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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 78-63 a. C.

POMPEO DITTATORE - RIVOLTA DI SPARTACO - PROCESSO VERRE

LA RIBELLIONE DI EMILIO LEPIDO E GIUNIO BRUTO - Q. SERTORIO - POMPEO IN ISPAGNA -- BATTAGLIE DEL SUCRONE - ASSASSINIO DI SERTORIO - ASSETTO DELLA SPAGNA E RITORNO DI POMPEO IN ITALIA - I GLADIATORI - LA TERZA GUERRA SERVILE - SPARTACO - M. LICINIO CRASSO CONTRO GLI SCHIAVI RIBELLI -MORTE DI SPARTACO - FINE DELLA GUERRA SERVILE - POMPEO MAGNO CONSOLE - PROCESSO CONTRO VERRE - LA PIRATERIA NEL MEDITERRANEO - POMPEO E LA GUERRA CONTRO I PIRATI - LA SECONDA GUERRA MITRIDATICA - VITTORIE DI LUCULLO IN ASIA - POMPEO AL GOVERNO DELLA GUERRA CONTRO MITRIDATE - POMPEO IN SIRIA E IN PALESTINA - MORTE DI MITRIDATE - ASSETTO DELL'ASIA
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DOPO LA MORTE DI SILLA


Nel precedente riassunto - periodo della fine della guerra civile - la dittatura di SILLA aveva consolidato il potere degli aristocratici e fatto alcune riforme delle istituzioni, ma sia con lui in vita, sia dopo la sua morte, l'ordinamento repubblicano appariva fragile.

L'edificio di SILLA, come tutti quelli costruiti a base di violenze e per favorire una sola fazione, durò intatto finché visse l'uomo che l'edificio l'aveva innalzato.
Il periodo di MARIO e SILLA, con la terribile guerra civile non aveva prodotto nulla di nuovo nella Repubblica; né il popolo che l'aveva combattuta e subita era migliorato nelle sue condizioni; in effetti, non fu una guerra di popolo, ma una guerra di potere di due uomini forti, militari, che entrambi volevano dominare la propria politica- mentre il "popolo" strumentalizzato, dava il voto entusiastico ad uno poi lo dava all'altro, sempre con l'ammaliatrice demagogia di entrambi, e che poi per i due astuti soggetti, si scannava senza capire chi dei due faceva veramente il suo interesse.

I diversi fattori che iniziano a manifestarsi nella crisi della repubblica in questo periodo, prima mariano e sillano (che abbiamo letto nel precedente capitolo), e ora pompeano (in questo capitolo e nel successivo) erano diversi: due di questi fattori, erano la rapidità e l'estensione delle conquiste e la profonda trasformazione della società.
Ma legati a questi due fattori, il più importante era il terzo: e questo era l'incapacità del partito al governo, sia quello di Mario come quello di Silla, e ora quello di Pompeo, di comprendere le nuove esigenze della popolazione e di estendere il potere a nuovi strati sociali, così diversi da quando era nata la Repubblica quattro secoli prima.

SILLA come abbiamo visto, politicamente anche lui incapace, essendo un uomo forte, consolidò solo il potere degli aristocratici, che però solo con la forza divenne forte; ma come abbiamo detto all'inizio, era un potere fragile.
Se all'orizzonte, come nel partito aristocratico, sarebbe comparso in quello democratico, un altrettanto uomo forte, il primo non essendo numericamente forte, ed avendo sempre bisogno di un esercito composto dal popolo, e con generali provenienti dal popolo, era evidente che sarebbe entrato in crisi; né bastava fare -come in precedenza- della facile demagogia. La società come abbiamo detto era profondamente cambiata. Generali e popolo, per quanto quest'ultimo ignorante (ma da qualche tempo più attento ad ascoltare i propri generali, che con loro vivono, soffrono, e combattono a fianco) erano coscienti di essere la colonna portante di quell'impero sempre più grande, oltre che molto complesso per gestirlo.
Le nuove esigenze le avevano comprese più in fretta alla base che non al vertice.

Primo a levar la voce contro l'opera del dittatore fu M. EMILIO LEPIDO, che apparteneva ad una delle più antiche e nobili famiglie romane e, parteggiando per Silla, si era arricchito con i beni dei cittadini proscritti e con le ruberie commesse in Sicilia dove lui era stato pretore.
LEPIDO, uomo avido ed ambizioso, spregiudicato e privo di salde convinzioni politiche, sapeva che non gli era possibile conquistare una posizione predominante in seno all'oligarchia per le mire del giovane POMPEO, che da tutti, da qualche tempo, era considerato, per le sue qualità e le sue aderenze, l'uomo destinato ad ottenere il primato della repubblica, così, il nobile LEPIDO bramoso com'era di sconfinato potere, pensò di guadagnarsi (tornando nuovamente e ingenuamente ad usare pure lui la vecchia demagogia) le simpatie del popolo e di raggiungere la meta vagheggiata formando un partito d'opposizione. Un perfetto trasformista, che tradiva il suo censo, e nello stesso tempo pur di prendere voti tradiva il popolo che glieli dava.

LEPIDO essendo stato, nel 78 a.C., assunto al consolato insieme con QUINTO LUTAZIO CATULO, cominciò ad attaccare l'opera di Silla (le riforme costituzionali) presentando alcune rogazioni, con le quali, fra l'altro, proponeva di richiamare i cittadini esiliati, ridare loro i beni confiscati e restituire ai tribuni della plebe le antiche attribuzioni di cui erano stati spogliati; insomma bella e buona demagogia.

CATULO, console suo collega, si oppose ai disegni di legge che perciò rimasero tali, ma il demagogo EMILIO LEPIDO diventò il paladino di coloro che erano stati danneggiati dagli ordinamenti sillani, e il malcontento che prima covava solo, sapendo che ora avevano un protettore, scoppiò minaccioso in alcune regioni d'Italia, specie nell'Etruria dove, cacciati i soldati dalle terre a loro assegnate dal dittatore, queste furono riconsegnate ai legittimi proprietari.

Di questi gravi incidenti avrebbe senza dubbio approfittato LEPIDO se il Senato non avesse provveduto ad allontanare il console dall'Italia.
LEPIDO fu mandato nella Provincia Narbonese, mentre LUTAZIO in Etruria con pieni poteri per reprimere la sedizione; prima però dovettero prestare giuramento che nulla avrebbero fatto l'uno a danno dell'altro o contro il Senato e la repubblica.
Ma fu un gravissimo errore del Senato l'aver dato al console turbolento il comando di un esercito, perché LEPIDO, giunto nella provincia Narbonese, si dichiarò ribelle, e raccolti intorno a sé tutti i malcontenti e i superstiti della fazione mariana, marciò verso l'Etruria per farvi trionfare la rivolta e dettare leggi al Senato (è dopo quello di Silla, il secondo caso quello di un generale che minaccia con il proprio esercito Roma; ma non sarà questo l'ultimo, anzi sarà la regola).

