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7. BABILONIA - ASSIRIA - ISRAELE - L' ARABIA

BABILONIA ED ASSIRIA FINO A TIGLATHPILESER IV.
I PRIMORDI DI ISRAELE.
L'EGITTO FINO A SESONCHIS I.
L'ANTICA ARABIA.

 

Avvicinandoci all'età di Tiglathpileser I possiamo, per la prima volta, più largamente attingere alle fonti storiche dei cuneiformi assiro-babilonesi. Dello stesso gran re si conserva nel Museo Britannico una iscrizione sopra un prisma di quattro facce, 20 figure in bassorilievo (ne vdremo a fondo pagina una), e più di 800 righe; questo importante monumento ci dà ragguagli sui primi sei anni del suo regno ed é la prima iscrizione regia in lingua assira, di contenuto storico e di grande estensione. Poiché questo documento e per il contenuto e per la redazione può servire come modello di tutti i consimili ricordi posteriori, così ne daremo un breve cenno. É diviso in tre parti principali; un'introduzione, contenente una preghiera alle divinità locali e gli attributi e predicati del re che tesse da se stesso il proprio elogio; la parte centrale, che in prosa solenne descrive le scorrerie e le spedizioni militari del re, le vittoriose battaglie, gli edifici da lui innalzati o restaurati, le ardite cacce e le svariate imprese per la prosperità del popolo; in fine la conclusione, in cui s'invoca la benedizione degli dei sulla casa reale e su tutti i successori del sovrano, che conserveranno la epigrafe, mentre si minaccia la maledizione divina per chi la distruggesse; inoltre é aggiunta la data precisa.

Dall'esame critico di questa e delle consimili epigrafi reali non è difficile riconoscere che gli storiografi di corte nel registrare le gesta dei loro reali signori cercavano, quanto meglio potevano, di gettare un velo sui loro insuccessi e sconfitte. Le frasi pompose adoperate a descrivere le vittorie divennero presto stereotipe, e persero quindi di valore storico. Quando si vede per esempio che una lunga descrizione di un cosiffatto «storico» é presa di sana pianta da una iscrizione più antica e da lui senz'altro inserita nel suo documento, siamo indotti ad usare critica e prudenza. Ad ogni modo queste epigrafi reali, quali documenti autentici redatti a breve distanza dagli avvenimenti, hanno maggior valore che non la maggior parte delle altre fonti storiche dell'antico Oriente.

Tiglathpileser I vi è rappresentato come uno dei più bellicosi sovrani assiri. Le imprese guerriere dei primi anni del suo regno furono dirette contro i vicini di settentrione. Il monarca si vanta di aver sottomesso sessanta re delle terre di Nairi, insieme coni loro alleati: smantellate le fortezze, spianate al suolo le città, razziato il bestiame: il tributo dei vinti li enumera, e fu di 1200 cavalli e 2000 buoi. Anche ad ovest e nord-ovest la potenza dell'Assiria, sotto Tiglathpileser, si estese fortemente. Gli eserciti vittoriosi giunsero fino al Tauro ed ai territori limitrofi al nord. Una sconfitta degli Hettiti, alleati coi popoli vicini, distrusse per sempre la potenza del regno di Cheta.
La via é libera fino alla Fenicia; nella città costiera di Arvad si fa atto di sottomissione al re. Ma soprattutto la offensiva contro Babilonia coronò le numerose campagne militari di Tiglathpileser. Marduknadinachi, secondo successore del sopra ricordato Nebukadnezar, fu vinto in due campagne e Babilonia espugnata, insieme ad altre città importanti del settentrione.

Ciononostante sembra che nemmeno allora la potenza politica dell'Assiria fosse di lunga durata. Una tradizione attendibile narra che lo stesso re babilonese Marduknadinachi facesse trasportare statue di divinità dalla città assira di Ikallâti a Babilonia, il che può solamente. significare il rafforzarsi della potenza babilonese. Ma non si può precisare se esso sia da porre fra le due su ricordate vittorie di Tiglathpileser, o dopo di esse.

Anche per il tempo che seguì al regno di Tiglathpileser, le fonti tornano a scarseggiare. Dei due fratelli Ashshurbilkala e Shamshiadad III, eredi del suo trono, il primo aveva per moglie la figlia del re babilonese Adadapaliddinna, il che farebbe credere a buoni rapporti fra i due stati rivali. Ma da questo punto in poi la storia tradizionale dei due regni è assai lacunosa: i pochi ricordi finora conservati ci permettono di riconoscere, unicamente per Babilonia, il rapido succedersi di parecchie dinastie; le fonti assire tacciono quasi del tutto.

Partono quindi da un'ipotesi, per quanto verosimile, quelli (e sono i più) che caratterizzano questo periodo come il periodo della decadenza assiro-babilonese, prodotta da continui attacchi da parte delle stirpi aramaiche, rafforzate da alleanze, e di altri popoli vicini. Solo con Adadnirâri III, figlio di Ashshurdajan II e nipote di Tiglathpileser III (circa 900-890) ricomincia la storiografia monumentale assira, che quindi da allora in poi, grazie al «canone degli eponimi» (di cui riparleremo), riposa su ben sicura base cronologica e si prolunga, quasi senza interruzione, fino al termine. del regno neobabilonese. Mentre di Adadnirâri sono specialmente ricordate due guerre col re babilonese Shamashmudammiq e col successore di lui Nabûshumishkun, concluse poi con un trattato di pace favorevole all'Assiria, e già del successivo re assiro Tukultininib II (890-884) si tramandano estese campagne contro le terre dei Nàiri.

