski di Polonia, che gravemente offeso dalla insolenza dimostrata da Luigi XIV anche a suo riguardo, aveva abbandonato l'alleanza francese. Nella rovina dell'imperatore per opera dei Turchi egli previde anche la propria perdita; mosse quindi con 26.000 combattenti su Vienna. E a ltrettanto considerevole il rinforzo delle truppe imperiali tedesche. II 12 settembre 1683 l'esercito cristiano muovendo dal Kahlenberg, assalì i Turchi e li batté completamente.
In questa grande battaglia fu infranta per sempre la forza offensiva dell'impero osmano. Gl'imperiali penetrarono in Ungheria, vinsero nuovamente presso Parkany, conquistarono l'importante città di Gran.
Nell'anno seguente anche Venezia entrò nella lega contro la Porta.
Per questa lotta le forze militari dell'impero erano tuttavia duramente occupate in Oriente.

Luigi XIV approfittò di questa circostanza per mettere rapidamente al sicuro le sue conquiste, prima che i Turchi facessero pace con gli Asburgo tedeschi. Prese nel Belgio Dixmuyden e Courtrai e finalmente (nel giugno 1684) anche Lussemburgo, stimata inespugnabile - acquisto quasi di uguale importanza a quello di Strasburgo.
Solamente l'opposizione del Brandeburgo trattenne il re dall'estendere anche alla Germania propriamente detta le sue conquiste.

Si è soliti a rivolgere rimproveri amari alla Germania di quei tempi per il suo contegno arrendevole di fronte alla violenza dire Luigi. Ma che poteva fare? Soffriva ancora per le tremende conseguenze della guerra dei trent'anni, era spopolata, impoverita materialmente e intellettualmente, e non era in grado di combattere nello stesso tempo la Francia e la Turchia. Da nessuna parte si poteva attendere un serio aiuto. La Spagna era un corpo senza vita; gli Stati Generali ancora nel giugno 1684 si accordavano con la Francia, l'Inghilterra era vassalla di questa. Quindi ben fecero l'impero e la Spagna per le insistenze a stipulare nell'agosto 1684 a Ratisbona un trattato tollerabile: un armistizio di venti anni sulla base dell'uti possidetis del 1681; inoltre Strasburgo e Lussemburgo dovevano nel frattempo restare alla Francia.

Ma questa pace simulata fu per Luigi soltanto un'occasione per nuove scandalose violenze. Il maresciallo di Crequi rase al suolo le mura di Treviri, perché la Germania non possedesse alcun baluardo da opporre a Lussemburgo. Il vescovado di Liegi, il duca di Savoia furono costretti ad una vergognosa sottomissione. Genova, che rifiutava di consegnare le sue galere e di riconoscere l'alta sovranità della Francia, fu punita di questo suo delitto con un bombardamento di più giorni, che pose in fiamme tremila case, e con la distruzione dei suoi sobborghi. Un esercito di 30.000 uomini si mise in movimento contro la repubblica così duramente provata, che dovette ormai (febbraio del 1685) gettarsi ai piedi del re onnipotente; consegnò le sue galere, licenziò la guarnigione spagnola, pagò grosse spese di guerra.
Il doge e quattro senatori comparvero innanzi al re ed umilmente implorarono grazia e protezione. Non vi era più alcun riparo di fronte ai voleri del despota, che sedeva sulla Senna.

Tuttavia egli ha con questo provocato contro di sé tutti i popoli e i principi d'Europa e li ha costretti addirittura ad effettuare a suo danno un'alleanza generale, che comprendeva tutta quella parte del mondo. Nello stesso tempo Luigi commetteva anche nell'interno del suo regno una violenza fatale.

