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146. LUIGI XIV: DISPOTISMO E LIBERTA' - GUGLIELMO D'ORANGE


VERSAILLES NEL 1715

L'entusiasmo rumoroso, col quale il popolo inglese aveva salutato il ritorno del suo legittimo re, ben presto tacque. Carlo II aveva considerato la sua dignità alta e responsabile puramente dal punto di vista piuttosto personale, come il mezzo migliore di condurre una vita di piaceri e di dissolutezza. Che egli avesse anche dei doveri verso lo Stato e verso la nazione non gli era mai venuto in mente a quell'uomo frivolo e senza coscienza.
Quindi chiuse gli occhi di proposito davanti a un fatto, la cui importanza si faceva riconoscere sempre negli avvenimenti di quel tempo, cioè che nonostante il giubilo dei sudditi leali, nonostante ogni giuramento dei realisti, la rivoluzione e la guerra civile avevano diminuito profondamente il potere e l'autorità della Corona ed instillato a tutti la convinzione della grande potenza dei rappresentanti della nazione.

Ed anche il cavaliere più fedele criticava e mormorava della sfrenata prodigalità e della spensieratezza del principe, che minacciavano il dissolvimento del governo, dell'esercito, che nel 1672 determinarono l'unico effettivo fallimento dello Stato, a cui l'Inghilterra abbia mai assistito, e che permise agli Olandesi di far udire il rombo dei cannoni dei loro vascelli fin davanti alle mura di Londra.

Anche il più ardente partigiano della chiesa episcopale e della supremazia regia fremette di collera, quando Carlo per procurarsi denaro per i suoi piaceri vendette alla Francia Dunkerque, il glorioso acquisto di Cromwell.
Poiché Carlo non aveva alcun figlio legittimo, era erede presuntivo del trono suo fratello Giacomo, duca di York; era questi passato apertamente al cattolicesimo ed aveva sposato poco prima una cattolica e per di più della casa di Modena, del tutto devota alla Francia.


Dal suo primo matrimonio protestante, erano nate a Giacomo soltanto delle figlie - se quindi dalla sua seconda consorte fosse nato un figlio, il regno per delle generazioni sarebbe stato tramandato a dei sovrani cattolici.

Delle voci vaghe di patti conclusi da Carlo con Luigi XIV, diffuse da quest'ultimo, per rendere l'Inghilterra impotente all'esterno per mezzo di discordie interne, fecero crescere l'indignazione generale. Questo aumentò fino al delirio, quando un uomo senza coscienza, un tale Tito Oates, sperando di giunger così alla considerazione ed alla ricchezza, dette l'annunzio di un immaginario complotto papista, che si pretendeva mirasse a porre in mano dei cattolici l'Inghilterra, dopo l'uccisione del re e dei più ardenti rappresentanti della nazione di fede protestante.
Poiché alcune circostanze accidentali parvero confermare l'accusa di Oates, non si poté più tenere a freno l'opinione pubblica. Un gran numero di cattolici innocenti fu giustiziato. Invano Carlo tentò di calmare gli animi, accettando (maggio 1679) dopo aver resistito per più anni, l'atto dell'«habeas corpus», il quale ordinava che in caso di imprigionamento ogni inglese fosse posto dentro un termine brevissimo alla presenza dei suoi giudici naturali, e che, ad eccezione dei delinquenti più gravi, l'accusato fosse posto in libertà in cambio di una congrua cauzione; l'«habeas corpus» é così divenuto la difesa più efficace della libertà personale.

Le nuove elezioni per la Camera bassa, fatte per la terza volta, dettero di nuovo una maggioranza per l'esclusione di ogni principe non protestante dalla successione al trono. I partigiani di questa «legge di esclusione» si chiamavano «whigs» (nome burlesco dei puritani scozzesi), gli avversari «tories», cioè ladroni irlandesi cattolici.
Nella Camera dei comuni gli «whigs» riportarono la vittoria, facendo accogliere la proposta di legge e con ciò l'esclusione di Giacomo di York dal trono. Nondimeno il re uscì allora dalla sua ordinaria indolenza e fiacchezza. Non volle lasciar cadere la causa del suo fratello e soprattutto non volle sopportare la trasformazione della corona ereditaria d'Inghilterra in una monarchia elettiva per grazia del parlamento.
Adoperò quindi tutta la sua influenza sui «lords» e questi respinsero effettivamente la legge. La Camera dei comuni, che continuava nell'opposizione, fu sciolta due volte. Carlo allora (1681), come gli consentiva la legge, decise di governare nei tre anni successivi senza parlamento.
Con sicuro giudizio egli aveva riconosciuto il mutamento dell'opinione pubblica. Le misure rivoluzionarie degli «whigs», come le persecuzioni scandalose esercitate contro i cattolici, sollevarono a poco a poco negli spiriti del popolo inglese, riflessivi e amanti della legalità, un grande scontento e una reazione contro gli «whigs» e in favore di Carlo. Il re dal canto suo poté arrischiarsi a procedere ad atti di sanguinosa vendetta contro i capi della parte estrema degli «whigs» - i lord Essex e Russel e il geniale scrittore Sir Algernon Sidney.

In mezzo però al suo trionfo la morte lo rapi improvvisamente (febbraio 1685) nel suo cinquantacinquesimo anno di vita. Egli si era fatto amministrare l'estremo sacramento da un prete cattolico.
Era giunto ormai l'istante atteso con angoscia da tutti gli Inglesi, nel quale con Giacomo II un sovrano cattolico saliva al trono. Veramente cominciò il suo regno con l'assicurazione che egli non recherebbe alcun pregiudizio né ai diritti del popolo né a quelli della Chiesa di Inghilterra, così segnalata per la sua lealtà. Però le sue effettive intenzioni erano del tutto diverse. Era un uomo di sentimenti rigidi e severi, la cui asprezza era stata soltanto accresciuta dalle prove e dalle sofferenze della guerra civile, come dagli attacchi degli «whigs» contro la sua persona.

Secondo il suo parere, ogni male procedeva solamente dalla insubordinazione dei sudditi e dalla debolezza dei governanti. Quindi egli si atteneva saldamente ai principi più decisi dell'autorità incondizionata, nel campo ecclesiastico come in quello temporale - cioè al cattolicesimo romano e alla monarchia assoluta.

Ristabilire di nuovo l'uno e l'altra in Inghilterra come istituzioni del paese, adoperando senza riguardi la prerogativa regia contro le leggi esistenti, tali erano i progetti di Giacomo II, che nella limitazione del suo spirito non poteva giungere ed apprezzare chiaramente le condizioni e le possibilità effettive, scambiava la sua sciocca ostinatezza per saggia fermezza, che in momenti decisivi gli era spesso mancata. Verso se stesso questo principe era del resto molto più mite che verso gli altri, permettendosi la vita più licenziosa, a dispetto della sua pietà bigotta.

Si accese una lotta, che doveva essere della più alta importanza per l'avvenire non solo dell'Inghilterra ma del mondo intero. Si trattava della vittoria o della sconfitta del romanismo, che pareva dovesse presentarsi ancora come dominatore del mondo in due modi: come assolutismo politico, personificato nella Francia, ma esteso molto al di là dei suoi confini per opera di Luigi XIV, in contrasto con l'elemento originariamente germanico del libero governo e della libera amministrazione di se stessi; poi ancora come devozione esclusiva alla Chiesa cattolica, pronta a reagire contro ogni libertà di pensiero e d'indagine appena si manifestasse.
Giacomo difatti comprese che nell'attuare le sue mire non poteva fare a meno della cooperazione di quel campione di ogni tendenza romanica che era Luigi XIV e perciò fino dall'inizio si accostò a lui in un rapporto di dipendenza.

Un tentativo di render favorevole alla parificazione dei diritti dei cattolici la maggioranza di «tories» del parlamento recentemente convocato, e perseguitando crudelmente i «dissenzienti», cioè quei protestanti, che non appartenevano alla chiesa di stato inglese o scozzese, fallì; esso però dimostrò incontestabilmente che Giacomo non aveva in mira, come più tardi si sostenne, l'uguaglianza di tutte le confessioni religiose, ma solo il dominio della sua religione, cui allora non apparteneva ancora la centesima parte di tutti gli Inglesi. E poiché non si poteva ottenere che la maggioranza di «tories» favorisse il cattolicesimo, Giacomo tentò la via opposta, concedendo nell'aprile del 1687 con la così detta «dichiarazione d'indulgenza» l'uguaglianza così ai cattolici come ai « dissenzienti ». Ma la grande maggioranza di questi ultimi non si lasciò sedurre. La dichiarazione d'indulgenza eccedeva evidentemente e in modo incostituzionale della prerogativa regia; essa pure chiaramente procedeva non da spirito di tolleranza, ma da accorgimento politico. Perciò i dissenzienti si unirono più volentieri agli anglicani, che li avevano tuttavia perseguitati meno del re, che si attenevano saldamente alla costituzione e che finalmente stavano per la loro fede molto più vicino ad essi che non Giacomo II.
E in modo anche più partigiano Giacomo, con evidente violazione della legge, ripartì fra i cattolici tutte le cariche del governo, dell'esercito e perfino della chiesa anglicana. Della sua supremazia sulla chiesa inglese abusò per distruggerla. Contrariamente a due leggi formali costituì un tribunale ecclesiastico, chiamato « alta commissione », con poteri punitivi discrezionali per toglier di mezzo tutti i membri sinceramente protestanti del clero.

