5. L'EMANCIPAZIONE DELLO SPIRITO GRECO
Un delle più antiche scritture fenice alfabeticheQuelle stesse cause che sulla fine dell'VIII secolo avevano provocato un rivolgimento nella vita economica (illustrato nel capitolo "Conquista dei mari") del popolo greco e di conseguenza nella struttura della società ellenica esercitarono una influenza profonda anche sullo sviluppo intellettuale della nazione; esse la portarono a liberarsi dal convenzionalismo che per tanto tempo aveva tenuto nelle sue pastoje così il pensiero greco come la vita greca.
Come nel campo economico l'aprirsi della nuova epoca ha il suo indice nella scoperta della moneta coniata, così nel campo intellettuale essa lo ha nell'adozione della scrittura alfabetica.Plinio ci tramanda nel 70 d.C. le sue ricerche-conoscenze in proposito: scrive che la scrittura alfabetica nacque a Tebe dall'eroe Cadmo, che la introdusse dalla fenicia nel 1519 a.C. con 16 lettere, che Palamode nel 1220 a.C. ne avrebbe aggiunte altre tre, e che infine nel 627 a.C. Simonide altre quattro (ma altri narrano che fu Epicarmo ad aggiungere queste ultime quattro, e solo nell'anno 472 a.C.). Non sappiamo quanto ci sia di vero su queste date e sui personaggi.
La pesante scrittura sillabica, che era stata in uso nell'età micenea, non fu più alla pari delle nuove esigenze; soltanto nella lontana ed isolata Cipro, che sotto tanti altri aspetti aveva conservato le caratteristiche di epoche da lungo tempo tramontate, essa perdurò fino alla fine del quarto secolo. In ogni altro luogo fu invece sostituita da un nuovo sistema di scrittura i cui segni vennero mutuati dai Semiti della Siria, e cioè o dai Fenici o dagli Aramei settentrionali. Se non che, mentre l'alfabeto semitico non aveva e non ha tuttora dei segni che per le consonanti e tralasciava di scrivere le vocali, di modo che realmente altro non era che un sistema incompleto di scrittura sillabica, i Greci invece fecero il progresso ulteriore di attribuire appositi segni anche alle vocali. Essi si valsero a tal scopo dei segni che i Semiti adoperavano per i suoni aspirati e che presso di loro non avrebbero trovato occasione d'essere impiegati; solo per la vocale Y introdussero un segno del tutto nuovo.. 1 FENICIO ARCAICO 1
..2 EBREO ARCAICO
..3 MOABITO
..4 FENICIO 2
..5 GRECO ARCAICO
..6 GRECO ORIENTALE
..7 GRECO OCCIDENTALE
..8 GRECO CLASSICO
..9 ETRUSCO ARCAICO
10 ETRUSCO TARDO
11 LATINO ARCAICO
12 LATINO ITALICO
13 LATINO ROMANO
14 LATINO GOTICO
15-16 - MODERNODal fenicio arcaico, nei successivi secoli, prendendo diverse direzioni, derivarono poi tutti gli altri 3 grandi gruppi alfabetici
Dall'ARAMEO, deriva l'Arabo, l'Armeno, l'Ebraico, il Georgiano, il Mongolo, il Parsi, il Pehlevi e il Siriaco
Dal SABEO, l'Etiopico e l'Indiano e si divide il primo, in Amarico, Birmano, Coreano, Giavanese, T'ai, Singalese. Il secondo in Nagari-Dravico, con il Bengali, Cascemir, Malese, Tibetano, Kanarese, Tamil, Telugu.
Dall'ELLENICO deriva il Copto, il Greco, il Latino, il Russo.Siccome l'alfabeto semitico non venne in uso nella stessa Siria che verso la fine del secondo millennio, esso non può essere stato introdotto in Grecia avanti l'inizio del primo millennio, all'incirca nel nono secolo; peraltro, come é naturale, l'uso della nuova scrittura ebbe per lungo tempo una limitata diffusione e sinora non abbiamo alcuna importante iscrizione che rimonti al di là del nono secolo, come pure le antiche monete sono tuttavia prive di leggenda. Nondimeno é necessario ammettere che la detta scrittura nell'ottavo secolo si fosse già diffusa nella massima parte del mondo greco, perché tutte le colonie da allora fondate seguono l'alfabeto della rispettiva madre-patria.
In questo processo di espansione non poteva evitarsi che l'alfabeto originario venisse a subire modificazioni di vario genere. Esso si conservò immutato soltanto a Creta e nelle vicine isole di Melo e di Tera, le quali, al pari di Cipro, assai per tempo si isolarono dalla vita intellettuale del resto della nazione ellenica; altrove invece l'alfabeto si arricchì dovunque e fin da tempi molto antichi di un apposito segno per la labiale aspirata T.
L'ulteriore evoluzione di questo alfabeto poi prese due vie diverse. Nella Jonia, nelle Cicladi, nell'Attica, in Argo e sull'Istmo di Corinto fu introdotto per la gutturale aspirata la lettera X, mentre nelle altre regioni della penisola e nell'Eubea per questo suono fu usato il segno y, e il segno X venne impiegato per indicare la doppia consonante x.
Quest'ultima forma dell'alfabeto pervenne ai popoli italici attraverso la colonizzazione calcidese e sopravvive tuttora nel nostro alfabeto latino; l'alfabeto ionico invece a datare dal quarto secolo a. C. divenne l'alfabeto comune a tutti i popoli greci ed é ancora oggi in uso presso di loro.
Con la scrittura si era posta la base sulla quale doveva in seguito elevarsi l'edificio del progresso intellettuale della Grecia e dell'Europa. Per quanto la scrittura sia rimasta ancora per lungo tempo lenta e pesante, per quanto non sia esistito ancora per secoli un pubblico di lettori e la letteratura abbia continuato ad essere portata a conoscenza del popolo tramite il cantore girovago, nondimeno era ormai sorta la possibilità di ridurre in iscritto le opere letterarie e salvarle così dall'oblio ovvero difenderle dalle alterazioni che sono inevitabili nella mera trasmissione orale. È dovuto a ciò il fatto che le grandi epopee nel settimo secolo si siano fissate definitivamente nella forma in cui sostanzialmente le abbiamo ancora oggi.