L'ideale, che aveva del suo stato, era che questo fosse un tutto in se stesso armonico, uno e perfetto, che ricevesse soltanto da lui, il re, impulsi, tendenze e direzione. Perciò egli volle che anche nel campo religioso non sussistesse alcuna differenza dalla sua fede, quella cattolico-romana. Quando penetrarono anche in Francia le opinioni del vescovo Cornelio JANSEN d'Yperen, che aveva rinnovato la dottrina di S. Agostino dell'esclusivo valore della grazia divina per la salvezza dell'uomo, e quando questa tendenza ascetica e di rinunzia al mondo trovò appunto là nei circoli intellettualmente più elevati molti partigiani, il re intervenne rigorosamente contro il «giansenismo » e chiuse il suo centro, il monastero delle monache di Port-Royal presso Parigi.
Però gli spiacevano ancor di più i protestanti «perché si ostinavano in una religione, che non piace a Sua Maestà»; e poiché essi non si volevano sottomettere, «Sua Maestà fu molto esigente con loro».

Dal primo istante del suo governo personale Luigi dimostrò ai protestanti il suo disprezzo. Scacciò da Parigi i loro predicatori e permise ai loro figli minorenni di passare di loro arbitrio al cattolicesimo. All'inizio si parlò soltanto di «conversione». I mezzi veramente non erano violenti, ma nondimeno assai pericolosi moralmente. Nessun protestante otteneva una testimonianza di favore o un ufficio lucrativo; invece ogni ugonotto che passava al cattolicesimo, secondo la sua posizione sociale, era sicuro di un donativo in denaro, di un buon impiego o di un matrimonio vantaggioso. Tuttavia pochi si lasciarono sedurre. Una «cassa di conversione», che allora si fondò, fece solamente tra la feccia della popolazione protestante alcune conversioni poco raccomandabili.

Il re era altamente sdegnato per questa «disobbedienza» dei suoi sudditi riformati, ed era inoltre istigato continuamente dal clero a perseguitarli. La pace di Nimega proclamò Luigi vincitore di tutta l'Europa; ora come poteva egli sopportare che gli resistesse un pugno dei suoi sudditi?

In verità Colbert non voleva saper nulla di una persecuzione dei membri più laboriosi dello Stato, delle colonne più solide del suo sistema mercantile; ma anche in questo egli si trovava di fronte il crudele ed esclusivo Louvois, il quale si impegnava a fondo solo per poter lusingare le inclinazioni del suo signore.
Inoltre il confessore del re, il gesuita La Chaise, che del resto era uomo mite e diplomatico, fu costretto dal suo «ordine» a procedere nel senso della più estrema intolleranza. Infine gli Ugonotti trovarono la loro principale avversaria nella signora di Maintenon.

Francesca di Aubigné (nata nel 1635) - così la Maintenon era chiamata col suo nome da ragazza - discendeva da un'antica famiglia protestante, nobile ma decaduta. Dei parenti, avendola sottratta ai suoi genitori, la fecero educare nella fede cattolica. Dopo un breve matrimonio col poeta satirico Scarron, la vedova divenne istitutrice dei figli, che Luigi XIV aveva avuto dalla Montespan. Il carattere intellettualmente interessante ed accorto della bella ed onesta signora fece una profonda impressione sul re: essa si rivolse alla coscienza del monarca, esaurito tra i piaceri, tormentato dagli scrupoli per la sua condotta immorale, e sospeso in un continuo timore della morte, gli mostrò come un confessore, puiò insegnare la via che conduce al cielo per mezzo della virtù.

Dotata largamente di mezzi e innalzata al grado di marchesa di Maintenon, riuscì a far metter da parte le amanti del re e divenne d'allora in poi, onnipotente presso il sovrano. Dopo la morte della regina (1683) il «Re Sole» , sposò nel gennaio del 1684 la vedova Scarron, che d'allora in poi non intraprese nulla senza il suo consiglio.

Era appena giunta ad esercitare un'influenza imperante, quando questa bigotta signora, rigida con gli altri come con se stessa, si unì con Louvois per la distruzione del protestantesimo in Francia. Essa diede l'esempio di strappando a questo a migliaia i piccoli fanciulli per ricondurli alla Chiesa romana. I riformati furono esclusi da tutti gli uffici e da tutte le dignità. Con futili pretesti si cominciò a chiudere le loro chiese. Ad ogni tentativo di resistenza passiva contro queste misure violente si rispose con sentenze capitali dei tribunali o, anche più semplicemente, con le scariche dei fucili dei soldati.

