SCHEDE
BIOGRAFICHE PERSONAGGI |
GIACOMO
LEOPARDI |
Francesco De Sanctis "Antologia critica sugli scrittori italiani" e "Storia della letteratura italiana"
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L'INVENTIVA FANTASTICA DEL LEOPARDI
* UNO SGUARDO SINTETICO - LEOPARDI
SPIRITUALE
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L'INVENTIVA FANTASTICA DEL LEOPARDI
C'� nel pensiero leopardíano qualche cosa di così alieno da ogni opinione ricevuta edi dotti a d'indotti, che doveva parere a molti una stravaganza, una singolarità di cervello solitario. In un tempo cha il divino era scomparso nell' umano e l'uomo era posto in cima della creazione, quasi come fosse lui l'assoluto, sentire cha la terra era appena una pallottola, e l'uomo appena visibile ed osservabile nell'infinito universo! Sentire che il secolo dei lumi sia il secolo della morte, o dei morti ! che il non vivere � meglio del vivere! che la vita è necessariamente infelice, e più nei grandi uomini! che l'uomo non è la più perfetta creatura dell'universo! che tanto vale un diletto sognato quanto un diletto vero, anzi più! che la vita � dolore a noia! che la natura opera senz'altro scopo cha di produzione e distruzione! che la morte � piuttosto piacere che altro!
Questo spifferare sentenze, che dovevano parere paradossi nel secolo dei lumi a del progresso, aveva il suo lato comico. Lo scrittore che si allontana in modo così risoluto dalla opinioni correnti, doveva provare un certo gusto a solleticare e pungere i contemporanei, ridendo in cuor suo di quei loro pregiudizi. Non gli basta dire loro la verità; vuole che la verità giunga a loro per via di sorpresa e con aria di paradosso, sì che aprano la bocca e facciano gli occhi grossi, a lui se la spassa a spese loro. Perciò non gli basta il discorso, e neppure quel ragionamento a due che si chiama il dialogo; vuole proprio la commedia, nella quale l'opinione contraria sia, non solo confutata, ma beffata. E a questo doveva animarlo anche l'esemplare platonico, dove c'� non solo la confutazione, ma anche lo scherno dai sofisti.
Più volte aveva espressa questa opinione, che gli scrittori italiani lavorano con la memoria e mancano di virtù inventiva. Ed egli, vagheggiando queste scene comiche, voleva appunto mostrare questa virtù inventiva. La commedia ha per base una data posiziona trovata con la fantasia, da cui scaturiscano tutti gli effetti comici, com'� nelle Nuvole di Aristofane. Qualcosa di simile gli passava per il capo.
Aveva nella mente un arsenale copiosissimo di favole e di storie antiche a nuove, e ne trae materia par le sue posizioni fantastiche. Vedi sulla scena Ercole a Atlanta, la Moda a la Morta, la Terra e la Luna, il Folletto e lo Gnomo, la Natura e un Islandese, Tasso a il suo Genio, Ruysch a la sua Mummie. Ciascuna di queste posizioni � ben trovata, tale che ne possano venire i più felici e straordinari effetti estetici, specialmente comici.
Si capisce cha invenzioni simili non possono essere al solo fine d'introdurre un ragionamento a due, sì che non siano altro cha una occasione o esordio al dialogo. Non val la pena di mettere in moto la fantasia, per come cominciare un discorso. La fantasia non deve essere semplicemente principio o introduzione, ma sostanza di tutto il dialogo, deve costituire un dialogo sui generis, una scena comica.
Ora la fantasia, che � stata potente a trovare una posiziona artistica, si ritira subito e lascia fare all'intelletto. Appena spunta, pare sia colpita di sterilità, e la scena comica rimane un aborto. Si può dire che l'autore, felicissimo a trovare il tema, si mostri incapace di svilupparlo, e non sappia che farsi del suo tesoro, che per scavarlo ha sudato molto.
Non mi si dica che questo nasca da partito preso, dal distorto concetto che si � fatto della prosa, nella quale, a suo avviso, non debba entrare immaginazione, n� sentimento. Egli fa che il dialogo non � un discorso e non � un trattato; � un conflitto d'idee espresso nella lotta delle persone e che ci può benissimo aver luogo l'eloquenza e la immaginazione. Sa che il dialogo � uno stato mezzano tra la nuda prosa e la nuda arte, e può ricevere in s� tutti i motivi drammatici. E se è ricorso a posizioni fantastiche, � stato appunto per creare una favola atta a suscitare questi motivi.
In effetti, perch� affaticarsi a trovare il Folletto e lo Gnomo, Prometeo e Momo ? a tirarci con lo spettacolo nelle regioni dei fantasmi e dei morti? A che, se appena alzata la fantasia, conclusione doveva essere un ragionamento ordinario? Davvero non ne valeva la pena.
Ma no. Egli ha la mira ad una vera scena drammatica; vuol produrre effetti comici e porre in gioco i pregiudizi volgari. Vuole e non riesce.
Posizioni fantastiche inducono singolarità non nel modo di ragionare, che è sempre quello, ma nelle impressioni e nei moti dell'animo. Prometeo e Momo ragionano come tutto il mondo, ma con proprie impressioni e sentimenti, dov'� lo spirito comico. Non si vede che il disinganno commuova Prometeo, e non si sente la festività epigrammatica di Momo; tanto valeva mettere in quel dialogo di Prometeo un Tizio e un Caio.
Il cartellone ti dà grande aspettatie; � nientemeno una Scommessa di Prometeo; leggi e rimani freddo, ti par d'essere nella età della pietra, dove la vita � quasi ancora cristallizzata. In Ercole e Atlante il concetto � fino, e l'invenzione piccante: figuratevi la terra, tanto superba di s�, palleggiata tra due, come fosse una pallottola! Simile singolarità di concetto e d'invenzione è in Moda e Morte, nel Folletto e lo Gnomo. Sono soggetti comici, senza vena comica. E se comico c'�, � nella frase, manca lo spirito. Tentativi di caricatura e d'ironia ci sono, non manca qualche frizzo. Ma tutto � debole, telum sine ictu. Il riso non ha fiato, muore sulle labbra.
