6. PERSIA E SPARTA - LETTERATURA E MUSICA
LA FONDAZIONE DELL'IMPERO PERSIANO E DEL PRIMATO DI SPARTA.Sul passaggio dal settimo al sesto secolo a. C. si compì nelle regioni dell'Eufrate un evento della massima importanza per le conseguenze avvenire: ciò che era rimasto dell'impero assiro, che per tanto tempo era stato la potenza predominante in Asia, si sottomise alle forze collegate dei Medi. Dopo queste conquiste portarono le loro armi verso Occidente e avanzando vennero a conflitto col regno di Lidia. Dopo alcuni anni di guerra fu conclusa una pace che stabilì all'Halys il confine tra i due dominii (585).
Non passò che una generazione e l'impero dei medi venne conquistato dai Persiani, guidati da Ciro. Creso ritenne giunto il momento propizio per estendere la propria signoria ad oriente e passò col suo esercito l'Halys, ma ben presto si accorse di non aver stimato al giusto le forze ed il valore del nemico e perciò decise di ritornarsene alla sua capitale Sardi per prepararsi ad una nuova campagna. Se non che Ciro gli si pose alle calcagna; nella pianura dell'Ermo la cavalleria lidia fu travolta dagli squadroni persiani, Sardi fu circondata e dopo un breve assedio presa all'assalto; lo stesso re cadde nelle mani del vincitore (546 a. C.). Con ciò il regno di Lidia rimase distrutto; le città elleniche del litorale opposero una resistenza ancora per qualche tempo, ma ben presto vennero anch'esse costrette a sottomettersi.
Soltanto i cittadini della potente città marittima di Focea non seppero adattarsi a piegarsi al giogo persiano. Per la massima parte essi si imbarcarono sulle loro navi e cercarono una nuova patria nel lontano occidente, nell'isola di Cirno (Corsica), dove già alcuni decenni prima avevano fondato una colonia ad Alalia. Essi intendevano creare in questo modo una base più forte alla loro signoria coloniale e di procedere alla conquista del dominio su tutto il bacino occidentale del Mediterraneo.
Di fronte a questo pericolo i Fenici non potevano rimanere spettatori inoperosi. Essi erano venuti in Occidente quasi contemporaneamente ai Greci e vi avevano fondato sulla costa settentrionale dell'Africa una serie di fiorenti colonie; fra queste Cartagine in grazia della sua favorevole posizione era salita in potenza al di sopra di tutte le altre e le aveva assoggettate alla sua alta sovranità. Anche sulle isole vicine alla costa africana erano sorte delle stazioni fenicie, nell'occidente della Sicilia, nella Sardegna, nelle Pitiuse e nella piccola isola di Gades presso la sponda spagnola al di là delle colonne d'Ercole.
Già verso il 600 a. C. essi avevano sventato un tentativo fatto dagli abitanti di Cnido di fondare una colonia ai piedi del monte Erice sulla costa occidentale della Sicilia, ed i coloni greci dovettero accontentarsi di cercare un rifugio nelle sterili isole Lipari.
Anche Cartagine si oppose all'occupazione di Cirno da parte dei Focesi; a tale scopo essa trovò degli alleati negli Etruschi che si vedevano ancor più direttamente minacciati dal sorgere della nuova colonia greca. I due popoli unirono le loro flotte e diedero ai Focesi battaglia sul mare. La vittoria rimase andò agli Elleni, ma nella lotta contro il nemico superiore per numero essi subirono perdite così gravi che non furono più in grado di sostenersi a Cirno. Essi quindi abbandonarono l'isola e si stanziarono ad Elea presso Posidonia sulla costa occidentale d'Italia. Ma non fu possibile mantenere più a lungo la colonia focese a Menace e i Cartaginesi divennero i soli padroni sulle coste della regione argentifera di Tartesso che poterono d'ora in avanti sfruttare senza altri concorrenti. Massalia invece respinse vittoriosamente gli attacchi dei Cartaginesi e seppe conservare la sua posizione dominante sulla costa ligure ed iberica sino al promontorio di Artemide (Capo de la Nao) che d'ora in poi divenne il punto di confine fra i dominii greci e fenici.