Roma cercò di rimediare al mal fatto e tentò di richiamare il console con il pretesto dei comizi consolari che da Lepido dovevano esser presieduti.
Dopo aver già commesso due sciocchezze, il Senato ne commetteva un'altra; dimostrando proprio che era ingenuo e che seguitava a non capire, né il popolo né i generali. E una cosa importante non aveva capito: che da quando MARIO nel 107 aveva messo in atto una riforma militare, erano state modificate le basi del reclutamento dell'esercito; cioè era aperto anche ai proletari nullatenenti. Una riforma resa necessaria per il declino dei piccoli contadini che prima costituivano -fino allora- il nerbo dell'esercito.
E in parallelo, c'era stato -per indolenza, per la nuova vita più godereccia- il declino dei cavalieri (che erano commercianti, medi proprietari, neo ricchi) nelle cui file una volta si formavano i quadri dell'esercito, mentre invece ora, erano indolenti ad entrarci, era cioè fastidioso.
Da qualche tempo -pagato dallo stato- si era instaurato il professionismo militare, che aveva non solo migliorato l'efficienza bellica alla base, ma da questa ora uscivano gli stessi quadri dell'esercito. E che proprio per questo motivo i capi militari riuscivano -ovviamente chi aveva capacità e carisma- a instaurare con gli uomini a loro per lungo tempo sottoposti, rapporti affettivi; e se prima i mercenari erano disponibili al soldo di quel capo che offriva condizioni migliori, ora erano disponibili a schierarsi con quel generale che dimostrava di avere e poi diventava un capo politico.
Come Silla che tornando dall'Oriente, si era portato dietro i suoi 120mila fedelissimi; e questo lo aveva reso potente sia dentro l'esercito e, con il terrore di usarlo contro i suoi avversari, potente anche politicamente.

Ma torniamo a LEPIDO, che davanti alla ingenua richiesta del Senato, non cadde nel tranello e, rimasto in armi, chiese che gli fosse riconfermato il consolato, richiamati gli esuli e ridati ai tribuni gli antichi diritti.
Di fronte al contegno di Lepido, il Senato ricorse alle misure straordinarie creando interrè APPIO CLAUDIO e proconsole CATULO, affidando loro ampi poteri per domare la ribellione suscitata in Italia da M. Emilio Lepido. Si tornava di nuovo ad uno scontro fra generali romani.

Correva l'anno 77 a.C. e due erano le regioni nelle quali si era estesa la ribellione: nell'Emilia dove si trovava LEPIDO e nella Gallia Cisalpina, dove un luogotenente di Lepido, l'ex tribuno M. GIUNIO BRUTO, era andato per cercare sostenitori e sollevare quelle popolazioni contro Roma.

In quest'ultima CATULO mandò come suo legato CNEO POMPEO. Questi con un buon nerbo di soldati si presentò nella Cisalpina e mise sotto assedio Mutina (Modena) dove BRUTO si era chiuso. Il luogotenente di Lepido, ridotto a mal partito, propose la capitolazione a patto di avere salva la vita, e Pompeo promise; ma poi presa in potere la città, condusse a Reggio il ribelle e lo fece uccidere.
Contro LEPIDO che era giunto fino al ponte Milvo e sul Gianicolo, andò lo stesso CATULO, il quale, ingaggiata la battaglia, lo mise in fuga; inseguito e poi raggiunto a Cosa nella costa etrusca, lo attaccò ancora per sbaragliarlo del tutto e ci riuscì.
LEPIDO però non cadde nelle mani del proconsole. Riuscito a fuggire s'imbarcò per la Sardegna sperando poi di passare in Spagna; ma i suoi progetti furono troncati dalla morte che lo colse poco dopo il suo arrivo nell'isola.
La ribellione poteva dirsi domata. Rimaneva soltanto con poche schiere SCIPIONE, figlio di Lepido, che dopo la sconfitta di ponte Milvo era andato a chiudersi ad Alba. Ma non vi rimase a lungo. Assediato da LUTAZIO CATULO dopo la partenza del padre dalla penisola, dovette capitolare e subì la stessa sorte di Bruto: fu giustiziato.

Q. SERTORIO E CN. POMPEO IN SPAGNA

L'Italia nell'anno 77 era pacificata, ma nella Spagna, fin dall'82 a.C. era ricomparso SERTORIO.
Cacciato nel '82 quando Silla era entrato vincitore a Roma, il fuggiasco con un gruppetto di fedeli anti-sillani, aveva da allora condotto una vita avventurosa, cui lo portava il suo temperamento passionale e irrequieto. Approdato in Africa, n'era stato respinto da quelle diffidenti popolazioni; andato nelle Baleari con lo scopo di diventarne il signore ben presto anche lì dovette riprendere il mare; infine aveva concepito di veleggiare verso le cosiddette poco conosciute Isole Fortunate (Canarie) e di fondare su una di queste un proprio stato. Ma i suoi compagni, meno audaci di lui, non avevano voluto seguirlo in quest'impresa che -per quei tempi- ritenevano troppo rischiosa e perfino immaginaria l'esistenza di quelle isole, ed allora Quinto Sertorio aveva rivolto le prore verso la Mauritania.

Qui aveva avuto più fortuna. Gli abitanti della regione, male sopportando il tirannico governo del loro Re, erano insorti contro di lui e quando comparve SERTORIO lo avevano proclamato loro capitano, costituendo l'esule un piccolo dominio a Tingis (od. Tangeri)
SERTORIO aveva dato prove di grande perizia e di non meno grande valore sbaragliando le truppe del re e perfino un piccolo esercito romano, al comando di Pacceco, giunto in soccorso del sovrano. Sertorio nell'estrema costa occidentali mediterranea, si era guadagnato tanta fama che era stato poi chiamato in Spagna dai ribelli Lusitani per guidarli contro le armi della repubblica.

Sertorio aveva accettato l'offerta del comando. Abbandonata Tangeri, si mise a capo di una spedizione e assalita audacemente una piccola flotta romana che incrociava alle Colonne d'Ercole (od. Gibilterra) agli ordini dell'ammiraglio COTTA, Sertorio era riuscito ad approdare nella Spagna e qui, raccolto un rilevante contingente di soldati, in parte di Lusitani in parte da esuli romani anti-sillani, aveva sconfitto al fiume Beti il propretore LUCIO FUFIDIO; poi, diviso in due il suo esercito, una parte l'aveva tenuta con sé marciando contro Q. METELLO PIO sconfiggendolo e costringendolo nel corso dell'anno 79 a.C. ad abbandonare la Lusitania; l'altra l'aveva affidata al suo luogotenente L. IRTULEIO, che l'anno successivo, pure lui sconfiggeva le legioni romane del propretore DOMIZIO CALVINO e del pretore L. MALLIO.
Era l'anno 78 a.C., lo stesso anno che a Cuma moriva SILLA, che lasciava insoluti alcuni problemi all'interno e all'esterno. Ma oltre questi si scatenava la lotta al potere; un potere simile al suo che tutti bramavano, capaci e incapaci.