Più precisamente però siamo informati delle imprese militari del suo potente successore, Ashshurnàssirpàl (884-860). É vero che appunto il documento storico più ampio del governo di questo re, una lastra di alabastrocon una epigrafe di quasi 400 righe, é redatto in uno stile da cronaca notevolmente arido e monotono: manca là vivace fantasia degli storiografi di corte di un Tiglàthpileser I o, più tardi, di un Sànherib. Ma appunto perché così arido e disadorno, quel rapporto merita maggior fede; ed efficacia tanto maggiore ne acquistano le descrizioni, che vi sono dentro sparse, delle inaudite crudeltà usate contro i prigionieri di guerra. Vediamo il sovrano mirare ad uno scopo, e raggiungerlo con grandiose imprese contro l'occidente e il settentrione.

Veniamo così a sapere che nei primi anni del regno il re assiro ebbe a sedare diverse rivolte delle genti aramee e che Sangara, il re di Karkemish, fu di nuovo obbligato a un tributo verso il vincitore: il che dimostra quanti contrasti bisognava appianare nella Mesopotamia, per assicurare la pace del regno.
Se già all'inizio del regno di Ashshurnassirpal furono ridotti all'obbedienza i singoli stati sulla riva destra dell'Eufrate, le sue spedizioni successive si estesero per tutta la Mesopotamia fino allo stato aramaico dei Patinei presso l'Oronte e lungo il Libano fino alla costa mediterranea della Fenicia.

Arvadt e Byblos, Sidone e Tiro, che settecento anni prima avevano mandato il loro tributo sulle rive del Nilo, offrivano ora al gran re assiro, in segno di riconoscimento della sua sovranità, metalli preziosi, ricchi tessuti e le specialità della loro fauna e della loro flora. Ashshurnassirpal riuscì anche a ristabilire l'ordine e la sicurezza nel nord e nel nord-est dell'Assiria, nelle regioni dei Nairi e nelle montagne di Nissir, rafforzandole per mezzo di colonie. Significative per le mire della sua politica interna deve apparirci il fatto, i cui motivi per ora ci sfuggono, che egli ristabilì la residenza nella capitale Kalah, fondata da Salmanassar I sulla riva sinistra del Tigri e che dai suoi immediati predecessori era stata abbandonata a favore della vecchia metropoli Ashshur: Kalah fu ricostruita ed abbellita da un nuovo palazzo reale. La corte assira vi risiedette fino al regno di Sargon II, con una sola interruzione di dieci anni.

La grande eredità di Ashshurnassirpal, non sminuita né in potenza né in estensione, fu raccolta dal figlio suo Salmanassar II (860-824). Ne conosciamo le spedizioni guerresche non solo da epigrafi su due tori colossali e su di un monolito, ma anche dalle figurazioni sulle larghe fasce di un obelisco di marmo nero alto un metro e mezzo, nonché dai rilievi in bronzo su due magnifici enormi battenti all'ingresso dell'atrio del suo palazzo.

Durante il suo regno ricco di gesta e di vittorie, due avvenimenti danno un nuovo e importante aspetto alla storia assira: le spedizioni in Siria e Palestina e un deciso intervento nei destini di Babilonia. Già nel tempo di Ashshurnassirpal in Babilonia era asceso al trono un principe della Caldea, della «terra marittima» presso il Golfo Persico; quella Caldea che già in antico, alleatasi ai nemici ereditari di Babilonia, gli Elamiti, era cresciuta come pericolosa vicina e rivale.

Di stirpe caldea era forse anche Nabûpaliddinna, i cui figli Mardukshumiddin e Mardukbalâtsuiqbi, impigliati in contese per la successione del regno babilonese, chiesero aiuto l'uno alla corte di Assiria, l'altro probabilmente ai magnati caldei. Salmanassar approfittò di questa occasione, riportando una doppia vittoria e sull'amico dei Caldei e su i suoi alleati, i quali vennero resi tributari del re.
La protezione assira generosamente accordata a Mardukshumiddin, portò con sè il riconoscimento della sovranità di Salmanassar da parte del re di Babilonia. Così il re assiro ristabilì la egemonia su tutta quanta la Babilonia.

Molto più lunghe e difficili riuscirono le lotte con la Siria, dove fino dal decimo secolo, grazie alla graduale fusione di varie stirpi aramee, era sorto, eccezionalmente, uno stato vero e proprio: il regno di Damasco.
Salmanassar era bensì riuscito ad attraversare coi suoi eserciti la Mesopotamia ed a sconfiggere singole tribù siriache del nord, come quelle di Karkemish; ma l'accesso orientale al Mediterraneo pareva formasse allora un baluardo insuperabile.
In un passo, scritto in prima persona, della epigrafe sul monolito di Salmanassar (visto sopra i apertura pagina) sono enumerati i capi della lega:
«1200 carri, 1200 cavalieri e 2000 uomini di Adradiri (forse il Benhadad della Bibbia e il Barhadad di una iscrizione in antico aramaico di recente scoperta) da Damasco; 700 carri, 700 cavalieri e 10.000 uomini di Irchulini da Hamath; 2000 carri e 10.000 uomini di Ahab da Israel; 500 uomini da Gui, 1.000 uomini da Musri, 10 carri e 10.000 uomini da Irqanatu, 200 uomini di Matinubal da Arvad, 200 uomini da Usanatu, 30 carri e 10.000 uomini di Adunubal da Shiana (?), 1.000 cammelli dell'arabo Gindibu, 1.000 (?) uomini di Bâsa di Ammonio, figlio di Ruchubi (?): questi dodici re (qui però se ne nominano solo undici) conclusero un'alleanza offensiva e difensiva; mossero contro me per darmi battaglia ».

