ARIEL SHARON E YASSER ARAFAT
I DUE VOLTI DELLA STESSA VIOLENZA
di LUCA MOLINARI
(PUBBLICATO SUL NUMERO
DI MAGGIO 2002 DELLA RIVISTA "BONEWS")
Se si è il premier democraticamente eletto di uno stato e si avalla la violenza di massa del proprio esercito che speso sconfina nella pulizia etnica si è forse meno colpevoli e deprecabili di fronte alla comunità internazionale rispetto a se si è il leader di un'organizzazione dal passato terroristico e non ancora istituzionalizzatasi in uno stato nazionale?
La risposta a questo interrogativo appare scontato. Quasi che fosse una domanda retorica di ciceroniana memoria, ma nei fatti non lo è si deve constatare che vengono regolarmente adottati due pesi e due misure a seconda di chi siano i personaggi presi in esame.
Siamo di fronte ad una delle tante domande apparentemente senza risposta che la drammatica involuzione della crisi mediorientale impone di affrontare alle coscienze democratiche di tutto il mondo.
Il primo ministro israeliano e leader della destra più nazionalista Ariel Sharon e il leader palestinese Yasser Arafat non sono che i due volti della stessa tragedia figlia della stessa violenza. Non è possibile disgiungere le storie personali e le azioni di entrambi da una fitta rete di tragedie e violenze che fanno si che entrambi si lascino dietro una scia di sangue e di lutti lunga oltre mezzo secolo. Sono l'incarnazione vivente della tragedia di due popoli, Israeliani e Palestinesi, condannati a condividere la stessa terra.
In un diverso contesto temporale e geografico saremmo di fronte a due loschi figuri che, al pari di novelli bravi manzoniani o pistoleri del Far West, non esisterebbero a risolvere la loro contesa in duelli all'ultimo sangue. Una nuova edizione di una sfida all'ok corral che si concluderebbe e risolverebbe solo con l'uccisione di uno dei due da parte dell'avversario. Ormai tra Sharon e Arafat il dramma della Palestina è diventata una contesa personale che va ben al di là del decennale scontro tra israeliani e palestinesi. Le presenti condizioni storiche, invece, ne fanno i leader riconosciuti delle due parti in lotta. Da loro e dalle loro scelte dipende il futuro di una delle zone più martoriate di un mondo sempre più inquieto che, a oltre dieci anni dalla fine della guerra fredda, stenta a trovare un nuovo equilibrio. Sono accomunati da un odio reciproco e dall'accettazione della violenza come strumento per risolvere la crisi di cui sono protagonisti. Ciò che li divide è la percezione che le diplomazie e i centri di potere internazionale, soprattutto quelli internazionali, hanno delle loro azioni e delle loro responsabilità.
Ariel Sharon è il criticato, ma rispettato primo ministro di uno stato democratico. Gode dell'immunità internazionale e nessuna corte internazionale ha mai minimamente pensato di incriminarlo per atti contrari al genere umano. Le sue azioni sono considerate legittimate dal voto del suo popolo. Viene ricevuto nei vertici e nei consessi internazionali e agisce liberamente come qualsiasi capo di governo. Controlla e utilizza sia la diplomazia, sia la forza, bruta ma legittima dell'esercito del suo paese.
Yasser Arafat, invece, è asserragliato nel proprio quartiere generale sotto la costante pressione militare israeliana. Da oltre trent'anni non dorme mai più di una notte nello stesso letto per paura di essere assassinato su indicazione di uno dei suoi tanti nemici.
Mentre l'attività militare israeliana viene percepita e inquadrata nell'ottica dell'azione di un esercito in guerra e quindi vi si applicano tutti gli schemi interpretativi e giustificativi della guerra, ogni azione terroristica di natura islamica viene in qualche modo imputata ad Arafat. Non possiamo non dimenticare come nelle tragiche ore di quell'11 settembre scorso in cui i kamicaze di Bin Laden portavano il loro vile attacco agli Stati Uniti, nelle sedi del potere palestinese si stesse con il fiato sospeso augurandosi che si trattasse di atti terroristici riconducibili a gruppi dell'estrema destra americana. La grande paura era quella di essere omologati agli atroci assassini seguaci di Bin Laden.
Mai nei palazzi del potere di Tel Aviv, i consiglieri ed i collaboratori di Sharon hanno temuto di essere paragonati dall'opinione pubblica occidentale a feroci assassini. Quei feroci assassini che già nella storia si erano macchiati di quel vergognoso crimine noto sotto il nome di pulizia etnica. Ossia l'eliminazione fisica dei propri nemici per il solo fatto appartenere a quel dato popolo o di professare quella data religione come strumento per risolvere in maniere radicale un conflitto.