Molti riformati per timore o per interesse personale passarono alla chiesa dominante, ma il maggior numero mostrò una fermezza gloriosa. Allora si seppero adoperare altri mezzi. Seguendo l'esempio di Marillac, intendente del Poitou, Foucault intendente della provincia di Bearn, patria di Enrico IV - un tempo interamente protestante - iniziò ad usare un duplice sistema di persecuzione. Chiuse prima le chiese riformate, che si pretendeva fossero troppo numerose e cacciò dal paese tutti i pastori calvinisti come agitatori e promotori di disordini. Poi acquartierò in gran numero di soldati, preferibilmente dragoni, nelle case dei protestanti, che furono del tutto abbandonati ai maltrattamenti di questi ospiti spiacevoli. Uno genere di persecuzione cui si diede anche uno sprezzante nome: "dragonate".

Spogliati delle loro chiese e dei loro pastori, vergognosamente tormentati, privi di ogni speranza di un miglioramento futuro, migliaia di loro si salvarono con una conversione apparente. Queste «dragonate» trovarono imitatori in altre province con uguale successo.

Dopo essersi con questi mezzi rafforzato, Luigi dette il colpo decisivo; il 22 ottobre 1685 il parlamento di Parigi registrò la legge regia, che revocava l'editto di Nantes e decretava al posto di quello una serie di paragrafi intesi a perseguitare le comunità dei riformati. L'esercizio del loro culto fu del tutto vietato; le loro chiese dovevano senza eccezione esser distrutte, le loro adunanze religiose vietate anche nelle case private; tutti i predicatori furono esiliati con la minaccia delle più gravi pene, agli altri riformati invece fu impedita l'emigrazione con i medesimi castighi e così fu loro tolto l'ultimo rifugio. Già tutti i confini erano stati prima d'allora fortemente occupati, perché Luigi e Louvois non volevano del tutto perdere la grande quantità d'intelligenza e di ricchezza che i riformati possedevano.

Ma circa duecentomila ugonotti seppero ad onta di ciò sottrarsi con la fuga al dilemma rovina o abiura. Talora fra le frotte degli ugonotti e le truppe del re si venne a dei veri combattimenti, nei quali i primi non sempre ebbero a soccombere. Purtroppo agendo così le pene divennero sempre più rigorose. Si finì con l'infliggere agli emigranti la morte e a chi li aiutava la galera.
Nulla però riusciva efficace; il coraggio, l'abilita dei perseguitati e la corruzione da loro esercitata furono più forti della legge, della polizia e dell'esercito. Il Grande Elettore di Brandeburgo accordò arditamente ai suoi sventurati correligionari asilo ed aiuto nei suoi Stati.

Molte migliaia di loro si misero in salvo a Ginevra, a Zurigo, a Berna e specialmente poi in Olanda. In Inghilterra perfino il re cattolico Giacomo II accordò grosse somme di denaro ai fuggiaschi, ai «refugiés».
Il numero dei marinari francesi che si rivolse all'Inghilterra per aiuto fu molto considerevole e gli inglesi li accolsero a braccia aperte, loro di bravi marinai avevano sempre bisogno e quelli francesi fu una vera manna, calmierarono i prezzi d'ingaggio dei locali.
Anche nel piccolo Brandeburgo vi furono ben presto 16.000 rifugiati, e altre migliaia furono accolte nei principati franchi degli Hohenzollern, Ansbach e Bayreuth. Lo stesso avveniva negli altri Stati protestanti. Dappertutto poterono formare comunità proprie, dove si predicava e si amministrava in lingua francese e si rendeva giustizia secondo codici di leggi francesi.

La perdita che subì la Francia in seguito a questa emigrazione fu immensa. Fu la parte più eletta dei protestanti francesi, i componenti di questa comunità più segnalati per coltura, ricchezza, capacità e carattere, che seppero prendere la via dei paesi stranieri. I rifugiati portarono nelle nuove patrie la loro intelligenza, il loro coraggio, la loro perizia industriale, una parte della loro ricchezza, il loro odio fiero contro l'oppressore, contro questo Luigi XIV, il cui nome suonò sempre più come un oggetto di terrore fra tutti i popoli d'Europa.