Gli � che Leopardi, come � stato detto, potentissimo a esprimere i moti del proprio petto, non aveva forza di trasferirsi al di fuori, e rappresentare una vita diversa alla sua. I suoi Momi, e Atlanti e Prometei non sono cosa viva; sono trovate di uno spirito acuto a esprimere concetti intorno alla vita, più che la vita essa medesima. Chi è Tasso? Chi � Ruyfch ? Chi � Colombo o Gutierrez ? Sono posizioni sterili, da cui non escono fuori che concetti e ragionamenti.
Poi Leopardi non fa ridere, malgrado che lo si proponga e vi si sforzi. Il riso è in lui un atto di dispetto e di rivalsa verso gli uomini, perciò senza grazia. Le sue opinioni sono così immedesimate con i suoi dolori, che non c'entra scherzo. Manca a lui la serenità e la bonarietà, che sono le due genitrici della sua comica.
Neppur mi par che riesca negli effetti seri e tragici dell'arte, appunto per quella sua impotenza a rappresentare il mondo di fuori. Colombo, vicino a trovar terra, entra in discorso con Gutierrez. Non crediate già sia Cristoforo Colombo, quel così ardente e così credente. La scoperta dell'America si deve a questo, che Colombo era annoiato, e fuggiva la noia nel lontano Oceano. Le azioni umane non hanno altro fine che di fuggir la noia. Non � Colombo, è Leopardi che discorre così, e Leopardi non avrebbe scoperta l'America. Gli uomini atti all'opera non sentono noia.
N� altri che se stesso � il suo Tasso, nel quale riflette pensieri e sentimenti propri, com'�: che l'amore rinnova l'anima, che la solitudine ravvalora l'immaginazione, che il piacere � più nell'immaginazione che nella realtà, che la vita � noia; cose dette già da lui in verso, e qui ricomparse, come gli avviene in altri Dialoghi. Ma qual bisogno era di sciogliere in prosa quello che aveva così felicemente condensato in verso ? Vedo un Leopardi rifritto: mi manca Torquato Tasso,
Pauroso e altamente tragico � il Dialogo della Natura e di un Islandese. Qui troviamo lungamente proseggiato quello che disse mirabilmente in verso:
..... Ma da Natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura.
L'impassibilità della Natura, che noi sogliamo chiamare madre, spaventa qualunque abbia cuore di uomo. Quel sentimento che c'induce al culto e alla preghiera � qui non messo in gioco, ma strozzato dalla verità. Sotto l'Islandese intravediamo tutto il genere umano, alle cui sorti rimane indifferente la natura e il mondo. E' il pensiero di Bruto. Ma quello che rivelò a Bruto la disperazione e poteva parere bestemmia di suicida, è qui verità intuita con tranquillità filosofica, pure con tali colori e in tal forma, che te ne viene brivido, e te ne senti male. E ci par di vedere fiele in quella tranquillità; e che lo scrittore ci derida e ci dia una coltellata, con la gioia di chi si vendica. Qui s'intravvede una inimicizia della stirpe umana, nella quale ci si sente la repulsione. Una certa misantropia balenava in quell'anima, nata all'amore, in alcuni cattivi momenti, e gli compariva sulla faccia il verde di una ironia amara, che voleva rendere piacevole, come si vede nella fine del dialogo.
Una delle fantasie più allegre di Giacomo Leopardi � il suo Ruysch, con tutto che vi si tratti di morte e di morti. Quella dolcezza del morire, che espresse con sentimento voluttuoso in Amore e Morte, � il concetto intorno al quale si svolge questo dialogo. I morti testimoniano contro il pregiudizio volgare che la morte sia dolore; anzi �, come essi mostrano con l'esperienza propria e col ragionamento, piuttosto piacere che altro, quel piacere che consiste in qualche sorta di languidezza. Il canto dei morti riflette quella beltà severa e intellettuale, che troviamo in certi antichi inni teologici o filosofici, una beltà che � tutta nelle cose e dicesi sapienza, e non dà luogo a immaginazione, n� a sentimento. Così erano i dettati dei sette Sapienti; e così sono questi dettati dei morti.
E poich� Ruysch sente cantare le sue mummie, ne nasce una scena comica, che non ha alcuna importanza in se stessa, e non è che una introduzione piacevole al discorso. In verità non valeva tutto questo affannarsi per venirci a dire che l'uomo non si accorge dell'istante che muore, e che negl'istanti che precedono sente meno vivamente il dolore, anzi prova una languidezza che � quasi un piacere. Ruysch, che � filosofo, fa qui il volgo, e filosofi sono i morti. La plebe rimane paurosa innanzi a quel gran dolore e a quel gran male che � il morire, innanzi a quella separazione violenta dell'anima dal corpo. Pregiudizii simili vogliono esser distrutti col ridicolo, e ce lo faceva sperare questa invenzione comica, che pure secondo il solito � rimasta sterile. Nondimeno, come il ragionamento � breve e spigliato, e non vi mancano movenze e frasi comiche, il dialogo si legge d'un fiato, con molto diletto.
Anche più dilettevole riesce il Copernico, dove con brio � rappresentato il sistema copernicano con le sue conseguenze. Motivo comico � la superbia dell'uomo che si credeva imperatore dell'universo, e si trova parte minima e quasi impercettibile di quello. Il qual motivo si sviluppa naturalmente nel discorso, con una certa bonarietà allegra. Il dialogo � nato in un buon momento, quando lo scrittore se lo godeva, con l'anima netta di ogni fede e di ogni amarezza. L'originalità non � nelle cose, ma nella invenzione non priva di umore, che � quel prendere in gioco non solo l'errore, ma la verità, non solo l'ignoranza, ma la scienza con quella noncuranza scettica generata dal sentimento della unità universale. La forma � spigliata e veloce, intarsiata di motti felici. Il comico non si sviluppa sino al riso; pur ti mantiene la faccia serena e contenta, come di chi si sente in buon momento della vita, in uno stato di benessere.