Anche gli Etruschi tentarono di respingere indietro dai loro fianchi i Greci. Circa un decennio dopo la battaglia di Alalia essi attaccarono Cuma, l'estrema vedetta del dominio greco sul mar Tirreno. É ben vero che subirono una grave sconfitta; ma tuttavia resero per il momento impossibile da questo lato una ulteriore espansione dei Greci, i quali si ridussero a rimanere sulla difensiva.
Nel frattempo Ciro in Oriente aveva conquistato anche l'impero babilonese, di modo che delle grandi potenze orientali non restava indipendente che il solo Egitto. Ma anche questa regione fu conquistata dal figlio di Ciro, Cambise, dopo che i mercenari greci che difendevano il paese furono sconfitti dai Persiani in una grande battaglia combattutasi presso Pelusio ad oriente del Delta.
In seguito a ciò Cipro e Cirene si sottomisero all'alta sovranità persiana. L'impero persiano era adesso non solo la prima, ma addirittura l'unica grande potenza del mondo; accanto ad essa non vi erano che piccoli Stati. Sembrò pertanto dipendere più solo dalla volontà del gran re di portare i suoi confini dove meglio credeva.
La signoria persiana, per lo meno all'inizio, non fu per le città greche gran che più gravosa di quello che era stata prima la signoria lidia. Anche i Persiani lasciarono alle città piena libertà negli affari interni, anche se influirono affinchè a capo di esse salissero dei tiranni, i quali erano dal loro stesso interesse legati all'ordine di cose esistente. Non venne limitato neppure il diritto delle città di farsi guerra fra loro; il re non chiese che il pagamento di un moderato tributo e la prestazione di milizie ausiliarie in guerra. La situazione quindi nella Jonia si era ben poco mutata nella sostanza, e dal punto di vista economico ed intellettuale il paese non era mai stato così fiorente come divenne nel mezzo secolo che seguì la caduta del regno di Lidia.
Le isole per ora rimasero tuttavia fuori del dominio persiano. Verso quest'epoca esse furono teatro di aspre lotte partigiane. A Mitilene si eressero a tiranni a breve distanza l'uno dall'altro Melancro e Mirsilo, ma furono entrambi abbattuti dopo un breve periodo di dominazione; alla fine il popolo, stanco dei torbidi interni, collocò a capo dello Stato con poteri illimitati Pittaco, uomo di alto valore, che ripristinò l'ordine ed acquistò alla sua città il dominio sulla parte meridionale della Troade (verso il 550 a. C.).
A Samo, verso il 540, Policrate abbattè la dominazione dell'aristocrazia dei proprietarii fondiari, i così detti geomori, e si pose egli stesso a capo dello Stato. Creò, una grande flotta, con l'aiuto della quale si rese padrone del Mare Egeo e sottopose a tributo amici e nemici; le ricchezze così acquistate le utilizzò per compiere grandiose costruzioni.
Con l'Egitto e l'impero persiano si mantenne ugualmente in buoni rapporti; tuttavia, quando poi scoppiò il conflitto fra le due potenze, egli non potè fare a meno di prender partito ed inviò a Cambise un contingente di navi da guerra. Ma, conquistato che fu l'Egitto, i Persiani non intesero tollerare più a lungo il flagello che Policrate produceva sulle loro coste; essi attirarono con l'astuzia sul continente il tiranno contro il quale la forza non riusciva ad avere la meglio e lo fecero uccidere. Alcuni anni dopo portarono le armi contro la stessa Samo che fu alla fine soggiogata con poca fatica.
Nel frattempo Sparta aveva acquistato l'egemonia nel Peloponneso. Dopo il definitivo assoggettamento della Messenia essa era senza alcun dubbio la prima potenza della penisola; pertanto ora tentò di espandersi anche a nord e ad oriente. Con la vicina Tegea si svolse una lunga serie di lotte d'esito vario ed alterno; da ultimo fu concluso un trattato in base al quale Tegea conservò la sua autonomia, ma entrò in stretta alleanza con Sparta e si obbligò a prestare milizie in caso di guerra (550).