Le università, che sino a quel tempo avevano sempre predicato l'assolutismo regio, non sfuggirono al fato di vedere cacciati i loro professori dalle aule, sostituiti da cattolici, anzi da monaci. I gesuiti, odiosi a tutta la nazione, rientrarono nel regno e tra essi Giacomo scelse il suo confessore, il fanatico Petre. Un ambasciatore del re inglese si recò a Roma, un nunzio pontificio comparve in Londra. Tutti i giudici e i funzionari che si opposero a questi maneggi illegali, furono privati del loro posto. Invece i cortigiani zelanti per entrare in grazia al re passarono in massa al cattolicesimo. Giacomo pensava di assicurarsi in Irlanda una solida base per i suoi progetti e perciò un cattolico irlandese del più deciso colore politico, Tyrconnel, fu nominato lord governatore di quest'isola che egli organizzò in senso romano-cattolico. I reggimenti inglesi furono gradatamente sciolti e sostituiti da Irlandesi cattolici. Tutti i timori che si nutrivano per l'avvento di Giacomo al trono furono di gran lunga superati.
Finalmente la nascita di un erede maschio della corona parve estendere ad un lontano avvenire il timore di un'oppressione politica e religiosa del popolo della Gran Bretagna.

In questi frangenti i capi di tutti i partiti si unirono nel rivolgere a Guglielmo d'Orange genero del re, una richiesta scritta di comparire con delle milizie in Inghilterra per salvare la costituzione e la fede.


Guglielmo Enrico di Orange, come orfano, aveva passato una triste giovinezza sotto la dura vigilanza dei suoi avversari oligarchici. Di salute delicata, in mezzo a queste tetre impressioni divenne doppiamente serio, assorto nei suoi pensieri, anzi arcigno. Tuttavia seguiva in tal modo anche una scuola eccellente di arte diplomatica, della capacità di nascondere accuratamente progetti futuri, per lavorare però con ogni energia alla loro graduale esecuzione. Trascurò le gioie della gioventù, la scienza e l'arte, per dedicarsi fin da principio solo agli affari pubblici. Anche se egli naturalmente non perse d'occhio mai il proprio interesse, lo subordinò tuttavia ad un fine maggiore e più generale, alla distruzione della tirannia francese sull'Europa.
Con questo egli si è acquistato un merito imperituro per tutta questa parte dei mondo.

Personalmente poco amabile, malaticcio, noioso e freddo, sul campo di battaglia per lo più sfortunato; però limpido, consapevole del suo compito, incrollabile, non soggetto a disperare, pronto a sacrificare in ogni tempo la sua persona alla sua grande causa, Guglielmo III d'Orange, anche se non è una personalità attraente, è tuttavia degno di ammirazione e alla sua maniera grandioso.
Difatti egli allora inclinava a cedere al desiderio degli Inglesi. Per quanto fosse lento, nei momenti decisivi sapeva prendere decisioni pronte ed ardite e porle in esecuzione. Del resto la sua consorte Maria, che poneva gli interessi del protestantesimo al di sopra di quelli di suo padre, era in questo d'accordo con Guglielmo.

La caduta di Giacomo doveva compiersi, se dovevano esser salvate di fronte a Luigi XIV la libertà d'Europa e la religione. Date le disposizioni della nazione inglese, era molto probabile, che il re fosse rovesciato dal trono; se l'Orange non avesse vinto in questo prima parte, correva pericolo di esser posto da parte e privato della successione al trono.
All'impresa si opponevano ancora molte difficoltà, nondimeno gli avversari stessi si adoperarono per allontanarle. Gli aristocratici olandesi, che temevano una nuova invasione di Luigi XIV nei Paesi Bassi, rifiutarono all'inizio di acconsentire all'impresa di Guglielmo; poi il re li liberò da quella preoccupazione.

Le continue vittorie degli imperiali sui Turchi, ai quali furono riprese tutta l'Ungheria, la Transilvania e la Slavonia, istillarono al re di Francia una certa apprensione che i suoi alleati osmani fossero costretti ad una pace vergognosa e con ciò i reggimenti imperiali vittoriosi potessero adoperarsi per la difesa del Reno. Decise quindi d'intervenire e di sottomettere l'imperatore e la Germania, prima che fosse troppo tardi.

Dei pretesti furono facilmente trovati: la conclusione in Augusta (1686) di una lega difensiva per l'impero, tra l'imperatore e i più ragguardevoli principi tedeschi, dei pretesi diritti della duchessa d'Orléans, cognata di Luigi, su certe parti del Palatinato elettorale, l'essere stato lasciato da parte il cardinale Guglielmo di Fürstenberg, candidato francese alla sede arcivescovile di Colonia, a favore di Giuseppe Clemente di Baviera, raccomandato dall'imperatore - da tutti questi avvenimenti Luigi sosteneva di sentirsi offeso. Senza una precedente dichiarazione di guerra nel settembre del 1688 le sue truppe entrarono nell'elettorato di Colonia e nel Palatinato, dove commisero delle scandalose estorsioni come nel vicino Württemberg.

Un grido d'indignazione per queste nuove violenze risuonò per tutta Europa. In Germania tutti erano morsi dalla collera; nessun Francese residente poteva sentirsi sicuro della vita. Del resto Luigi aveva errato nei suoi calcoli - non aveva destato spavento, ma irritazione. Specialmente gli Olandesi riconobbero che non potevano permettere ai Francesi di stabilirsi nuovamente presso i loro confini così facilmente vulnerabili. Nel tempo stesso la direzione dell'attacco principale dei Francesi sul Reno superiore toglieva loro la preoccupazione di essere essi stessi invasi dalle loro truppe.
In quest'occasione l'inglese Giacomo II si era posto apertamente ed energicamente dalla parte del cardinale di Fürstenberg; appariva quindi con l'aspetto odioso di complice dell'oppressore francese. Alla stessa fine di settembre Guglielmo ottenne dagli Stati generali il consenso per la sua grande impresa.

Il 12 novembre 1688 mise in mare una flotta di seicento navi; senza essere assalito poté sbarcare a Torbay nella costa britannica meridionale. Di là partì la dichiarazione che lo scopo del suo sbarco era puramente il ristabilimento dello stato legale e costituzionale in Inghilterra.
Giacomo II non aveva alcuna ragione di disperare, potendo opporre ai 14.000 combattenti dell'Orange 40.000 soldati regolari, senza contare le milizie. Tuttavia perdette subito la testa. Invece di assalire e di distruggere senza indugio i suoi avversari con le sue forze decisamente superiori, fece delle concessioni, che (data la situazione) non gli guadagnarono l'animo di alcuno, anzi fecero soltanto tutti persuasi della sua debolezza personale e del suo timore.

L'Orange collocò sapientemente davanti all'avanguardia di re Giacomo i due reggimenti inglesi al soldo dell'Olanda; e quando questi ebbero riportato qualche buon successo, questo apparve come una vittoria nazionale dell'Inghilterra. La defezione si fece sempre più generale - lords, ufficiali superiori e finalmente Anna, la figlia minore di Giacomo, con suo marito, il principe Giorgio di Danimarca, passarono alla parte di Guglielmo.

Allora veramente tutto fu perduto per Giacomo, che fuggì in Francia (alla fine di dicembre del 1688), dove con la sua famiglia fu accolto e mantenuto da Luigi XIV nel castello di St. Germain-en-Laye con una splendida ospitalità. Questa amabile cortesia non era, a dire il vero, del tutto disinteressata. Luigi pensava di servirsi all'occasione dello Stuart contro l'Inghilterra; per questo comandò ai suoi funzionari di trattenere con la forza il suo augusto ospite in ogni suo tentativo di allontanarsi. Era quindi quella una prigionia dorata !

Per la seconda volta e definitivamente era caduta nella Gran Bretagna la signoria della casa degli Stuart e con ciò si era decisa per sempre la vittoria della libertà personale e cittadina sopra l'assolutismo monarchico. Quel grande rivolgimento, che gli Inglesi sogliono chiamare la «gloriosa rivoluzione», ebbe piena riuscita quasi senza spargimento di sangue. Anche se veramente vi è poco di glorioso per gli Inglesi, che vi hanno rappresentato soltanto la parte di spettatori. La decisione si dovette puramente a Guglielmo d'Orange, al suo esercito olandese e tedesco e oltre a ciò alla viltà e incapacità di Giacomo II. Ma é semmai glorioso il rigido sentimento di ordine e di legalità, l'assoluto dominio di sé, che gli Inglesi dimostrarono in mezzo a questi avvenimenti violenti. Non vi fu alcuna reazione sanguinosa contro i vinti oppressori, non vi fu alcun radicalismo demagogico.
Con fermezza, con riflessione e con tranquillità i capi del popolo britannico procedettero nella loro decisione di approfittare di questa grande vittoria per assicurare durevolmente la libertà, una libertà però fondata sopra una base storica e conciliabile con le istituzioni e con lo spirito della vecchia Inghilterra.
Poiché non vi era più un re, l'ultimo parlamento di Giacomo indisse le elezioni per una « convenzione », vale a dire per un parlamento senza sovrano.
Questa dichiarò che il re Giacomo con la sua fuga dal regno aveva da sé stesso rinunziato alla corona e che il trono era vacante. In un solenne documento furono enumerati tutti i diritti e le libertà della nazione - la così detta «dichiarazione dei diritti».

Soltanto dopo averla accettata Guglielmo e Maria furono riconosciuti come re d'Inghilterra (23 febbraio 1689). Così per la prima volta in Inghilterra il diritto della monarchia fu fatto dipendere da quello del popolo e con questo il potere supremo, quello veramente influente e decisivo, fu trasferito dalla corona alla rappresentanza della nazione.
L'Inghilterra da monarchia limitata costituzionalmente era così divenuta uno Stato con governo parlamentare, una repubblica aristocratica con un presidente, che porta il titolo di re ed é ereditario, ma che appunto per questo rimane di gran lunga meno potente di un presidente repubblicano eletto dal popolo.