Sharon ed i leader nazionalisti israeliani hanno dalla loro parte il fatto di essere stati eletti in regolari elezioni. Si sentono così non solo garantiti, ma anche legittimati a compiere atti che, in altri contesti, farebbero urlare allo scandalo, al genocidio e al crimine di guerra.
Come già scritto da Massimo Fini, non troviamo molte differenze tra un Milosevic che nelle guerre balcaniche degli anni '90 ha autorizzato la deportazione forzata e l'eccidio di centinai e centinaia di musulmani e croati suoi avversari, e un Sharon che ancora solo un anno fa in un'intervista a Le Monde ribadiva di essere contento e di entusiasmarsi ogni qualvolta sottraeva anche un solo ettaro ai palestinesi.
Civili assassinati sotto i colpi dell'artiglieria di Tel Aviv. Rastrellamenti di massa e conseguenti deportazioni in veri e propri campi di concentramento di donne e uomini inermi. Rai aerei per radere al suolo interi villaggi. Sono queste le immagini tristemente famose che, da Sarajevo a i territori occupati accompagnano tutte queste compagne di epurazioni e di pulizia etnica.
Il generale Ariel Sharon non è certo nuovo ad avallare e giustificare operazioni militari di questo genere.
La sua biografia militare e politica è piena di odio verso l'eterno nemico palestinese. Un odio che si fonda sulla convinzione che solo l'eliminazione totale dei rivali si possa risolvere la crisi mediorientale e, cosa che più sta a cuore a Sharon, garantire la sicurezza di Israele e dei coloni. Deriva da questi atteggiamenti la fama di "falco" su cui si basa il consenso quasi granitico di cui il primo ministro gode in patria e che è confermato dall'assenza di polemiche per dall'impiego dei riservisti (cioè civili richiamati alle armi) al posto dei militari di leva nelle operazioni più delicate.
Tutti uniti dietro a Sharon fino alla vittoria finale.
Benché abbia smesso di indossare l'uniforme Sharon continua ad essere un uomo di guerra il cui massimo cruccio continua essere quello di non aver ucciso Arafat quando ne ebbe l'opportunità oltre venti anni fa.
Passati gli anni, cambiati i tempi, il pallino fisso del vecchi guerriero rimane lo stesso: togliere di mezzo ed eliminare definitivamente dalla scena l'antico nemico palestinese.
Entrato giovanissimo nell'esercito israeliano l'attuale primo ministro, nel 1948 guidò i commando specializzati dietro le linee arabe per dissuadere i palestinesi che minacciavano Israele a lasciare le loro case. Così facendo furono provocati più attentati e attacchi contro i coloni di quelli che si volevano evitare. ha combattuto in tutte le guerre, aumentando conflitto dopo conflitto la sua fama di "macellaio" e di "duro".
Ha anche un pregio, forse l'unico, quello di essere un nazionalista pragmatico e non fanatico. È per questo che in molti hanno sperato che il vecchio leone trovasse la forza di guidare il suo popolo alla pace. Come il nazionalista De Gaulle aveva saputo amputare la Francia dell'Algeria riuscendo dove i radicalsocialisti Mitterand e Mendes-Frances avevano fallito, così si poteva pensare che il falco Sharon fosse capace di fare ciò che tante colombe avevano lasciato incompiuto. Invece no. È prevalsa l'anima più radicale e spregiudicata del leader del Likud.
Quella stessa anima che il 6 giugno del 1982 aveva spento l'allora Ministro della difesa del Governo Begin, Ariel Sharon a lanciare l'operazione "Pace in Galilea", campagna militare che voleva eliminare "ogni presenza fisica o simbolica" dei palestinesi in Libano. In occasione di questa sporca guerra che Sharon fu al centro delle maggiori polemiche per i massacri di civili compiuti nei campi di Sabra e Chatila da forze militari operanti in zona controllata dall'esercito palestinese.
Non mancarono le polemiche e ben 400.000 israeliani, pari al 10 % della popolazione totale, manifestarono contro quella barbarie.
Il Ministro israeliano fu accusato di quel massacro, ma poi completamente assolto da una commissione d'indagine israeliana. Ma ancora una volta la comunità internazionale non intervenne al livello ufficiale. Non furono inviasti osservatori dell'Onu, non furono minacciate sanzioni a Israele e, soprattutto, nessun governo chiese l'intervento di tribunali o corti di giustizia internazionali come invece avvenuto in altri casi, da ultimo il Kosovo. Il tutto fu considerato come uno degli aspetti esecrabili, ma normali della guerra. Ancora una volta due pesi e due misure.
Anche la biografia di Yasser Arafat non è certo priva di connivenze con la violenza. Non siamo di fronte né a un Gandhi né a un Mandela, leader che portarono alla vittoria i loro popoli in maniera pacifica, con la sola forze della ragione e della diplomazia e a costo di gravi sofferenze personali.