Trattati analoghi vennero in seguito conclusi con gli altri cantoni dell'Arcadia. Anche Elide, che verso quest'epoca aveva soggiogato la Pisatide, regione intorno al corso inferiore dell'Alfeo, entrò a far parte della lega spartana. Contro la potente Argo, Sparta fece una serie di guerre fortunate che ridussero in suo potere la regione di confine di Cinuria nella parte orientale del Parnone; nondimeno Argo, riuscì a conservare la propria indipendenza. Invece Corinto, Sicione e le altre città del centro dell'Argolide cercarono di appoggiarsi a Sparta ed entrarono nella sua lega, che in tal modo, fatta eccezione di Argo e dell'Acaia, abbracciò l'intero Peloponneso; anzi fra le città poste fuori della penisola aderì alla lega anche Megara.
Questo è il primo organismo statuale di notevole entità che i Greci siano riusciti a costituire. Infatti sebbene la lega tessalica avesse press'a poco la stessa ampiezza e quasi la stessa popolazione, pure essa aveva una potenzialità militare minore e sopratutto mancava di un saldo elemento di coesione, mentre nell'àmbito della lega peloponnesiaca il territorio dello Stato egemonico preso da solo era altrettanto grande quanto i territorii di tutti gli altri membri della lega sommati insieme. Per questa ragione, la lega, per quanto poco compatta fosse la sua organizzazione, ha avuto una lunga durata; e fu ad essa che la nazione andò debitrice della sua salvezza nella crisi che doveva ben presto colpirla.
Verso la stessa epoca Pisistrato gettava le basi del predominio marittimo di Atene. Egli seppe acquistarsi molta influenza in Delo, il cui tempio d'Apollo era dagli Joni abitanti di qua e di là dal mare considerato come il santuario comune della loro stirpe; insediò come tiranno nella vicina Nasso il suo amico Ligdamide; prese piede sull'Ellesponto, ove fu conquistata la città di Sigeo e mantenuta attraverso lunghe lotte con quei di Mitilene, mentre nel tempo stesso l'ateniese Milziade si costituiva un principato sul circostante Chersoneso tracico.
Nè queste furono le sole opere di Pisistrato, giacchè fece molto anche per lo sviluppo economico di Atene, che per la prima volta sotto di lui salì al grado di una importante città industriale e commerciale. E del pari la vita intellettuale di Atene deve a lui un grande incremento. Egli attrasse alla sua corte i primi poeti e compositori di musica dell'epoca e istituì la festa delle grandi dionisie, che era destinata ad acquistare così alta importanza per il culto delle arti musicali.Con tutte queste opere egli fece tacere l'opposizione contro la quale all'inizio aveva dovuto lottare, e riuscì a mantenersi al potere fino alla morte. I suoi figli Ipparco ed Ippia governarono sulle orme del padre, ma non riuscirono ad impedire lo scoppio della rivoluzione. Ipparco cadde vittima di una cospirazione (514); dopo ciò un gruppo consistente di emigrati penetrò nel paese e occupò la fortezza di Lipsidrio ai piedi del Parneto. Ippia riuscì, è ben vero, a tener testa al movimento ed a riprendere Lipsidrio col tradimento, ma a questo punto, chiamati dagli Alcmeonidi, intervennero con le armi nell'Attica gli Spartani. Ippia fu circondato nell'Acropoli e dopo breve assedio costretto a capitolare; egli ottenne libera uscita e se ne andò a Sigeo, il suo possedimento dell'Ellesponto.
La rivoluzione era stata opera dell'aristocrazia, e in prima linea la famiglia degli Alcmeonidi. Ma Clistene, che ora, dopo la morte di suo padre Megacle, era il capo di questa famiglia, comprese benissimo che una restaurazione dell'antico dominio assoluto dell'aristocrazia sarebbe stato il mezzo più sicuro per spianar la via al ritorno della tirannide. Nel solo caso che si fosse potuto riuscire a guadagnare il popolo, e specialmente il ceto medio, al nuovo ordine di cose, la libertà aveva speranza di durata. E quindi egli procedette a riformare la costituzione in senso democratico, senza alcun riguardo per i pregiudizi della maggioranza delle persone della sua classe.