Questo passo del memorando documento monumentale non lo citiamo per dar peso alle cifre tanto precise che (a lungo) vi sono elencate, ma per la straordinaria importanza che riveste la notizia del primo apparire del popolo di Israele in una epigrafe storicamente innegabile, redatta pochi anni dopo gli avvenimenti cui si riferisce.

Quel popolo, chiamato ad essere e a rimanere fino ad oggi un così potente fattore nello sviluppo della storia dell'umanità (si pensi all'influenza del successivo cristianesimo e l'Islam), ci si presenta qui nella stessa posizione di inferiorità politica rispetto al forte regno assiro, che i piccoli stati aramei enumerati, senza nemmeno avere il primo posto né assumere alcuna parte importante.
Se lo storiografo moderno dovesse limitarsi alle notizie delle iscrizioni storiche finora scoperte e decifrate, la storia d'Israele comincerebbe dal tempo di Salmanassar II, precisamente proprio dal suo tempo, o pochi decenni prima, e comincia pure quella di altri stati minori. Però, com'é noto, il caso è diverso per Israele: l'Antico Testamento, composto (meno pochi frammenti) in lingua ebraica, e che noi a ragione possiamo presupporre, per tutto quanto segue, conosciuto dai nostri lettori, fu tenuto fin dal suo primo sorgere come fonte precipua e naturale per la storia del popolo d'Israele: e solo la scoperta delle iscrizioni cuneiformi ci ha fornito un mezzo per un controllo storico- cronologico.

Ma già molto prima di queste scoperte e contemporaneamente ad esse si ebbe una critica storico-letteraria poggiante sopra basi filologiche, la cui ultima elaborazione é inseparabile dal nome di Giulio Wellhausen. Esce dai limiti della nostra trattazione l'esporre la questione, ancora per molti lati controversa, della distinzione delle fonti nei libri dell'Antico Testamento: ma basterà accennare, per un orientamento generale, ai punti seguenti, nei quali oggi si trovano d'accordo molti rappresentanti della scienza biblica.

Già nel Pentateuco, nei «cinque libri di Mosé» - che del resto diversi esegeti vogliono in stretta connessione letteraria col libro di Josua [Giosué], considerandoli come un «Exateuco» - si possono chiaramente distinguere diversi scritti, usati come fonti principali. Si considera come la più antica il libro del «Jahweista», cosidetto dal nome «Jahwe» [Geova] dato in esse a Dio, prodotto di una tradizione scolastica il cui strato principale si formò nella Giudea circa il IX secolo a. C.

Fin dalle ricerche del medico cattolico Jean Astruc (1753) si distingue da questo «Jahweista» il libro, molto affine, dell' «Elohista» (dal nome di Dio, Elohim), sorto nel nord della Palestina circa aIla metà dell'VIII secolo. Questi due fonti, che ad eccezione dell'antico «Libro dell'alleanza» (nei capitoli 20-23 del secondo libro di Mosè) e di un breve tratto nel secondo libro di Mosé cap. 34, hanno un carattere puramente narrativo, vennero fusi insieme verso la metà del VII secolo e ridotti ad unità, con abile eliminazione delle loro divergenze.
Ad un altro indirizzo si dovette il sorgere della cosiddetta Torah, il codice del Pentateuco, nella quale l'antico diritto consuetudinario degli Israeliti, in conformità del graduale sviluppo della loro comunità di stato e di culto, fu innalzato a legge ufficiale dell'uno e dell'altro. A somiglianza della raccolta di leggi babilonesi, sanzionate sotto il re Chammurabi circa l'anno 2000, sarà pure avvenuto del cosiddetto «Deuteronomio originario», sanzionato in Giudea nel diciottesimo anno del re Josia, cioè secondo l'opinione generale nel 623 a. C.: organismo complicato e pieno di particolari tendenze, riconoscibile in una parte del quinto libro di Mosé in almeno due - ma verosimilmente più - rifacimenti messi insieme dopo la morte di Josia (608).

Durante l'esilio (dopo il 573) sorsero ancora nuovi nuclei di leggi e prescrizioni rituali, il cosiddetto «Codice sacerdotale», dentro al quale si distinguono la «Legge della santità» nonché raccolte dedicate alla storia del culto, ed appendici posteriori.
Si ammette che quest'ultima raccolta fu compiuta circa nell'anno 500 a. C. Inoltre é manifesto un secondo rifacimento di tutti i libri ora ricordati. È chiaro poi che durante, o poco dopo l'esilio, le «fonti storiche» raccolte nel VII secolo, cioè l'«Exateuco», i Libri dei Re, i Giudici e Samuele, furono riuniti insieme e rispettivamente completati, in modo che con essi si accordasse il senso e lo spirito del Deuteronomio; é questa l'attività letteraria, che si suole attribuire ipoteticamente ad una determinata persona, il cosiddetto «Deuteronomista».

Finalmente un ultimo redattore, esso pure ipotetico, vissuto prima del 333 a. C., preso a fondamento il Codice sacerdotale, vi interpolò le altre parti dell'opera, creando così il monumento letterario, la cui unità fu rispettata per quasi duemila anni e dagli Ebrei e dai Cristiani. Oggi noi sappiamo che in esso, scientemente e per mezzo di un artificioso racconto, la legge posteriore all'esilio fu rappresentata come la originaria, come «legislazione del deserto» ; e la storia d'Israele dalla creazione del mondo in poi, soppresse tutti i particolari che ne avrebbero rivelato la tarda origine, ridotta a rappresentare la storia anteriore a quella legislazione sinaitica, «col tabernacolo mobile e l'accampamento errante».
Quando si pensi che durante il lavoro del «Deuteronomista» e del redattore ultimo andarono perduti, in numero sempre maggiore, frammenti delle fonti originali (cronache e annali), sostituiti cha leggende posteriori, si capisce anche troppo che ben scarso sia stato il materiale da servire come fonte storica. Quel che oggi abbiamo nel Canone del Vecchio Testamento non son già ricordi puramente storici, fissati per tramandare ai posteri avvenimenti politici, all'incirca come un'epigrafe reale assira, ma scritti partigiani di materia religiosa e legislativa.

