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Francesco De Sanctis "Antologia critica sugli scrittori italiani" e "Storia della letteratura italiana"
PESSIMISMO
CONTRADDITORIO DI LEOPARDI
LA CANZONE AD ANGELO MAI
( qui la canzone ad Angelo Mai )
Quelli che gridano Leopardi poeta del nulla, errano. Sono poeti del nulla quelli che lo amano e gustano la sua voluttà, perch� anche il nulla ha le sue voluttà, come l'assenzio o l'oppio. È la voluttà della morte, il cupio mori, il piegare addormentato il volto nel suo virgineo seno, l'ultimo sorriso dell'uomo stanco, che ha in orrore la vita e la disprezza. Questo c'�, ma � appena un episodio in questa poetica rappresentazione del mondo. Il più spesso Leopardi aborre il nulla, e aborre perfino il pensiero, la ragione, la scienza che glielo impongono. E ama e pregia e desidera la vita, di cui non si sente stanco, ma privo; e se la rappresenta con i più ricchi colori dell'immaginazione, e le corre appresso con i più impazienti moti del desiderio.
Odia il vero e ama le illusioni, le care illusioni, ed � perciò non solo poeta, ma uomo, ha viscere umane e commuove profondamente ogni cuore di uomo.
Questo era l'anno che si dilatava sempre più l'ardore patriottico nelle classi intelligenti, e per mezzo de' Carbonari si comunicava ai più piccoli borghi. La Spagna dava l'esempio all' Italia, e l'incendio avvampando divenne la rivoluzione del venti e del ventuno. Leopardi era in corrispondenza con Montani, che avute le sue prime canzoni augurava in lui il futuro poeta della libertà. E anche Giordani in lui vagheggiava il perfetto scrittore italiano, che doveva guadagnare alla libertà soprattutto l'aristocrazia. Questi i disegni sul giovane, che affranto dal male e dalla solitudine sul finire del 1819 scriveva a Giordani:
"Amami tranquillamente come non destinato a veruna cosa, anzi certo d'esser già vissuto".
Ma non bisogna prendere alla lettera questa e simili frasi, che ritornano spesso nella sua corrispondenza. Il cuore rimaneva giovane, e batteva ad ogni nuova impressione. Era nel suo petto una fonte inesausta d'amore e di poesia, che traboccava al minimo tocco della cortese natura. Quel lamentarsi continuo di non esser più buono a nulla era il sospiro di una vocazione che gli fuggiva dinanzi, ma di cui si sentiva ancora la forza al di dentro. In mezzo al suo abbattimento gli usciva dal petto commosso quel grido: « Sarò io mai qualche cosa di grande? ».
Nel suo segreto non si sentiva al di sotto dei più grandi. La sventura gli poteva togliere la speranza, non il desiderio della gloria, e non la coscienza del suo valore. Perciò, non potendo studiare, faceva progetti e schizzi, poetava, meditava, pur dicendo di aver vissuto. La noia che sentiva in sì alto grado era il sentimento della sua esistenza vacua e insieme la coscienza di tante sue forze che rimanevano vane. Indi i continui abbattimenti e risorgimenti. La lotta che c'� nella sua poesia, era nella sua vita.Il 17 dicembre 1819 scriveva a Giordani che non era destinato a veruna cosa, e chiama la sua anima assiderata e rabbrividita, e assicura di esser già vissuto. Ma il 10 gennaio del 1820 scrive una lettera al Mai con un giovanile entusiasmo. Mentiva allora, o mentisce adesso? Niente affatto. Sincero l'una e l'altra volta. Gli ignoranti parlano dei misteri dell'anima; ma l'anima non � un mistero se non a quelli che non la sanno esplorare. Erano queste, contraddizioni naturalissime.
Monti, Giordani e Mai erano per Leopardi una triade, che rappresentava l'eccellenza nella coltura italiana. Seguiva il Mai passo a passo, e ciascuna sua scoperta aveva il suo riscontro nel giovane, che vi aggiungeva illustrazioni, commenti, emendazioni. - In questi giorni si sparse in Europa il grido di una nuova scoperta anche più meravigliosa. Non si trattava di Frontone o di Dionigi di Alicarnasso, o di altri minori. Si trattava nientemeno di Cicerone. Il Mai aveva ritrovata la sua opera De Republica, e l'andava pubblicando allora in Roma.