Questa condizione di cose ottenne veramente il suo pieno sviluppo soltanto nel corso del secolo XVIII, ma il suo punto di partenza sta nella «gloriosa rivoluzione» del 1688. Il parlamentarismo inglese essendo in seguito divenuto il modello per la maggior parte delle altre nazioni, questo rivolgimento acquistò per il futuro una grande importanza, la quale oltrepassa i confini dell'Inghilterra.

Tuttavia esso ebbe anche un effetto immediato in Europa. Con la caduta degli Stuart, con l'avvento di Guglielmo III al trono, l'Inghilterra guadagnata così alla causa della libertà europea, si schierava definitivamente tra gli avversari di Luigi XIV. Si può dire che da questo fu decisa la loro vittoria.
Nella primavera del 1689 l'Inghilterra e l'Olanda dichiararono la guerra al re di Francia, come avevano già fatto prima l'impero e la Spagna. Era già pronta la seconda e maggiore coalizione contro il Re Sole, che non aveva più contro di sé dei singoli Stati, ma tutta l'Europa in armi.

La grande alleanza ebbe nondimeno molti scacchi da riparare, poiché le forze della Francia fortemente unite ed egregiamente organizzate inflissero gravi perdite agli avversari, prima che questi si fossero raccolti ed uniti per la difesa. Tutte le fortezze del Palatinato del Reno, al pari di Philippsburg, furono prese dai Francesi. La forte Magonza, il baluardo del Reno medio, fu consegnata vilmente, senza sparare un colpo, al maresciallo Boufflers da quel principe elettore e con uguale fretta l'elettore di Treviri cedette al nemico la sua capitale.
Si vide di nuovo quale grave fatalità fosse per la Germania che appunto dei principi ecclesiastici fossero chiamati a difendere la sua frontiera occidentale contro il nemico più potente. Ad eccezione di Colonia e di Coblenza questi dominava da Basilea a Wesel il corso del Reno oltre a quello del Neckar.
Nondimeno, come nella guerra d'Olanda, Louvois dovette persuadersi che le più recenti conquiste non si potevano mantenere di fronte alla formidabile unione delle forze nemiche. Egli volle di nuovo vendicarsi di questa ritirata sugli abitanti indifesi; però contro il Palatinato si comportò molto più crudelmente che un tempo contro l'Olanda.
Louvois e Luigi decisero di rovinare del tutto quelle province, perché il nemico non potesse stabilirvisi. Per l'ordine inumano del re queste regioni, di cui i Francesi si erano impadroniti in tempo di pace e senza colpa da parte dei Tedeschi, furono a sangue freddo consacrate alla distruzione. In Heidelberg i Francesi fecero saltare in aria il superbo castello e poi misero a fuoco la città in ogni suo angolo. Tutti i paesi tra Heidelberg e Manheim furono rasi al suolo. Né miglior sorte ebbero Oppenheim, Spira e Worms; anche qui le fiamme distrussero tutti i tesori di una civiltà di millecinquecento anni. Le ceneri dei gloriosi imperatori franchi furono tratte fuori dai loro sepolcri infranti e disperse ai venti. Si guastarono le vie e si ruppero i ponti; gli abitanti nudi e privi di ogni risorsa furono cacciati via in mezzo ai rigori dell'inverno.
Una crudeltà così ingiustificata e così sistematica non fu mai esercitata in seguito, come allora per comando del «Gran Re» di Versailles.

Ci é di qualche conforto il sapere che essa non arrecò alcun vantaggio a chi la commise. Gli eserciti francesi furono dovunque respinti ; il suolo tedesco ne fu liberato e il maresciallo Humières fu battuto a Valcourt (1689) da Federico di Waldeck. In questo stesso tempo Luigi di Baden vinse i Turchi in tre grandi battaglie, da ultimo a Nissa conquistò Belgrado, la Serbia e la Bosnia, mentre il vecchio generale veneziano Francesco Morosini prendeva il Peloponneso ed Atene. Allora nel Partenone, adoperato dai Turchi come polveriera, cadde quella bomba fatale, che in gran parte ridusse in frantumi il monumento più grandioso ed ancora quasi illeso del tempo più nobile del fiorire dell'arte ellenica.

Nondimeno gli eserciti imperiali erano quasi interamente occupati in Oriente,- poiché Leopoldo I, intento solamente ad estendere i suoi domini ereditari, declinava ugualmente le offerte di pace degli Osmani, come le stringenti richieste dei suoi alleati di rimandare ad un tempo futuro il seguito della guerra contro i Turchi e di unire prima le intere sue forze per la guerra contro la Francia.

Luigi però seppe paralizzare anche l'Inghilterra, inducendo gl'Irlandesi a sollevarsi in favore del legittimo re cattolico. Su navi francesi, con denaro ed
ufficiali francesi, e dopo averlo tolto dalla sua prigionia dorata Giacomo II sbarcò nel 1689 sul suolo irlandese. Le migliori truppe inglesi e lo stesso Guglielmo III, dovettero lasciare il Belgio e passare in Irlanda. Anche da questo lato si era frattanto allontanato ogni pericolo per la Francia.

L'avventura irlandese finì, a dire il vero, abbastanza miseramente. Sul fiume Boyne Giacomo II coi suoi guerrieri irlandesi e francesi prese la fuga dinanzi agli Inglesi, Scozzesi, Tedeschi e Ugonotti, comandati in persona da Guglielmo (11 luglio 1690), e ritornò frettolosamente in Francia; tutta l'Irlanda fu sottomessa nel corso dell'anno seguente. Nondimeno gli eserciti francesi erano nel frattempo riusciti superiori in tutto il continente di fronte ad avversari così indeboliti; il valente Catinat, dotato di nobili sentimenti, batté le truppe del duca di Savoia a Staffarda, il maresciallo di Lussemburgo batté il principe di Waldeck a Fleurus e l'ammiraglio Tourville la flotta anglo-olandese a Beachy-Head. Nizza, la Savoia, una gran parte del Belgio caddero nelle mani dei Francesi. In mezzo al trionfo degli eserciti da lui organizzati, ma ferito profondamente dalle umiliazioni a lui inflitte per i capricci dispotici di Luigi, morì Louvois, nell'età di soli 51 anni (16 luglio 1691).

Le disposizioni da lui concepite mantennero ancora per due anni gli eserciti francesi nelle condizioni di superiorità già raggiunte. Lussemburgo conquistò Namur e respinse a Steenkerken (3 agosto 1692), l'attacco disperato di Guglielmo III. Nell'anno seguente nuove vittorie di Catinat a Marsaglia, di Lussemburgo a Neerwinden; le fortezze di Huy e di Charleroi dovettero inalberare la bandiera dei gigli. Soltanto all'ammiraglio inglese Russel riuscì di distruggere la flotta francese al promontorio La Hogue - battaglia, che ha deciso per sempre il predominio della potenza marittima britannica su quella francese.

Nell'insieme però la Francia aveva respinto vittoriosamente l'assalto dell'Europa. E nondimeno Luigi XIV sentiva la necessità della pace. La Francia cominciava a soccombere sotto il peso dei sacrifici, che quella grossa guerra imponeva al suo popolo. Procurare con nuove imposte i sessanta milioni di spese straordinarie, che richiedeva la guerra ogni anno, non era possibile; in seguito appunto alla guerra il commercio e l'industria languivano notevolmente e all'agricoltura faceva difetto quel mezzo milione di braccia robuste, che ora dovevano maneggiare la spada e il fucile invece dell'aratro e della zappa. Si continuava quindi nella via rischiosa dei prestiti e della vendita degli uffici. Pareva che un ufficio avesse ancora importanza solamente quale fonte di reddito per lo Stato. A poco a poco anche questi due mezzi si esaurirono e si pose il piede non soltanto sul sentiero pericoloso dell'alienazione del demanio dello Stato, ma anche su quello più pericoloso della falsificazione della moneta.

E ad onta di queste misure rovinose le entrate non bastavano mai alle esigenze sempre crescenti dell'amministrazione dell'esercito. I fornitori, tenuti a bada con la promessa di esser pagati in tempi migliori, rialzarono i prezzi e dettero merci peggiori. Nei soldati, la cui paga spesso mancava per dei mesi, si rilassava la disciplina e l'ardore di combattere; anzi aumentò la diserzione in una così grande proporzion da spaventare. In alcune province si giunse di nuovo all'estremo di ammutinarsi. Specialmente i montanari protestanti del sud-est si sollevarono in armi ed allora si diede a loro la caccia come a belve. Il re cercò di arrestare queste stragi, ma soltanto per riempire di galeotti le sue galere.
Il continuo arruolamento di soldati e il carico opprimente delle imposte rovinarono l'agricoltura. In seguito a ciò già dall'anno 1691 sopraggiunse un rincaro di viveri, che poi aumentò ancora con la carestia a cagione dei cattivi raccolti degli anni 1692 e 1693. Il prezzo dei cereali salì al triplo di quello ordinario. Nella maggior parte della Francia si diffusero la disperazione e il disordine, a cui il governo non era ormai in grado di opporsi.
Vi furono scene di mostruoso cannibalismo. Il vescovo Fenelon scriveva allora - in uno scritto anonimo - al re : «I vostri popoli, che voi dovreste amare come figli, muoiono di fame. La coltivazione dei campi é pressoché cessata del tutto, le città e i villaggi sono spopolati, tutti i mestieri languono e non nutrono più chi li esercita. Il commercio é arenato. La Francia é ormai soltanto uno sconsolato ospedale senza mezzi di sussistenza. Il popolo, che vi ha tanto amato, perde ogni affezione, ogni fiducia, anzi ogni riguardo per voi».