In breve, dall'82 al 78, mentre in Italia era avvenuta la grande repressione sillana, l'avventuriero SERTORIO si era impadronito con le armi di tutta la Spagna, e nella situazione non proprio limpida in cui si trovava Roma, era animato dal proposito di fare della penisola iberica una repubblica modellata su quella romana dei tempi migliori e di trapiantarvi i costumi, la lingua, la religione e la civiltà della patria.
SERTORIO in effetti, era riuscito a guadagnarsi la simpatia e la stima degli Ispani con la giustizia del suo governo, con il fascino della sua eloquenza, la generosità del suo animo e la grande perizia nelle cose di guerra; aveva, infatti, formato un esercito numeroso, capace di misurarsi con successo con le migliori legioni romane ed aveva scelto OSCA come capitale del nuovo stato, istituendovi un Senato di trecento romani ed una scuola di latino e greco per i giovani spagnoli.
Nel 77 a.C., tali erano le condizioni della Spagna. Dopo avere sconfitto Lepido in Etruria, con Cartulo e Pompeo, il Senato romano decise di affrontare la questione Spagna, di combattere il ribelle Sartorio, di ricondurre all'obbedienza la penisola iberica.

Nonostante la riluttanza del Senato che vedeva un futuro pericolo la forza dell'oligarchia nel giovane POMPEO, questi, pur contando appena ventinove anni e non avendo mai ricoperta alcuna magistratura, per la protezione di L. MARCIO FILIPPO e per la sua fama di abile e fortunato condottiero, gli fu affidato l'incarico di combattere -coadiuvato da METELLO PIO- il ribelle QUINTO SERTORIO.

Nello stesso anno 77 a.C., consoli erano DECIMO GIUNIO BRUTO e MAMERCO EMILIO LEPIDO LIVIANO, il giovane condottiero CNEO POMPEO e il suo aiutante, con un esercito di trentamila fanti e mille cavalli, partì dall'Italia per la Spagna.
Passò tutta l'estate di quell'anno nella Provincia Narbonese per ridurre all'obbedienza alcune tribù che si erano ribellate alla repubblica. Diviso in due l'esercito con Metello, i rimanenti mesi dell'anno furono coronati da alcuni successi; gli Elvii e gli Arecomici furono domati e molte opere di difesa furono fatte sul territorio, fra le quali degna di menzione la strada del Monginevro per mettere in immediato collegamento le due regioni ai piedi delle Alpi.
Nell'autunno Pompeo, si spinse in avanti, attraversò i Pirenei, entrò nella Spagna e, favorito da alcune popolazioni che si erano ribellate a Sertorio, marciò contro di lui con i due eserciti, uno, guidato da lui stesso, l'altro comandato da Metello.

Minacciato da due eserciti romani oltre che dai ribelli, SERTORIO rimase a domare la rivolta e, affidato al questore IRTULEJO l'incarico di fronteggiare Metello nella provincia Ulteriore, mandò contro Pompeo il luogotenente M. PERPERNA.
Una prima azione - nel corso del nuovo anno 76 a.C.- condotta da ERENNIO, dell'esercito di PERPERNA, ebbe esito infelice; ma più tardi al Sucrone, presso Valenza, POMPEO fu sconfitto dallo stesso SERTORIO e costretto a ripassare l'Ebro.
Più fortunato fu il suo collega METELLO. Presso Italica, assalito da IRTULEJO, il romano lo sconfisse procurandogli moltissime perdite. Ritiratosi in Lusitania, l'anno dopo (75 a.C.) Irtulejo marciò nuovamente contro Metello e gli diede battaglia a Segovia; ma neppure questa volta né le sue armi né lui avevano la fortuna dalla loro parte; il suo esercito fu sbaragliato e lo stesso IRTULEJO perse la vita.

Risoluto a congiungere le sue forze a quelle del collega, POMPEO riprese l'offensiva e si scontrò con il nemico ancora presso il fiume Mucrone; sperava di riportare una vittoria, ma l'ala destra che lui stesso comandava fu rotta e la giornata avrebbe segnato un disastro per i pompeiani se la sinistra, guidata da AFRANIO, non si fosse magnificamente battuta contro le truppe del ribelle. La battaglia ebbe un esito incerto, ma non disastroso per Pompeo che alla fine riuscì a passare e ad unirsi a METELLO PIO.
Nel corso dell'anno 74 a.C., sebbene uniti i due generali romani non furono favoriti dalla sorte; SERTORIO diverse volte ingaggiò con loro battaglia e li sconfisse; Pompeo a quel punto non avendo mai ricevuti rinforzi, dovette minacciare il Senato che avrebbe fatto causa comune con il ribelle e di marciare con lui contro Roma, se non gli inviavano rinforzi.

I rinforzi furono inviati nel corso dell'anno 73, ma Pompeo non se ne avvantaggiò, anzi, fu battuto, e poi costretto a mettere i suoi quartieri d'inverno dell'anno 73-72, nella Gallia.
SERTORIO era di nuovo padrone della Spagna e forse si sarebbe anche consolidato maggiormente se avesse dato ascolto fin dall'anno 74 a.C., a MITRIDATE, il quale, in procinto di muover nuovamente guerra alla Repubblica, aveva offerto l'alleanza a SERTORIO per conquistare i territori romani d'Asia con promessa di fornirgli tremila talenti e quaranta navi. Più che l'aiuto materiale, la mossa di Mitridate, avrebbe impegnato Roma su due fronti.
SERTORIO al re del Ponto aveva risposto "Io non desidero diventare potente a danno della Repubblica. Prenda Mitridate la Bitinia e la Cappadocia, ma non un pezzo di quella terra che i trattati non consentono. Io, romano, combatto e vinco non per ridurre ma per accrescere i domini di Roma".

Questa onestà verso la Patria, gli fu fatale; mentre i disonesti non erano solo fuori ma dentro il suo medesimo esercito.
La guerra di Pompeo contro Sertorio durava ormai da quattro anni, e chi sa quanto sarebbe ancora durata se l'invidia e il tradimento non avessero tolto di mezzo Sertorio.
Molti dei fuorusciti che militavano sotto le sue insegne, dimenticavano le sue indubbie capacità, gli invidiavano il comando e attribuivano solo alla fortuna i suoi successi. Fra questi PERPERNA era uno di quelli che più di ogni altro smaniava di spodestarlo.
Mirando a questo scopo, cercò di mantenere viva l'invidia degli altri ufficiali non meno ambiziosi di lui, e di rivoltargli contro gli Ispani. Ma non essendogli questi tentativi riusciti, ricorse al tradimento.

Si trovava SERTORIO, nel corso dell'anno 72 a.C., accampato presso Osca, quando un giorno, PERPERNA, giunse nel suo quartier generale e gli annunciò, mentendo, di avere riportato una grande vittoria sull'esercito di Pompeo, e per festeggiare l'avvenimento lo invitò ad un banchetto.
Sertorio, nulla sospettando, partecipò ma durante la cena, assalito improvvisamente, fu trucidato da alcuni sicari del vile Perperna.
Fu tale il dolore dei soldati ispanici della guardia di Sertorio che, avendo questi giurato di restargli sempre fedeli e di morire con lui, alcuni si uccisero sul cadavere del grande capitano, altri attesero solo l'occasione buona per sbarazzarsi di lui.
Morto Sertorio, PERPERNA volle prendere il comando supremo dell'esercito, ma i soldati iniziarono a ribellarsi, a non volerlo riconoscere loro capo, e molti si ammutinarono, rivolgendosi contro di lui.
Ad approfittare di questa grave crisi interna fu POMPEO che bene informato di cosa stava accadendo nel campo del suo nemico, ritenne che era giunto il momento di agire. Con le sue truppe piombò sull'accampamento, privo di un vero capo e quindi di disciplina, e non gli fu difficile averne ragione.