Composti più tardi furono i dialoghi, il Venditore di almanacchi e il Tristano. Nel primo � notevole quella forma di ragionamento per via d'interrogazione, di cui aveva già dato esempio nel Malambruno, e qua e là in parecchi dialoghi. È un seguito d'interrogazioni, a cui la risposta non può essere altra se non quella che presume l'interrogazione, e conduce a una conclusione a cui l'interrogato stretto dalle sue risposte non può ripugnare. L'interrogato � il venditore di almanacchi, vale a dire il volgo nel suo modo di concepire e nei suoi pregiudizi. L'interrogante, sotto nome di passeggero, è Leopardi medesimo. Il discorso è avviato naturalmente come di cosa nata lì per lì per associazione d'idee. Nelle interrogazioni e nelle risposte si vede, senza che sia espresso, il carattere dei due. L'uno stupido, formato così a casaccio, con tardo ingegno e a bocca aperta, il quale non capisce cosa che gli si dice, n� a che gli si dice, e non gli rimane di tutto il discorso niente, e ripiglia:, « Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi ». L'altro, uomo superiore, che tira da quella mente grossa quello che non sa uscire da s�, e lo conduce al punto che vuole, con una beffa sottile che si sente dappertutto, e non si coglie in nessuna parte.
Il ragionamento socratico � in se stesso una ironia, un riso a fior di labbro, che l'avversario incalzato e soverchiato non � neppure nello stato di scorgere. L'ironia non è nei pensieri o nelle frasi, ma nella natura stessa del ragionamento, nel quale colui che interroga, dissimula la sua superiorità, scende a pari con l'avversario, fa l'ingenuo e l'ignorante, fino a che che nella conclusione te lo accoppa. Colui, andando via confuso e ripigliando gli spiriti, può dire : - per Dio si � beffato di me. - Qui non solo c'� il discorso, ma c'� il dramma, l'urto dei due caratteri nell'urto delle idee, e pare pure che tutti e due dicano le medesime. Leopardi vi � riuscito mirabilmente; ed � certo questo dei suoi Dialoghi il meglio ispirato.
Non è così felice l'ironia nel Tristano. È qualcosa di simile a quella che � nella Palinodia, un errai, candido Gino. Ma perch� l'ironia abbia consistenza e non degeneri in freddura e in caricatura, deve pur prendere una qualche apparenza di serietà. Proporre, per esempio, un premio all'inventore delle donne fedeli e della felicità coniugale � materia di caricatura, attesa l'impossibilità della cosa; e l'ironia ti riesce fredda, perch� la sua base � una finzione che per poco acquisti la tua fede; e qui l'impossibilità è palese.
Così quella Proposta di premi fatta all'Accademia dei Sillografi e volta a porre in ridicolo il secolo delle macchine, la quale dovrebbe essere una caricatura umoristica, fallisce al suo scopo perch� trattata con ironia, malgrado che lo scrittore con modo ingegnoso cerchi di render credibili cose impossibili. Il medesimo può dirsi dell'ironia nel Tristano. Leopardi vuol far credersi un convertito, o che abbia fede ora a tutte quelle cose a cui crede il secolo, cio� a dire alla falsità della vita, alla perfettibilità indefinita dell'uomo, sì che la umana specie vada ogni giorno migliorando e i buoni crescano continuamente, e che il secolo sia superiore a tutti quelli passati e cose simili.
Ma l'ironia è uccisa quasi nel tempo stesso che � nata per la serietà delle cose in contrario, ed � di fattura così grossolana che non la può dare a intendere neppure a quel melenso amico che l'ode. Il quale, destituito di ogni personalità, e piuttosto un automa o pappagallo che uomo, sta lì unicamente perch� Leopardi si sfoghi, e dica tutto quello che gli sta nel cuore.
Ma se l'ironia � insipida e riesce una freddura, il dialogo, posto pure che sia in sostanza un soliloquio, è una prosa piena di sentimento. Leopardi si è dimenticato di quel suo tipo astratto e rigido di prosa intellettuale, ove non debba entrare immagine, n� sentimento, e si lascia dietro ogni imitazione antica e classica. Ci si sente la prosa dei suoi diciotto anni, quando scriveva a Giordani, un ritorno di gioventù. Il cuore, lungamente crucciato e compresso, trabocca. Gli altri dialoghi sentono più o meno di solitudine, di attriti astratti, non sperimentati nella comunanza umana. Ora quei filosofi del progresso e dei lumi ch'egli si era sforzato di beffeggiare socraticamente, gli stanno lì in presenza, e beffeggiano lui a loro volta. A sentire questi felici mortali, Leopardi aveva linguaggio di malato, e giudicava il mondo col suo umor nero, e la sua salvatichezza, e la sua inimicizia degli uomini era dispetto di vanità offesa, e non intendeva il secolo, e dai suoi libri veniva molto male. Leopardi piglia un tono ironico, ma il cuore è pieno, e prorompe fin dal principio. Faccia livida e labbra convulse, non possono ridere. E alza subito il tono sdegnoso, altero, sprezzante. Diresti che, già sentendo la morte, si alzi egli medesimo il piedistallo e scriva il suo epitaffio. Il Tristano ha la solennità di un testamento.
Qui la prosa ha calore e pienezza e rigoglio, e corre svelta e libera, con andatura quasi moderna. Ci si sente il fiato del secolo, un ambiente vivo. Il frizzo è amaro, il sarcasmo � pungente, l'ira � eloquente; tutto viene da passione vera. L'ultima pagina sembra una variazione dell'ultima strofa in Amore e Morte, una melodia che si continua.