Il fatto parve una meraviglia da risvegliare i più sonnacchiosi e deboli, e anche il giovane, ancorch� la sua salute fosse interamente disfatta, da non potere fissar la mente in qualunque pensiero, si sentì stimolare dal desiderio di non restar negligente in un successo così felice. Il 17 dicembre si dice già vissuto. Il 10 gennaio, percosso di meraviglia, sente in sè rivivere gli antichi spiriti, e vuole scrivere un libro su tutte le scoperte del Mai, e gli chiede le bozze della nuova opera, e ricorda i tempi dei Petrarca e dei Poggi, quando ogni giorno era illustrato da una nuova scoperta classica, e la meraviglia e la gioia dei letterati non trovava riposo. Tutto questo � nella lettera, che il 10 gennaio, su quel primo calore, scrisse al Mai.
Ma il Mai non gli mandò le bozze, e di quel suo disegno non ne fece più niente. La salute disfatta non gli consentiva lavori lunghi e pazienti, come quello sulla Cronaca di Eusebio. Ma gli consentiva a rari intervalli schizzi e versi. E in uno di questi intervalli quell'entusiasmo di erudito, acceso ancora più da quella esaltazione patriottica che in quell'anno guadagnava tutti, ebbe il suo sfogo nella canzone: Ad Angelo Mai.
Canzone straordinaria, se mai ce ne fu; perch�, se nella parte tecnica poco si discosta dalle altre scritte innanzi, per ricchezza e novità di contenuto sovrasta a quelle di molto. Prima c'era l'artista, già maestro di stile; ora c'è anche il poeta, c'è lui.
L' introduzione � una magnifica sinfonia rumorosa, a piena orchestra, in tre strofe, dove si vede che i suoi malanni niente hanno tolto alla freschezza dell'immaginazione e al calore del sentimento. Rivediamo il giovane nel brio dei suoi venti anni, quando faceva la canzone all'Italia. La scoperta del Mai nella sua immaginazione � la voce antica dei padri, muta sì lunga etade, che ora viene sì forte e sì frequente ai nostri orecchi, ora, perch� questa o nessun'altra � l'ora da ripor mano alla virtù rugginosa degl'Italiani. Ci si sente il poeta del 1820. La scoperta di un erudito � il clamore dei sepolti, � il suolo che dischiude gli eroi dimenticati:I martiri nostri son tutti risorti....
L'entusiasmo del poeta si trasforma in vivo sdegno, quando getta l'occhio sull'Italia presente. Quello sdegno non è che lo stesso entusiasmo, in una forma negativa. Vede negata nell'età presente tutta la grandezza e la gloria del passato, e il paragone accresce lo sdegno
.... Anime prodi,
Ai tetti vostri inonorata, immonda
Plebe successe; al vostro sangue è scherno
E d'opra e di parola
Ogni valor; di vostre eterne lodi
Nè rossor più n� invidia; ozio circonda
I monumenti vostri....
Quest'ultima frase � gigantesca: � la piramide nel deserto. Sono tre strofe in versi magnifici, che contengono il luogo comune della canzone, avviluppata nel classico paludamento, non senza qualche frase convenzionale, com'� il ripor mano alla virtù dell'itala natura.
Il luogo comune � la solita esortazione agli Italiani in nome dei maggiori, e le glorie del passato e le vergogne del presente. E il luogo comune in tre strofe � già esaurito; e se la canzone persistesse in questa via, sarebbe una rifrittura retorica, un ricamo più o meno elegante di un luogo comune.
Ma quell'entusiasmo veniva a cadere nella mente di un giovane che aveva già le sue idee sul mondo, generate da sentimenti che facevano parte della sua natura. E anche nella maggiore esaltazione quelle idee e quei sentimenti restano. Certo, non � un bel modo d'incoraggiare gli Italiani dir loro che l'amore della patria e della gloria e la stessa virtù � una illusione, che tutto � nulla, che il solo dolore � vero. Allora, perchè affannarsi dietro ai maggiori, uomini illusi? Perch� vergognarsi? Questo fa a pugni con la logica; e se la logica fosse norma direttiva dell'arte, la canzone sarebbe sconclusionata e contraddittoria come il mostro oraziano. Ma l'arte non ubbidisce alla logica astratta, come non vi ubbidisce la vita; e spesso ciò che � più maraviglioso nella storia e nell'arte, si allontana più dalla logica. L'arte ha una logica sua che prende i suoi criteri, non dal solo intelletto, ma da tutta l'anima, come � in un dato momento; e perciò l'arte � vita e non � un concetto. La contraddizione che ripugna all'intelletto, � il fenomeno più interessante del cuore umano; � la parte più poetica nella storia delle passioni e delle immaginazioni umane.