Innumerevoli scritti satirici e oltraggiosi comparvero nella stessa Parigi, davanti agli occhi del monarca indignato. Ed anche la signora di Maintenon e il ministro Pontchartrain insistevano seriamente, perché con una pronta conclusione della pace il re ponesse termine alla intera rovina dei suoi sudditi.
La mancanza di denaro nel 1694 mise il disordine nei suoi eserciti, coi quali Luigi non poteva più arrischiare alcuna operazione offensiva. Era giunto il momento critico della guerra. Passo passo Guglielmo III recuperò le fortezze del Belgio, che prima aveva perdute.

Luigi impotente dovette abbassare il suo orgoglio al punto da comprare la pace dal piccolo duca di Savoia (1696), cedendogli tutte le sue conquiste, anzi perfino Casale, occupato nel 1681. D'allora in poi la pace generale fu nell'animo di ognuno e il 31 ottobre 1696 fu sottoscrittaa Ryswyk.
Luigi rinunziò a sostenere in seguito in qualsiasi modo lo Stuart, accordò agli Olandesi molti vantaggi commerciali, sgombrò la fortezza di Lussemburgo e il ducato di Lorena. Quanto all'impero esso ne uscì a mani vuote e fu anche defraudato di Strasburgo, che gli era stata promessa. Fu questa la conseguenza naturale della misera parte, rappresentata nella guerra contro la Francia dalle truppe dell'imperatore e da quelle dell'impero.

Ma per quanto anche la pace di Ryswyk ci offra molteplici ragioni di malcontento- ci indica pure la crisi, nella quale si infransero le aspirazioni di Luigi con la sua idea di una monarchia universale. Egli mantenne pur sempre la prima ed eminente posizione in Europa, ma non fu più in grado di pensare a far valere incondizionatamente il suo beneplacito. Si poteva di nuovo aver ragione contro il «Re Sole».
La restituzione del ducato di Lorena, da Luigi nel 1685 designato come parte integrante e inseparabile del suo regno, il rafforzamentodella Savoia e la chiusura dei passi delle Alpi, la rovina del partito francese nell'elettorato di Colonia tolsero alla Francia delle posizioni avanzate, sulle quali essa aveva esercitato un dominio quasi illimitato come sulle proprie province. Finalmente la stretta unione di potenze cattoliche e protestanti contro Luigi XIV contribuì a cancellare quanto ancor rimaneva delle simpatie e antipatie politico-religiose.

Nello stesso tempo il principe francese di Conti, che dopo la morte dell'eroico Giovanni Sobieski si credeva già sicuro di ottenere la corona di Polonia, dovette fuggire con vergogna da questo paese, dove Augusto di Sassonia, candidato dell'imperatore, fu posto sul trono.

E come nella politica esterna della Francia, così anche nelle sue condizioni interne iniziava una manifesta reazione contro le tendenze che il «Gran Re» aveva costantemente seguite per interi decenni. Egli stesso era intimamente divenuto un altro e intorno a lui da ogni lato si sollevavano nuove forze, che erano in contraddizione con tutto il suo essere.
Con l'avvicinarsi della vecchiaia, col sopraggiungere di malattie e col crescere del timore della morte, nel suo contegno avveniva un mutamento, che dalla Maintenon fu inoraggiato. Si limitarono le feste e i piaceri, di intrighi amorosi non si parlò più presso di lui; con accresciuto fervore e con maggior frequenza si dedicò agli esercizi di una pia devozione. La signora di Maintenon non soffrì più che il re contemplasse spettacoli mondani; in cambio di ciò lo «diverti», facendogli cantare dei salmi in compagnia dei più brutti fra i loro familiari.

Tutta la corte dovette imitare questo nuovo carattere devoto anzi monastico e la bigotteria, sotto l'influenza di quella donna, divenne un mezzo così certo di riuscita, come erano state la dissolutezza e la prodigalità ai tempi della Montespan. Essa manteneva numerosi delatori e spie, nè lasciava giungere fino al monarca cosa alcuna che potesse nuocerle; gli assegnò poi un medico ordinario, che gli desse le prescrizioni che a lei sembravano buone. Col pretesto di una sollecitudine caritatevole e pietosa prese quasi esclusivamente in sua mano la distribuzione delle grazie regali. Invece che in abbigliamenti e in feste impiegò grandi somme nella fondazione dell'istituto di St. Cyr per signorine, dove mantenne quattrocento fanciulle di famiglie nobili e povere, destinandolo nello stesso tempo a un degno luogo di ritiro per sé, nel caso che cadesse in disgrazia o che le morisse il regale consorte.

Nel modo più intimo era a lei legato il confessore del monarca, il padre Francesco d'Aix de la Chaise, che seguendo gli ordini dei suoi superiori gesuiti si era adoperato in favore di lei e del partito ultramontano con zelo e con modi accattivanti. Il favore del re e della Maintenon gli aveva concesso il conferimento di tutti i benefici ecclesiastici, cosicché le famiglie più ragguardevoli ambivano la sua amicizia. Luigi gli aveva donato un magnifico fondo nel nord-est di Parigi; e dove ora il cimitero del Pére-la-Chaise mostra centinaia di migliaia di sepolcri, quel gesuita colto e raffinato viveva in un bel giardino e in una villa elegante tra gli agi e gli studi.

La piega sfavorevole presa dalla guerra indusse il monarca a placare il manifesto sdegno celeste con una devozione e con una penitenza ancora maggiore per il suo vorticoso passato. Anche il delfino Luigi (poi XV) , come il suo figlio maggiore, il duca di Borgogna, appartenevano al partito dei bigotti. Il primo era molto insignificante, un mangiatore senza misura e un cacciatore - come fu più tardi il suo discendente Luigi XVI - e senza alcun interesse per le questioni elevate. Luigi di Borgogna, meglio dotato dalla natura, era cresciuto sotto la direzione di un clericale fanatico, il duca di Beauvilliers; il suo primo maestro era stato il Fenelon, dedito a un'esistenza tranquilla, pia e pacifica, che nel «Telemaque» ci presentò un ideale di principe, che era in diretta contraddizione con le tendenze precedenti del re Luigi.

Il mutato orientamento del re e della corte si manifestò con grande chiarezza nella politica ecclesiastica di Luigi. Mentre prima, come ardente avversario dell'ultramontanismo, si impegnava d'impedire che questa tendenza esercitasse una qualsiasi influenza in Francia e voleva fondare qui una chiesa nazionale, dipendente soltanto dal sovrano, ormai aspirò umilmente alla benevolenza di Roma. Questa doveva divenire per lui un'utile alleata e destare in suo favore l'interesse e le simpatie dei cattolici per porre un termine al suo minaccioso isolamento. Per questo sacrificò tutto il "gallicanismo" della sua chiesa e rinunciò ai quattro articoli del 1682. Anche i suoi vescovi dovettero per suo ordine sottomettersi al papa - e questo dimostra in modo concludente la mediocre importanza di quell'altero gallicanismo.

Questo trionfo delle antiche idee romane ebbe per conseguenza un nuovo rinvigorimento degli sforzi ultramontani alla corte del re. Si osservò che i principali favoriti del sovrano, i marescialli Boufflers, Noailles, Villeroy favorivano questi sforzi. Il governo incoraggiò la formazione di confraternite religiose, veri reggimenti dell'ultramontanismo; si formarono allora 428 di tali associazioni. Così la Francia, che un tempo era protestante e gallicana, sotto l'influenza di Luigi XIV divenne ultramontana da un lato, materialistico-nichilista dall'altro.

Un cambiamento repentino molto simile e profondo si compie nel governo. I grandi ministri dell'inizio del regno sono tutti scomparsi. Gli uomini, che li sostituiscono - per lo più sono i loro figli e i loro nipoti - abituati agli affari fin dalla prima giovinezza, pur onesti e coltissimi, non hanno però nulla del genio, che caratterizzava i primi. Anche qui vediamo la decadenza prodotta dall'oppressione dell'assolutismo. Luigi deve più di prima prendere effettivamente sopra di sé la direzione dello Stato; egli lavora con i suoi consiglieri anche di sera, anche dopo pranzo; ed ora si vede quanto egli vada debitore a quei ministri, che in verità avevano contribuito più di lui ai grandiosi successi dei suoi primi decenni.

La decadenza si mostrava da ogni parte. Già cominciavano le corti di giustizia a tener poco conto delle leggi da lui promulgate. Nell'esercito regnava il malcontento e lo spirito di rivolta - tutto l'edificio eretto da Louvois vacillava per le immotivate esigenze, che gli imponeva la politica di lui stesso e di Luigi. Per cattivarsi l'animo dei colonnelli, il re si vide indotto al pericoloso provvedimento di restituir loro la nomina degli ufficiali inferiori, introducendo in questa modo di nuovo nell'esercito il feudalesimo e la prepotenza delle consorterie, che era stato il massimo merito di Louvois di averle estirpate.

In tutto il regno si era diffuso un grande risentimento per la triste condizione degli affari pubblici ormai sotto gli occhi di tutti; la tremenda guerra, durata dieci anni contro l'Europa collegata, aveva distrutto tutti i buoni successi di un'amministrazione attiva e geniale, ed aveva lasciato agire in modo tanto più pericoloso i suoi numerosi difetti ed errori. Le vie di comunicazione erano in uno stato compassionevole, il commercio marittimo e l'industria avevano ricevuti gravi danni in seguito all'emigrazione degli ugonotti. La guerra e la carestia ebbero conseguenze anche peggiori. In alcuni distretti - come la Fiandra occidentale, la Turenna, l'Alençon - la popolazione era diminuita della metà, nelle città come Bordeaux, Lione, Troyes, in proporzione anche maggiore. I grandi centri erano gravemente indebitati. I terreni nelle campagne erano così spesso abbandonati dai loro proprietari sovraccarichi d'imposte che un'ordinanza ne concesse in questo caso lo sfruttamento a chi ne avesse avuto voglia. Né l'eccesso delle tasse e la chiusura di tutti i confini aveva effetti migliori sull'esercizio delle arti e dei mestieri. Il numero dei poveri e dei mendicanti crebbe a proporzioni inquietanti, poiché operai e giornalieri non trovavano sufficiente occupazione.