Ma il mondo che si agitava nell'epopea apparteneva ormai al passato, ed ogni vera poesia non può attingere le sue ispirazioni se non dal presente che ha vivo sotto gli occhi. È perciò che, sebbene in quest'epoca siano stati composti ancora molti canti epici, essi riuscirono di gran lunga inferiori agli antichi modelli e quindi vennero meritamente abbandonati all'oblio. La forma epica poi fu ora adoperata per trattare temi coi quali siamo fuori del campo della poesia vera e propria e che un'età più matura avrebbe trattati in prosa. Sono di questo genere le epopee genealogiche, delle quali in seguito fu ritenuto autore Esiodo, allo stesso modo che Omero fu creduto autore di tutte le epopee eroiche.
Esse sorsero nel settimo, e forse anche in parte soltanto nel sesto secolo, e servirono allo scopo di mettere ordine e sistema nella gran quantità di miti tramandati dalla tradizione. Erano aridi elenchi di nomi, onde può darci una idea la Teogonia di Esiodo e il catalogo delle navi inserito nell'Iliade. Così pure vennero ora trattati in forma epica argomenti della vita pratica. Tali ad es. le «Opere e Giorni», attribuite anch'esse ad Esiodo, che contengono precetti utili all'agricoltura allo scopo di salvaguardare l'agricoltore dalla penuria e dalla necessità di ricorrere ai debiti; questo piccolo poema divenne il modello di tutte le poesie didascaliche dei tempi posteriori.
Nell'epopea il poeta scompare completamente dietro la sua opera; egli canta semplicemente ciò che la musa gli ha insegnato, la sua personalità si manifesta soltanto nel modo di trattare il suo argomento ed anche a questo riguardo la tecnica rigorosamente obbligata dell'epopea lo riduce a muoversi entro limiti assai ristretti. Per le prime le « Opere e Giorni » assumono un tono diverso; il poeta vivifica la sua arida materia col narrarci le vicende della propria vita, il processo avuto col proprio fratello per la divisione dell'eredità paterna e la sentenza ingiusta pronunziata dal giudice. Ma ciò che qui non serve se non a dare una veste esteriore all'argomento, costituisce invece la sostanza dell'opera poetica nell'uomo che per il primo spezzò i ceppi del convenzionalismo ed additò per tal modo la via da seguire all'arte poetica di tutti i tempi avvenire: Archiloco di Paro (verso il 650 a. C.).
Egli condusse una vita molto avventurosa. Lasciò per tempo la patria, schierandosi fra quei pionieri che conquistarono alla propria nazione il dominio del Mediterraneo e fece parte della colonia che appunto allora gli abitanti di Paro mandarono nell'isola di Taso, tuttora inospitale e coperta di foreste; di qui intraprese una serie numerosa di spedizioni guerresche contro i valorosi abitanti della costa tracica. Però non riuscì a trovare quella fortuna, alla cui ricerca si era mosso dalla patria; fu costretto a farsi soldato mercenario e si dice che alla fine sia caduto in una battaglia.
Tutte le vicende della sua vita egli le affidò ai suo. canti, nei quali inoltre campeggia costantemente la sua persona. Egli é pertanto il primo greco che ci si presenta nella sua piena individualità, come un uomo di carne e d'ossa. Naturalmente il metro epico non era adatto a componimenti poetici di questo genere: Archiloco perciò si volse al metro popolare, il metro giambico e trocaico ed usò inoltre il distico elegiaco. I suoi canti trovarono presto un gran plauso ed al pari delle epopee omeriche vennero diffusi in tutto il mondo ellenico da cantori girovaghi, e non potè naturalmente non avvenire che una quantità di poesie composte alla sua maniera da altri fossero presentate sotto il nome di Archiloco e da ultimo accolte nella collezione dei suoi canti.
Né mancarono a lui altri imitatori, come Semonide di Amorgo e più tardi, nel sesto secolo, Ipponatte di Efeso, che introdusse l'uso di un nuovo metro, lo scazonte; peraltro costoro rimasero tutti di gran lunga al di sotto del loro modello. La sola elegia, una forma che Archiloco aveva trattato solo accidentalmente, ebbe cultori di valore che la fecero progredire; in questo metro Callino d'Efeso ed alquanto più tardi lo spartano Tirteo e lo smirneo Mimnermo composero i loro canti di guerra; inoltre Tirteo ed il suo contemporaneo Solone d'Atene adoperarono il metro elegiaco anche a scopi di propaganda politica. Mimnermo poi dischiuse per primo all'elegia quel campo al quale essa doveva quasi esclusivamente rimaner limitata in seguito; in un ciclo di elegie, da lui dedicate alla vezzosa suonatrice di flauto Nanno, egli cantò le gioie e le pene dell'amore, e la bellezza e la gioventù che così presto spariscono.
Questa evoluzione fu accompagnata da un raffinamento delle idee morali. Mentre cioè l'età omerica non aveva apprezzato l'uomo se non alla stregua delle sue doti esteriori, ora invece si cominciò a dare il maggior peso alle sue virtù etiche. Il sentimento comune respinge ora l'omicidio come una grave colpa che macchia così l'autore come tutta la sua città e deve quindi essere espiato con cerimonie religiose, idea questa che era ancora estranea all'età omerica. È ritenuta cosa ignobile prorompere in manifestazioni di gioia per la morte dei proprio nemico ovvero insultarne il cadavere; ché anzi dopo la vittoria si usa restituire ai parenti i corpi dei nemici caduti e concedere una tregua d'armi per dar loro sepoltura.
In generale si vuole che la giustizia costituisca la guida delle azioni umane; essa in quest'epoca é considerata la più nobile fra le virtù. I poeti, a cominciare da Esiodo e da Archiloco non si stancano di inculcare ripetutamente la necessità di adempiere a questi doveri morali.
A sua volta questo progresso non poteva a meno di influire sulle idee religiose. Le credenze di quest'epoca concepiscono gli Dei come i custodi e difensori dell'ordine morale nel mondo; chi lo viola commette un attentato contro la divinità. In coerenza a ciò gli Dei sono ritenuti onnipotenti ed onniscienti; e siccome il concetto dell'onnipotenza divina é inconciliabile col politeismo, si inizia un processo di trasformazione della religione in senso monoteista.