Se ora, a modo di excursus, ci mettiamo a considerare sotto questo punto di vista gli inizi della storia israelitica, non ci sorprenderà il fatto che nelle fonti locali non rimanga ben poco di utilizzabile per una vera base cronologica. La concezione del sorgere di questo popolo rimane o scompare secondo che si accetta o no la su ricordata ingegnosa ipotesi di H. Zimmern, che ravvisa gli Ebrei nei Chabiri delle tavolette di Tell-el-Amarna, i nomadi o semi-nomadi minaccianti Gerusalemme.
In tal caso gli Amurrû od «Emoriti», cioè gli «abitanti della terra d'Occidente» residenti in Palestina, sarebbero stati a poco a poco soppiantati o assimilati da una serie di genti molto affini, e quindi pure queste cananee e rispettivamente «ebree» ; e la fusione di queste genti produsse il popolo d'Israele, al quale si aggiunsero ancora, come più prossimi vicini, gli Ammoniti, i Moabiti e gli Edomiti.

Dal tempo di Amarna, però, fino al tempo di Ahab la tradizione locale non ci dà una cronologia sicura; i ricordi storici attendibili risalgono al più fino all'epoca dei re. Quelli antecedenti a tale epoca sono molto probabilmente da attribuire per buona parte al dominio della leggenda, in specie eroica, senza che si possa negare che in questo tessuto leggendario alcuni passi siano da accettare come nuclei storici.
Anche qui si e ricorso in parte a fonti straniere, per mettere luce quelle locali. Così per esempio l'«esodo dall'Egitto» sotto «Mosè» è stato messo in relazione col periodo degli Hyksos (v. sopra). Che ciò sia storicamente impossibile, è dimostrato già dal fatto che «Israele» come tale non esisteva prima del tempo di Amarna, a meno che non si voglia negare alla ipotesi dello Zimmern la fede di cui generalmente gode.
Ma però in quella leggenda può essersi conservato un ricordo delle emigrazioni di singole orde nomadi nell'età degli Hyksos, accennate dalle fonti egiziane. Lo stesso possiamo pensare della cosiddetta «età dei Giudici», delle leggende di un Jefte di Gilead e di un Gedeone di Manasse, che sembrano accennare alla fusione di singole orde nomadi sotto un principe capostipite.

Anche nel canto antico, ma certo rimaneggiato, della profetessa, o «giudice» Debora (Giudici, cap. V) si rispecchia il ricordo di quel tempo, mentre i racconti sui «patriarchi» nella Genesi dovranno essere, nel loro insieme, esclusi dal campo della indagine storica. È vero che anche ultimamente, e da scienziati di grido, si é tentato di identificare l'«Amraphel, re di Sinear» del XIV cap. della Genesi con Chammurabi (o Chammurapi) re di Sumir, cioé di Babilonia, per mettere in evidenza l'attendibilità delle notizie del tempo di Abramo contenute in quel capitolo, del resto del tutto isolato.
Alcuni dotti asserivano di aver ritrovato nelle tavolette cuneiformi anche il nome Kedorlaomer di Elam; ma si vide presto che si trattava di una falsa ipotesi: e per la identità di Amraphel con Chammurabi non fu addotta finora una prova decisiva. Pertanto le notizie su Abramo, almeno secondo lo stato attuale delle ricerche, e così pure quelle sull'alleanza del Sinai, non sembrano per intanto da potersi con sicurezza assegnare alla storia.

Solo dopo. che le singole stirpi ebbero preso sede stabile e si furono amalgamate con la popolazione delle città da esse occupate, Israele si presenta come un popolo civile, tenuto insieme da un sentimento di nazionalità con impronta fortemente religiosa, e abbastanza forte da imtraprendere la lotta contro un nemico che gli sorgeva contro in Canaan: i Filistei.
Nel XII secolo, nel tempo della dinastia babilonese dei Pashi, questi avevano occupato le città costiere del Mediterraneo, abitate fin nel tempo di Amarna da una popopolazione cananea: Gaza, Asdod, Askalon, Ekron e poi anche Gath, i cui Principi erano stretti in alleanza. Fidandosi nell'esercito ben organizzato, essi potevano osare di combattere Israele e si avanzarono contro i nuovi colonizzatori.

Appunto da ciò le stirpi israelitiche furono costrette a difendersi sotto la guida di un generalissimo: Saul fu il primo re d'Israele. Il re neoeletto, con Beniamino per generale, ebbe tuttavia a soffrire all'inizio due non lievi sconfitte, e le «dieci» stirpi caddero per un certo tempo sotto il dominio dei Filistei.

Ma presto riuscì al giovane regno, ogni giorno più forte, di cacciare gli stranieri dai propri confini, riportando vittorie anche sui Moabiti ed Ammoniti. Saul non doveva vedere la indipendenza definitiva del suo regno; ripresa la guerra contro i Filistei, egli cadde sul campo di battaglia. Ma con ciò fu compromessa anche la posizione politica del suo regno. Già lui vivo si era formato per opera della stirpe di Kaleb (in Hebron e nei dintorni) e della limitrofa di Giuda, un forte partito contro il nord, con a capo David, « l'eroe ».
Alleatosi con più genti vicine, forse anche abilmente approfittando della politica filistea e per un certo tempo da essa sostenuto, David si volse, subito dopo la morte di Saul, contro Israele, che in breve cadde in suo potere, ad eccezione della regione orientale del Giordano. Il regno di Giuda e di Israele riunito sotto un solo scettro con Gerusalemme per capitale, seppe da quel momento difendere a lungo il confine occidentale da ulteriori spedizioni e assalti dei Filistei.