Con tutti questi sacrifici non si era inoltre comprata ormai la gloria, ma la disfatta. L'ebbrezza della gloria era svanita e tutte le classi della nazione sentivano con doppio dolore le perdite materiali e morali, che il dispotismo regio aveva loro imposto. I grandi mormoravano per la condizione insignificante, a cui eran condannati; i nobili per il gravame del servizio militare gratuito, a cui erano, stati costretti per molti anni e per l'insopportabile carico di tasse imposto, che in seguito a ciò nulla potevano più pagare al loro signore per i beni da loro coltivati; i cittadini e i contadini per la diminuzione del lavoro e dell'agiatezza.

Il malcontento si attaccò anche alla letteratura, che poco prima si era posta con tanta buona volontà al servizio del «Gran Re». Fenelon, arcivescovo di Cambray nel suo «Telemaco» sermoneggia sull'assolutismo illuminato, attuato poi nel secolo XVIII da Federico il Grande e da Giuseppe Il; "il sovrano esista soltanto per amore del suo popolo, sia il servitore e il custode delle leggi, né mai possa valersi del suo popolo per i suoi capricci e per le sue lascive".
Il maresciallo Vauban, geniale costruttore di fortezze, che per un secolo ha reso la Francia in certo modo invulnerabile, nella sua «Decima regia» (Dune rosale) sostenne un rivolgimento economico e perciò anche sociale; l'imposizione di una tassa sull'entrata, che fosse graduata secondo la rendita, che colpisse tutti senza distinzione e fossae sostituita alla imposta, che sino a qual tempo risparmiavano la nobiltà, il clero e l'alta borghesia e tanto più gravemente premevano sulla classi povere.

Il Boisguillebert, consigliare al parlamento di Rouen, nel suo Detail de la France, si volge contro il sistema mercantile, sostiene la liberazione dall'agricoltura dalla tasse che la rovinano e quindi anche il miglioramento della grande maggioranza della popolazione. Questi scrittori quindi difendono, cosa inaudita, il popolo, la canaille. Luigi XIV ha ben riconosciuto il contrasto fra le loro idee a tutto il suo sistema politico e sociale ed ha perseguitato acremente questi autori per quanto fossero di sentimenti così monarchici.
Oltre all'opposizione politica si fa sentire nella letteratura anche quella religiosa. Nel suo « Dizionario storico-critico », comparso nel 1696, Pietro Bayle formula il dubbio sulla rivelazione e sulla provvidenza e certo in un linguaggio vigoroso, intelligibile, drammatico e sicuro di sé, sulla base di una vasta erudizione, che senza pedanteria domina sicuramente tutti i soggetti che tratta. Il « Dizionario » dal Bayle nella sua maniera facile, eppure non superficiale, di trattare gli argomenti, nella sua tendenza complessiva, nella discussione popolare di questioni teologiche e metafisiche era in contrasto stridente col temperamento solennemente degno e tenacemente conservatore di Luigi XIV.

Migliaia di Francasi colti divorarono avidamente quel libro proibito; un gran numero di scrittori cominciò ad agire nello stesso senso. Di fronte a tali audaci avversari il « classicismo » decadde rapidamente. Le relazioni dal monarca con i letterati cessarono già esteriormente dal tempo dalla guerra contro la seconda coalizione, non potendosi ottenere da lui il pagamento dalle pensioni, anzi nemmeno la spese di mantenimento delle accademie. La separazione intima corrispose a quella materiale; la letteratura cominciò a battere nuove vie.

Come sempre avviene nei tempi di decadenza, era in crescita la tendenza satirica. Allan La Saga é, come si é già detto, il La Bruyere messo sulla scena. Per il disegno esteriore e per il luogo dell'azione dei suoi romanzi satirici egli si collega con i romanzi birichini spagnoli, nondimeno si solleva molto al di sopra di essi per significato intellettuale e per la mordace a incisiva derisione dalla degenerazione sociale sotto un despota che invecchia. Principalmente nella sua opera migliore, nel Gil Blas, viene espressa tutta l'opposizione dalla vigorosa borghesia di fronte alle classi dirigenti, servili, vane, moralmente indifferenti e profondamente egoistiche - opposizione cha poi dominò il secolo XVIII.
L'abnegazione frivola e senza coscienza, che l'assolutismo monarchico esigeva dai suoi servitori e dai suoi favoriti, non si accordava con una religiosità sincera e la rigida accentuazione, che si dette ad una sottomissione assoluta alla Chiesa, provocò la contraddizione dei Francasi così vivaci e pieni d'ingegno. Venne allora in voga una irreligiosità generale, che era strettamente unita alla immoralità. Gli scritti dal nobile normanno Saint-Evremont sono rivolti, siano essi seri o beffardi, contro i dogmi e i riti della Chiesa; e vi erano molti di uguali sentimenti, come quel conte di Grammont, che si fece porre nell'epitaffio come agli avesse delegato alla moglie la cura di confessarsi, di ascoltare sermoni e di pregare. Perfino la nobiltà di corte già così sottomessa cominciò a sollevarsi contro il re. Presso un paggio del principe di Conti si trovarono, lettere, provenienti da giovani del ceto dorato, che contenevano le offese più terribili contro il re, contro la signora di Maintanon, come contro tutto il governo.

Così tutto l'edificio di Luigi XIV vacillava sulle sue basi, dopo venticinque anni di stabilità e principalmente in seguito agli errori e ai difetti che gli erano propri. Non soltanto era insostenibile la sua signoria universale, ma anche nell'àmbito più limitato del suo proprio regno il suo ideale di sovranità non si é potuto tradurre durevolmente in atto.
Il paese, che era stato, alla testa dalla lega diretta contro di lui, l'Inghilterra, era uscito dalla guerra con accresciuta prosperità. Contava allora sette milioni di abitanti a dai paesi ad esso uniti la Scozia ne contava uno, l'Irlanda tre. La grande industria e l'attività commerciale si svolsero preferibilmente nell'Inghilterra propria e con essa si ingrandirono le grandi città. Londra conteneva già un buon decimo della popolazione totale inglese, 700.000 abitanti, e aveva da lungo tempo sorpassato Parigi con i suoi 500.000.

Londra era divenuta indubbiamente il centro della vita politica, sociale e mercantile del paese; due terzi di tutto il fondo in contanti dell'Inghilterra, in monete d'oro e d'argento, erano qui riuniti. L'entrata annua della nazione inglese era stimata da 43 a 44 milioni di lire sterline. Era veramente minore quasi della metà dell'entrata della Francia, la quale si vuole che ammontasse annualmente a 81 e fino a 84 milioni di sterline, ma era relativamente più elevata; poiché mentre ad ognuno dei diciotto milioni di Francesi toccavano soltanto poco più di 4 sterline di entrata annua, ogni Inglese in media guadagnava più di 6 sterline. La ricca Olanda riscuoteva ogni anno circa 18 milioni di sterline, vale a dire 8 sterline per ciascuno dei suoi circa 2 milioni di abitanti. Questi numeri possono darci un'idea dei reciproci rapporti di ricchezza delle tre grandi potenze occidentali e della loro prosperità in quel tempo.

Circa tre mila navi di commercio, protette da duecento navi da guerra con 40.000 marinai, erano al servizio del commercio inglese e, prescindendo dal guadagno mercantile di variabile importanza, fruttavano annualmente, soltanto di noli, un guadagno netto di un milione di sterline.
Lo stesso Luigi XIV con le sue prolungate trame ed ostilità contro l'Olanda ne aveva durevolmente indebolito la potenza marittima ed il commercio, e il vantaggio di tutto questo lo aveva ricavato l'Inghilterra. Anche l'agricoltura e la pastorizia vi erano già notevoli per il modo razionale onde erano esercitate. La produzione delle miniere, specialmente quella del carbon fossile, provvedeva non solo ai bisogni del paese, ma anche a quelli dei paesi esteri. L'esportazione totale dell'Inghilterra nell'anno 1689 importò 6.800.000 sterline - secondo il valore relativo del denaro 500 milioni di franchi - e sorpassò l'importazione di 1.150.000 sterline. Con ragione Londra allora la si indicava già come l'emporio principale dell'Europa.

Veramente il debito pubblico in conseguenza della guerra si era notevolmente accresciuto, fino a 16.400.000 sterline alla morte di Guglielmo III. Ma già si mostrava il fatto sorprendente che un debito pubblico, collocato nel paese stesso, e l'elevazione delle imposte, che ne risulta, non indeboliscono la prosperità nazionale, eccitando alla parsimonia e accordando d'altra parte un impiego sicuro al capitale e dando con questo l'esempio della solidità finanziaria. Però l'Inghilterra era allora l'unico paese, in cui il bilancio pubblico e quanto concerne il credito stesse sotto il controllo di una pubblicità illimitata! Per agevolare le operazioni di credito e liberarsi da creditori usurai il governo fondò nel 1694 la Banca d'Inghilterra, che in gravi crisi di denaro diede subito buonissima prova ed é divenuta il modello di tutte le banche di Stato in tutto il mondo.
Con la vittoria del parlamento ed il rapido accrescersi della prosperità nell'Inghilterra, fino a quel tempo religiosamente e politicamente conservatrice, conseguirono un più largo dominio idee più libere e più indipendenti così sotto l'aspetto politico, come sotto quello filosofico-religioso, le quali prima erano state limitate ad un campo ristretto; e ciò era collegato da una parte all'opera dei naturalisti e dei filosofi olandesi e dall'altra al successo della rivoluzione dell'anno 1688.