Non al fanatismo religioso = questo sarebbe ancora scusabile - ma al dispotismo politico, al capriccio principesco, ad un prepotente sistema livellatore e all'ambizione dei piccoli papi gallicani furono sacrificate la felicità, la tranquillità d'animo e l'onoratezza di milioni di protestanti. Ma non bastò: con orgoglio sconfinato Luigi volle imporre anche ai paesi vicini quello, che aveva compiuto nel suo proprio regno.
Nelle valli delle Alpi Cozie e Marittime vivevano alcune migliaia di valdesi, una povera e piccola setta, ingenuamente pia, che si atteneva con ardente zelo alla fede semplice degli avi, restando del resto fedelmente devota al suo sovrano, il duca di Savoia. Per ordine di Luigi XIV il duca sabaudo dovette acconsentire all'introduzione delle «dragonate» anche in queste valli tranquille ed unire per questo le sue proprie truppe a quelle francesi. Gli orrori, i tormenti, le carneficine, che imperversarono tra questi pacifici montanari sorpassarono tutto quello che prima era avvenuto.

E come Luigi estese la sua persecuzione oltre i confini del proprio regno, così non ne escluse nemmeno gli stranieri, che fidando nella pace si erano stabiliti in Francia; nonostante le proteste dei governi dei loro paesi non rimase loro come ai riformati francesi che la scelta tra la confessione cattolica o la fuga. Manifesta violazione anche questa del diritto delle genti !

La revoca dell'editto di Nantes con gli avvenimenti che vi si ricollegano, questa «riunione » ecclesiastica come fu chiamata con perfetta proprietà di linguaggio, anche prescindendo dal suo carattere moralmente riprovevole, é stato il più grave errore di Luigi XIV. Il punto di vista, da cui queste misure derivarono fondamentalmente, era interamente erroneo. L'unità della fede e del pensiero non é, come pensavano il re e il clero, un beneficio per lo Stato e per la nazione, ma ne è la più grave sventura.

L'uniformità intellettuale non é altro che la morte dello spirito. In religione come in politica, nella letteratura, nell'arte e nell'essere e nell'attività di tutte le classi della nazione soltanto la varietà, il contrasto, la lotta reciproca costituiscono la vita. Dove regna l'uniformità, regnano il silenzio e la morte. Ma anche non tenendo conto di queste conseguenze ulteriori e tuttavia inevitabili la persecuzione dei protestanti arrecò immediatamente i più gravi danni al re e alla Francia.

Né il danno più importante - per quanto lo fosse molto - non fu per lui il perdere centinaia di migliaia dei suoi sudditi più operosi, intelligenti e agiati e per lo più a vantaggio dei suoi avversari, ma fu invece il fiero sdegno che queste violenze tiranniche accesero contro di lui in ogni cuore evangelico per tutta l'Europa. Da ogni lato contro di lui e contro l'oppressione della coscienza in genere si levarono scrittori geniali e dotti; così il tedesco Samuele di Pufendorf nel suo libro: «Sopra le relazioni della religione cristiana con lo Stato»; così l'olandese Pietro Bayle nel suo «Contrains-les d'entrer» ; così il grande filosofo inglese Locke nelle sue «Lettere sulla tolleranza».

Sarebbe stato impossibile ad un principe evangelico allearsi in avvenire a Luigi XIV. Non vi era pulpito, da cui non si inveisse contro la Francia e il suo monarca, nessun villaggio, dove non fosse penetrato l'odio contro il «Gran Re». Nè la Svezia, né la Danimarca, né il Brunswick, nè la Sassonia potevano d'allora in poi pensare a un'alleanza francese. Anche i Cantoni svizzeri protestanti non gli fu più possibile fornire soldati al re Luigi.

Perfino alle potenze cattoliche e allo stesso pontefice le "dragonate" parvero semplicemente nuove prove della violenza di Luigi, spregiatrice di ogni diritto. Tutti i principi, tutti i popoli anelavano di essere liberati dal dominio oppressivo e arrogante di questo re, che tutti e tutto offendeva.

Questa liberazione doveva prender le mosse dall'Inghilterra.
Lo leggeremo nel prossimo lungo capitolo

LUIGI XIV: DISPOTISMO E LIBERTA' - GUGLIELMO D'ORANGE > >

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