Anche nelle guerre mosse ai popoli vicini di Moab, Ammon e Edom la fortuna arrise all'esercito, ottimamente organizzato di David; pare che nelle sue imprese si spingesse fino a Damasco.
Da contese di famiglia fu originata, secondo il Vecchio Testamento, la sollevazione sortagli contro da Hebron, negli ultimi anni del suo regno, guidata da suo figlio Assalonne: repressa subito dopo l'uccisione di quest'ultimo, ma non senza lasciare strascichi di ostilità fra le stirpi di Giuda e di Israele, solo da poco tempo riunite.

Inoltre si svolse uno spiccato dissidio fra l'elemento militare, devoto al re, e il sacerdozio qui dato dal « profeta » Nathan, dissidio grave di conseguenze per i successori del monarca. In luogo di Adonja, figlio e legittimo erede, eletto da David stesso, fu posto sul trono suo fratello minore SALOMONE.

Se già intorno alla storia di David, agli splendori della sua corte ed ai canti del pio salmista la leggenda più tarda ha intessuto un velo quasi impenetrabile, ciò può dirsi ancora più del grande «sapiente» Salomone, il giudice incomparabile, il potente signore orientale dal popoloso harem e dai sontuosi banchetti, il costruttore di grandiosi e magnifici edifici. Non vi è dubbio che siano opera sua e il completamento edilizio di Gerusalemme, sua splendida residenza, e la costruzione del tempio che ne fu il meraviglioso ornamento. Ma della sua politica estera la tarda tradizione religiosa ci ha conservato troppo scarse notizie attendibili.

Sembra che durante il suo governo Edom si sia di nuovo staccato dal regno; Damasco si rafforzò sempre di più acquistando la completa indipendenza. È difficile dire sa le tanto amplificata notizie dalla estese relazioni commerciali di Salomone e dal suo patto col re Hiram di Tiro riposino in tutti i loro particolari su avvenimenti reali, o piuttosto non siano in parte inventate per magnificare la sua estesa e prodiga operosità di costruttore.

Ad ogni modo egli seppe, accanto alla sue molteplici occupazioni favorite, trovare anche il tempo da reggere con mano sicura la redini dal governo dal regno, da lui diviso in dodici distretti con amministrazione separata.
In questo senso si spiega la petizione presentata dai maggiorenti d'Israele, dopo la morte di Salomone, a Rehabeam, perché questi alleviasse al popolo il giogo opprimente di suo padre.
Il rifiuto di Rehabeam gli costò il trono, e portò al distacco, già da tempo minacciante, di Giuda e Gerusalemme dall'antica casa regnante d'Israele. Geroboamo I, allora proclamato re dagli Israeliti, dovette, secondo ogni apparenza, ricorrere all'aiuto straniero per assicurarsi la signoria: all'aiuto degli Egiziani.

Siamo così ricondotti a dare un'occhiata alla storia egiziana, che abbiamo lasciata ai tempi della riforma religiosa di Amenophis IV, il «grande eretico». Per quel che sappiamo dalle fonti egiziane di fatti notevoli per la storia generale dell'antico Oriente, dobbiamo riconoscere dall'inizio del XIV secolo fino al X secolo un graduale decadimento della potenza egiziana, per quanto operante in impegnative gesta militari. Né a Sakeré, genero di Amenophis, né ai successori di lui Tutenchamon ed Eje riuscì di imporre al paese il nuovo culto del Sole, contro il partito reazionario del sacerdozio tebano.

Il disordine generale, i contrasti e l'intolleranza religiosa minacciavano di seppellire per lungo tempo la pace dell'Egitto. Allora, favorito dal sacerdozio che pare legittimasse anche la sua unione con una principessa, si impadronì del trono Haremheb, lo Harmais dei Greci, funzionario di molto senso politico e fedele seguace della vecchia religione, il quale già durante il regno dell'eretico Amenophis IV aveva atteso alla massima parte degli affari di stato invece del fanatico sovrano.
I simboli e i culti dell'antica fede vennero ristabiliti per intero, e grazie a leggi severe fu restaurato pure l'ordine pubblico, scosso dalle gravi lotte interne. Leggi che risollevarono la prosperità dell'Egitto.
Anche alla politica estera Harmais cercò di dare impulso con spedizioni a Punt e nell'Asia Minore ma non riuscì ad ottenere successi importanti né contro gli Amurrû né contro il potente regno degli Hettiti.

Solo con i re successivi della XIX dinastia l'Egitto poté segnare le grandi conquiste in Oriente, preparate da Harmais. Sethos I, salito al trono nella seconda metà del XIV secolo dopo il breve regno di suo fratello Ramses I, condusse una spedizione nella Siria, dove lo attendevano con le armi in pugno gli Hettiti, allora spintisi molto avanti verso il sud, dopo aver assoggettato quasi tutta la Siria e la Fenicia ed aver stabilito la loro capitale nella città fortificata di Karkemish.
Le forze di Sethos piegarono di fronte a quel potente nemico. Riuscì solo a concludere con gli Hettiti un patto di un certo valore, che però non bastò a trattenere il suo valoroso successore Ramses II dall'intraprendere una nuova spedizione contro la Siria.