Zeus, che già nella religione omerica era il sommo fra gli Dei, diviene ora il «Dio» in senso assoluto che non é più soggetto al fato, ma che é il fato egli stesso; agli altri Dei non rimane se non l'esecuzione dei suoi comandi e la funzione di intermediari fra Zeus e gli uomini. I prodromi di queste idee risalgono sino all'epoca della maggior fioritura dell'epopea; nel passaggio dal settimo al sesto secolo esse son già divenute patrimonio comune di tutte le classi colte.
Di fronte a queste credenze non poteva non acquistare una particolare importanza l'arte di indagare la volontà divina. Accanto all'ispezione del volo degli uccelli ed alla interpretazione dei segni indiziali di questa volontà, che si praticava da tempi immemorabili, cominciò ora l'uso d'ispezionare le viscere delle vittime, giacché, siccome alla divinità non potevano riuscir graditi come vittime se non animali perfetti, lo scopo del sacrificio doveva ritenersi mancato se dopo l'uccisione della vittima si constatava che le sue viscere avevano una struttura anormale, il che allora veniva naturalmente preso per un cattivo presagio. Questo procedimento aveva il vantaggio di potere essere impiegato in qualsiasi luogo e di non lasciar dubbi di sorta sulla volontà divina; perciò esso divenne ben presto d'uso generale e oscurò tutte le altre maniere di trarre gli auspicii.
Zeus ----------- Apollo ------------ Hera
Ma la divinità faceva conoscere ai fedeli la sua volontà anche mediante rivelazione diretta nei suoi templi, e particolarmente nei templi dedicati a quello fra gli Dei che aveva il compito speciale «di annunziare agli uomini gli infallibili decreti di Zeus», Apollo. Non si trattava peraltro affatto di rivelare il futuro a chi ne facesse richiesta, ma di dargli dei precetti per regolare le sue azioni in modo che riuscissero accette agli Dei ovvero per espiare una colpa commessa. Fra gli innumerevoli oracoli che pullulavano ovunque nel mondo greco salì in quest'epoca alla massima autorità l'oracolo d'Apollo in Delfi ai piedi del Parnasso; da vicino e da lontano i fedeli affluivano ad esso per prendervi consiglio in caso di dubbi di carattere religioso ovvero per ritrovarvi la quiete dell'angosciata coscienza. L'oracolo di Delfi pertanto divenne la più alta autorità nazionale greca in tutte le questioni religiose e morali.
I rozzi feticci che erano stati nell'antichità venerati come simboli della divinità non poterono essere ora più sufficienti a soddisfare il sentimento religioso; si vollero avere gli Dei dinanzi agli occhi così come si recavano nel cuore, in figura umana. Si cominciò col costruire di legno intagliato le immagini delle divinità e questa tecnica rimase dominante per lungo tempo, fin al sesto secolo. A poco a poco si passò poi ad impiegare materiali più durevoli, il bronzo o la pietra. Questi tentativi riuscirono dapprima abbastanza imperfetti, le figure sono rozze e rigide, prive di individualità, e le facce mostrano un sorriso stereotipo. Ma l'arte fece la sua scuola in questi tentativi di assolvere il compito che le stava dinanzi in questo campo, le difficoltà tecniche vennero sempre meglio superate ed all'imitazione di tipi tradizionali subentrò l'osservazione al vero della natura. Nel sesto secolo l'arte greca già era sotto questo riguardo superiore all'arte degli antichi popoli inciviliti dell'Oriente.
Anche l'architettura in quest'epoca, dopo la decadenza del potere regio, servì quasi esclusivamente a scopi religiosi. Suo compito principale fu la costruzione dei templi. I Greci si erano sinora contentati di semplici edifici di legno coperti di tegole di loto; essi consistevano in un vano destinato ad accogliere l'immagine della divinità ed i doni votivi, circondato da un ordine di colonne di legno che reggevano il tetto molto sporgente all'infuori. A questo sistema di costruzione in legno ne fu ora sostituito uno di costruzione in pietra nel senso che le singole parti in legno degli edifici vennero riprodotte nel nuovo materiale. Sorsero inoltre due forme di stile architettonico; uno più compatto e robusto, il così detto stile dorico che andò di moda nella madre-patria greca e nelle colonie da essa fondate in Occidente, ed uno più snello, il così detto stile ionico con i suoi caratteristici capitelli a volute, che fu seguìto nell'Asia Minore.
Ben presto si cominciarono ad adornare i frontoni e i fregi dei templi con bassorilievi i cui soggetti erano naturalmente attinti per lo più al mito, e con ciò si aprì alla plastica un nuovo campo d'attività rimunerativo. Templi simili in pietra ne sorsero durante il settimo ed il sesto secolo in ogni parte del mondo ellenico.
Nell'arte decorativa fu nel settimo secolo abbandonato lo stile geometrico, e vennero invece in voga motivi orientali, leoni, pantere ed altri animali selvatici, anche mostri alati fantastici simili a quelli immaginati dall'arte assira. Decorazioni di questo genere ne troviamo così sui lavori in metallo come sui vasi di terracotta di quest'epoca. Inoltre vi si raffigurarono scene della vita giornaliera, come avveniva già sui vasi del Dipilo, e ben presto si passò ad attingere i soggetti di decorazione dal mito, dando contezza dell'identità delle figure mediante annotazioni poste loro accanto. Questa ultima forma poi nel corso del sesto secolo soppiantò completamente e fece sparire i motivi orientali. In questo campo ebbe specialmente una influenza grandissima, tale da far epoca, l'Attica con la sua fabbricazione di vasi.
I prodotti usciti da questa fabbricazione negli ultimi decenni del sesto secolo sono in parte per disegno e composizione di una bellezza perfetta, quale nessun altro ramo dell'arte di quei tempi fu in grado di raggiungere, e per questi pregi essi conquistarono il mercato mondiale.
La tendenza a liberarsi da tutte le pastoje tradizionali, che si manifesta nell'indirizzo della poesia e dell'arte di quest'epoca, ebbe naturalmente la sua esplicazione anche nel campo politico.