Sperando di salvare la vita, Perperna consegnò a Pompeo alcune lettere che molti senatori romani avevano scritto a Sertorio invitandolo a scendere in Italia con il suo esercito, ma Pompeo, che era di animo generoso, non le volle nemmeno leggere, le bruciò, poi punì la vigliaccheria di Perperna facendolo giustiziare.

La Spagna, dopo la fine di SERTORIO, in pochi mesi fu facilmente ridotta all'obbedienza. Più a lungo resistettero le città di Usarna, Clunia e Calaguni, ma alla fine furono costrette a cedere, e anche a queste fu sottratta l'autonomia.

Pompeo, ridotta la Spagna sotto la sovranità di Roma, vi rimase per tutto l'anno 72 a.C. per riordinare le due province, la Citeriore e la Superiore. Allo scopo di procurare alla repubblica delle preziose amicizie e rendere più durevole la sottomissione della penisola, in forza di una legge -quell'anno stesso proposta dai consoli L. GELLIO PUPLICOLA e CNEO CORNELIO LENTULO- conferì la cittadinanza romana alle persone più autorevoli della Spagna, affidando loro importanti cariche; quindi, dato assetto ad ogni cosa, POMPEO e METELLO tornarono in Italia, dove nel corso dello stesso anno 72, era scoppiata una minacciosa rivolta di schiavi.

SPARTACO E LA TERZA GUERRA SERVILE

Uno degli spettacoli che maggiormente dilettavano i Romani erano i combattimenti che nel circo avvenivano tra le belve, o tra belve e schiavi, o esclusivamente tra questi ultimi.
La passione per la lotta tra belve era nata dopo la prima guerra punica. Acquisti di belve da inviare nella capitale li facevano già i mercanti, poi i generali vittoriosi nelle loro spedizioni in Africa e in Asia, oltre che schiavi e bottino, iniziarono a portare a Roma un gran numero di fiere; oppure conoscendo questa passione dei Romani, erano gli stessi re tributari a inviare nella capitale gli animali
Metello aveva fatto portare a Roma centocinquanta elefanti; Scauro un considerevole numero di leoni e di pantere, Pompeo seicento leoni e quattrocento pantere.
I combattimenti tra schiavi, introdotti - a quanto pare - a Roma dall'Etruria
nel secolo V come rito funebre, presero in breve gran voga e si diffusero in Italia come divertimenti insieme alle corse e ai giuochi giunti dopo la conquista dell'Illiria, dalla Grecia (Sconfitti i pirati Illiri, per riconoscenza i Romani furono invitati ai giochi; e lì scoprirono le Olimpiadi).

Era tanta la passione dei Romani per queste lotte che gli edili, per acquistarsi il favore popolare, spendevano somme grandissime per finanziare e patrocinare questi combattimenti.
I gladiatori (da "gladium" spada) erano di solito schiavi o condannati, ma potevano essere anche liberti o uomini liberi i quali per una certa somma erano arruolati da un mercante detto "lanista" che ritraeva da loro lauti guadagni fornendoli all'"editor" (od. manager) a colui cioè che voleva allestire uno spettacolo di gladiatori.
Come i soldati novellini, appena arruolati i gladiatori prendevano il nome di "tironi", dopo un certo numero di anni si chiamavano "veterani" e all'atto del congedo ricevevano una spada di legno ("rudis") e erano detti "rudiarii". Fra questi ultimi erano reclutati gli istruttori: i "doctores".

Gli spettacoli avvenivano nelle ore pomeridiane nel circo e mandavano in visibilio gli spettatori che ammiravano l'agilità, la destrezza, il coraggio e la resistenza dei combattenti, li incitavano alla lotta e scommettevano tra loro sui risultati finali.
Quando un gladiatore, stremato di forze e sanguinante, stava per soccombere, alzava un dito verso l'"editor" come per chiedergli la grazia e se questa gli era concessa altrettanto faceva chi presiedeva ai giuochi; tutto dipendeva dalla simpatia che vincitore o vinto erano capaci di trasmettere agli spettatori; e quindi qualche volta chi presiedeva i giochi volgeva in basso il pollice ("pollice verso") se voleva che il gladiatore morisse.

Scuole per gladiatori esistevano nelle principali città d'Italia e tra queste la più importante era quella che LENTULO BARBATO teneva a Capua (una città ricca, opulenta e godereccia più di Roma, per i numerosi neo ricchi sorti con i commerci, i cantieri, le produzioni varie).
La domanda si fece più alta, la passione contagiò Roma e le altre città, i "tironi" non bastavano mai, ma negli ultimi anni di conquiste, l'abbondanza di prigionieri-schiavi fornì abbondante materia prima ai "lanisti", agli "editor", e alle "scuole", come quella di Capua.

E proprio da questa scuola partì la scintilla della rivolta e l'iniziatore fu un gladiatore di nome SPARTACO, che era di origine Trace.
Spartaco era un selvatico, forte e abile; era stato un soldato della repubblica, ma insofferente alla disciplina aveva disertato ed era vissuto "libero" per qualche tempo alla macchia; ma poi fu catturato, ed era stato venduto come schiavo a Lentulo.
Di natura libera, se era insofferente all'esercito, figuriamoci poi nella schiavitù; così persuase i suoi compagni che era meglio morire combattendo contro gli oppressori che dare la vita uccidendosi l'un l'altro inalberò il vessillo della rivolta e fuggì con loro dalla scuola.
SPARTACO si era rifugiato alle pendici del Vesuvio; e qui, sparsasi la voce altri schiavi accorsero e si unirono a lui; in breve il piccolo manipolo divenne una moltitudine numerosa. Ovviamente loro capo fu proclamato Spartaco.

Contro di loro fu mandato il pretore P. VARINIO GLABRO che circondò con le sue truppe il monte; ma gli insorti, che sapevano a qual sorte erano destinati se si arrendevano, si calarono audacemente dalle rocce ed assaliti impetuosamente i Romani li sconfissero.

Altri schiavi si unirono a Spartaco che lasciato il Vesuvio, scese in Lucania, dove lo stesso pretore incalzandoli andò a combatterli, ma anche questa volta la fortuna fu degli schiavi che, dopo la seconda clamorosa vittoria, con i nuovi seguaci, raggiunsero il numero di centoventimila; si impadronirono di quasi tutta la Campania, della Lucania e del Bruzio, attribuirono il titolo di pretore dell'Italia meridionale a Spartaco e divisero quello che era ormai un potente esercito, in tre corpi al cui comando furono messi CRISSO, GIANNICO ed OCNOMAO.