La cosa più essenziale era di spezzare l'organizzazione coll'aiuto della quale le famiglie nobili avevano sino ai tempi dei Pisistratidi tenuto in proprio potere lo Stato. Perciò Clistene abolì le quattro file in cui si suddivideva da tempo immemorabile la cittadinanza ateniese e vi sostituì dieci nuove file che avevano una base esclusivamente locale, di modo che in ciascuna venne iscritto un certo numero di demi o comuni della regione. Per evitare che la capitale acquistasse qualsiasi predominanza sul resto del territorio, i singoli quartieri cittadini vennero ascritti a file differenti. Le grandi famiglie nobili che sinora avevano appartenuto in blocco ad una stessa file si trovarono in seguito a ciò sparpagliate, in modo che fu resa in sommo grado difficile ogni efficace azione collettiva dei loro membri. E di fatti esse ben presto perdettero qualsiasi influenza nello Stato.
Venne poi creata una rappresentanza popolare, un consiglio di 500 membri estratti a sorte, in cui ciascun demo o comune era rappresentato da un numero di consiglieri proporzionale alla sua popolazione. Questo corpo era diviso in dieci sezioni corrispondenti alle dieci file che si alternavano nella presidenza del consiglio, di modo che la sezione che volta a volta teneva la presidenza (i «pritani») era permanentemente adunata. Il consiglio preparava tutte le proposte da presentarsi all'assemblea popolare e attraverso questo ufficio divenne l'organo più importante dell'amministrazione pubblica. A questo modo il popolo partecipava direttamente al governo con le persone dei suoi rappresentanti e il potere dei magistrati veniva limitato molto efficacemente.
Ulteriori modifiche sostanziali non furono apportate alla costituzione. In specie l'eleggibilità alle magistrature superiori rimase ristretta ai cittadini della prima classe del censo (i «pentacosiomedimni »). I nove magistrati supremi («arconti») e l'areopago conservarono la loro antica posizione. Per la nomina dei funzionari di finanza fu introdotta l'estrazione a sorte ed il numero dei membri di ciascun collegio venne portato a dieci in corrispondenza al numero delle file, di modo che ogni file vi aveva il suo rappresentante. Del pari l'esercito fu suddiviso in dieci battaglioni ciascuno costituito dagli uomini atti alle armi di una file.
Il comando di ciascun battaglione era tenuto da un capo («stratega ») eletto dalla sua file; i dieci strateghi formavamo sotto la presidenza del polemarco il consiglio di guerra che decideva a maggioranza di voti.
La costituzione di Clistene dunque fu ben lungi ancora dall'essere ciò che più tardi venne chiamata una democrazia. Ma per i suoi tempi essa segnò un progresso molto notevole sulla via dell'evoluzione in senso liberale, e la nobiltà si vide colpita nei suoi più cari interessi. Se non che essa comprese che nulla sarebbe riuscita a fare di fronte al popolo con le sole sue forze. Ed é così che i nemici della riforma si rivolsero a Sparta e re Cleomene si recò poco dopo ad Atene per appianare la questione interna.
Egli cominciò con l'esiliare dalla città Clistene ed i suoi principali fautori, dopo di che venne eletto primo arconte il capo del partito reazionario aristocratico, Isagora (508). Ma allorché questi si accinse a disciogliere il consiglio istituito da Clistene, scoppiò la rivolta; Isagora e Cleomene dovettero fuggire da Atene e poco dopo gli esiliati rimpatriarono. A questo punto Cleomene si preparò alla guerra contro Atene; ma il suo collega nel regno, il re dell'altra famiglia, Damarato, si oppose, e siccome anche fra gli alleati del Peloponneso sorse una viva opposizione contro la politica di Cleomene, questi non poté far altro che recedere dall'idea di compiere l'impresa.
Viceversa ora contro Atene mossero guerra i suoi vicini del nord, Beoti e Calcidesi; ciò perché l'aristocrazia che era al governo in questi due Stati vide non senza ragione nei liberi ordinamenti di Atene un pericolo per la propria conservazione al potere e decise di prevenirlo finché era ancor tempo, prima cioè che il nuovo ordine di cose si fosse consolidato ad Atene ed esteso anche all'esterno. Ma gli Ateniesi non aspettarono l'attacco, il loro esercito varcò i confini ed inflisse ai Beoti sulla sponda dell'Euripo una completa disfatta; lo stesso giorno i vincitori passarono nell'Eubea dove sconfissero anche i Calcidesi. In seguito a ciò Calcide cadde sotto l'influenza ateniese, mentre i Beoti proseguirono per qualche tempo la guerra senza successo, ma alla fine dovettero anch'essi adattarsi a chiedere pace. La giovane democrazia ateniese aveva dato una splendida prova della sua vitalità.