Già sul finire dell'età omerica l'antico potere regio si era venuto sempre più indebolendo per opera della nobiltà invadente; ora esso fu eliminato completamente nella massima parte del mondo greco. Il mutamento avvenne per lo più per via di evoluzione pacifica. A seconda che la vita sociale divenne più complicata, il re si trovò sempre meno nella possibilità di curare personalmente tutti gli affari amministrativi; fu necessario porgli accanto dei funzionari, i quali vennero nominati per elezione popolare e a poco a poco si impadronirono di ogni potere effettivo, di modo che il re si vide ridotto all'esercizio delle sole funzioni sacrali inerenti alla sua carica, finché da ultimo anche queste vennero trasferite a magistrati elettivi per i quali in tal caso rimase in vigore il titolo tradizionale di re.
Così si svolsero le cose ad Atene, dove all'inizio vediamo collocarsi accanto al re un capo dell'amministrazione militare (« polemarco ») eletto annualmente e un funzionario supremo (« arconte ») anch'esso elettivo ed annuale per l'amministrazione civile, poi sei giudici supremi (« tesmoteti ») per l'amministrazione della giustizia, e da ultimo il re ereditario vien sostituito da un re elettivo cui rimasero attribuite soltanto funzioni direttive della amministrazione sacrale. Il mutamento avvenne forse già nell'ottavo secolo, ma più verosimilmente nel corso del settimo secolo, ed una trasformazione analoga si verificò in quest'epoca nella Jonia, nella maggior parte delle isole e negli Stati dell'istmo. Nei paesi economicamente meno progrediti invece la dignità reale ereditaria continuò per ora a sussistere, benché con poteri assai più limitati di prima.
A Sparta ebbe luogo un compromesso tutto particolare; qui venne a porsi accanto all'antica famiglia reale degli Agiadi la famiglia degli Euripontidi con parità di diritti, di modo che i capi delle due famiglie rivestirono contemporaneamente la dignità regia; la gelosia fra le due famiglie fu una efficace garanzia contro eventuali usurpazioni da parte dei re. Per restringere ancora di più il loro potere, verso il 750 a. C. fu collocato ai loro fianchi il collegio degli « ispettori » (efori), i quali col procedere del tempo divennero sempre più potenti e alla fine, a datare dal sesto secolo, ridussero nelle proprie mani tutta l'amministrazione civile, ed in generale la direzione della politica dello Stato, cosicché ai re rimase poco più di alcuni diritti onorifici e del comando degli eserciti in guerra. La dignità reale si conservò in tutta la sua antica pienezza di poteri soltanto alla periferia del mondo ellenico, nella Macedonia e nelle città dell'isola di Cipro.
Del resto il potere dei nuovi magistrati elettivi continuò naturalmente ad essere limitato dal consiglio dei capi della nobiltà e dall'assemblea popolare allo stesso modo che lo era stata prima la potestà regia; salvo che ora, data la breve durata delle cariche, questa limitazione ebbe una ben diversa portata. L'assemblea popolare a dire il vero, anche al tempo dei re aveva avuto ben poca facoltà di metter bocca su quanto le veniva presentato, e vide diminuita ancor più la sua influenza, da che era venuto a mancare quell'appoggio che il popolo aveva prima trovato nei re contro la potenza delle famiglie nobili. Chi avrebbe osato mai opporsi alla volontà dei nobili, verso i quali la moltitudine appena ardiva levare lo sguardo quasi si trattasse di dei, e che possedevano tanto potere da annientare quell'uomo di condizione inferiore che avesse osato suscitare la loro ira?
Cosicchè avveniva che le proposte presentate all'assemblea popolare in nome del consiglio dei capi della nobiltà erano di regola approvate senza opposizione di sorta; e se talora fece capolino qualche velleità di opposizione, il bastone fatto agire dalla mano dei nobili la fece subito tacere; ed il popolo subiva ciò in santa pace quasi come chi crede che non possa andare altrimenti, alla maniera che ci vien descritta così efficacemente da Omero nella scena di Tersite. Va da sé che in simili condizioni di cose le elezioni alle cariche pubbliche non potevano cadere che su uomini appartenenti alla nobiltà.
La classe nobile pertanto esercitò ora un predominio illimitato, e, come ogni altro che si impadronisce del potere dello Stato, lo sfruttò senza riguardi a proprio profitto. Gli inconvenienti che ne furono conseguenza si manifestarono in modo più sensibile che altrove nell'amministrazione della giustizia che era completamente nelle mani di giudici nobili, tanto più che l'arbitrio di questi giudici non trovava un limite in alcuna legge precisamente formulata, tuttora inesistente, ma ne aveva soltanto uno più vago nel diritto consuetudinario, non scritto. Si aggiunga che lo Stato non si interessava della punizione dei delitti ma abbandonava alla famiglia del colpito la cura di vendicarsi come meglio poteva dell'offensore; e ciò naturalmente aveva come risultato che le classi inferiori si trovavano press'a poco prive di difesa di fronte agli ottimati. Questa condizione di cose reclamava urgente rimedio; e tanto più simile rimedio non poteva alla lunga esser negato, in quanto la stessa classe dominante risentiva gli inconvenienti della situazione.
Concorse poi a quest'esito il mutamento delle idee religiose; dal momento cioè in cui si cominciò a considerare l'omicidio come un misfatto che macchiava l'intero Stato, la coscienza giuridica non poté più sentirsi soddisfatta di una espiazione, quale era quella sinora praticata, mediante il semplice pagamento di una somma di denaro ai familiari dell'ucciso. Per conseguenza ora lo Stato avocò a sé la punizione dei delitti. Nei riguardi della commisurazione delle pene si seguì il principio del taglione; occhio per occhio, dente per dente; tuttavia, se non si trattava di omicidio premeditato, il rigore di questa massima venne mitigato per lo più nel senso che si ammise la commutazione della pena corporale in una pena pecuniaria da pagarsi alle persone lese, secondo la consuetudine che sino allora era valsa.