Sebbene numeroso e reso ardito dalle prime vittorie, l'esercito dei ribelli conteneva in sé i germi che dovevano condurlo alla rovina. La mancanza di disciplina, di un capo, di una strategia. Di diverse nazioni erano gli schiavi e scarsa, di conseguenza, la disciplina dell'esercito e dei vari capi. Uno di questi, CRISSO, non volendo sottostare a Spartaco, si allontanò con ventimila Celti ed andò ad accamparsi presso il monte Gargano, dove però presto fu annientato dal pretore Q. ANNIO.
Contro gli altri ribelli Roma mandò i consoli L. GELLIO e CNEO CORNELIO LENTULO (71 a.C.), ma due volte furono sconfitti da Spartaco.
Voleva questi marciare verso il nord e valicare le Alpi per mettersi al sicuro dalle truppe romane fuori del territorio della repubblica, ma i suoi uomini, indisciplinati ed ubriacati dai fortunati successi vollero rimanere in Italia e aumentò così tanto la loro arroganza che, in occasione dei funerali di Crisso, obbligarono trecento prigionieri romani a combattere da gladiatori per divertirsi pure loro con gli stessi spettacoli dove prima erano loro le vittime.
Vedendo che i suoi non volevano assicurarsi la libertà oltre le Alpi, Spartaco concepì il disegno di sollevare gli schiavi di Sicilia e si diresse non a nord ma a sud verso l'altra estremità della penisola.
Lo tallonava prudentemente il pretore M. LICINIO CRASSO, il quale alla testa di nove legioni, era stato mandato dal Senato in sostituzione dei due inetti consoli a combattere i ribelli
CRASSO, quando vide gli schiavi all'estrema punta di Reggio, pensò di chiuderli in quell'angusto luogo della penisola e fece scavare un fossato e costruire un muro da un mare all'altro.
SPARTACO lasciò fare e si mise in trattative con i pirati per avere le navi che portassero il suo esercito nell'isola, ma i pirati, avuto il denaro pattuito, da veri pirati, se n'andarono e il capo degli insorti solo allora comprese in quale difficile condizione si trovava; cioè in trappola.
Animati più dalla disperazione che dal coraggio, i ribelli decisero di aprirsi la via con le armi, e approfittando di una notte buia e tempestosa, assalirono con inaudita violenza le difese al vallo romano, le superarono e si portarono in Lucania, mettendo il rotta il questore TREMELLIO SCROFA e il luogotenente QUINZIO.
Resi spavaldi da queste vittorie gli schiavi chiesero di marciare su Roma, ma Spartaco, che era un prudente capitano, si oppose e tentò di avviare trattative con il nemico; agire in un altro modo in quella situazione non era ormai più possibile.
I Romani però non vollero scendere a patti con gli schiavi e ormai sicuri dell'esito finale, intensificarono le operazioni di guerra, che dovevano terminare con la definitiva disfatta dei ribelli.

La decisiva battaglia fra l'esercito di CRASSO e quello di SPARTACO avvenne nella valle degli Irpini, sul Sele. Spartaco presagiva la sconfitta e prima d'ingaggiare il combattimento uccise il proprio cavallo, dicendo a chi gliene domandava il perché che ne avrebbe avuti degli altri se avesse vinto e non ne avrebbe avuto più bisogno se fosse rimasto ucciso. Poi diede il segnale della battaglia e si slanciò a piedi tra le file nemiche, battendosi disperatamente.
Ferito gravemente, cadde sulle ginocchia, ma continuò a combattere da eroe fino a quando gli rimase la forza per tenere in mano la spada.
La rotta degli schiavi quel giorno fu completa. La maggior parte furono uccisi, seimila schiavi furono fatti prigionieri e crocifissi lungo la via Appia che conduce da Capua a Roma e circa cinquemila ribelli riuscirono a fuggire.

Giungeva intanto Pompeo, che reduce dalla Spagna, era stato subito inviato dal Senato in soccorso del pretore. Ma dell'opera sua non c'era più bisogno. Tuttavia l'ambizioso Capitano non volle ritornare a Roma senza aver fatto qualcosa; così inseguì i cinquemila insorti superstiti e, ingaggiato con loro la battaglia, li catturò quasi tutti per poi anche lui crocifiggerli.

La guerra si era già conclusa vittoriosa, grazie all'opera di Crasso; ma il vanitoso Pompeo volle attribuire a se stesso il merito e, annunciando al Senato il proprio successo, scriveva di avere estirpate in Asia le radici della rivolta.

POMPEO MAGNO CONSOLE

POMPEO -lo abbiamo letto in questo e nei precedenti capitoli- aveva avuto una gran parte nella guerra civile in Italia, aveva comandato vittoriosamente eserciti in Sicilia, in Africa e in Spagna, ma non aveva occupato nessuna carica civile. Poco curandosi della legge di Silla "de magistratibus", la quale prescriveva per i consoli l'età minima di 43 anni ed escludeva da quella carica chi non aveva rivestita la questura e la pretura, Pompeo chiese il consolato per l'anno 70 a.C. e poiché gli oligarchi lo avversavano egli si schierò con la democrazia, sostenendo nei suoi discorsi la restituzione delle antiche attribuzioni al tribunato della plebe.
Ma non si fermò solo ai discorsi, di ritorno dalla guerra servile, si era accampato con l'esercito suo e quello del suo collega Crasso alle porte della capitale; e questa che sembrava ed era una minaccia per Roma, gli permise di prendere accordi, anzi imporre la duplice elezione seppur privi di requisiti.

Infatti, POMPEO per l'anno 70 a.C. fu eletto console assieme a LICINIO CRASS. Mantenne pure le promesse fatte al popolo, presentando a nome suo e del collega una rogazione che, approvata, prese il nome di "lex Pompeia-Zicinia de tribunicia protestate" con la quale furono restituiti ai tribuni gli antichi diritti, oltre a cancellare i provvedimenti sillani contrari alla classe dei cavalieri.
POMPEO pone così fine alla reazione conservatrice sillana restaurando gran parte degli ordinamenti democratici aboliti da Silla.

IL PROCESSO VERRE- CICERONE ACCUSA

Da allora Pompeo divenne il campione della parte popolare.
Incoraggiato dal successo della prima rogazione e dal favore che si era guadagnato, volle pure riformare la legge giudiziaria di Silla.
A quest'impresa si accinse sia per diminuire la potenza dell'oligarchia sia per mettere fine ad un intollerabile stato di cose, le cui irregolarità erano proprio in quei mesi messe a nudo da un clamoroso processo che si stava svolgendo a carico di VERRE.
Costui Governatore della Sicilia, si era arricchito al tempo delle lotte tra Mario e Silla, trafugando prima la cassa dell'esercito mariano, poi acquistando molte terre confiscate o estorte in quel caos di vendette promosse da Silla.
Recatosi poi come legato nella Cilicia, si era reso anche lì famoso per la sua avidità e le sue ruberie; aveva spogliato di statue e di oggetti preziosi i templi di Tenedo, di Chio, di Delo e di Alicarnasso; si era impadronito della migliore nave di Mileto; aveva condannato a morte a Lampsaco il padre e il fratello d'una fanciulla, che lui voleva violare.
Eletto pretore, gli era stato affidato il governo della Sicilia e lo aveva tenuto dal 73 al 70 a.C., commettendo iniquità tali che avrebbero fatto impallidire quelle già commesse in Cilicia. Per denaro aveva venduto la grazia ai condannati, aveva fatto mercimonio delle cariche, inasprite le imposte a suo vantaggio, spogliati i templi e le case, di tutte le migliore cose pregevoli che contenevano e aveva perfino derubato il re di Siria di passaggio da Siracusa. Aveva accumulato un patrimonio che superava il valore di quarantacinque milioni di sesterzi d'oro.
I Siciliani avevano reclamato giustizia dalla repubblica e CICERONE, che era stato sull'isola nel 75 come questore a Lilibeo (Marsala) per la sua condotta si era guadagnato la stima di quelle popolazioni; e queste ora si erano messe nelle sue mani; lui aveva ascoltato la loro voce ed aveva accettato di essere il loro patrocinatore.