I dialoghi e la altre prose di Giacomo Leopardi sono inferiori alla sua poesie, e valgono meno per se stesse che a illustrar quelle. Nondimeno vi si scorge un ingegno superiore, e una formidabile coesione e consistenza d'idee. Come filosofo, gli manca sufficienza di studi, esattezza di analisi e altezza di sguardo. Pura � in lui un vigor logico, di cui in Italia � raro l'esempio, e spesso non sai come cavarti da quella stretta. La sua infinita erudizione e l'educazione del suo spirito, classica e antica, ricoprono di una certa aria pedantesca la sua originalità.
Un serio valore filosofico non hanno i suoi scritti in prosa. E quanto ai dialoghi, se qua e là possiamo notare potenza d'invenzione e fecondità di posizioni cavate dallo stesso fondo d'idee, la sterilità dallo sviluppo e il difetto di genialità comica toglie ch'essi siano perfetta opera di arte.
Il Tristano ci annunzia un Leopardi, già da un pezzo mescolato tra gli uomini, in ambiente vivo e moderno.
SGUARDO SINTETICO ALLO SVOLGIMENTO SPIRITUALE DEL POETA
Leopardi non � giunto che assai tardi a conquistare la sua personalità. Riceveva vivissime le impressioni che gli venivano dalla casa paterna a dall'ambiente paesano, e dai suoi libri e dai suoi malanni e dagli amici. Queste diverse influenze sono visibili nel suo pensiero. E come � naturale, dapprima riceveva più che non dava. Eppure anche nell'età più giovane si vede una libertà di giudizio, un acume di riflessione ed una indipendenza di carattere, che ti fanno intravedere una individualità distinta e precoce.
Prima fu tutto suo padre, vale a dire un miscuglio di secolo decimottavo e di secolo decimonono reazionario. Aveva nel cervello molta parte della biblioteca, ma tutte quelle sue conoscenze erano erudizione, non erano ancora pensiero. Fin d'allora aveva uso, come fanno gl'ingegni eletti, di osservare e notare tutto quello che gli faceva impressione, sia in se stesso, sia nelle cose di fuori : osservazioni e note, che poi raccolte furono pubblicate sotto il nome di Pensieri (Zibaldone)
(Questa "officina" di pensieri (Leopardi la lasciò a Ranieri, e lui dopo dopo averla conservata gelosamente per ciquant'anni, morendo la lasciò in eredità a due donne di servizio e solo con molta fatica fu recuperato dallo Stato Italiano) è oggi racchiusa nello "Zibaldone" , edizione curata dopo un ventennale lavoro di catalogazione di Giuseppe Pacella. E' uscito nel 1991 in tre corposi volumi (4010 pagine) in due edizioni; una della Peruzzi in facsimile delle carte napoletane (4.526 fogli vergati dal Poeta) purtroppo costosissima, e l'altra della Garzanti, costo 280.000 (nel 1991).
L'opera ci consente, come mai era finora accaduto, di valutare i libri su cui Leopardi lavorò, di rendersi davvero conto di quali furono le sue fonti, di misurare in sostanza l'imput della sua riflessione.
Negli ultimi cinquant'anni Leopardi ha così visto crescere la fortuna del suo pensiero. Da De Sanctis a Togliatti ai fautori del "Leopardi progressivo" proprio queste pagine dello Zibaldone, hanno promosso il solitario poeta recanatese a profeta dell'Italia laica.
Franco Brevini nel farme la recensione, scrive che si tratta di "...una generosa sopravvalutazione, se situiamo le meditazioni leopardiane in un orizzonte europeo. Esso non ci impedisce tuttavia di cogliere, come già Nietzsche, l'altissima lezione della sua prosa, che ci ha offerto un modello probabilmente senza confronti, anche di fronte ai migliori esiti manzoniani") (Ndr.)
Alcuni "pensieri" furono al tempo di De Sanctis, visionati, e annotati dall'autore di queste pagine; ed infatti scrive:
"Nei suoi manoscritti, trovi questo pensiero:
"Tutto è o può essere contento di se stesso, eccetto l'uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella delle altre cose".
Quando scrisse questa osservazione credeva ancora alla immortalità dell'anima. E in quei manoscritti troviamo notate alcune canzonette popolari di Recanati, tra le quali questi due bei versi:
"Io benedico chi t'ha fatto l'occhi,
Che te l'ha fatti tanto 'nnamorati....
E insieme trovi alcuni fatterelli, che gli avevano fatto impressione, come di quel villano recanatese, che venduto a un macellaio il suo bue, e vedutolo stramazzare, si pose a piangere dirottamente.
Quest'abitudine a mettere in iscritto le sue osservazioni mostra già un cervello attivo, cha reagisce sulle sua impressioni. E anche nei suoi Progetti d'inni e nel suo Saggio sugli errori popolari degli antichi si vedono i segni di questa reazione, rivelatrice di animo non servile.
La conoscenza del Giordani dovette molto per aprirgli la mente. Anzi Monaldo, suo padre, credette addirittura che fosse stato lui il demone tentatore. -"E non pensava - annota il figlio- che se mi voleva altro da quello che sono, doveva farmi in un altro modo".
Il giovane, a diciotto anni, fu quello ch'era in gran parte la nuova generazione, un patriota e un libero pensatore. E venne a questo, più per imitazione e per moda, che per crisi intellettuale e morale. Nessuna orma rimane di questo passaggio: tanto parve a lui cosa naturale. E in verità, se noi riandiamo ai primi anni nostri, ci vediamo lo stesso fenomeno. Ci trovammo patrioti e liberi pensatori, senz'accorgercene. Di questa età un'orma brillante sono le due Canzoni patriottiche.