L'aristocrazia tuttavia, pur avendo perduto come abbiamo visto i suoi privilegi politici in una gran parte del mondo greco, mantenne una posizione predominante nei riguardi sociali. Inoltre, malgrado tutti i rivolgimenti politici, essa aveva in sostanza conservato la sua antica proprietà fondiaria. E d'altro canto la proprietà mobiliare in confronto era ancora relativamente di scarsa entità, ed anche dove esisteva era tuttavia di origine molto recente; che altro erano infatti quei fabbricanti e mercanti arricchiti se non dei parvenus ? Perciò la cultura era tuttora monopolio quasi esclusivo del ceto aristocratico; e non era del tutto ingiustificato che le persone appartenenti a questo ceto continuassero ora tuttavia a designare sé stessi come i «belli e buoni» e guardassero con dispregio i «cattivi» che vivevano del lavoro delle proprie mani e non avevano interesse e gusto per nulla di più elevato.
Le masse medesime (ignoranti) riconoscevano questa superiorità col fatto che proprio loro eleggevano quasi esclusivamente dei nobili alle cariche più alte dello Stato. Come i tiranni che erano venuti fuori dall'aristocrazia (come il riformatore Clistene che apparteneva ad una delle principali famiglie nobili di Atene) per tutto un secolo, nella stessa democratica Atene, i generali e gli uomini di Stato, salvo poche eccezioni, continuarono ad essere reclutati dalle schiere della nobiltà.
Ciò spiega come lo sport avesse una parte così preminente nella vita della nazione greca. Il detto di Omero che "...nulla arreca maggior gloria all'uomo che l'essere un rapido corridore ed un buon pugilatore", é applicabile in sostanza anche all'epoca presente; e maggior gloria e onore era quella di avere nella propria scuderia cavalli velocissimi, anche se naturalmente a tale privilegio eran pochi coloro che potevano aspirare.
Le gare di corsa e i tornei ginnastici costituivano quindi la parte più importante del programma delle feste popolari; campioni e spettatori spesso vi affluivano da grandi distanze. Particolare fama acquistò molto precocemente la festa ginnastica che si celebrava ogni quattro anni verso la metà dell'estate nella pianura di Pisa sul corso inferiore dell'Alfeo in onore di Giove olimpico. Considerazione non minore godeva la festa in onore di Apollo pitico a Delfo, anch'essa quadriennale; in origine essa era una festa destinata soltanto a gare musicali, quale si addiceva ad un dio che era soprattutto il protettore dell'arte musicale, ma quando gli anfizioni assunsero la direzione del tempio di Delfo vi aggiunsero gare di corsa e giochi ginnici.
Feste analoghe si celebravano ogni due anni in onore di Posidone sull'istmo presso Corinto ed in onore di Zeus nella valle di Nemea presso Cleone nell'Argolide. Queste quattro feste all'inizio del sesto secolo vennero in tutto il mondo greco riconosciute come feste nazionali; i vincitori vedevano la loro fama propagarsi in tutta l'Ellade, le loro città natali li ricompensavano con ricchi doni e gli stessi grandi poeti non disprezzavano di celebrarli nei loro canti.
In simile ambiente la ginnastica non poteva non divenire un elemento importantissima di ogni educazione elevata. Quando poi il giovinetto era diventato uomo, scendeva ogni giorno sulla piazza e vi rimaneva per ore intere a conversare con i propri uguali. E teneva ad essere vestito e messo su con eleganza; chi poteva farlo, portava il mantello di porpora od almeno delle vesti orlate a colori. Invece il costume d'andare armati era venuto in disuso da quando era stata introdotta una regolare giurisdizione; peraltro le armi costituivano anche ora l'ornamento delle pareti nelle sale di ricevimento delle case signorili, che alla sera raccoglievano a banchetto cordiale gli amici, i quali sovente restavano adunati sino a tarda ora della notte attorno alle tazze del vino. E per lo più il convito assumeva un colorito abbastanza sfrenato; vi si invitavano delle suonatrici di flauto, le quali, vestite il più leggermente possibile ed anche leggere come costumi, si collocavano a sedere fra gli uomini ed accompagnavano le loro canzoni bacchiche.