Qui c � la stessa contraddizione che era nell'anima del poeta; e se contraddizione non ci fosse, avremmo una freddura retorica estranea all'anima, in forma convenzionale. La logica nel senso comune � la coerenza delle idee, la corrispondenza dei mezzi col fine; la logica dell'arte � la coerenza di linguaggio e di condotta nel gioco combinato di tutte le forze vitali, quando e come operano in un dato momento dell'esistenza, idee, immaginazioni, sentimenti, passioni; stato fisico, morale, intellettuale. È logica di Dante e di Shakespeare, i poeti i più illogici perch� i più veri, i più addentro nei segreti della natura e della storia. - Dico così, perch� spesso nel giudicare dell'arte noi vi introduciamo criteri intellettuali e morali, che le sono estranei.
Che Leopardi senta entusiasmo alla scoperta del Mai e in quell'incendio patriottico che divampa in Italia, questo � nella sua natura, nei suoi studi, nella sua educazione, nel suo cuore e nella sua immaginazione: forze in lui sempre intatte, sempre giovani. Ma che l'entusiasmo gli rifaccia il cervello, proprio allora che nel cervello si affacciava un nuovo aspetto del mondo, questo � contro natura. Anzi a lui non par vero di poter gettare in mezzo a quell'entusiasmo quelle sue idee scettiche, così come allora gli fermentavano nel cervello. E ne è nata una canzone originalissima, che poco resiste al ragionamento, ma che nella sua contraddizione � la potente rivelazione di una nuova poesia. In verità, si crede che tutto � vanità, perch� incitare gli Italiani a correre appresso alle larve? E se spera che si riscuotano al nuovo grido dei padri, come può affermare in modo così assoluto che il male non ha rimedio, perch� non � nella volontà degli uomini, ma nella natura delle cose ? Crede e non crede, spera e non spera. Il suo entusiasmo contiene in s� il suo scetticismo. In questa doppia faccia, in questo Giano leopardiano � a cercare la logica della poesia.
La scoperta del Mai e l'esortazione agl'Italiani non � che un semplice motivo occasionale, è il luogo comune. La poesia nel suo contenuto � la rappresentazione di ciò che nobile e bello gli appare nel passato, sentito con simpatia e calore e desiderio giovanile. Ma il passato non gli si può presentare se non unito alla vergogna presente; in quell'entusiasmo penetra una nuova serie di sentimenti, sdegno, dolore, disprezzo, ironia. - Il suo nullismo, divenutogli abituale, quasi una idea fissa, tinge tutta questa rappresentazione di un colore oscuro e quasi funebre, come di esequie, le esequie di quel bello e nobile passato, che non torna più. L'impressione generale � il desiderio che ti si accende nel petto di quella nobile patria, e il desiderio � prima nel poeta, che maledice il vero, e si stringe affannosamente alle care illusioni.
Eccoci innanzi Atene e Roma. Quei popoli erano felici, perch� natura parlava a loro velata, ed essi prendevano quel velo per la natura essa medesima:
I vetusti divini, a cui natura
Parlò senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi allegràr d'Atene e Roma.
Vuol dire che la natura non si era svelata nella sua verità e nudità, e compariva vestita di tutte le sue illusioni, ch'erano il suo velo ingannevole. La frase � troppo rapida nella sua profondità; � un pensiero che balena e che sarà più tardi la base di un'altra canzone. A questa serenità dell'arte e della vita succede il dolore:
.... Ahi dal dolor comincia e nasce
L'italo canto.
Pure il dolore rivela una fede ancora robusta nelle illusioni; la vita aveva ancora i suoi ideali; perciò non ozio e non noia:
.... anco sdegnosi
Eravam d'ozio turpe, e l'aura a volo
Più faville rapia da questo suolo.
Il piangere del Petrarca era vita, credeva all'amore. Beato lui,
A cui fu vita il pianto ...
Colombo scoperse ignota immensa terra. Più la scienza conosce il mondo, e più il mondo s'impiccolisce, sottratto ai sogni leggiadri e alla lente d'ingrandimento della immaginazione:
A noi ti vieta
Il vero appena è giunto,
O caro immaginar ....
Ariosto era il poeta dell'immaginazione. La vita si componeva di mille vane amenità. Spogliato il verde alle cose, che resta?,
.... Il certo e solo
Veder che tutto è vano, altro che il duolo.
Anche Torquato ebbe le sue illusioni, e le perdette tutte; amore, ultimo inganno di nostra vita, lo abbandonò. E allora il mondo gli parve un deserto, e il nulla ombra reale e salda. Il mondo voleva dargli la ghirlanda ed egli domandava la morte.
Oggi è peggio ancora. Il grande e il raro ha nome di follia; i sommi non sono invidiati, sono non curati; più de' carmi si ascolta il computare. Codarda età, dov'è un miracolo che sia potuto nascere Alfieri.
.... e nullo il seguì, che l'ozio e il brutto
Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto.