Però, nonostante l'assedio di Qadesh presso l'Oronte, terminato con una battaglia sanguinosa, nemmeno Ramses, la cui impresa era pur stata favorita da un cambiamento di sovrano nella osteggiata dinastia degli Hettiti, riuscì ad ottenere se non un'alleanza offensiva e difensiva col re Cheta Chattusll (in egizio Chetasar), della quale ci è tuttora conservato il testo bilingue, egiziano e babilonese (v. più oltre).

Le nozze del Faraone con una principessa dei Chatti dovevano confermare il buon accordo fra i due popoli. Eppure l'influenza dell'Egitto in Siria non sopravvisse nemmeno alla XIX dinastia. Un'onda di popoli partita dall'Europa e riversatasi in parte verso la Libia, in parte verso l'Asia minore (pare che vi si trovassero anche i Filistei), spostò la politica estera dell'Egitto verso il confine occidentale del regno, dove il re Menephtah dopo lotte accanite ed una battaglia decisiva di sei ore riportò vittoria completa sugli invasori stranieri. Ma la potenza del l'Egitto in Asia era ormai spezzata.
I sovrani della XX dinastia non furono più in grado di opporsi efficacemente al dilagare della grande potenza assira. Al regno degli Hettiti come tale non riuscirono a porre fine nessuno dei Faraoni; il merito di tale impresa spettò, come abbiamo visto, al re assiro Tiglathpileser I.
Persino la energia di un Ramses III poté solo ritardare, ma non impedire, la decadenza dell'Egitto. Il suo regno vide, é vero, l'esito felice di una nuova spedizione contro i Libici, le vittorie sui popoli costieri dell'Asia minore, la flotta toccare Cipro e la foce dell'Oronte. Ma le agitazioni interne, la politica disordinata e i dissidi religiosi erano tali da impedire agli omonimi successori di Ramses di conservare la potenza dei Faraoni.

La signoria passò finalmente nelle mani dei sommi sacerdoti di Ammone, che diedero alla XXI dinastia una sequenza di re, senza tuttavia riuscire a resuscitare lo splendore delle età passate. Privi dell'appoggio di validi eserciti, toccò a questi sovrani di veder l'Etiopia farsi indipendente sotto propri re e da allora in poi sempre più intervenire nei destini dei loro paese.

Inoltre già da tempo si era rinunciato a difendere il confine occidentale contro i Libi, dal cui popolo anzi, rafforzato da elementi stranieri, venne all'Egitto una nuova casa regnante di origine libica. Il primo re di questa XXII dinastia, Shoshenk I (Sesonchis), ritornato a disporre di validi soldati, poté arrischiarsi ad una spedizione verso l'Oriente asiatico e ingerirsi negli affari del regno giudeo-israelitico.
Da questo momento in poi vediamo sempre riaffacciarsi la politica egualmente bene accetta alle due parti, agli Egiziani avidi di conquiste ed agli stati dell'Asia occidentale bisognosi di appoggio, e dalla quale si sperava il ristabilimento della supremazia, da un pezzo tramontata, del regno del Nilo sull'Asia occidentale in contrasto con l'impero universale degli Assiri.
La storia dell'Egitto così torna a collegarsi strettamente con quella dell'Asia anteriore, specialmente con la assiro-babilonese.

Geroboamo dunque, fallito il tentativo di una sollevazione contro Salomone si era rifugiato in Egitto, fu innalzato al trono d'Israele mediante l'appoggio di un capo di mercenari. Shoshenk si volse contro Rehabeamo, espugnò e mise a contribuzione Gerusalemme e parecchie altre città palestinesi e le diede in potere di Geroboamo. Ma i dissensi nell'interno dell'Egitto non permisero nemmeno allora che il Faraone esercitasse a lungo la funzione di arbitro nella Palestina. Prese il suo luogo Benhadad di Damasco, divenuta fin dal X secolo la capitale di un regno, dei più nobili e forti fra i singoli stati aramei.
All'aiuto di Benhadad ricorse dapprima il giudeo Asa, seriamente molestato dal sovrano israelita Baesa della stirpe di Issashar e secondo successore di Geroboamo, mediante la fortificazione della città di confine Râma, situata nelle vicinanze della metropoli giudea, Gerusalemme.

Allo stesso modo interessata, come già l'Egitto, Damasco si ingerì allora della politica giudeo-israelita. Non solo Giuda, grazie alla demolizione di Râma, fu liberata dall'oppressivo legame del traffico verso il nord e resa però nello stesso tempo tributaria di Damasco: anche Israele passò sotto l'alta sovranità di Benhadad.
La riconobbe anche Orari, fondatore di una nuova dinastia, innalzatosi a re d'Israele e come tale riconosciuto dopo una serie di dissensi, sollevazioni e lotte di partiti e dopo la soppressione di vari anti-re; egli creò in Samaria una capitale stabile, riorganizzò l'esercito e riassoggettò i Moabiti, per un certo tempo distaccatisi dal regno. Omri pare ritenesse saggia politica e conforme ai propri interessi il procrastinare un'azione contro Damasco. Solo suo figlio Ahab, che nella battaglia di Qarqara aveva dato a Benhadad aiuto di truppe contro gli Assiri, credette di dover sfruttare il pericolo che ormai minacciava Damasco da parte di Salmanassar II, per liberarsi dall'odiato giogo degli Aramei.
Ma aveva calcolato male la forza dei combattenti; in una delle mischie contro il principe damasceno, accesasi intorno alla fortezza di Râma, la morte lo colse sul campo di battaglia.

A questo punto la storia politica giudeo-israelita sbocca nell'ampio fiume dei fatti di importanza mondiale del gran regno assiro, sì da doversi considerare parallelamente ad essi. Le tardi fonti indigene del Vecchio Testamento, le quali, come vedemmo, a tutt'altro scopo servivano che a registrare avvenimenti semplicemente storici, possono da ora innanzi esser controllate per mezzo delle epigrafi monumentali dei re assiri, e accettate quanto alla loro attendibilità.