Va da sé che nessuno poteva condurre la propria moglie a simili conviti; cosicché le donne onorate restavano escluse dalla società e ridotte entro l'ambito della casa con la cerchia delle loro amiche. Soltanto a Sparta regnavano costumi più liberi; qui le fanciulle partecipavano persino agli esercizi ginnici e quindi nelle relazioni fra le persone dei due sessi dominavano delle maniere disinvolte e prive di riserbo che destavano grave scandalo nei Greci di altri paesi. Anche se poi negli stessi, le donne rimanevano escluse dai banchetti degli uomini.
Cosicchè le occasioni di conoscere fanciulle di buona famiglia fuori della ristrettissima cerchia dei parenti e degli amici erano piuttosto scarse, i matrimonii - combinati di solito dai padri - erano per lo più matrimoni di convenienza cui era completamente estraneo l'amore.
Si cercò un compenso nel commercio con giovinetti adolescenti, commercio che, se mantenuto entro certi limiti, era perfettamente consentito dal costume, anzi in parecchi Stati era addirittura raccomandato dalle leggi. Quando il greco di quell'età parlava d'amore, la sua mente intendeva riferirsi in primo luogo a queste cose, ed i bei giovinetti andavano orgogliosi di possedere un numero considerevole di ammiratori. Nell'età omerica con il suo commercio libero e cordiali fra i due sessi questa consuetudine dell'amore per i giovinetti é ancora assai poco sviluppata e più tardi, allorché la civiltà raggiunsi l'apogeo del suo svolgimento, fu ripudiata dall'opinione pubblica come immorali; se i Greci del VI e del V secolo hanno visto diversamente le cose non bisogna dimenticare chi ogni età ha diritto di esser giudicata alla stregua delle idee morali che le sono proprie.
Naturalmente la poesia rispecchiò le idee del tempo. Il complesso di quelle delle classi dirigenti fu verso la fine di questo periodo riassunto da Teognide di Migara in un ciclo di elegie - e sono abbastanza significative, quali fossero le idee dell'epoca - che dedicò al giovinetto Cirno da lui amato; né é meno significativo il fatto che queste elegie erano destinate ed esser recitati nei conviti. Essi incontrarono gran plauso e divennero in seguito un libro di scuola di cui abbiamo ancora oggidì un estratto.
Ma già da tempo il convenzionalismo che accompagnava l'uso del metro elegiaco era stato rotto ed erano stati sostituiti metri più liberi. Così dall'elegia si svolse l'ode. Essa ebbe il suo primo grande maestro in Alceo di Mitilene (verso il 550), un nobile che ai tempi della rivoluzione aveva eroicamente combattuto per la causa della sua classe e che alla sera altrettanto bravamente rimaneva solidale di fronte al bicchiere. Vino e politica infatti sono anche i principali soggetti delle sue odi caldamente sentite e appassionate. Egli trovò un successore nel suo contemporaneo alquanto più giovane Anacreonte, originario dell'isola di Teoy nella Jonia abbondante di vini. Costui era una natura molle completamente alieno dalla politica, tanto vero che visse di preferenza presso le corti dei vari tiranni; le sue odi cantano il vino e l'amore, specialmente l'amore per i bei giovinetti. E d'amore cantò anche la compaesana e contemporanea d'Alceo, Saffo di Lesbo. Ma non è l'amore per l'uomo che incarna il suo ardente linguaggio, sebbene l'amore è verso le belle fanciulle. I costumi liberi lesbici tolleravano un simile commercio che in ogni altra patte della Grecia era invece punito. Saffo pertanto giunse a fondere in sé - cosa che non riuscì ad altra donna - l'energia virile e la tenerezza di donna, ciò che ne fece la più grande poetessa di tutti i tempi. Certo non dobbiamo giudicarla alla stregua delle nostre idee morali.