Data la grande importanza che questo nuovo diritto penale aveva così per lo Stato come per i singoli cittadini, non poté a meno di farsi assai presto sentire la necessità di una precisa formulazione delle sue norme; e l'uso della scrittura che si andava sempre più generalizzando ne porse il mezzo. Così si passò alla codificazione del diritto penale che poi, come è naturale, fu seguìta anche dalla codificazione del diritto privato. Quest'opera di codificazione non è che fosse diretta a crear nulla di nuovo, ma intese semplicemente a fissare l'uso vigente e porre così dei limiti all'arbitrio dei giudici. E siccome, giusta le credenze elleniche, ogni diritto derivava dagli Dei, che come sappiamo erano i custodi e difensori dell'ordine morale nell'universo, ne conseguì che anche alle codificazioni antichissime fu attribuita origine divina.
Così i Cretesi ascrissero la loro legislazione a Minosse; gli Spartani attribuirono la propria a Licurgo, « l'apportatore di luce », che è una ipostasi del dio del sole, i Locri di Italia a Zaleuco, « quegli che irraggia luce chiarissima » secondo il senso del nome, anch'egli un'ipostasi del dio del sole. Anche Dracone, che gli Ateniesi consideravano autore della loro legislazione penale, altri non é, come indica il suo nome, che il dio del serpente, altrimenti chiamato Erecteo o Cecrope. È caratteristico che tutti questi legislatori con l'andar del tempo si mutarono nelle credenze popolari da Dei in uomini.
Contemporaneamente vennero disciplinati gli ordinamenti costituzionali dei vari Stati. Le relative norme mirarono soprattutto a determinare precisamente la cerchia dei cittadini privilegiati in confronto alle masse popolari. In alcuni Stati le antiche famiglie regie riuscirono a conservare nelle proprie mani il potere e ad escludere tutte le altre famiglie nobili da ogni compartecipazione al governo; così avvenne per i Bacchiadi a Corinto, per i Basileidi ad Efeso ed Eritre, per i Pentelidi a Mitilene. In altri Stati la somma delle cose si accentrò esclusivamente nelle mani di un determinato numero di famiglie; tali le « cento famiglie » dei Locresi opunzi ed italici.
In altri Stati ancora si andò oltre e non si fece dipendere l'esercizio dei pieni diritti politici dalla nascita, ma dal patrimonio, vale a dire, in conformità delle condizioni economico-sociali di quest'epoca, dal possesso della proprietà fondiaria. Così a Samo ed a Siracusa. Del pari a Sparta era cittadino di pieno diritto soltanto colui che si trovava in grado di prestare col reddito della sua proprietà fondiaria il contributo stabilito alle spese dei banchetti comuni cui si adunavano giornalmente i cittadini.A Calcide ed in molte città dell'Asia Minore il pieno diritto di cittadinanza era limitato a coloro che potevano mantenere un cavallo di battaglia. In questi Stati pertanto era in via di principio aperta ad ogni cittadino la possibilità di aver adito alla classe dirigente; di fatto peraltro, dati gli ordinamenti economico-sociali vincolati di quest'epoca, era press'a poco impossibile ad un uomo del popolo di arrivare ad avere una proprietà fondiaria, tanto più che in molti Stati la vendita dei beni immobili ereditari era vietata per legge. Piuttosto questo sistema basato sulla proprietà fondiaria ebbe per conseguenza di fare uscire dalla classe dominante nobili caduti in povertà, e la classe medesima quindi si rese più ristretta ed inaccessibile di quello che avrebbe potuto accadere ove fosse stato in vigore il mero diritto di nascita.
Le masse, é vero, si interessavano ben poco di aver diritti politici; ma ciò non fece che aggravare la loro penosa situazione dal punto di vista economico-sociale. Fu specialmente il sempre crescente peso dei debiti che schiacciava i piccoli agricoltori quello che spinse questa classe in braccio alla rivoluzione.
Le stesse classi dirigenti poi erano per lo più dilaniate da fazioni intestine e non vi mancavano uomini pronti a mettersi alla testa dei malcontenti per raggiungere col loro aiuto i propri fini ambiziosi. Si iniziò così la lotta di classe, dapprima naturalmente nelle parti del mondo greco più progredite dal punto di vista economico, e qui di regola essa finì con la vittoria delle masse e con la caduta del dominio della nobiltà.
Ma le masse erano ancora troppo immature politicamente per prendere esse medesime le redini del governo e perciò furono i loro capi quelli che godettero il frutto della vittoria e subentrarono ai nobili come monarchi alla testa dello Stato.
Questa nuova monarchia per grazia del popolo era pur vero qualcosa di completamente diverso dall'antica dignità regia legittima che faceva risalire la sua fonte a Zeus. Perciò i nuovi signori non assunsero neppure il titolo di re ed in generale non toccarono affatto la costituzione esistente; essi si contentarono di conservare in propria mano il potere militare e, appoggiandosi ad esso ed alla popolarità di cui godevano presso le masse, di far propendere le elezioni e le votazioni dell'assemblea popolare verso l'indirizzo da loro ritenuto più opportuno.
I contemporanei caratterizzarono questi dominatori usciti dalla rivoluzione come « monarchi » o « tiranni », titolo quest'ultimo che a quel tempo non aveva ancora il significato odioso che è a noi familiare. Chè anzi questi « tiranni » furono quasi senza eccezioni ottimi uomini di governo; essi presero caldamente a cuore lo sviluppo economico delle loro città, costruirono strade ed acquedotti, edificarono templi sontuosi, promossero le arti in tutti i modi, solennizzarono splendide feste e soprattutto cercarono con imprese fortunate di accrescere la potenza dei propri Stati.
Per far tutto ciò occorsero naturalmente rilevanti mezzi finanziari. Gli antichi re avevano provveduto alle spese pubbliche correnti con i redditi dei beni della corona e soltanto in casi straordinari avevano imposto tributi diretti; la nobiltà ne aveva seguito l'esempio durante il tempo della sua dominazione. Ora è ben vero che nel frattempo il traffico commerciale in costante incremento aveva dischiuso agli Stati greci nelle dogane una ricca fonte di entrate; ma essa non fu sufficiente a soddisfare tutte le esigenze ed i tiranni si videro quindi costretti a procedere alla regolare esazione di una imposta fondiaria.