Le due tendenze si trovarono unite in Giovanni Locke (1632-1704), uno dei precursori nel dominio del pensiero. Nella sua opera principale «Saggio sull'intelligenza umana», egli per la prima volta pone la ricerca della facoltà di conoscere nel centro della filosofia e sul terreno della indagine psicologica. Per lui le percezioni sensitive e la riflessione, che ne risulta, sono le uniche fonti di conoscenza. Quindi nega il valore delle idee generali, aprioristiche, scuote tutto il metodo anteriore del pensiero filosofico e religioso ed apre la via al materialismo venuto più tardi. Nel campo positivo Locke era seguace dell'idea, che al suo tempo era idea generale, che gli Stati avessero avuto origine da un patto primitivo sociale tra ogni popolo e il suo sovrano. Da ciò nella sua «Memoria intorno al governo» (1689) egli trae la conseguenza che, "...essendo stato concluso il patto sociale per proteggere la libertà e il benessere di ogni individuo, il potere dello Stato introdotto da quello perde la sua giustificazione, appena che esso violi tali condizioni. Ogni cittadino ha allora il dovere di opporgli una resistenza. La sovranità viene dalla nazione ed é affidata al potere, che la esercita, alla Corona, soltanto con riserva. Il re é perciò vincolato a quelle limitazioni, che gl'impone il potere legislativo nazionale".

Così Locke fu il creatore della teoria costituzionale, il precursore di Montesquieu ed anche di Rousseau. Egli introdusse le dottrine politiche, le quali dominarono nel secolo seguente.

Non dai Francesi, ma da questo Inglese é partita la tendenza intellettuale del periodo dell'illuminazione delle menti nei rapporti politici e religiosi.

Appartiene finalmente a questo tempo la fondazione in Inghilterra di una stampa nazionale. Non essendo soggetta ad altra coercizione che a quella del diritto comune, in breve si sollevò al grado di un potere dello Stato e pose la pubblica opinione in condizione di sostenersi vigorosamente a fianco del parlamento, che diveniva sempre più oligarchico e più alieno dai veri interessi della nazione.
Quanto tempo ci volle perché questa organizzazione si potesse introdurre anche negli Stati continentali, dove si tollerava soltanto una pubblicità officiale, che inoltre viveva per lo più con la materia tratta dalle « gazzette » olandesi!
Così presso alla monarchia assoluta di Francia, già in decadenza, sorgeva con potenza crescente e con prosperità sempre maggiore la libera Inghilterra parlamentare. In gran parte era debitrice della sua fortuna a quel monarca taciturno e poco amabile, ma saggio e dallo sguardo acuto, il quale pure considerava se di fronte alle numerose offese a lui fatte dal parlamento non dovesse deporre la sua corona, a Guglielmo III insomma.

Nondimeno anche se molte contese dividevano le tre grandi potenze occidentali - Francia, Olanda, Inghilterra - esse erano pure legate da una certa comunanza delle condizioni di civiltà. Sembravano quasi le principali rappresentanti dell'incivilimento e dei suoi progressi. Per lo sviluppo nazionale e politico, per lo svolgimento del commercio e dell'attività industriale, per la pienezza della prosperità e della potenza, per la cultura intellettuale e per la forza creatrice esse precorrono di gran lunga tutta la rimanente Europa.

Molto indietro ad esse stava la Germania. Di un potere centrale appena era il caso di parlare, dopo la capitolazione sommamente restrittiva in occasione dell'elezione dell'imperatore Leopoldo I. Già dal 1663 la dieta era divenuta «permanente» a Ratisbona, tuttavia era frequentata non più dai principi, ma soltanto dai loro inviati, che perdevano il loro tempo in formalità e in discussioni senza fine. Tuttavia riuscì almeno alla Germania di costringere i Turchi alla pace. Un generale di rapida decisione, d'inflessibile arditezza, di occhio pronto e sicuro sul campo di battaglia, inoltre di carattere nobile e retto ad onta di molta abilità cortigiana, il principe Eugenio di Savoia (nato nel 1663) aveva battuto completamente il sultano Mustafà II, al ponte della Theiss presso Zenta.
Nel gennaio 1699 a Carlowitz, gli Osmani fecero quindi la pace. Cedettero all'imperatore l'Ungheria, ad eccezione del Banato, inoltre la Transilvania e la parte di gran lunga maggiore della Croazia e della Slavonia, alla repubblica di Polonia la fortezza di Kamenez; alla repubblica di Venezia la Morea e alcune fortezze della Dalmazia. Il promotore di tutta quella guerra, Emmerich Tôkóly, dovette finire la sua vita in un piccolo borgo dell'Asia Minore, dove il governo turco lo aveva internato, accordandogli una mediocre pensione.

La pace di Carlowitz fu il trattato più glorioso che potenze cristiane abbiano mai stipulato con la Porta. Per la prima volta questa dovette cedere migliaia di miglia quadrate, che erano state in suo potere da più di un secolo. E quello che più importava é che era stata ridotta da una situazione aggressiva ad una soltanto difensiva. Meno di venti anni erano bastati per trasformare dalla base le relazioni della Turchia col sistema degli Stati europei. Questa guerra turca aveva pure permesso alla casa d'Austria di divenire veramente una grande potenza. Finché gli Osmani si accampavano stabilmente a poche miglia da Vienna e concedevano sempre un solido aiuto ad ogni nemico dell'imperatore, un'azione vigorosa di questo era resa impossibile. Soltanto quando i Turchi furono indeboliti e ricacciati lontano, gli Asburgo tedeschi ebbero mano libera negli affari d'Occidente. Mentre fino a quel tempo la piccola parte dell'Ungheria da loro posseduta costava molto più in denaro e truppa di quello che non rendesse, l'Ungheria e la Transilvania allora sottomesse giacevano ai loro piedi e non poterono più rifiutare ad essi e gli averi ed il sangue.

Questo insieme di paesi austro-ungarici, non molto minore della Francia per estensione e per numero di abitanti, poteva ormai intervenire negli affari europei con molta energia. I prosperi successi militari e politici concessero alla stirpe imperiale uno splendore e un'autorità, che da Carlo V in poi non aveva più posseduta.
Anche altri territori della Germania conseguirono in quel tempo una maggiore importanza. Il duca Ernesto Augusto di Annover (1679-1698) riunì in un solo dominio i paesi lussemburghesi della casa dei Guelfi e nel 1692 dopo lunghi sforzi ne acquistò l'investitura ereditaria con una nuova dignità di elettore, che fu la nona.
Frattanto si preparava per la sua famiglia un altro e molto più importante avvenimento. Così il re Guglielmo III d'Inghilterra, come la sua cognata Anna, essendo senza figli, i principi della casa di Annover, che discendevano per via di donne da Giacomo I, si trovarono chiamati, quali primi parenti protestanti, a succedere in avvenire nel regno britannico.

Anche un'altra casa tedesca fu allora decorata di un titolo regio straniero, quella di Sassonia. Fino a poco tempo prima era stata il baluardo del luteranesimo fervente. Ma l'elettore Augusto il Forte (1694-1733), uomo di forza corporea gigantesca, ma di carattere debole, ugualmente dedito ai più fini godimenti estetici, come a quelli più grossolani dei sensi, senza serietà morale, avido di splendore e di lusso si spogliò volentieri degl'incomodi legami di una rigida dottrina religiosa. Quando nel 1696 morì il re Giovanni Sobieski di Polonia, l'imperatore presentò come candidato al trono il capo della casa Albertina, sempre devota agli Asburgo. L'elezione avvenne nel luglio 1697 dopo indegne corruzioni e l'avvicinarsi di un corpo di truppe sassoni. Il nuovo re Augusto II, che senza esitazione era passato alla chiesa romana, si diede ad una pazza prodigalità, che lo costrinse a vendere ai suoi vicini i bellissimi territori sassoni. Anche in un altro modo la Sassonia perdette molto della sua importanza politica. Certamente Augusto II dette costanti assicurazioni di tutelare che nell'elettorato di Sassonia il culto luterano fosse esclusivamente autorizzato e nell'insieme le ha anche mantenute queste assicurazioni; la Sassonia infatti conservò nell'impero la direzione del Corpus Evangelicorum, esercitata dal suo Consiglio privato ecclesiastico, ma nel fatto fin da quel tempo la direzione degli interessi protestanti in Germania dalla casa elettorale sassone, divenuta cattolica e piena di riguardi stranieri, passò al grande paese vicino, più potente e puramente tedesco, al Brandeburgo.

Alla fine del regno del Grande Elettore questo territorio si presentava come uno stato vigoroso e bene unito. Anche nel remoto ducato di Prussia, dove la nobiltà e la città di Konigsberg cercavano di sottrarsi al suo rigido governo, stringendo relazioni sleali con la Polonia, egli aveva represso del tutto le tendenze separatiste. Veramente il borgomastro Roth era andato in prigione per tutta la vita, il colonnello von Kalkstein aveva dovuto salire il patibolo per alto tradimento. Ma sotto la direzione ferma e saggia dell'elettore a poco a poco avvenne un cambiamento radicale nello spirito della nobiltà brandeburgo-prussiana, Invece di porsi in lotta col suo sovrano, indebolendo questo e tutto lo Stato, la nobiltà s'impegnò nei suoi progetti e, ponendosi al suo servizio nell'esercito e nel governo, cercò con coraggio e con abilità l'utile proprio.