La poesia nel frattempo si era posta a servizio della musica. Mentre in origine quest'ultima aveva servito soltanto ad accompagnare il canto, ora le parti si invertirono; la musica era divenuta un'arte autonoma ed i poeti scrissero i libretti per i compositori. Fu questa una conseguenza dei progressi che nel corso dell'ultimo secolo aveva fatto la musica strumentale. La capacità della citara di prestarsi ad effetti sonori venne accresciuta con l'aumentarne il numero delle corde, e come nuovo strumento fu mutuato dai popoli dell'Asia Minore e della Tracia il flauto.
La scopetta della notazione musicale scritta, fatta all'incirca verso il 600, offrì la possibilità di fissare in iscritto le composizioni; essa fa epoca per la musica altrettanto quanto la scopetta della scrittura alfabetica per la poesia. Le feste in onore di Apollo porsero ai musicisti l'occasione di eseguire le loto creazioni dinanzi ad un pubblico più numeroso di uditori. Queste feste, e soprattutto la festa di Apollo pitico a Delfo e quella di Apollo Carnio a Sparta, esercitarono una influenza decisiva per lo sviluppo di quell'arte. È qui, a Sparta, che si dice abbia fiorito Terpandro, il capostipite leggendario di una stirpe in cui rimase ereditario il culto dell'arte musicale; a lui è attribuita l'invenzione del «nomos
citarodico», un genere di composizione per cetra in cui al canto non restava che la parte dell'accompagnamento. Come inventore dell'analoga composizione per flauto é indicato Clona di Tebe, una città in cui l'arte di suonare il flauto fu sempre oggetto di un culto particolare.
Ben presto si passò a sopprimere completamente l'accompagnamento vocale ed a scrivere composizioni puramente strumentali (i così detti « nomi citaristici ed auletici ») ; famoso divenne specialmente il « nomos pitico », composizione per flauto dovuta a Sacada d'Argo, un maestro che vinse tre volte l'una dopo l'altra il premio delfico (582, 578, 574). A queste composizioni per l'esecuzione a solo si aggiunsero poi altre composizioni per cori con accompagnamento d'orchestra; esse costituiscono le più alte creazioni cui sia giunta l'arte musicale di quest'epoca.
Anche in questo campo stette da principio alla testa Sparta ; in essa fiorì nella prima metà del sesto secolo Alcmano, il primo maestro classico di questo genere musicale. La sua fama deriva principalmente dalle composizioni ch'egli scrisse per cori di fanciulle.
L'argomento della sua poesia di base al canto, come si addice ad un genere di musica sacra, tendeva principalmente alla edificazione degli animi con i buoni esempi; ma il poeta trovava tuttavia modo di intrecciarvi le lodi delle belle corifee che cooperavano all'esecuzione per onorare la divinità. Questa lirica corale poi ebbe ulteriore perfezionamento nelle colonie greche d'Occidente per opera di Stesicoro di Imera in Sicilia (verso il 550); egli attinse i suoi argomenti dall'epopea, attribuendo peraltro, giusta le tendenze del tempo, agli antichi miti un contenuto intrinseco etico maggiore. É dovuta a lui anche la creazione del dialetto misto epico-dorico che da allora in poi rimase d'uso normale per comporre il testo dei canti corali.
Stesicoro trovò un successore nel suo connazionale, Ibico da Reggio, ma è ben lungi dall'essere alla pari con lui.
In seguito la lirica corale fu portata alla perfezione da Laso di Ermione (dell'epoca dei Pisistratidi), da Simonide di Ceo (558-468 all'incirca) e da Pindaro tebano (520-440 circa). Mentre Laso fu principalmente compositore di musica e come tale segna un'epoca nell'evoluzione dell'arte musicale greca, Simonide e Pindaro furono non meno grandi come poeti e profondi pensatori; essi ritennero compito precipuo della loro arte l'ammaestramento morale dei loro uditori. Oltre a canti religiosi e composizioni per cerimonie funebri essi scrissero specialmente canti in onore dei vincitori nei grandi giochi nazionali e ne trassero immensa lode presso i propri contemporanei insieme a ricca ricompensa materiale.