Il malcontento che covava nella classe dei nobili, possessori delle terre, trasse continuamente da ciò nuovo alimento. Già prima costoro non aspettavano che un'occasione favorevole per scuotere l'odiato giogo della monarchia e restaurare la propria dominazione nello Stato; di fronte a questa aspirazione comune passarono per il momento nell'ombra gli antichi antagonismi partigiani che dividevano la classe. Le congiure pertanto seguirono alle congiure contro i monarchi, e neppur mancarono tentativi di sollevazione armata mano; e il rigore con cui simili tentativi vennero soffocati non poté che aver l'effetto di stimolare ancor di più l'opposizione.
Al contrario la popolarità presso le masse su cui avevano fatto fondamento i tiranni si rivelò alla lunga un debole sostegno, tanto più che anche in questo ambiente poco a poco si cominciò ad essere stanchi del reggimento monarchico. Cosicchè la tirannide in molti luoghi fu abbattuta mentre era tuttora in vita il suo fondatore e ad ogni modo sopravvisse raramente alla sua morte: soltanto in alcuni pochi casi isolati essa si perpetuò per parecchie generazioni. Dappertutto però essa fu un episodio transitorio della evoluzione degli ordini costituzionali, seguito dalla restaurazione dell'ordinamento repubblicano. Nondimeno ebbe risultati di profonda efficacia, liberò le masse dalla secolare oppressione che le gravava, attuò per la prima volta effettivamente il principio della eguaglianza del nobile e del popolare dinanzi alla legge e per tal modo preparò la via al progresso della libertà democratica.
Il movimento che portò alla diffusione del sistema della tirannide cominciò nelle città greche dell'Asia Minore all'incirca verso la metà del settimo secolo e di qui si comunicò ben presto alle città industriali e commerciali dell'istmo, procedendo poi nel corso del sesto secolo a conquistare le colonie d'Occidente. Vi rimasero invece estranei gli Stati prevalentemente agricoli della madrepatria, cioè la parte di gran lunga maggiore della penisola greca, e Creta ; qui mancavano appunto quelle condizioni di natura economico-sociale che provocarono altrove il sorgere della tirannide. Naturalmente essa non poté trovare terreno adatto a germogliare neppure in quei luoghi dove, come a Cipro ed a Cirene, si era conservato in piedi l'antico potere regio legittimo.
In nessun altro Stato la tirannide fiorì così splendidamente come nelle città dell'istmo. Qui, ad una pretesa data della metà circa del settimo secolo, Ortagora si impadronì del potere nella sua città natale di Sicione e la sua famiglia vi si mantenne in signoria press'a poco per la durata d'un secolo. Fra i principi di questa casa primeggia la figura di Clistene (dal 590 al 560 all'incirca), che difese l'indipendenza di Sicione combattendo vittoriosamente contro la potente Argo. Si dice che giovani appartenenti alle prime famiglie di tutta l'Ellade abbiano gareggiato per ottenere la mano della sua figlia ed erede Agariste; fra essi la vittoria toccò all'ateniese Megacle della potente casata degli Alcmeonidi; ma la tirannide fu abbattuta a Sicione prima che il figlio nato da queste nozze, Clistene, potesse succedere all'avo. Egli divenne in seguito il fondatore della democrazia ateniese.
Nella vicina Corinto l'aristocrazia dei Bacchiadi fu spodestata nella seconda metà del settimo secolo da Cipselo, il quale discendeva per parte di madre dalla stessa stirpe dominante; egli seppe sostenersi sino alla morte a capo dello Stato e trasmise il trono al proprio figlio Periandro. Anche questi, come suo padre, fu uomo di alto valore; i posteri gli assegnarono un posto fra i «sette sapienti».
Sotto questi principi Corinto salì al grado di prima potenza marittima della Grecia; fu allora che vennero fondate le colonie di Leucade, Ambracia, Potidea, che Cercira venne ridotta alla dipendenza della sua metropoli e fu conquistata Epidauro, sita presso Corinto. Però, malgrado questi successi, la tirannide non fu in grado di sostenersi neppure a Corinto; essa fu abbattuta al momento in cui, chiusi gli occhi Periandro, era salito al trono il suo giovine pronipote Psammatico (verso il 550).
Con la caduta della tirannide si disfece il dominio di Corinto; Cercira ed Epidauro riacquistarono la propria autonomia, e soltanto le minori colonie rimasero in una condizione di dipendenza, peraltro un poco stretta, verso la madre-patria. A Corinto venne introdotta una forma mitigata di oligarchia, che si mantenne sino all'epoca della preponderanza macedone; ma la città non riacquistò più quella potente posizione che aveva goduto al tempo della signoria dei Cipselidi.
Anche la vicina Atene fu scossa in quest'epoca da lotte, intestine. L'oppressione dei debiti sotto la quale gemeva la classe dei piccoli agricoltori aveva qui raggiunto una misura tale da rendere imminente una catastrofe sociale; e la classe dominante dilaniata dalle fazioni intestine non era più in grado di soffocare il movimento. Essa perciò dovette adattarsi a fare delle concessioni.
Solone, l'uomo più eminente per doti intellettuali che avesse Atene a quel tempo, fu posto alla testa dello Stato in qualità di arconte e munito di poteri illimitati per riformare l'attuale stato di cose (594) (di lui parleremo ancora nel X capitolo in "L'ascesa di Sparta e Atene").
Fu proclamato un generale condono dei debiti, vennero posti in libertà i cittadini caduti in servitù a causa di debiti e la schiavitù per debiti fu abolita anche per l'avvenire. Al contrario Solone resistè alle pressioni che le masse fecero per ottenere una nuova ripartizione della proprietà fondiaria (simile a quella varata a Sparta da Licurgo).