A difensore di VERRE era stato scelto QUINTO ORTENSIO, il principe degli oratori romani. Gli ottimati cercarono con tutti i mezzi, anche con gli illeciti, di salvare Verre, e tentarono di affidare il patrocinio dei Siciliani a CECILIO, questore che però dalle voci risultava essere un complice delle malefatte di Verre in Sicilia. Cicerone mostrò al Senato i rischi in cui si metteva la potestà giudiziaria ed ottenne lui il patrocinio.
CICERONE si recò in Sicilia dove raccolse infinite prove delle ribalderie di Verre e quando, tornato in Roma, nell'"actio prima in Verrem", enumerò le prove che era riuscito a procurarsi, ORTENSIO, vista la causa perduta, rinunciò alla difesa e Verre se ne andò in esilio.
Ma CICERONE, non si ritenne soddisfatto e in cinque famose orazioni (De praetura urbana, De jurisdictione Siciliensi, De frumentis, De signis, De suppliciis) mise a nudo le malvagie e squallide opere dell'accusato e, prendendo spunto dalla dichiarazione di Verre che "nel primo anno aveva rubato per sé, nel secondo per gli avvocati e nel terzo pei giudici", si scagliò contro gli ottimati, dicendo fra l'altro: "Poiché vi sono uomini che non hanno vergogna della loro infamia e persistono ad opprimere con i loro malvagi giudizi, io sarò nemico ed accusatore implacabile di tutti quei perversi che discreditano la repubblica con il far credere che un ricco, quantunque colpevole, non possa mai essere condannato".
VERRE fu condannato all'esilio e al pagamento di quarantacinque milioni di sesterzi.

Il processo contro Verre spinse POMPEO a consigliare AURELIO COTTA a presentare la rogazione in cui era proposta la riforma della legge giudiziaria e così i tribunali furono affidati ad un corpo di giudici formato di senatori, di cavalieri e di "tribuni aerarii" questi ultimi erano ricchi plebei che avevano l'incarico di riscuotere i tributi e di pagare il soldo alle milizie.
Altra legge che finì di distruggere l'edificio di Silla fu il ristabilimento della censura.
L'avvenire di Pompeo era assicurato; il popolo lo chiamava suo liberatore e ne ammirava la modestia. Verso la fine del suo consolato i censori passarono nel foro in rassegna l'ordine equestre, com'era consuetudine. Pompeo, sebbene console, si presentò senza pompa, tenendo per mano il suo cavallo e quando i censori, secondo l'uso, giunti vicino a lui, gli domandarono se "aveva servito nell'esercito tutte le volte che la repubblica aveva reclamato i suoi servizi", egli rispose: "Sì, e non ho mai avuto altro capo che me stesso".

Questa risposta non depone in favore della modestia del console e in verità Pompeo era ambiziosissimo ed astutamente si fingeva modesto per raggiungere meglio i suoi fini.
Lui avrebbe potuto assumere, quando uscì dalla carica, il governo di una provincia, ma non volle allontanarsi. Roma era il cuore e il cervello dello stato e a Roma si decidevano le sorti della Repubblica e degli uomini; per la qual cosa Pompeo rimase a Roma, aspettando che la patria, bisognosa di una mente e di un braccio, gli porgesse l'occasione di riprendere, più forte di prima, il potere che ora per opportunità politica lasciava.

POMPEO E LA PIRATERIA

L'occasione non poteva tardare a presentarsi: l'Asia e il Mediterraneo dovevano offrirgliela e la pirateria e Mitridate dovevano farlo diventare l'uomo più potente della Repubblica.
Il Mediterraneo era infestato da corsari d'Africa, d'Asia e d' Europa che la fine della potenza marinara della Grecia, di Cartagine, della Sicilia, della Siria e dell'Asia Minore e le guerra civili ed esterne di Roma avevano moltiplicati e resi audacissimi.
Secondo Plutarco mille navi corsare percorrevano continuamente i mari. Quattrocento città erano state saccheggiate, il commercio tra l'Oriente e l'Occidente era stato gravemente danneggiato; su tutte le coste i pirati si erano costruite torri d'osservazione che permettevano a loro di spadroneggiare con sicurezza il Mediterraneo, che ricordiamo a quel tempo la maggior parte dei navigli navigava costeggiando.
Il loro covo principale era l'isola di Creta e di là si spingevano nei porti della Grecia e d'Italia distruggendo e predando. La loro audacia era giunta a tal punto che nel 74, sfidando la flotta del pretore MARCO ANTONIO, avevano messo a sacco il porto di Gaeta e quello di Ostia, portandosi via le migliore fanciulle e i figli dei ricchi per poi ricattarli.

Roma da qualche tempo aveva cercato di disinfestare i mari da questi ladroni e rendere sicure le vie di comunicazione con le sue province. Già nel 79 aveva mandato contro i pirati il proconsole P. SERVILLO VEZIO. Questi per tre anni li aveva affrontati, li aveva spazzati dalla costa della Cilicia e li aveva sanguinosamente sconfitti ad Isauro sul Tauro, meritandosi il titolo di "Isaurico". Ma la pirateria era molto diffusa e quindi non era stata distrutta, anzi vi era quella nuova, e quella vecchia aveva rialzato il capo, portando le sue audacie azione fin dentro il mar Tirreno; e a Cidonia a Creta aveva sconfitto il pretore ANTONIO mandato dalla Repubblica contro i corsari.

Miglior fortuna aveva avuta Q. CECILIO METELLO che nel 68 aveva snidato i pirati da Creta, guadagnandosi il titolo di "Cretico"; ma le sue vittorie non avevano abbattuta la pirateria, la quale era risorta più potente di prima e, infestando i mari d'Italia, minacciava ora seriamente di affamare Roma impedendo i rifornimenti di grano dalla Sicilia e dalla Sardegna.

Fu per metter fine a questa situazione, che il tribuno AULO GABINIO presentò una rogazione, con la quale proponeva che per combattere e debellare la pirateria si scegliesse un capitano fra i consolari e gli si desse il comando assoluto su tutto il Mediterraneo. Il duce prescelto doveva avere il totale governo delle operazioni per tre anni, la facoltà di prelevare dalle casse dello stato somme non superiori ai seimila talenti, di reclutare truppe di terra e di mare, di allestire fino a duecento navi e poteva eleggere quindici luogotenenti che lo avrebbero coadiuvato nell'impresa.