Tuttavia specialmente in Pindaro si nota già una considerevole misura di artifizio; la riflessione soffoca la poesia, e la lingua, manierata e spesso gonfia sino ad una ampollosità intollerabile, ha dovuto non di rado rimanere inintelligibile ai suoi stessi uditori. I canti in onore dei vincitori nei giochi erano peraltro lavori fatti su commissione ed evidentemente la cosa principale per il poeta medesimo, o per meglio dire per il compositore, era la musica. Ciò é anche più vero nel caso del nipote di Simonide, Bacchilide, il quale si tenne lontano, non seguendo l'esempio dello zio, dall'ampollosità pindarica, ma viceversa rimase di gran lunga al di sotto del suo grande rivale per la profondità del pensiero.
Cominciò per la lirica corale la parabola discendente. In compenso per l'appunto verso quest'epoca si svolse dalla lirica corale la nuova forma del dramma. A tal proposito il punto di partenza é costituito dal ditirambo, il canto corale che si usava nella festa di Dioniso in onore del dio, in origine una mera improvvisazione gioconda tra i fumi del vino, fu elevata poi nel sesto secolo a forma d'arte per opera di Arione di Lesbo e dei grandi classici della musica. Il ditirambo fu principalmente coltivato a Corinto e nelle città vicine ed é qui che da esso si svolse il dramma satirico, nel quale il coro veniva in scena coi suoi componenti travestiti da satiri, coperti di pelli di caprone c con maschera corrispondente e rappresentava un episodio della storia del dio, naturalmente in forma ruvidamente popolare, conforme al carattere della festa.
Rappresentazioni simili vennero ben presto in uso anche nell'Attica. Qui si abbandonarono i costumi da satiri e quindi anche il coro perdette il suo carattere satirico; agli argomenti burleschi si sostituì un'azione seria che venne attinta dal ciclo delle leggende eroiche, vale a dire, come allora si credeva, dalla storia antichissima, e talora anche dalla storia dell'epoca medesima. Ma soprattutto, accanto alle parti cantate, prese posto un dialogo tra il poeta e il suo coro.
La nuova forma conservò l'antico nome di tragedia ("canto dei carpii") ed un ricordo dell'antico travestimento nella maschera, la quale ora naturalmente fu adattata volta a volta al personaggio; restarono inoltre in uso il dialetto dorico ed i ritmi artificiosi delle parti cantate, mentre il dialogo fu composto nella lingua volgare ed in tetrametri trocaici, più tardi per lo più in trimetri giambici.
La tradizione ascrive a Tespi, originario del villaggio attico di Icaria, dove il culto di Bacco era indigeno ab antiquo, di essere stato il primo a mettere in scena drammi di questo genere al tempo di Pisistrato; a datare dal 534 essi vennero rappresentati anche ad Atene in occasione della gran festa in onore di Dionisio e da allora rimasero una parte essenziale del programma di questa solennità. Il perfezionamento ulteriore della tragedia é dovuto soprattutto ad Eschilo di Eleusi (525-456 all'incirca). Si attribuisce a lui di aver per primo messo in scena un secondo attore, il che rese possibile lo svolgimento di un dialogo anche senza partecipazione del coro e come conseguenza una azione scenica movimentata; ciò malgrado le parti cantate continuarono ad essere in prevalenza.
Via via però il dialogo occupò sempre maggior posto; e si aggiunse un terzo attore, innovazione che fu anch'essa accolta da Eschilo nelle sue ultime tragedie. Siccome le singole tragedie erano relativamente brevi, invalse l'uso che ogni poeta ne mettesse in scena l'una dopo l'altra tre, che in tal caso potevano anche essere fra loro concatenate per il contenuto; a rallegrare lo spirito degli spettatori chiudeva la rappresentazione come quarta parte uno scherzo satirico alla maniera antica.
Al pari dei suoi grandi contemporanei Simonide e Pindaro, anche Eschilo si propose come fine l'educazione morale dei suoi uditori. Perciò egli trattò di preferenza problemi religiosi; si può dire che tutte le sue tragedie sono teodicee, nelle quali il poeta cerca di mettere il contenuto degli antichi miti in armonia con le idee religiose più raffinate che dominavano nelle classi colte del suo tempo. Come nelle odi di Pindaro spira anche nelle sue tragedie l'alito solenne dello spirito profetico; le figure ch'egli ci presenta sono figure di un mondo superiore, le quali peraltro appunto per questo sono troppo lontane da noi per poterci sentir capaci di prendere parte viva alle loro vicende.