Animo concentrato e meditativo, aguzzo dalla solitudine e dal dolore, inetto all'azione, ammalato di noia, venne presto per lui il momento critico dell'esistenza. - E già negl'Idilli si vede tutta una serie di sentimenti e di impressioni, fissata e compendiata sotto forma di sentenze nella Canzone al Mai. In quel tempo cominciavano i suoi studi filosofici; aveva studiato le parole: allora studiava le cose. I libri acquistano un nuovo significato; egli fa osservazioni sue, nota le sue impressioni, vedi libertà ed originalità di giudizio. Ecco una sua nota sopra Anacreonte:
"Io, per esprimere l'effetto indefinibile che fanno in me le Odi di Anacreonte, non so trovare similitudine ed esempio più adatto di un alito passeggero di venticello fresco nell'estate, odorifero e ricreante, che tutto in un momento vi ristora in certo modo, e vi apre come il respiro e il cuore con una certa allegria; ma prima che voi possiate appagarvi pienamente di quel piacere, ovvero analizzarne la qualità, e distinguere perch� vi sentite così refrigerato, già quello spiro � passato; conforme appunto avviene in Anacreonte; che è quella sensazione indefinibile e quasi istantanea; e se volete analizzarla vi sfugge, non la sentite più; tornate a leggere, vi restano in mano le parole sole e secche; quell'arietta per così dire è fuggita, e appena vi potete ricordare in confuso la sensazione che vi hanno prodotta un momento fa quelle stesse parole che avete sotto gli occhi".
Ed ecco un'altra nota sopra Monti:
"Nel Monti è pregevole e si può dire originale è propria sua, volubilità, armonia, mollezza, cedevolezza, eleganza, dignità graziosa, o dignitosa grazia del verso.... Ma tutto quello che spetta all'anima, al fuoco, all'affetto, all'impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero, gli manca affatto. Egli è un poeta veramente dell'orecchio e dell'immaginazione; del cuore in nessun modo".
Curiosità ed esattezza di osservazione, rettitudine d'impressioni, giustezza di giudizio, sono qualità virili di un ingegno penetrativo, che qui si manifestano chiaramente.
Conoscenze filosofiche ne aveva, di quelle sparse, più simili a notizie che a dottrina. Conosceva soprattutto la filosofia greca, affezionatissimo a Platone, come sono per lo più i giovani. Aveva simpatia non piccola per la filosofia stoica, come quella che mirava più a regola di vita che a disquisizioni metafisiche. Cartesio, Leibniz, Malebranche, Pascal non gli erano ignoti, quantunque non risulti che ci abbia fatti sopra studi peculiari. Quando, sovraccarico di studi classici, si gettò ai moderni, cominciò con la lingua italiana, e per consiglio di Giordani fece studio paziente dei trecentisti, e voltatosi poi alla filosofia o come egli dice alle cose, non pot� sottrarsi all'influenza di Voltaire, di Locke, di Condillac. La lettera che scrisse a Jacopsenn nel suo ritorno di Roma � in linguaggio prettamente di sensista; perfino la virtù è chiamata sensibilità: "je ne fair aucune diff�rence de la sensibilit� à ce qu'on appelle vertu".
Questa lettera, scritta con chiarezza e fermezza di linguaggio filosofico, suppone non solo una lunga elaborazione di questa materia, ma ch'essa sia già nella mente dello scrittore architettata a modo di sistema. E il sistema non rimase nella mente, anzi penetra in tutte le forme della sua esistenza, attinge tutto l'uomo. Questo fa la sua differenza da Schopenhauer, suo coetaneo, il quale nel 1819, quando Leopardi scriveva gli Idilli, pubblicava la sua opera principale sulla Volontà. S'incontrano nello speculare; ma nel Tedesco la speculazione ha nessunissima influenza sulla vita, dove in Leoparli è tutta la vita in tutte le sue forme. Quel complesso d'idee e di sentimenti, che a poco a poco si era andato raccogliendo nel suo spirito in forma di sistema e che fu la sua filosofia, diviene lo spirito de' suoi versi e delle sue prose; uno spirito originale, fuori dell'ambiente comune, espressione di una personalità spiccata e indipendente. Così Leopardi acquistò un carattere ed una fisionomia.
E a quel tempo mirava pure a farsi una forma propria nel verso e nella prosa, secondo certi tipi che gli giravano per la mente. La grande difficoltà era soprattutto per la prosa. Scriveva prima un italiano mezzo francese, poi cadde nell'affettazione del purismo; vagheggiava un tipo di prosa semplice ed efficace, e non lo accontentava Giordani; assai meno padre Cesari. Già da parecchi anni scriveva pensieri, note, riflessioni, prosette satiriche, abbozzi e progetti; il tutto tirato giù alla buona, in forma provvisoria, che pur ti colpisce per la chiarezza e la concisione. Fece pure volgarizzazioni di greco, nei quali � visibile quella sua rara perizia e padronanza della lingua. Con questi apparecchi ed esercizi pose mano ai Dialoghi, intermezzi a quando a quando da subitanee ispirazioni poetiche. Non c'era più il petrarchista, e non c'era più il purista. C'era Leopardi.
Venivano fuori nuove canzoni e nuove prose. Era il tempo che la sua salute era tollerabile, e si era assuefatto alla vita ordinaria, e il cuore stava cheto: e l'immaginazione e l'intelletto lavoravano. Studiava il vero, per mera curiosità, come scrive Giordani. E in quella esplorazione acquistò un abito di sottigliezza ed un certo risetto falso, che sono come il demone delle sue prose. Felice quando gli venivano momenti d'ispirazione, e il sangue gli ribolliva, e scriveva le Nuove Canzoni, dove pure filtrava quello spirito e prendeva forma di umor nero e denso.
Nella Canzone al Mai è già bella e formulata tutta questa filosofia. Leopardi aveva allora ventidue anni. E ci batte e ci ribatte tanto, in prosa e in verso, che oramai non � difficile darne un concetto giusto.
In quella Canzone � affermata in forma di sentenza la nullità delle cose, e solo cose vere il dolore e la morte. Rimanevano le illusioni, il caro immaginare; e la scienza ha distrutto anche questo.
.... A noi presso la culla
Immoto siede, e su la tomba, il nulla.
... Conosciuto il mondo
Non cresce, anzi si scema....
Ecco tutto è simile, e discoprendo,
Solo il nulla s'accresce. A noi ti vieta,
Il vero appena � giunto.
O caro immaginar....