Arafat è più simile a un Ochalan, il capo dell'indipendentismo curdo. Entrambi non hanno rifiutano gli attentati come strumento per denunciare al mondo la sofferenze dei propri popoli oppressi, cercando così solidarietà e appoggio internazionale per riscattarne le sorti e l'onore.
È un capo carismatico e un guerriero che non ha mai smesso di indossare la divisa e di ragionare in termini militari.
Uomo di furbizia levantina è sopravvissuto sia fisicamente, sia politicamente a lungo; talmente a lungo da essersi guadagnato il soprannome di "il vecchio". Troppo a lungo tanto che per molti osservatori è sopravvissuto a se stesso. Il mistero ne accompagna l'attività fin dalla nascita tanto che o è certo neppure il luogo di nascita. Gerusalemme per le carte ufficiali, Gaza o Il Cairo per la voce popolare.
Imbraccia il mitra all'età di quindici anni, nel 1948 quando combatte contro gli Israeliani a Gerusalemme nella prima guerra arabo-israeliana. Uomo ambiguo, capace di tanti voltafaccia e cambiamenti repentini, nel 1989, quaranta anni dopo questa prima esperienza militare, riconosce ufficialmente e solennemente lo Stato di Israele nel corso di una sessione straordinaria dell'Onu.
La sua vita privata è tutt'una con quella del combattente. Esattamente come quella del suo nemico numero uno Ariel Sharon. Diffida dei leader dei paesi arabi al punto che sostiene che tocchi direttamente ai palestinesi combattere per la propria causa. Nel 1959 fonda Al Fatah, organizzazione di guerriglieri che vuole portare la rivolta nei territori occupati. Nel 1965 la prima delle tante azioni terroristiche contro Israele. Si apre quel lungo ventennio durato fino alla fine degli anni '80 caratterizzato da atti di terrorismo internazionale per denunciare le condizioni di vita dei palestinesi. È lo stesso Arafat ad essere collegato e legato a questi eventi che seminano lutti e tragedie. Punto massimo di tensione si raggiunge alle Olimpiadi del 1972 quando, cittadella olimpica di Monaco di Baviera, un commando terroristico tiene ostaggio la delegazione sportiva israeliana. 17 morti, di cui 11 israeliani, 5 fedayin e 1 poliziotto tedesco e 2 arrestasti. Fu questo il bilancio dell'azione antiterroristica delle forze di polizia tedesche.
Il punto di forza di Arafat è di avere capito da anni che l'esistenza di Israele è un dato di fatto che va riconosciuto d cui partire per sbrogliare la matassa mediorientale. Il limite maggiore non avere fatto crescere un successore capace di raccoglierne l'eredità e non essere stato capace di coinvolgere tutte le anime dell'indipendenza palestinese su posizioni non violente e moderate. La colpa più grande aver sempre tenuto un rapporto ambiguo con quei settori palestinesi collusi con il terrorismo. Ambiguità frutto di quella politica di alternanza tra "l'ulivo e il mitra" di cui parlò alle Nazioni Unite in un ormai lontano 1974 ancora ben viva nel 1991 quando, in piena Guerra del Golfo riconosceva le ragioni di Saddam Hussein paragonando l'occupazione irakena del Kuwait a quella israeliana delle alture del Golan.
Da queste doppiezze e da questi tentennamenti deriva la diffidenza di ampi settori del mondo occidentale verso il leader palestinese a cui si continuano a chiedere prove di fedeltà e chiarezza. Quegli stessi settori di opinione pubblica e di diplomazia pronti a essere indulgenti a giustificare le brutali azioni militari ordinate da Sharon.
Ecco la risposta alla nostra domanda iniziale. Due pesi e due misure a seconda di chi sia il soggetto preso in questione. Due diversi metri di giudizio: comprensivi e disponibili nei confronti di un capo di governo, sempre diffidenti al limite della paranoia verso un leader carismatico dal passato terroristico.
Passa dalla volontà e dalle decisioni di questi due uomini il futuro che più che capi di stato spesso hanno agito con l'ambiguità dei giocatori di poker e con la boriosa violenza degli spadaccini, al soluzione della drammatica crisi mediorientale. Soluzione che non può prescindere dal riconoscimento di un duplice diritto. Quello di Israele di vedere riconosciuta la propria esistenza e garantita la propria sicurezza e quello dei palestinesi di avere, finalmente, una propria terra su cui far sorgere uno stato autonomo, libero, indipendente e sovrano.
Questo al comunità internazionale deve tenerlo bene presente e smettere di fare discriminazioni fra i due, utilizzando gli stessi canoni di giudizio per entrambi i soggetti in campo.
Articolo di LUCA MOLINARI
Francomputer
ringrazia
Pluralisticamente
accettiamo altre tesi - pro e contro
Non per partito preso o per attribuire torti o ragioni
ma perch� � giusto cercare di capire
VEDI
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