 

Soltanto dopo avere ridotto al silenzio l'opposizione delle diete provinciali fu possibile a FEDERICO GUGLIELMO (nell'immagine sopra) d'intervenire efficacemente nella politica europea e specialmente in quella dell'impero. In questo il suo modo di agire non fu ispirato alla morale. Al contrario nessun principe ha senza scrupoli concluso e violato dei trattati, come egli fece e gli parve utile. E' appena il caso di dire che "il fine giustificò i mezzi". A lui stava a cuore di liberare la Germania dall'oppressione degli stranieri, dei Polacchi, degli Svedesi, dei Francesi, prima di tutto, a dire il vero, per accrescere il proprio Stato, che soltanto così poteva acquistare libertà di movimenti. Se egli temporaneamente si collegava con l'uno o con l'altro di quegli stranieri fu sempre soltanto perché costrettovi dalla necessità e per adoperarli l'uno contro l'altro. Si rifletta con quali difficoltà egli ebbe a lottare; i suoi emuli dieci volte a lui superiori; il proprio piccolo Stato sparpagliato dal Reno fino al Niemen; nei suoi alleati più naturali, l'imperatore e i principi dell'impero, soltanto invidia e malvolere; dovremo allora perdonare all'ardito e accorto timoniere, se poté guidare il suo sottile battello attraverso agli scogli, che dovunque lo minacciavano, soltanto destreggiandosi con astuzia ed inganno.

Del resto nella politica di quel tempo valeva solo il diritto del più scaltro o del più forte! Solo a questo Federico Guglielmo si dové nel 1672 la salvezza dell'Olanda dalla prepotenza francese, a lui soltanto la rovina della preponderanza francese e dell'influenza svedese nella Germania del nord. Questi sono in verità meriti di gran momento verso la libertà dell'Europa e verso l'indipendenza della grande patria tedesca.
Né minori se ne acquistò verso il proprio Stato. Un'amministrazione delle finanze economa e intelligente portò le sue entrate annue a circa 2 1/2 milioni di talleri, che gli permisero di mantenere un esercito stanziale di 30.000 uomini. Fu perciò il creatore del glorioso esercito prussiano e quindi della futura unità e grandezza della Germania. Egli solo tra tutti i principi tedeschi ebbe il fecondo pensiero di creare nuovamente una flotta da guerra e di far partecipare il suo paese alla grande colonizzazione di continenti stranieri. Già nel 1675 lo pose ad effetto. La bandiera di guerra del Brandeburgo sventolò non senza gloria sul mare e sulla Costa d'Oro africana sorse alteramente il castello di GrossFriedrichsburg in mezzo ad un territorio, che doveva gradatamente estendersi.

Il 9 maggio 1688 morì il Grande Elettore. Federico III, suo figlio maggiore e successore, ambizioso come il padre, ma vano, amante del lusso e indolente, si compiacque di far mostra di una splendida pompa, che riuscì di grave peso ai sudditi di quello Stato povero. Anche le sue creazioni nel campo intellettuale erano artificiali e andarono poi in rovina. L'unico artista importante, da lui adoperato, il geniale Schlüter, autore della statua equestre del Grande Elettore e del Castello di Berlino, dopo un breve favore cadde vittima di un miserabile intrigo di corte, che lo costrinse ad abbandonare Berlino. Ugualmente incostante si dimostrò l'elettore verso il suo primo educatore e più tardi suo primo ministro, Eberardo Dunckelmann, che intendeva mantenere il suo signore entro i limiti di una sobria accortezza politica. Questi lo fece processare nel 1697, e sebbene non si potesse convincere lo sventurato di nessuna colpa, lo tenne prigioniero per sette anni.
Ad un solo disegno Federico III si abbandonò tenacemente, quello di dare all'importanza, che suo padre aveva procurato allo Stato brandeburgo-prussiano, un'espressione corrispondente con l'acquisto del titolo di re, fondandosi sulla sua sovranità nella Prussia orientale. La potenza del suo Stato era in verità ancora troppo piccola per offrire una giustificazione sufficiente ad un simile innalzamento; questo invece aveva soltanto il significato di un programma per un avvenire di maggior potenza; di qui l'avversione che questa pretesa incontrò da ogni lato, anche presso tutti i consiglieri dell'elettore, e principalmente presso la corte imperiale.

Tuttavia Federico III era molto lontano dall'attribuire a questa questione un'importanza così profonda; seguendo invece la tendenza alla cerimonia e alla pompa, propria dell'epoca di Luigi XIV, egli aveva in mira soltanto un maggiore splendore di sé e dei suoi. Appunto in questo senso egli ha considerato questo affare come il vero compito della sua vita.
L'unico potere in Europa, che avesse l'autorità di concedere un tale titolo era per i protestanti l'imperatore, il quale per molto tempo non volle sentir parlare dell'innalzamento del suo vassallo brandeburghese, già troppo potente; infine la decisione imminente della successione spagnola costrinse Leopoldo I ad assicurarsi ad ogni prezzo l'aiuto del paese dell'impero più potente nelle armi.
Il 16 novembre 1700, prima ancora che giungesse la notizia della morte di Carlo II di Spagna, fu concluso a Vienna, il trattato col quale Leopoldo riconosceva l'elettore di Brandeburgo come re di Prussia, in cambio della promessa di un attivo appoggio negli affari dell'impero e contro il suo nemico esterno.
Federico aveva raggiunto il suo scopo.

Con pompa immodesta il 18 gennaio 1701 Federico I si fece incoronare a Kónigsberg. I suoi successori e il suo popolo valente si sono dati cura di creare ben presto alla monarchia prussiana un reale fondamento nella potenza e nell'energia di uno Stato indipendente e padrone dei propri destini.
Al pari di questo Stato tedesco più potente degli altri, anche la preponderanza intellettuale si doveva allora cercare nel nord della patria germanica. Qui anche nella generale miseria e degenerazione sorgeva in solitaria grandezza l'eminente figura di un Leibniz.

Gottifredo Guglielmo Leibniz, nato a Lipsia nel 1646, morto nel 1716, é certo l'uomo più universale che sia mai vissuto; non vi fu alcuno dei numerosi campi del sapere da lui esplorati, dove non abbia aperto nuove vie con vigore geniale. Come filosofo sta sul terreno del cartesianeismo, che tuttavia egli ampliò in doppia direzione; prima sulla base delle scienze naturali, che avevano frattanto compiuto grandi progressi e poi nel profondo sentimento religioso che lo riempiva. L'azione permanente della sua filosofia in Germania riposa sulla sua tendenza complessivamente idealistica, in contrasto con la scuola del Locke, la quale presto dominerà in Inghilterra e in Francia col suo carattere scettico, anzi addirittura materialistico.
Ma anche da molti altri lati quell'uomo singolare esplicò la sua attività creatrice. Nelle matematiche si pose alla pari del genio di Newton con la scoperta del calcolo differenziale; nell'indagine storica determinò un'epoca nuova con la pubblicazione e col commento critico di centinaia d'importanti fonti del medio evo. Il suo spirito profondo e vasto non si arrestava mai ai particolari, ma sempre si sollevava sino al punto di partenza di un sistema, che avesse un'importanza scientifica generale. Né fu minore la sua operosità nel campo religioso e politico, nel quale si dedicò a tentativi nobili, per quanto sterili, di determinare l'unione delle chiese tra loro contendenti, unione così spesso invano tentata.

Nella politica propriamente detta combatté con numerosi scritti polemici per il bene della patria tedesca. Se poi consideriamo che fu un segnalato giurista, un geologo valente rispetto al suo tempo e che compose parecchie opere assai notevoli di arte militare, apprezzeremo l'importanza di quest'uomo, che in ogni campo del suo sapere incredibilmente esteso adoperò la propria attitudine a pensare in modo originale e scientifico e a dare impulsi fecondi.

Nella teologia si comportò come riformatore Filippo Giacomo Spener, nativo dell'Alsazia, dotato di pietà sincera e intimamente profonda. Egli si adoperò per liberare la vita ecclesiastica dal morto carattere formale e letterale dell'ortodossia luterana per ricondurla ad essere una vera ed intima religiosità. I suoi scolari, i « pietisti », per lo più caddero in parte nella bacchettoneria, in parte nel misticismo; nondimeno all'inizio abbatterono il dominio della rigida e insensibile fede letterale e poi, essendo da questa combattuti, chiesero libertà di pensiero e di parola. In questo s'incontrarono con Cristiano Thomasius, nativo di Lipsia (1655 1728) come Leibniz, professore nell'università della sua città natale e poi in quella prussiana di Halle. Thomasius si acquistò il merito grande di avere per primo composto in lingua tedesca lezioni e scritti, avvicinandoli con questo alla vita nazionale. Inoltre non temette di opporsi francamente all'ortodossia luterana e perfino di volgersi arditamente contro due abusi barbarici della giustizia di quel tempo, la tortura e i processi delle streghe.
Grazie alla diffusione sempre maggiore dell'istruzione, egli seppe combattere questi ultimi con tanta efficacia che, almeno in Germania, essi ben presto cessarono del tutto. Egli ha pur sempre spianato la via all'abolizione della tortura. L'opera del Thomasius é stata così sommamente benefica nel campo pratico ed anche il suo studio di condurre la scienza e la nazione ad intimi rapporti e a mutui ricambi era ugualmente ben concepito e vantaggioso per ambedue.

In genere verso la fine del secolo XVII comincia a dominare in Germania uno spirito migliore. La moralità si accresce visibilmente, protetta da condizioni pacifiche ed uniformi. Anche la letteratura lentamente si va sollevando, tuttavia sotto l'influenza della Francia.
Finalmente sorse in Cristiano Gunther un vero poeta, di ispirazione superiore , con una commovente verità di sentimento e una profondissima sensibilità poetico-umana. Se anche il suo carattere appassionato e senza freno pregiudicò le sue creazioni e condusse lui stesso ad una fine precoce, egli fu tuttavia dopo un lungo vuoto il primo poeta lirico, la cui poesia, sgorgando senza affettazione dal cuore, al cuore parla anche in perpetuo.