.... Or che resta? or poi che il verde
E spogliato alle cose ? Il certo e solo
Veder che tutto � vano, altro che il duolo.
.... Morte domanda
Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
Tutto questo potrebbe apparire una retorica di occasione, suggerita dalla scoperta del Mai. Ma questa retorica sarebbe in aperta contraddizione con I' argomento, perch� cancella tutte le speranze di risurrezione italica, che quella scoperta poteva far sorgere nel cuore del patriota. No, non � retorica; � l'eco dolorosa d'impressioni e di sentimenti, che già prendevano nella mente del poeta forma di dottrina.
Continuando negli studi filosofici, non cercò il vero con imparziale curiosità, come scrive a Giordani, ma cercò sostegni di erudizione e di ragionamenti alla sua dottrina, divenuta la sua idea fissa. E perciò la sua filosofia non ha un colore di questo o di quel sistema filosofico, ma ha un color suo proprio e personale. Trovi nelle diverse sue parti reminiscenze stoiche, platoniche, sensiste, una erudizione varia, soprattutto classica. Ma il tutto � pensiero originale, e per la inesorabilità delle conclusioni e per la sua compenetrazione in tutte le forza della vita.
L'infelicità sua propria, in età così giovane, lo condusse di buon'ora alla meditazione sul male e sul dolore: problema agitato molte e poco ancora risolte, non sapendosi spiegare l'esistenza del male nella vita.
Queste, che potrebbe parere un problema secondario, � per lui tutta la filosofia, come quello che implica in s� lo scopo e il significato della vita. Le religioni e le filosofie non hanno altra origine e non altra base che darci una spiegazione del mondo, e determinare secondo quella la nostra condotta morale. Cercare questa spiegazione non fu per Leopardi mera curiosità, anzi lo vediamo alieno da speculazioni astratte e metafisiche. Non � che lui non abbia pure la sua metafisica; ma è un semplice presupposto della sua filosofia, la quale è indirizzata principalmente alla vita pratica. Perciò egli � più un moralista che un metafisico.
Del resto la sua metafisica è compendiata in una sola frase: Arcano è tutto. Cosa è il mondo e a che nato e come: mistero! Rigetta tutte le spiegazioni religiose e filosofiche. Il nikil scire è il suo sapere. Ciò che dà al suo filosofare un carattere scettico, leggermente ironico.
Non � per nulla disposto ad ammettere cause soprannaturali, o ipotesi fantastiche. Ingegno positivo e chiarissime, s'accosta più ai sensisti.
E in fondo in fondo le sue opinioni sul mondo sono quelle che si trovano messe in bocca di Strabone da Lampsaco, e che si possono ridurre a quel sistema, la cui base è materia e forza, o in una sola parola Natura, personificata e poetizzata. Al di sopra non c'� altro che il Fato, forza misteriosa e cieca. Natura e Fato sono due persone poetiche, sotto le quali si nasconde una concezione del mondo essenzialmente materialista. A qual fine operi Natura, anche questo � mistero.
O la vita non ha scopo, o non può avere altro scopo che la felicità. Ma l'esperienza insegna subito che la felicità non può esser raggiunta. Questo che è il luogo comune di poeti e di filosofi, antichi e moderni, ha in Leopardi l'originalità di un sentimento personale. La sua costituzione fisica, la solitudine, la concentrazione dovettero di buon'ora abituarle a vedere scuro, e sentire nella propria l'infelicità della vita. Nella prima innocenza delle cose si può credere che l'essere felice sia premio del bene e pena del male. Ma l'esperienza toglie via anche questa illusione, e al giovane pare di aver fatta una scoperta quando fa gridare a Bruto irritato:
.... dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela?
Appunto queste contraddizioni fra la teoria e la pratica, questa felicità posta a scopo della vita, e nondimeno irraggiungibile anche ai buoni, e spesso l'empietà fortunata e la virtù infelice, costituiscono il problema dell'esistenza del male, che tutte le religioni risolvono col porre una seconda vita, dove l'equilibrio sia restituito, e fatta la giustizia.
Il mistero delle cose e l' infelicità della vita sono temi comuni a tutte le religioni, specialmente al Cristianesimo. Dio � l'inarrivabile, l'inesplicabile, il mistero che nessun occhio può indagare senza empietà. E l'infelicità umana � uno dei misteri di Dio, che bisogna accettare con rassegnazione, perch� al presuntuoso che vuol ficcarci l'occhio dentro, Dio dice: "Chi è costui che oscura il consiglio con i ragionamenti senza scienza? ".
Il libro di Giobbe, i Salmi, i Proverbi, i Treni esprimono con grande energia questo doppio sentimento, la cui Musa eloquente e pensosa ispirava Agostino e Pascal.
Fin qui Leopardi s'incontra con la Bibbia, quantunque sia in lui assai poco di biblico e molto di pagano e di classico; e quando va in cerca di compagni, cita più volentieri Omero e Pindaro che Davide e Giobbe. Ma dove la Bibbia e tutte le teologie risolvono le contraddizioni nella seconda vita, sì che la tragedia si volti in una divina commedia, Leopardi, che vuol stare in su l'esperienza, a una seconda vita non crede, rimane in tutte le ansietà e i dolori della tragedia umana.
Posto che lo scopo della vita sia la felicità, come anche i sensisti ammettevano, e a lui non doveva essere ignoto Elvezio, e posto che nel fatto la felicità non può essere raggiunta a confessione di tutti, viene che la vita non ha scopo. E poich� la vita � moto o azione, vivre est sentir, aimer, esp�rer, viene che tutte le nostre azioni non hanno scopo, e non sono altro che ozio, com'egli dice a Pepoli, sono vanità e nulla.