Un risetto ironico � la chiusura, con una ripigliata un po' stanca di esortazione agl'Italiani in forma scettica:
Questo secol di fango o vita agogni
E sorga ad atti illustri, o si vergogni.
Questa poesia � il contrapposto del Sogno. Là � la voce di oltre tomba, la voce del vero, entro cui appare fugace l'illusione, l'amore ad una morta. Qui � il risveglio della vita, un'ammirazione entusiastica de' nostri maggiori, entro la quale appare il vero, non con il ghigno di Mefistofele, che se ne rallegra, lui, nemico dell'uomo, ma con sentimento di uomo, che se ne addolora. Questa apparizione scettica poco può incontro ad un'ammirazione tradizionale degli antichi, fortificata dagli studi, e legata coi sogni e gli amori della giovinezza. Perciò quella voce del vero esce fuori in sentenze ben tornite, come: - il nulla immoto presso la culla e su la tomba, e il tutto è vano altro che il duolo, e il vero che ci vieta il caro immaginare; - espressione di un pensiero maturato nel cervello, già formulato, e impaziente di venir fuori alla prima occasione in quella forma astratta e generale. Ma invano vi cerchi la forma del sentimento, quella forma paurosa, dantesca, omicida, che distrugge per sempre ogni illusione, quella forma ch'egli ha trovato nel Sogno.
Qui � lo sfondo del quadro, non � il quadro. Il sentimento � altrove. È in quella splendida evocazione di ombre illustri, che domina la sua immaginazione gli fa battere il cuore, e lo rapisce in ammirazione. Questo � il quadro; l'altro � un color fosco che attenua quelle tinte brillanti e fa da chiaroscuro, e ti rende pensoso.
I contemporanei, usarono i più fermarsi nelle frasi, ammirarono nella canzone la splendida forma classica, e la posero in un fascio con le altre due. I letterati ci trovarono un'aria troppo dotta. Quel po' di erudizione intorno alla terra e ai sogni leggiadri parve soverchia. L'intonazione piacque ai patriotti, e quell'Alfieri che sulla scena mosse guerra ai tiranni fece il giro d'Italia. Quella strana visione del mondo così afflittiva parve ubbia di egra immaginazione, o mezzo artificioso di rilievo, e nessuno ci badò più di tanto. Nessuno vide la serietà e la profondità di quelle ubbie, e quanta elaborazione e che dolori ci stavano sotto. Nessuno presentì dentro quelle un nuovo germe dell'arte.
La canzone � un primo poema del mondo, così com'è visto dal giovane. È come una filosofia della storia, dove tutto � coordinato, come in uno schema. Ha perciò un carattere generale, che trascende Atene, Roma, Italia: intravedi la storia del mondo in una storia particolare, tutto il cielo in un pezzo di cielo. La storia è fatale. - E la fatalità � nello sviluppo naturale dei cervello, nella scienza che sfronda e dissecca la vita, distrugge ad una ad una tutte le illusioni. Nel secolo dei lumi e del progresso questo giovane, che getta uno sguardo scettico nell'avvenire e volge le spalle al secolo di sangue e si rifugia nella contemplazione del passato, doveva parere una stonatura. Ma era una retorica poetica, non si guardava per il sottile, si ammirava la bella forma. In verità, un contenuto nuovo doveva generare una forma sua. Ma � più facile rinnovare le idee, che la forma. Lo stampo rimaneva classico, come glielo avevano suggellato nel cervello gli studi. Eppure il poeta acquista maggior padronanza e sicurezza, e vuol dire tutto a modo suo e in modo nuovo e piccante. Già s'immedesima in s� e vanno via le reminiscenze. Quella visione del mondo, sua, lo aiuta a novità di concetti e di frasi.
C'è in quella visione la glorificazione e la maledizione, l'inno e l'elegia, l'entusiasmo e lo scetticismo, la vita e la scienza; e quello che � contraddizione nello spirito, genera nella espressione una meravigliosa fusione di colori. L'inno svanisce in un ahi!, e il sospiro si trasforma in una esclamazione gioiosa. - C'è il fiorire e l'appassire, il rigoglio della vita col germe della morte che si annunzia subitaneo. - Materia nuova, talora abbozzata e a contorni oscuri, come trattata per la prima volta, e rimasta compassata e quasi incarcerata in quello stampo classico. Talora esce fuori cruda come una sentenza, senza sviluppo e senza eco nell'anima. Manca alla immaginazione il suo elaterio, allo stile la sua fosforescenza. Spigliata e calorosa, dov'è luogo comune, quando la materia � nuova, ti pare spesso l'arido schema che avrà il suo sviluppo in altre poesie.
Così com'è, questa canzone ha una grande importanza nella storia del poeta.
Nella prossima puntata
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