Correva l'anno 67 a.C. La legge proposta dal tribuno era ottima per lo scopo che si prefiggeva ma pericolosissima alla libertà repubblicana, e poiché era evidente che, se approvata, la scelta sarebbe caduta su Pompeo, i suoi poteri avevano la forza di configurarsi in una vera e propria dittatura sui mari; e gli oligarchi temevano che il futuro "navarco" prima o poi, avrebbe nuociuto non tanto alla libertà della repubblica quanto al loro partito; fu dunque durissima l'opposizione che fece alla proposta di Gabinio.
A nulla valsero le orazioni di LUTAZIO CATULO e QUINTO ORTENSIO, a nulla le dichiarazioni esplicite di CALPURNIO PISONE. Il tribuno TREBELLIO che aveva opposto il veto lo ritirò di fronte al contegno minaccioso del popolo e lo stesso fece L. ROSCIO OTTONE, il quale aveva proposto che invece di un solo navarca se ne eleggessero due: la legge, coraggiosamente difesa da GIULIO CESARE, fu approvata.

A capo supremo della guerra fu chiamato POMPEO, che ottenne più di quanto la proposta di legge gli accordava. Gli si diede infatti, la facoltà di crearsi ventiquattro luogotenenti, di armare fino a cinquecento navi, di reclutare centoventimila fanti e cinquecento cavalli e di prelevare dall'erario tutto il denaro che gli occorreva senza limiti.

Pompeo nella non facile impresa ci mise energia e impegno straordinari: divise il Mediterraneo in tredici zone; ad ognuna delle quali sistemò un luogotenente ed assegnò una squadra navale e un contingente di truppe, poi lui iniziò le operazioni di guerra vere e proprie con il movimento.
In quaranta giorni liberò dai pirati le coste della Sicilia, della Sardegna, e dell'Africa; rivoltosi al Mediterraneo orientale ripulì quelle della Grecia e costrinse i pirati a rifugiarsi nella Cilicia. Qui tentarono di resistere, ma, bloccati al promontorio Coracesio, nel golfo di Adalia, capitolarono.

La guerra non durò che ottantanove giorni. Secondo Strabone mille e trecento furono le navi catturate e poi incendiate da Pompeo, ventimila i prigionieri fatti a Coracesio; che Pompeo non condusse a Roma come schiavi; li fornì di attrezzi agricoli e diede loro il territorio della città di Soli, distrutta dal re Tigrane d'Armenia e riedificata dai nuovi coloni col nome di Pompeopoli.

SECONDA GUERRA MITRIDATICA

Era appena finita -nel 67 a.C.- la guerra contro i pirati quando il tribuno MANILIO propose che si affidasse a POMPEO il governo della seconda guerra mitridatica. Come leggeremo più avanti, il re d'Armenia, TIGRANE aveva nuovamente invaso la Cappadocia cacciando il re ARIOBARZANE, mentre MITRIDATE VI aveva ripreso possesso del Ponto.
Anche questa volta si opposero gli oligarchi; ma infine la "rogazione manilia" fu approvata (66 a.C.) ed a Pompeo concesso il comando supremo nelle operazioni in Asia con pieni poteri.

La guerra mitridatica si trascinava da un pezzo.
Era morto nel 74 a.C. il re Nicomede III, lasciando Roma erede della Paflagonia e della Bitinia; ma essendo la repubblica impegnata in Spagna contro Sertorio, MITRIDATE aveva invaso il regno del defunto re e l'Asia romana, riducendo in poco tempo in suo potere i vasti territori di cui si era reso padrone al tempo delle lotte tra Mario e Silla che poi quest'ultimo costrinse a lasciare.
Contro MITRIDATE Roma aveva -nel 73-72 a.C.- mandato il console M. AURELIO COTTA con circa trentamila uomini ma i Romani, mentre si preparavano ad invadere il Ponto dalla parte della Frigia, erano stati assaliti e battuti a Calcedone.
A Cotta era poi andato in soccorso l'altro console L. LICINIO LUCULLO (famoso poi per altri motivi) e, mentre il primo occupava la Bitinia, lui marciava sicuro contro Mitridate che stringeva d'assedio Cizico; lo costringeva ad allontanarsi, lo sbaragliava sull'Esepo nella Misia e conquistava la Paflagonia.

L'anno dopo, nel 71 a.C. ancora LUCULLO aveva a Cabira, sul Lico, messo in grave difficoltà un esercito di Mitridate forte di quarantamila fanti e quattromila cavalli ed aveva costretto il re del Ponto ad abbandonare il regno e a rifugiarsi presso il genero TIGRANE II che regnava sull'Armenia, sulla Mesopotania, sulla Siria e su alcune regioni della Cilicia e della Cappadocia.
Sposata la causa del suocero, TIGRANE aveva messo in campo un esercito di centocinquantamila fanti e seimila cavalli. Ma LUCULLO che disponeva soli dodicimila fanti e tremila cavalli per nulla impressionato, non aveva esitato nel corso dell'anno 70 a.C. a passare l'Eufrate e a marciare su Tigranocerta, la capitale dell'Armenia.

Qui fu combattuta nel 69 a.C. una memorabile battaglia. Da un'altura alla sinistra del Niceforio, affluente del Tigri, LUCULLO con uno splendido piano strategico, prima aveva attirato sull'altura e poi respinto la cavalleria nemica, poi, era piombato a valle sul grosso dell'esercito asiatico, e lo aveva non solo sconfitto ma letteralmente annientato, uccidendo centomila uomini.
Tigranocerta indifesa era poi caduta in potere di LUCULLO e con la capitale dell'Armenia era caduta buona parte della Siria.
Nel corso del 70 a.C., LUCULLO prosegue e discende verso la Mesopotamia occupando Nisibi, mentre TIGRANE e MITRIDATE cercano di ritirarsi nell'antica capitale del regno Armeno Artaxata. Lucullo entra in contatto con i nemici nei pressi del fiume Arsaniate, ma i nemici si sganciano dalla battaglia preferendo non ingaggiarla.
A quel punto LUCULLO si propone di continuare una guerra di conquista verso Oriente, e all'inizio dell'anno 68 a.C. il proconsole, saputo che MITRIDATE aveva raccolto in Armenia un esercito di centomila soldati, con la stessa determinazione e coraggio dimostrato a Tigranocerta, decise di muovere contro di lui; ma i suoi legionari, intolleranti della rigida disciplina del loro capitano, che proibiva i saccheggi e non voleva concedere un istante di riposo alle truppe, sobillati dai democratici, i quali mal sopportavano che per tanti anni il governo della guerra fosse tenuto da un ottimate, giunti sul fiume Arsaniate, si erano ammutinati ed avevano costretto LUCULLO a tornare indietro. Ne aveva approfittato il nemico avanzando e battendo a Ziela il luogotenente LUCIO VALERIO FLACCO, così Mitridate era riuscito a riconquistare il Ponto.

Questa sconfitta romana -che non era tale- aveva tuttavia provocato a Roma, la rogazione di MANILIO e il richiamo di LUCULLO, capitano degno di migliore sorte, ma che l'infida politica, facendogli perdere il frutto delle prime grandi vittorie e togliendogli il comando, sacrificavano alle beghe di un partito ed alla smodata ambizione d'un uomo.
Ottenuto così POMPEO il governo della guerra mitridatica, LUCULLO fece ritorno in Italia e si ritirò nelle sue magnifiche ville di Baja, dove trascorse la sua vita tra il fasto più grande procurandogli fama maggiore di quella che non avevano saputo dargli le sue imprese -come abbiamo visto- gloriose.