Questo sentimento della vanità universale � pure biblico, è il detto di Salomone, � il pulvis et umbra. Ma dove nella Bibbia e nei Padri l'eterno sparire ha dirimpetto a s� un eterno apparire in Dio, solo realtà e verità, in Leopardi la conclusione di questa infinita vanità delle cose, e sola verità e sola realtà, � la morte. Il fine naturale dell'essere � il morire. La natura partorisce e nutre per distruggere. Dunque la sola cosa vera, il solo scopo dell'essere � la morte. Tutto l'altro � falsa apparenza o illusione, � vanità. Il sentimento di questa vanità � la noia, e perciò nella vita non c'� altro di reale che la noia e il dolore: Amaro e noia la vita. La verità della vita � il patire, � l'infelicità.
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa.
Infelicità e mistero, ecco l'ultima parola di tutto il discorso. Maggiore � la civiltà, e più chiare appaiono queste conclusioni. Pìù l'intelletto � adulto, e meno possono le illusioni e le immaginazioni. Il mondo nella sua giovinezza e l'uomo nella prima età, prendono per cosa reale e salda tutto quello che la ragione chiarisce poi ombra vana: perciò sono meno infelici. Adunque la civiltà, la ragione, la scienza, il progresso, non sono medicina, anzi sono veleno, e aumentano, non scemano la nostra infelicità.
Questa maledizione alla scienza � anche cosa biblica. Tutte le religioni hanno in sospetto la scienza, come forza distruttiva della fede. E la scienza a sua volta, quando ha coscienza del suo potere, ne ha anche la superbia. Tutto l'orgoglio del razionalismo è in quel motto di Pascal: "l'uomo è una canna pensante", così fragile per la sua natura, così forte per la sua ragione. Leopardi rigetta fede e scienza, nega teologia e filosofia, rimane nel nulla, l'infinita vanità del tutto. Perciò la sua teoria � morte di ogni teologia, di ogni poesia e di ogni filosofia: il nulla universale.
Eppure chi guarda in fondo, vede Leopardi più vicino alla fede che alla scienza, invidiando quasi quelli che credono a Dio e alla immortalità dell'anima, come sono le nazioni e gli uomini giovani, e riandando con l'occhio lacrimoso di desiderio quella sua prima età, quando sapeva meno e credeva più. Il poeta desta una simpatia, la quale si tira dietro anche il filosofo.
Conseguenza naturale di una teoria, la cui base � il mistero nelle origini e nella finalità del mondo e dell'uomo, e la vita una illusione e sola realtà la morte o il nulla, non può essere altro che il suicidio. E questa � la conclusione nel Bruto e nella Saffo.
Teorie simili non hanno morale, nulla hanno a dire per la vita pratica. La conseguenza animalesca � l'edamur et bibamus, godere la vita, perch� port mortem nulla voluptas. Ma questo godere la vita, o, come si dice, il piacere, non è felicità, � anch'esso illusione: e allora che resta? il morire.
Però a questa conseguenza, che viene diritta da quelle premesse, ripugnano i più eletti spiriti. Sappiamo a quale finezza dovette aver ricorso Kant per conciliare la vita pratica con le sue deduzioni speculative.
Anche qui Leopardi s'incontra con Schopenhauer. Il suicidio soddisfa in lui il poeta, e anche l'uomo nel momento buio della vita. Una catastrofe come quella di Bruto sorride alla sua immaginazione quando il pover'uomo si trova proprio alle strette e non può durare la vita. Ma il filosofo sfugge alla catena del raziocinio, e sa conciliare la vita pratica e morale con quel nulla universale. Perch� intendere è altro che volere, e l'uomo fa quello che vuole, e non quello che intende.
La meravigliosa unità dantesca del posse, nosse, velle è rotta così in Leopardi, come in Schopenhauer. La vita non appartiene all'intelletto, ma alla volontà; e l'uomo vive e vuol vivere, ancorch� l'intelletto gli scopra la vanità della vita. Finch� l'immaginazione e il sentimento sono vivi, nascono nel pensiero care illusioni che te allettano alla vita, come nei popoli e negli uomini giovani. E anche quando la care illusioni sono dileguate al soffio malefico della scienza o del vero, la vita rimane intatta, quando ci sia la forza d'immaginare, di sentire e di amare: che � appunto il vivere.
Dice l'intelletto: l'amore � illusione, sola verità � la morte. E io amo, e vivo, e voglio vivere. Il cuore rifà la vita che l'intelletto distrugge. Perciò amore e morte sono forze fraterna; l'una finisce nell'altra. La vita vuol morire. E la morte vuol vivere. Dalla vita si genera la morte e dalla morte rinasce la vita.
Poich� il cuore aiutato dall'immaginazione si ribella all'intelletto, e corre dietro alla vita, pur conoscendola cosa vana, � possibile una morale o una vita pratica.
La cui base � questa, che l'uomo, e come individuo e come essere collettivo, deve fare ogni opera a restaurare le illusioni che ci rendono cara la vita, e trattarle come cosa salda, ancorch� innanzi all'intelletto siano chiarite ombre. A ciò se richiede una educazione, ginnastica del corpo e dello spirito, che serbi integre la forze dell'immaginazione e della sensibilità, vale a dire le forze della vita.
Nella infelicità universale il primo sentimento umano � la compassione reciproca, essendo tutti vittima della matrigna natura, o piuttosto del Fato; perch� � da natura che abbiamo le dolci illusioni, che c'incoraggiano a vivere. Onde nasce il concetto della fratellanza universale o della solidarietà umana, l'unione di tutte contro il Fato, nemico di tutte.
Queste sono le aspirazioni morale de Giacomo Leopardi, tirate coi denti, non dedotta bene, anzi in contraddizione con le premesse. Si veda in questo processo quella scissione della volontà e dell'intelletto, che � pur la base del suo edificio poetico. La sua utopia morale � una confederazione umana di mutua assicurazione contro l'azione malefica dell'intelletto o della scienza. Al che si riesce con rinvigorire le forze vitali, renderle atta alla resistenza opponendo il sentimento all'intelletto. La vita ha quel valore che le dà l'immaginazione e il sentimento, e più queste forze sono educate e sviluppate, più cresce quel valore, ancorch� sappiamo che sia tutto un'illusione.