Poi egli procedé ad una nuova codificazione del diritto privato, di modo che le vecchie leggi di Dracone restarono in vigore soltanto nei riguardi penali. Per converso Solone lasciò in sostanza come l'aveva trovata la costituzione dello Stato e si limitò a fissare una precisa graduazione dei diritti politici alla stregua del patrimonio; in specie l'eleggibilità alle supreme cariche pubbliche fu limitata a coloro che traevano dalla loro proprietà fondiaria un reddito di 500 modii di grano ovvero una misura equivalente di vino e di olio. Il consiglio della città che da tempo immemorabile aveva la propria sede sul colle di Ares (Areios pagos, areopago) a piedi dell'acropoli ed era formato dai magistrati supremi (arconti) che avevano gestito incensurabilmente il loro ufficio, conservò, oltre la giurisdizione penale, il controllo su tutta l'amministrazione dello Stato. Restò dunque intatta la posizione dominante della aristocrazia nello Stato.
Non sarebbe dipeso che da Solone soltanto di non abbandonare il potere che era stato affidato alle sue mani ed insediarsi a tiranno di Atene; e tutti si aspettavano che si sarebbe così avverato. Ma egli non osò fare questo passo pericoloso e, compiuta l'opera delle riforme, ritornò a vita privata. Ne derivò che ricominciarono i torbidi interni, giacché un semplice compromesso, quale era l'ordinamento stabilito da Solone, non poteva soddisfare nessuna delle due parti. Non mancarono infatti neppure nei decenni successivi dei tentativi di stabilire la tirannide ad Atene, ma essi da principio fallirono di fronte alla resistenza dell'aristocrazia.
Finalmente Pisistrato riuscì a rendersi padrone dello Stato. Egli apparteneva ad una delle più nobili famiglie di Atene che faceva rimontare le sue origini a Nestore; si era fatto un gran nome come generale nella guerra contro Megara e fu suo merito se l'isola di Salamina, che le due città vicine si erano per lungo tempo contesa, venne in definitivo possesso di Atene. Egli contrasse poi stretti legami con la più potente famiglia nobile della città, quella degli Alcmeonidi, il cui capo, Megacle, gli diede in moglie la propria figlia; con l'appoggio del suocero Pisistrato occupò l'Acropoli, abbatté il governo esistente e trasse in sua mano il potere. Ma poco dopo i due alleati vennero a discordia; e siccome Pisistrato non era abbastanza forte per sostenersi con le sole sue forze, ne derivò che dovette fuggire da Atene ed andare in esilio ad Eretria. Muovendo di qui, alcuni anni dopo egli sbarcò a Maratona sulla controstante costa dell'Attica, radunò attorno a sé i suoi antichi aderenti, marciò su Atene e diede presso Pallene una battaglia fortunata alle truppe del governo che gli si erano fatte incontro. Dopo questa vittoria poté entrare senza trovar resistenza in Atene e mettersi nuovamente alla testa dello Stato, mentre i suoi antagonisti, sopra tutto gli Alcmeonidi, furono costretti a prender la via dell'esilio.
Da questo momento egli tenne il dominio incontestato di Atene, la quale sotto il suo governo salì al grado di uno dei più potenti Stati della Grecia.
Anche altrove si manifestano in quest'epoca accenni ad un processo di formazione di Stati di maggiore entità. Argo conquistò sotto il suo re Fidone l'egemonia su tutta la regione argolica cui credeva di poter accampar titolo come erede di Micene; a seguito di ciò essa divenne per un certo periodo di tempo la potenza preponderante nel Peloponneso. Fidone attraversò alla testa del suo esercito la penisola e tolse agli Eleati la presidenza della festa nazionale che si celebrava ad Olimpia in onore di Zeus. Peraltro questi successi furono di breve durata; dopo la morte di Fidone le più importanti città dell'Argolide riacquistarono la loro indipendenza, Argo si trovò ridotta al proprio territorio ed alla signoria sui centri minori dei dintorni e gli Eleati poterono nuovamente avocare a sé la direzione dei giuochi olimpici.
Nel mezzogiorno della penisola Sparta, come abbiamo visto, aveva in breve esteso la sua signoria su tutta la valle dell'Eurota; sul passaggio poi dall'ottavo al settimo secolo essa cominciò ad espandersi ancora più oltre e sotto la guida del suo re Teopompo conquistò dopo lunghe lotte la ricca pianura messenica. La terra fu suddivisa fra i vincitori e gli antichi abitanti del paese vennero ridotti alla condizione di sudditi e servi della gleba obbligati a lavorare i campi per conto dei loro nuovi padroni. Circa un secolo dopo i Messenii fecero un tentativo di sottrarsi con l'aiuto degli Arcadi a questa soggezione; le gesta del loro duce Aristomene sopravvissero lungo tempo nei canti, ma alla fine la vittoria rimase ciò malgrado agli Spartani in grazia della loro disciplina superiore e la Messenia rimase vincolata a Sparta più saldamente di prima. I capi dell'insurrezione cercarono rifugio all'estero, mentre la massa del popolo ricadde nella servitù.
Anche più importante sembrò dovesse divenire lo Stato che si era contemporaneamente andato formando nel nord della penisola greca. La pianura tessala, coronata com'è di montagne, costituisce una unità naturale e all'incirca nel settimo secolo si costituì anche ad unità politica; la forma di questo nuovo stato fu quella di una federazione, perché nessuna delle numerose città della regione era abbastanza forte per soggiogare al proprio dominio le altre. A capo della lega fu posto un re elettivo, un così detto tagos, che apparteneva ad una delle grandi famiglie nobili del paese ed era investito a vita della sua dignità. E' pur vero che in nessun altro luogo come qui il reggimento aristocratico aveva basi così solide; la natura piana del terreno dava fra le armi la prevalenza decisiva alla cavalleria e come conseguenza conferiva ai grandi proprietari terrieri che potevano mantenere un cavallo da guerra una incondizionata preponderanza sulla massa della popolazione. Né risultò che qui gli agricoltori caddero in soggezione dell'aristocrazia che alla fine li ridusse nello stato di servi della gleba, i così detti penesti, la cui condizione era completamente analoga a quella degli iloti di Sparta.
Data la grande estensione del paese la lega tessalica poté disporre di forze poderose e tutte le piccole tribù vicine sparse all'intorno, dall'Olimpo sino alle Termopili, si videro costrette a riconoscere la sua alta sovranità, a pagar tributo ed a prestare milizie ausiliarie. Così i Tessali poterono passare ad estendere la propria influenza anche nella Grecia centrale. E l'occasione venne offerta dalle questioni riguardanti il santuario di Delfi.