POMPEO con un esercito di sessantamila uomini, nel corso dell'anno 66 a.C., passò in Asia e si accinse a quell'impresa che doveva costargli poca fatica e procurargli straordinaria fama.
Ma mentre si tratteneva in Oriente, a Roma altri tentavano di strappare alla nobiltà il governo della Repubblica, e fra tutti -come vedremo più avanti- LUCIO SERGIO CATILINA, nobile lui stesso, ma pessimo soggetto ed aspirante alla tirannide, soprattutto allo scopo di far rifiorire le sostanze dissipate dai debiti contratti nella sua vita dissoluta.

POMPEO giunto in Oriente, nel corso dell'anno 66 a.C., prima di muovere contro il nemico strinse alleanza coi Parti allo scopo di divider le forze di TIGRANE e di MITRIDATE. Infatti FRAATE III, re dei Parti, invase la piccola Armenia e, impegnando Tigrane, gli impedì di soccorrere il suocero, il quale, rimasto solo, pensò di scendere a patti con Pompeo. Ma quando il duce romano gli fece sapere che per ottener pace avrebbe dovuto darsi senza condizioni, decise di continuare la guerra.
La fortuna non lo aiutò: sul fiume Lico, il suo esercito, che contava una trentina di migliaia di soldati, fu sconfitto e MITRIDATE scampò rifugiandosi nell'Armenia presso Tigrane. Ma questi non volle questa volta concedergli asilo al suocero e gli pose anzi una taglia di cento talenti costringendolo a fuggire nella Colchide, poi l'anno seguente, nel regno del Bosforo Cimmerio, governato da suo figlio e che tenta di spodestarlo (vedi più avanti).
Sbarazzatosi per il momento di Mitridate, Pompeo marciò verso l'Arasse contro Tigrane, il quale, avendo resistito valorosamente ai Parti, aveva costretto Fraate a ritirarsi.
Lungo la via, POMPEO, ebbe la lieta sorpresa d'incontrare alcuni ambasciatori inviati da Tigrane per chiedere la pace e questa fu concessa a condizione che il re d'Armenia pagasse seimila talenti e restituisse i territori tolti ai Seleucidi. Avendo Tigrane accettato, Pompeo lo dichiarò alleato di Roma, indi si volse di nuovo verso Mitridate.
Correva l'anno 65 quando Pompeo iniziò la marcia alla volta del Caucaso contro le popolazioni degli Iberi e Albani, per rafforzare l'egemonia romana nella regione. Presso il fiume Kur fu assalito dagli Alani del re Oroize, che sconfisse; nella Georgia, l'anno dopo -nel 64 a.C.- gli Iberi gli sbarrano il passo, ma nelle vicinanze di Tiflis furono battuti e il loro re ARTOSE dovette dare in ostaggio i suoi figli al vincitore.
Pompeo aveva ripresa la marcia verso la Colchide quando la notizia che gli Alani avevano ripreso le armi lo fece ritornare indietro. Sul fiume Alasan si scontrò con seimila Alani condotti da COSE, fratello di OROIZE, e li sbaragliò, poi si diresse verso il Ponto e, penetratovi, lo ridusse in suo potere. Ponto e Bitinia POMPEO le proclama province Romane.
Dal Ponto, Pompeo si recò nella Siria, giunge ad Antiochia e deposto il re ANTIOCO XIII, costituisce la provincia romana di Siria.
Poi nel corso dell'anno 63 a.C. scende in Palestina, dove IRCANO ed ARISTOBULO II figli del re GIANNEO, si contendevano il regno della Giudea. Pompeo penetrò a Gerusalemme e, deposto Aristobulo, che fece mettere in catene, mise sul trono IRCANO non come re ma etnarca e sommo sacerdote, sotto il protettorato di Roma, imponendogli di pagare un tributo annuo e di riconoscerne la sovranità.

Mentre Pompeo si trovava nella Palestina moriva all'età di sessantotto anni MITRIDATE. Questo tenace nemico di Roma, battuto da Pompeo e abbandonato dal genero, era andato nel regno del Bosforo sul cui trono era il figlio MACARE, il quale, spodestato dal padre, si era poi suicidato. Venuto a capo delle truppe, Mitridate aveva concepito il disegno di trascinare le popolazioni barbariche del Danubio contro Roma, ma l'altro figlio FARNACE, non rimase a guardare né a suicidarsi come il fratello, ma si proclamò re e prese in mano l'esercito iniziò a dare la caccia al padre . Era la fine per il feroce sovrano che aveva cominciato la sua carriera spargendo il sangue dei suoi congiunti (madre, sorelle, fratelli, mogli, cognati, amanti e messo in prigione sei figli) ed ora toccava a lui morire dalla mano di un congiunto. All'annunzio della rivolta del figlio, messo in trappola e perduta ogni speranza di riscossa e di salvezza, aveva bevuto un potentissimo veleno, e poiché la morte tardava a venire, si era fatto uccidere da uno schiavo.
Con la morte di Mitridate la pace tornava nell'Asia e la repubblica usciva dalla non breve guerra accresciuta di potenza e di territorio.

Pompeo s'affrettò a recarsi nel Ponto e poiché Farnace fece atto di sottomissione lo lasciò sul trono del regno del Bosforo, dichiarandolo alleato di Roma. La salma di Mitridate per ordine di Pompeo fu onorevolmente sepolta a Sinope accanto alle tombe degli antenati.
Erano trascorsi nove anni dalla morte (In Spagna) di Sertorio e Pompeo poteva vantarsi di aver portato in questo breve periodo di tempo, le aquile romane vittoriose, dall'Atlantico all'Eufrate e dal Mar Rosso alla Palestina, di avere debellati i pirati, di avere sottomesso a Roma potenti sovrani asiatici, di avere ridotto a province la Bitinia con il Ponto e la Siria e di avere ingrandite le province d'Asia e di Cilicia.

In Oriente la mente di Pompeo aveva fatto questo bilancio, poi si rivolse a Roma, dove il potente duce, si apprestava a ritornare, sicuro di esercitarvi, come un tempo Silla, il suo imperio.
Era l'anno 62 a.C., rientrerà a Roma nel 61
(di questo trionfo parleremo ancora nel prossimo e nel successivo capitolo)

Ma -come abbiamo su accennato- nuovi eventi a Roma si erano maturati durante la sua assenza, che dovevano buttare all'aria i suoi progetti; e nuovi uomini ambiziosi come e più di lui, avrebbe ora trovato a Roma; e questi volevano dividere il potere che POMPEO avrebbe voluto tutto per sé.

Infatti, due anni prima del suo rientro a Roma, nel 63 a.C., la Repubblica visse uno dei suoi momenti più critici in conseguenza di una congiura che prevedeva l'assassinio dei consoli, per sovvertire l'ordine costituito e abbattere il predominio della classe senatoria.

I tre personaggi che faranno parlare di sé per secoli e secoli
sono CATILINA, CICERONE E CESARE

E prima del rientro di Pompeo, dobbiamo iniziare a
parlare proprio di CESARE tornando indietro di qualche anno
cioè dalla sua nascita.

è il periodo dall'anno 63 al 62 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 


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