Queste conclusioni morale sono la scappatoia, per la quale Leopardi sfugge alle strette mortale dal suo intelletto. Lo chiamavano un misantropo, un nemico del genere umano. Ed egli può con questa scappatoia rientrare in grembo dall'umanità ed esservi tollerato.
Sa non fosse una scappatoia, certo inconsapevole, ma fosse una persuasione efficace, Leopardi metterebbe il suo ingegno ai servigi di questa causa, e sarebbe un potente apostolo di fratellanza e di solidarietà umana. Ma queste idee egli le fa valere nelle lettere agli amici, ai quale bisogna pur parlare un linguaggio umano, soprattutto nella lettera a Jacopsenn, e le usa qua e là come attenuante della sua dottrina fatalistica. In fondo il suo pensiero � questo, che così � il mondo, e così � l'uomo, e non c'� rimedio. Ammette in astratto gli effetti salutari di una buona educazione fisica e morale e di una confederazione umana, ma non ha fede, non crede possa avvenire, e non ci mette di suo che la tesi, una semplice enunciazione così di passaggio.
Nondimeno, anche ammessa nella sua crudezza irrimediabile quella sua vanità del tutto, una certa condotta morale nella vita pratica � possibile. Qui gli soccorrono i greci, massime gli stoici, la cui morale intendeva appunto a sostenere l'uomo in mezzo ai mali e alle vicende di un mondo corrotto che si disfaceva lentamente.
Quando Leopardi si trova in momenti bui, proclama l'irrimediabile e il fatale con la disperazione di Bruto. Ma quando si accheta e se assuefà alla vita, trova la medicina nella morale stoica: surtine et abstine. Il suo specchio sono i moralisti greci appartenenti a quella gradazione, e li volgarizza, e di là estrae pensieri e osservazione.
Si � visto che egli pregò e strapregò lo Stella a pubblicargli quei suoi volgarizzamenti, venuti poi alla luce dopo la sua morte. Gettando un'occhiata sulle osservazioni ch'egli vi aggiunge, si può vedere quale arano le sue idee morali in quel periodo, relativamente tranquillo, della sua vita.
Quelle idee morali sono appunto la filosofia, o, come egli dice, la pratica filosofica di quel genere di vita che allora conduceva, quando esaurita le prime disperazioni giovanili si era preparato a vivere, come tutti quanti, cioè in modo ordinario e volgare. Egli nota che gli uomini forti desiderano la felicità negata dal Fato, e contrastano ferocemente alla necessità, come i Sette a Tebe di Eschilo, e gli altri magnanimi dagli antichi tempi. La morale stoica che raccomanda la tranquillità dell'animo e uno stato libero da passione, e non darsi pensiero dalle cose esterne, non � fatta per quelli, ma per gli uomini deboli, facilmente rassegnati.
"Io, che dopo molti travagli dell'animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad
esecuzione".
Il sugo di questa morale stoica praticata da Leopardi a inculcata a tutti, è in questo, che, essendo negata all'uomo la felicità, lottare contro il Fato non vincibile, e consumarsi di desiderii vani, � stoltezza; e par contrario uno stato di pace a quasi di soggezione dell'animo e di servitù tranquilla, quantunque niente abbia di generoso, � pure conforme a ragione, conveniente alla natura mortale, e libera da una grandissima parte delle molestie, degli affanni e dei doveri, di che la vita nostra suol essere tribolata. Non curarsi di essere beato n� fuggire di essere infelice, qui � la cima e la somma sì della filosofia di Epitteto, e di tutta la sapienza umana.
Si capisce ora perch� gli era così caro il Manuale di Epitteto, e stimava il suo volgarizzamento come il suo lavoro più importante, e si dava con amore anche alla traduzione d'Isocrate. Trovava lì quella sua morale di tranquillità e di rassegnazione al Fato, di cui egli medesimo era esempio. Il Manuale di Epitteto finisce con
queste parole:
"Menami, o Giove, e con Giove, tu, o Destino, in quella qualsiasi parte che mi avete destinato; e io vi seguirò di buon cuore. Che se io non volessi, io mi renderei un tristo e un da poco, e, nientemeno a ogni modo vi seguirei".
Con questa filosofia pratica di Epitteto concorda la morale cristiana, la quale ha per base la rassegnazione ai voleri divini imperscrutabili. Quello che in Epitteto � il Savio, nella morale cristiana � il Santo. Idee simili pullulano in tempi guasti e tristi, nei quali all'uomo non rimane che ritirarsi in se stesso tranquillamente e fuggire le perturbazioni dell'animo. Nell'uso volgare seguire la filosofia, o essere un filosofo si dice appunto in questo senso.
Leopardi, che nella sua giovinezza si dibatte contro il destino, finisce in questa quiete raccomandata da Epitteto e da Isocrate, non senza qualche momento di ribellione suicida in giorni tristi.
Accanto a questa filosofia dalla consolazione e della rassegnazione, ha una morale eroica e virile che predica la lotta contro il male e, come dice Leopardi, contro il Fato a la Natura. Questa lotta era possibile negli antichi tempi, quando l'intelletto non era ancora adulto, e gli uomini si governavano con l'immaginazione e col sentimento, e popolavano di felici errori il mondo. Ma la lotta oggi non ha senso, appunto perch� l'intelletto divenuto adulto giudica errori ed illusioni quei nobili fini che gli antichi seguivano nella vita, come virtù, gloria, sapere. La lotta non può avare altro scopo che di ravvivare le forze dell'immaginazione e del sentimento, le quali ci allettino a quei fini, posto pure che siano mere illusioni.
Questa morale eroica, fondata sull'affratellamento di tutti gli uomini contro il destino, quantunque rimanga astratta e sia contraddittoria ed importante, � la parte più originale e altamente poetica del pensiero leopardiano.
Fine
DOPO QUESTO LUNGO CAPITOLO SU LEOPARDI,
NELLA SEZIONE LETTERATURA, AFFRONTEREMO IL CAPITOLO
del "CONTESTO STORICO"