In realtà la partecipazione di Ahab alla battaglia di Qarqara nell'854 a. C., accertata dalla suddetta iscrizione di Salmanassar, é il primo avvenimento della storia d'Israele cui si possa assegnare una data precisa.

Il coscienzioso narratore della storia dell'antico Oriente dovrebbe ora seguire anche la storia dei rimanenti stati dell'Asia orientale, all'infuori degli assiro-babilonesi, fino al loro confluire in quella del regno assiro. Ma tale impresa é per ora impossibile. Le fonti originali di quelle storie, per quanto ne esistono, sono da usare con cautela ancor di più che non il tesoro letterario dell'Antico Testamento.

I monumenti con scrittura ideografica hettita, sopra menzionati, non ci hanno finora rivelato dati storici sicuri. Invece la stele con iscrizione del re moabita Mesha, del primo quarto del IX secolo a. C., conservata nel Museo del Louvre, ci conferma le conquiste di Omri nel Moab, che sembra riacquistasse l'indipendenza sotto Ahab; inoltre la pubblicazione di un documento dell'inizio dell'ottavo secolo, la estesa iscrizione di un re di Hamath, mette in chiara luce la supremazia di Damasco nel tempo di Barhadad.

Tutte le altre iscrizioni nord-semitiche, comprese quelle scoperte a Seng'irli nella Siria settentrionale, ora conservate nel Museo di Berlino, nonché i papiri egizio-aramaici di Assuan di recente venuti in luce, sono di data posteriore al periodo di cui parliamo. Eppure proprio il memorabile documento di Salmanassar, che richiamò la nostra attenzione su Israele, ci permette di gettare uno sguardo anche in una regione molto più remota: nell'antica Arabia.

L'ARABIA


Insieme al nome succitato del principe Gindibu si fa menzione, per la prima volta nella storia dell'antichità, del paese di ARABIA (Aribi), paese che ad onta del suo «isolamento» possedette, secondo l'opinione di molti studiosi, un'antica civiltà; anzi alcuni dotti vi ravvisano addirittura la culla dei Semiti, il «magazzino di popoli».
Attrverso esso passava il commercio egizio-indiano; tarde e fantasiose leggende lo celebravano come la terra del prezioso incenso, della mirra, di favolose ricchezze, patria di un popolo destinato più tardi a soggiogare il mondo: tutte ragioni che allettavano a cercare avanzi di civiltà sul suolo della penisola. Difatti, prima isolatamente e poi su più larga scala - per opera di Giuseppe Halévy e in specie di Edoardo Glaser - furono compiute a fine secolo XIX, viaggi di scoperta e si procurarono raccolte di iscrizioni, che ci hanno offerto un totale di circa 2000 testi.
La loro interpretazione forma certo uno dei compiti più importanti della epigrafia semitica, tanto più promettente in quanto né la scrittura alfabetica pone più gravi ostacoli al decifratore, né la lingua - arabo antico con varie forme dialettali - oppone insuperabili difficoltà alla esegesi filologica.

Eppure qui, almeno per ora, incombe allo storico il dovere di continua riserve e di frequente rinunce. Gran parte del materiale epigrafico, specialmente delle copiose raccolte del Glaser, non è stato reso pubblico, e i pochi illustratori dei testi editi dànno spesso interpretazioni molto diverse l'una dall'altra. Inoltre il contenuto dei documenti - per lo più epigrafi dedicatorie o lapidi di edifici o testi di carattere privato - risulta poco utile alle ricerche storiche.
Finora i testi stessi non ci hanno fornito alcun punto d'appoggio per fissare con sicurezza la data della loro redazione. L'unica cosa certa sembra l'esistenza, nell'Arabia meridionale e nell'epoca più antica a noi accessibile, di un vasto regno, il Main, senza che per ora si possa precisarne i confini, nel tempo e nello spazio.

Il Main entra nella storia come stato già costituito e bene organizzato. Pare che la sua influenza politica si sia largamente estesa nel nord, forse fino a Gaza e nel territorio del Midian biblico. Conosciamo i nomi di diverse province del regno e le iscrizioni ci dànno notizia di più di venticinque re, la cui genealogia si può in parte seguire. L'egemonia di questo antico regno sud-arabo sembra sia passata, nel IX o VIII secolo a.C. , a un regno nord-arabo chiamato «sabeico» dalla capitale Saba; ma le sue origini e quelle della sua civiltà sono altrettanto oscure quanto quelle del mezzogiorno della penisola. I governanti del Main scompaiono ora del tutto dalle iscrizioni, i «re di Saba» ne prendono a poco a poco il posto. Possiamo seguirli fino al II secolo a. C., quando vennero sostituiti dagli Himjari del sud-ovest dell'Arabia.

Torniamo ora, dopo questa introduzione, all'importante passo dell'epigrafe sul monolito di Salmanassar II ed alla sua storia. Gli storiografi del re assiro registrano una strepitosa vittoria sulle genti aramee presso la già ricordata città di Qarqara.
Salmanassar si vanta di esser passato come uragano sui nemici e di averne abbattuti con le armi 14.000. Tuttavia la sua campagna non condusse ad una vera soggezione di Damasco e Hamath. Benhadad intanto non uscì indebolito dalla lotta, ché trovò anzi mezzo di costringere all'obbedienza i figli di Ahab, Ahazia e il suo successore Joram, ribellatiglisi, e perfino di assediare la capitale Samaria; finché per nuovi assalti degli Assiri dovette pensare alla difesa del suo proprio paese.