Il sentimento nazionale si ridestò lentamente. Appunto la povertà universale si dimostrò essere una scuola dura ma benefica per il popolo tedesco, insegnandogli un lavoro continuo ed onesto. Sotto l'influenza dei pietisti e dei filosofi, come delle idee dominanti generalmente in Europa, si addolcì l'asprezza dei contrasti religiosi e specialmente i principi ecclesiastici cattolici cominciarono a segnalarsi per coltura e per tolleranza. Così a poco a poco sorse l'alba di un futuro migliore per la «Niobe delle nazioni», per la Germania così gravemente provata e piagata dolorosamente.

La sua vicina settentrionale, la Svezia, si conservava sempre una grande potenza. Il suo re Carlo XI (1660 - 1697), sebbene personalmente moderato, disinteressato e dedito esclusivamente alle cure del governo, era pieno del cupo fuoco del rivoluzionario, che non esita a sacrificare alla ragione di Stato anche i diritti meglio acquisiti. Giovandosi dell'irritazione del basso popolo per la tirannia insopportabile dell'alta nobiltà e nutrendola abilmente condusse a fine compiutamente nelle diete del 1680 e del 1682 la rivoluzione preparata da tempo; tutte le classi sociali si unirono con la Corona contro l'alta nobiltà, che fu condannata a pagare parecchi milioni al re come risarcimento di danni ed a restituire tutti i beni della Corona che essa si era illegittimamente presa dal 1604 in poi.

Con ciò la ricca nobiltà svedese divenne ad un tratto povera e la monarchia svedese, che era povera divenne ricca. La dieta stessa dichiarò il potere del sovrano illimitato, non solo di fronte alla dieta dei nobili, ma anche di fronte alla rappresentanza della nazione. Così al posto dell'oligarchia era subentrato il puro assolutismo regio. Questo trionfava dovunque in Europa, ad eccezione della Gran Bretagna.
A questo austero Carlo XI, che adoperava l'illimitato potere già conseguito puramente per l'innalzamento del suo regno e del suo popolo, succedette suo figlio Carlo XII, in età di soli quindici anni. Aveva ricevuto un'istruzione scientifica incompleta, ma in compenso rigidamente religiosa; le sue inclinazioni gli facevano preferire studi ed occupazioni militari. La convinzione, a lui instillata per tempo, della sua infallibilità per grazia divina, in un principe ben presto orfano dei genitori e chiamato a regnare, si sviluppò in una ostinatezza inflessibile, che non si dava alcun pensiero delle circostanzi reali. Di rigida moralità e di fermezza ferrea di volontà, il giovane sovrano evitò ogni relazione con donne e l'uso di bevande alcoliche.

Ecco come Voltaire ci descrive il carattere del re-soldato nel libro: "Carlo XII re di Svezia".
"...La sorpresa fu ancora maggiore, quando lo si vide rinunciare di colpo ai più innocenti divertimenti della giovinezza. Da quando si preparò alla guerra cominciò una vita del tutto nuova, dalla quale in seguito non si scostò mai, neppure un momento. Pieno dell'idea di Alessandro e Cesare, si propose di imitare in tutto, fuorchè nei vizi, quei due conquistatori. Non conobbe più fasto, giochi, svaghi; ridusse la mensa alla frugalità più severa. Aveva amato il lusso degli abiti: da allora vestì soltanto come un semplice soldato. Lo avevano sospettato di aver nutrito una passione per una dama della Corte: vero o no quest'intrigo, è certo che da allora rinunciò per sempre alle donne, non solo per timore d'esserne dominato, ma per dare l'esempio ai suoi soldati, che voleva costretti nella più rigorosa disciplina, o forse ancora per la vanità d'esser il solo di tutti i re che domasse un istinto così difficile da vincere. Decise pure d'astenersi dal vino per il resto della sua vita. Alcuni m'hanno detto che aveva preso questa decisione solo per domare in tutto la natura e per aggiungere una nuova virtù al suo eroismo"

I suoi vicini, di fronte a un re giovane e piuttosto singolare, credettero giunto il momento di potere manifestare l'odio e la loro invidia contro la Svezia, cresciuta in potenza con tanta rapidità e con tanto splendori. Tre potenti monarchi si armarono per una guerra, che si presumeva facili, Federico IV di Danimarca, Augusto II di Polonia e Pietro di Russia.
All'inizio del secolo XVII, dopo disordini durati molti anni, le condizioni della Russia si erano consolidate sotto la nuova dinastia dei Romanow. ( dei paesi Slavi dedicheremo capitoli a parte, alla fine di questo ciclo).
Lo zar Alessio Michalowatsch (1645-1676) infranse il potere dei boiardi, dell'alta nobiltà, appunto come facevano contemporaneamente i re di Danimarca e di Svezia. A questo seguì lo sviluppo di quella straordinaria forza espansiva della Russia, unita e diretta da un forte potere centrale, la quale ottenne grandi risultati ed ha minacciato il mondo fino alla Rivoluzione d'Ottobre del 1917.

Nella pace di Andrussow (1667) Alessio costrinse la Polonia a cedere Smolensk, Cernigoff, la Severia e l'antica e santa sede patriarcale di Kiew, insieme all'Ucrania. Con questo si era decisa la prevalenza della Russia sulla Polonia. Nel frattempo arditi Cosacchi penetrarono in Siberia attraverso deserti disabitati fino all'Amur e alla foce dell'Anadyr nel Grande Oceano. Ovunque si eressero fortezze, si fondarono scuole russe, si diede impulso ai commerci; una grande strada fu tracciata per Iakutsk e Kolymsk fino al mare orientale. I paesi del Baikal caddero in potere della Russia, in mezzo a vive lotte con le nazioni turche. Verso la fine del secolo XVII si cominciò anche a stabilire in Siberia degli esiliati e dei prigionieri di guerra. Così la Russia da ogni parte si avviava al grande stravolgimento dei tempi moderni.

Così Alessio, come il suo figlio maggiore Feodoro III (1676-1682), con l'introduzione di svariate riforme nel campo politico, militare ed ecclesiastico, prepararono uno sviluppo maggiore.
Dopo la morte prematura di Feodoro, al posto di Ivano, suo figlio maggiore ma debole di mente, ottenne la corona PIETRO il fratello minore di questi. A diciassette anni, nel 1689, fu liberato dalla reggenza della sorellastra Sofia ed assunse il potere autocratico. Ben presto si pose seriamente all'opera d'introdurre in Russia la cultura occidentale, la stessa aspirazione, che aveva già animato i suoi due predecessori, ma che fu da lui ripresa con tutta la forza del suo genio e del suo forte carattere.
Innanzi tutto le truppe furono plasmate sul modello europeo e furono chiamati maestri d'ascia olandesi, presso i quali andò a fare il suo tirocinio Pietro in persona, per la costruzione di navi da guerra e di navi mercantili. Nello stesso tempo Pietro era intento a render possibile l'esportazione dei ricchi prodotti naturali della Russia con la creazione di porti. Poiché allora si era uniti al mare soltanto per mezzo di Arcangelo, favorì questa città in modo straordinario. In seguito poi prese parte alla guerra mossa dall'Austria alla Porta, strappò a questa Azow, che fece validamente fortificare e che gli aprì la porta al Mar Nero ed al Mediterraneo.

Delle congiure suscitate tra la vecchia nobiltà russa e le truppe permanenti - gli strelitzi - andarono a vuoto per l'intervento personale dello zar, che le punì con una crudeltà barbara. Pietro era certamente d'indole dura e dispotica, ma si distingue tuttavia da altri despoti, come Luigi XIV e Napoleone I, perché non era mosso da ambizione personale, quanto invece da una sincera sollecitudine per la grandezza e per la prosperità della Russia, quali erano da lui concepite.

Nell'anno 1697 intraprese il suo primo grande viaggio in Occidente per conoscerne più esattamente le istituzioni e i costumi. Guardato dovunque con meraviglia come un animale da zoo, per il motivo delle sue abitudini semibarbariche, si recò in Olanda, dove egli stesso lavorò addirittura come operaio nei cantieri di Zaandam e visitò con gran desiderio di sapere tutte gli stabilimenti scientifici e industriali, e poi in Inghilterra, da dove per Vienna se ne tornò in Russia.

Al posto degli «strelitzi» indisciplinati e male istruiti, con arruolamenti regolari creò delle forze militari normalmente organizzate e addestrate. Proibì nello stesso tempo le goffe fogge tradizionali del vestire e di portare la barba, introdusse divertimenti europei, mandò numerosi giovani russi di ogni classe sociale all'estero per apprendervi le arti, le scienze e le industrie. Riorganizzò dalla base le finanze russe. La sua attività fu degna d'ammirazione per le molteplici sue creazioni.
Gli riusciva poi sommamente dolorosa la mancanza di una facile e prossima unione marittima del suo impero con i paesi civili. Sperò di trovarlo a spese della Svezia e perciò entrò nell'alleanza, che nel 1699 la Danimarca e lo Stato sassone-polacco avevano concluso contro Carlo XII.

Mentre così alla fine del secolo XVII si addensava un nembo di guerra al nord-est dell'Europa, l'Occidente e il Mezzogiorno erano scossi dalle lotte per la successione spagnola. Da queste agitazioni generali doveva derivare un nuovo ordine di cose, un nuovo ordine, che ha preparato la fine irreparabile del dominio universale dei Borboni.

Siamo dunque al tramonto di Luigi XIV
alla fine della sua vita terrena

IL TRAMONTO DI "RE SOLE" > >

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