All'uscita del passo delle Termopili, presso il villaggio di Antela, si ergeva un antico tempio di Demeter che costituiva il centro di una lega religiosa delle tribù circonvicine (« anfizionia »). Questa anfizionia entrò in seguito in stretti rapporti con la vicina Delfi, da quando questa città ebbe acquistato una importanza nazionale come sede del famoso oracolo. Ciò provocò un conflitto con Crisa, la potente città situata allo sbocco della valle di Plisto, sul cui territorio era Delfo. Gli anfizioni decretarono la « guerra santa »; toccò naturalmente di esserne a capo ai Tessali, come la stirpe più potente fra quelle che facevano parte della lega. Anche Atene ed il tiranno di Sicione, Clistene, inviarono aiuti. La forte Crisa oppose lunga resistenza, ma alla fine soggiacque alle forze superiori del nemico; la città fu distrutta ed il suo territorio venne dedicato al dio di Delfo (verso il 590 a. C.).
Delfo ora divenne autonoma, e la presidenza suprema del santuario toccò agli anfizioni, vale a dire cadde sotto l'influenza tessalica. Atene, Sicione, ed in genere gli Stati dorici del Peloponneso accedettero all'anfizionia, che per tal modo si estese alla massima parte della penisola greca.
Poco dopo i Tessali intervennero nella guerra che era insorta fra le due città finitime dell'Eubea, Calcide ed Eretria, per il possesso del fertile piano lelantico. Le estese relazioni commerciali delle due città fecero sì che una gran parte del mondo greco fu trascinata in questa guerra; Mileto prestò aiuto ad Eretria, mentre Samo ed il tiranno di Corinto, Periandro sostennero i Calcidesi. Anche i Tessali si posero dalla parte di questi ultimi, e fu la loro cavalleria che decise della vittoria e assicurò ai Calcidesi il possesso del piano lelantico. Da questo momento Eretria cominciò a decadere dalla sua antica importanza.
Dopo ciò i Tessali tentarono di assoggettare alla propria influenza anche la Beozia; ma presso Ceresso a pie' dell'Elicona nel territorio di Tespie la loro cavalleria subì una disfatta decisiva. In seguito a tale disastro la Focide, che dal tempo della guerra santa era rimasta sotto l'alta sovranità tessala, riacquistò la propria indipendenza ed i Tessali si videro nuovamente ridotti nei limiti del territorio a nord delle Termopili.
Discordie e conflitti scoppiati fra le grandi famiglie nobili paralizzarono le forze della lega; da ultimo si arrivò al punto che non fu più eletto ulteriormente il tagos, cosicchè la Tessalia non si trovò più in grado di esercitare alcuna influenza politica fuori dei propri confini.
Ma tutti questi Stati vennero di gran lunga oscurati dalla potenza che verso quest'epoca si costituì nell'Asia Minore al confine dei territori di civiltà ellenica. Anche qui in origine era mancata ogni compagine politica fra i singoli popoli; e soltanto questo difetto di coesione aveva reso possibile ai Greci di occupare la costa asiatica e mantenerne il possesso per lo spazio di secoli. Se non che anche qui col progresso dell'incivilimento si fece sentire il bisogno di una maggiore unità politica. Sull'altipiano della penisola asiatica si formò il regno frigio che ebbe il suo centro nella regione delle sorgenti del Sangario e sotto il famoso e leggendario re Mida salì in gran fiore. Analogamente i principi di Sardi riuscirono a soggiogare alla propria signoria la vasta pianura dell'Ermo e i paesi circonvicini; deve stare in relazione con tale conquista il fatto che per questo paese, chiamato da Omero Meonia, spunta ora il nome di Lidia.
Naturalmente i re della Lidia ambirono di conquistare la costa e già il re Gige (verso il 650) si era messo all'opera. Ma a questo punto una formidabile catastrofe si abbatté sull'Asia Minore. I famosi Cimmerii, un popolo barbaro della costa settentrionale del Ponto, invasero la penisola, il regno frigio soggiacque alle loro armi e lo stesso Gige allorché volle fronteggiarli vi perdette con la battaglia la vita, la sua capitale Sardi, ad eccezione del castello reale fortificato, cadde nelle mani dei barbari. Costoro si avanzarono poi verso la costa ionica dove saccheggiarono la ricca città di Magnesia sul Meandro.
Tuttavia la tempesta passò presto; i Cimmerii si ritirarono ed il figlio di Gige, Ardi, poté restaurare il regno di Lidia. La Frigia, che era stata profondamente rovinata dall'invasione cimmerica, fu ora soggiogata con poca fatica e dopo ciò venne ripresa la guerra contro le città elleniche del litorale. Queste, se unite, sarebbero state più che in grado di tener testa al nemico, ma non seppero risolversi a rinunziare ad una parte della loro sovranità a favore di un governo centrale, e quindi caddero una dopo l'altra in preda del nemico. Soltanto la potente Mileto riuscì a conservare la propria indipendenza.
Ad ogni modo passò più di mezzo secolo prima che Creso, il terzo fra i re succeduti ad Ardi, potesse portare a termine la conquista della Jonia (verso il 560).
Per la prima volta pertanto nel corso della storia una parte considerevole del mondo greco era caduta sotto la signoria dello straniero. Si trattava peraltro di una signoria straniera che a mala pena poteva dirsi ed era considerata tale; giacché per civiltà la Lidia era da lungo tempo ellenizzata ed anche la lingua greca aveva cominciato a penetrare sempre più profondamente nel paese. Del pari le divinità greche avevano da lungo tempo acquistato la cittadinanza nella Lidia; quando era re Gige aveva mandato ricchi donativi a Delfo a Creso, e donò tesori del valore di milioni al santuario di Delfo e altrettanti al tempio di Apollo a Branchide presso Mileto.
È chiaro che la potenza dei re lidii non poteva arrestarsi alla costa. Si dice infatti che Creso avesse già progettato di costruire una flotta, allorché si produssero degli avvenimenti che lo costrinsero a rivolgere le sue forze nella direzione opposta e ad iniziare quella lotta che doveva segnare la caduta del suo regno.