I cambiamenti di trono sia di Damasco che di Israele decisero le lunghe lotte a favore degli Assiri. Una catastrofe scoppiata sulla casa di Omri procacciò il trono di Israele a Jehu, cui l'odio ereditario contro gli Aramei spinse ad un'alleanza col re degli Assiri.
Successe a Benhadad sul trono di Damasco Hazael e avendo egli osato di sfidare nuovamente gli Assiri, Salmanassar allestì un'altra spedizione, che portò all'assedio di Damasco e terminò - secondo le iscrizioni assire - col distruggere e ridurre in cenere «innumerevoli» città, obbligando al tributo, insieme a Jehu, gli abitanti di Tiro e Sidone.

Una delle epigrafi accessorie sulle fascie dell'obelisco nero di Salmanassar dice: «Io ricevetti il tributo di Jehu da Bit-Chumri (cioè della casa di Omri): argento, oro, una patera d'oro, un vassoio consacrato, calici d'oro, secchi d'oro, piombo, e legni preziosi (?)».

Ma il passo relativo all'«assedio di Damasco» suona in modo da far comprendere che nemmeno questa volta il re assiro riuscì a finirla con Hazael. Neppure una campagna intrapresa tre anni dopo (839) valse a scuotere l'indipendenza di Damasco. La sua potenza, sotto il regno di Hazael - durato quasi un mezzo secolo - si rafforzò tanto, da distogliere per lunghi anni gli eserciti assiri da nuove spedizioni in occidente e da poter prendere nuovamente l'offensiva contro Israele e Giuda.

Appoggiati da Ammone e Moab, gli Aramei diedero gravi molestie ad Israele. Alla fine Jehu, perduto Giuda, dovette ritirarsi, per salvare l'indipendenza di Israele, nella regione occidentale del Giordano: il regno di David attraversava una crisi d'impotenza.
Re Jehu fu costretto a pagare un tributo a Salmanassar (come riporta la scritta e le due figure sull'omonimo obelisco).


Negli ultimi anni di regno Salmanassar ebbe scarsa occasione per affermare la sua politica estera, diretta soprattutto ai confini settentrionali dell'Assiria. Nell'829 scoppiò in Ashshur, Ninive e altre città del regno una rivoluzione, guidata dal suo proprio figlio Ashshurdaninapal, e durò oltre la morte del re.

Solo dopo l'ascensione al trono del suo secondo figlio Shamshiadad IV (823-811) fu ristabilita la pace. I confini a nord e nordest, minacciati dalle genti Nairi e dai loro alleati, furono protetti, e assicurata al regno l'antica indipendenza. Una grande coalizione, formata dal principe caldeo Mardukbalâtsuiqbi, allora regnante in Babilonia, e da altri discendenti della stessa stirpe, insieme alle tribù aramee ed a popolazioni della Media e dell'Elam, indusse Schamschiadad a muovere contro Babilonia e la Caldea con spedizioni, che se non altro riuscirono a conservare all'Assiria la sovranità nominale sullo stato babilonese.

Di molto poi aumentò la potenza del regno sotto Adadnirâri IV (810-782), successore di Shamsladad. Non solo egli seppe assicurare la posizione tenuta da quest'ultimo, ma poté vantarsi di aver condotto prigioniero in Assiria, in una delle sue campagne contro Babilonia, Bauachiddinna, il successore di Mardukbalâtsuiqbi.
Estese spedizioni guerresche portarono la fama delle armi di Ashshur fin nella Media ed all'estremo occidente dell'Asia. Furono ridotte tributarie le stirpi siriache insieme a Byblos ed Arvad, nonché Sidone e Tiro.
A Damasco, Mari figlio di Hazael si sottomise al potente sovrano, che così ebbe in suo potere tutta la Palestina fino all'Edom. Per Israele, più che mai oppresso dal giogo damasceno sotto il regno di Joachaz, debole figlio di Jehu, l'intervento di Adadnirâri valse come liberazione: e «salvatore» chiama difatti il re assiro il secondo libro dei Re (cap. 13, V. 5).

E veramente Joas, figlio di Joachaz, riuscì a riconquistare, sotto la sovranità assira, una parte del territorio ceduto a Damasco, politica seguita con egual fortuna da Geroboamo II, che risollevò così la prosperità e la potenza di Israele.

Quest'ultima impresa si svolge durante il regno di Salmanassar III (781-772), del quale é ricordata, nel canone degli eponimi (cfr. più oltre), una spedizione contro Damasco. Purtroppo però, d'ora in poi, i documenti in cuneiformi tacciono per più di tre decenni di storia assira; non ci restano epigrafi reali né di Salmanassar III né dei suoi successori Ashshurdajan III (771-754) e Ashshurnirâri IV (754-745)•
Sembra che tanto in Assiria quanto in Babilonia cominciasse allora un periodo di passeggero regresso, probabilmente connesso col mutamento delle due dinastie. Così si può forse spiegare anche il fatto che col regno del re babilonese Nabonassar (747-734) comincia una cronaca babilonese, e comincia anche il cosiddetto canone babilonese dei reggitori, del matematico Claudio Tolomeo, conservatoci in greco.

In quel tempo l'Assiria, come riportano le concise notizie del canone degli eponimi, doveva badare soprattutto al settentrione, dove nella terra di Urartu, più tardi di Armenia, stava sorgendo un serio pericolo, tale da minacciare l'impero, e fu proprio questo pericolo a portarlo fino alla sua rovina.

Nel prossimo capitolo
ci occupiamo proprio di questa rovina degli Assiri
e la formazione di un neo-impero

L'ASIA ANTERIORE DURANTE L'IMPERO NEO-ASSIRO > >

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