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CRONOLOGIA

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( QUI TUTTI I RIASSUNTI )  RIASSUNTO ANNO 63-62 a. C.

CESARE - CICERONE - CATILINA - LA CONGIURA

CAIO GIULIO CESARE - SUE IMPRESE IN ORIENTE - CESARE EDILE CURULE - JUDEX QUAESTIONIS DE SICARIIS - LA ROGAZIONE SERVILIA AGRARIA - M. TULLIO CICERONE; SUO CONSOLATO - PROCESSO DI C. RABIRIO - CESARE PONTEFICE MASSIMO - L. SERGIO CATILINA - SUA CONGIURA - LA PRIMA CATILINARIA - CATILINA PARTE DA ROMA - ARRESTO DI CONGIURATI - PROCESSO E CONDANNA DEI COMPAGNI DI CATILINA - FINE DEL CONSOLATO DI CICERONE - BATTAGLIA DI PISTOIA E MORTE DI CATILINA - ACCUSE CONTRO CESARE
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CAIO GIULIO CESARE


Nell'anno 61 a.C., POMPEO dopo la guerra in Asia, che aveva voluto a tutti i costi comandare, esautorando CATULLO, si apprestava a ritornare a Roma, sicuro dopo i tanti successi, di esercitarvi, il suo imperio, come e più di SILLA.
Ma nel corso dei suoi quattro anni con lui assente, a Roma molte cose erano cambiate; i suoi progetti -e lui non lo sapeva ancora- non erano più validi, e nuovi uomini ambiziosi, come e più di lui, avrebbe trovato ora a Roma; e questi volevano dividere il potere che POMPEO bramava da qualche tempo tutto per sé.

Già due anni prima del suo rientro a Roma, nel 63 a.C., la Repubblica visse uno dei suoi momenti più critici in conseguenza di una congiura che prevedeva l'assassinio dei consoli, per sovvertire l'ordine costituito e abbattere il predominio della classe senatoria.

Prima, durante e dopo quegli avvenimenti, a Roma erano emersi personaggi che faranno molto parlare di sé; i principali sono tre:

Uno di questi è CAIO GIULIO CESARE. Nato a Roma il 12 luglio del 100 a.C.
Cesare discende da antica famiglia patrizia; ma non gli bastano l'antichità e nobiltà della nascita di cui possono vantarsi molti altri in Roma; più tardi, come per convincere i suoi concittadini che lui ha diritto all'imperio, recitando dalla tribuna del foro il panegirico di sua zia Giulia, moglie di Mario, sosterrà che la sua stirpe è di re e di dèi.
"La materna progenie di mia zia Giulia uscì dai Re e la paterna è congiunta agli Dei immortali. Da Anco Marcio difatti discesero i Marcii di cui la madre di lei portava il nome e da Venere i Giulii alla cui gente appartiene la nostra famiglia".
Sua madre Aurelia era una donna di nobili sensi e di costumi severi e i più celebrati maestri sono gli educatori della sua prima giovinezza.

A quattordici anni Cesare é innalzato alla dignità di Flamine Diale; a sedici gli muore il padre già pretore; a diciassette, sposa CORNELIA, figlia di Cinna, e non ne conta ancora diciannove quando audacemente si rifiuta di obbedire a Silla di ripudiare la moglie.
Silla aveva decretato che fossero (pena di morte ai trasgressori) ripudiate tutte le mogli appartenenti a famiglie sostenitrici di Mario, e la famiglia di Cinna era stata la più partigiana di tutte. CESARE dunque rifiutandosi, era uno dei trasgressori e fu condannato a morte; gli salvò la vita l'intercessione di una favorita del tiranno, e Silla malvolentieri concesse la grazia, ma si narra che esclamò: "nell'uomo cui risparmio la vita, io vedo molti Marii". E fu un buon profeta.

Scampato a stento alla collera del feroce dittatore, Cesare segue il pretore M. MINUCIO TERMO in Oriente; è mandato in missione presso Nicomede, re di Bitinia; partecipa all'assedio di Mitilene, fornendo prove di non comune valore.
Passato agli ordini del proconsole SERVILIO, prende parte alla guerra contro i pirati della Cilicia; appreso nell'anno 78 a.C. che Silla era morto, ritorna a Roma perché lui sa che qui è il miglior terreno dove si possono coltivare le ambizioni; e il 22 enne Cesare è ambizioso; desidera emulare i suoi antenati, sogna la gloria e sa che Roma e il potere non sono una preda difficile per chi abbia ingegno ed audacia, valore e costanza.
Giulio Cesare è fornito a dovizia di tutte queste qualità e di molte altre ancora. Di audacia e valore ha fornito prove non dubbie al tempo delle stragi sillane e del suo soggiorno in Asia; di ingegno nelle missioni presso Nicomede; di tenacia in tutti i momenti della sua vita.
Inoltre è vigoroso di corpo ed i suoi occhi neri e vivacissimi sono pieni di fascino e la sua parola è facile, armoniosa, convincente; il suo vestire ricercato e la sua borsa sempre aperta. E' l'idolo delle donne e l'idolo del popolo; e l'amore delle donne e la simpatia del popolo Cesare le metterà saggiamente a profitto per raggiungere il potere.
Va, dunque a Roma. Qui l'oligarchia vi esercita tuttavia la potenza restituitale da Silla, ma il malcontento contro gli ordinamenti del defunto dittatore è diffuso e già qualcuno ha iniziato ad attaccarlo.
LEPIDO, che conosce un po' dell'animo di Cesare, lo vorrebbe con sé; ma Cesare capisce che i tempi non sono ancora maturi per una controrivoluzione, e che Lepido non è l'uomo capace di farla; sa che prima di tentar le vie difficili della politica è necessario acquistarsi popolarità; ed anziché favorire Lepido cerca di farsi conoscere movendo accuse contro i personaggi tenuti in grande considerazione.

Il primo ad esser preso di mira dal giovane ventiduenne è Cn. CORNELIO DOLABELLA, che è accusato di abusi durante il suo governo della Macedonia. Dolabella è assolto ma il nome dell'audace accusatore è sulle bocche di tutti.
Il secondo è CAJO ANTONIO IBRIDA, che Cesare accusa di aver saccheggiato alcuni luoghi della Grecia, comandando un corpo di cavalleria durante il ritorno di Silla dall'Asia. Anche Ibrida è assolto, ma la popolarità del giovane, che non teme di schierarsi contro certi potenti amici di Silla, aumenta e Cesare, scrisse Svetonio, è messo nel numero dei più grandi avvocati del tempo.

Due anni dopo, nel 76 a.C. GIULIO CESARE lascia Roma diretto a Rodi dove intende di perfezionarsi nell'eloquenza alla scuola di Apollonio Molone. Ma, durante il tragitto, è catturato da una delle tante scorrerie sui mari, dai pirati e rimane prigioniero trentotto giorni. Si narra che i pirati, chiesti venti talenti per il riscatto, lui, sdegnato per l'esiguità della somma, né offrì cinquanta.
Libero, raggiunge finalmente Rodi, ma vi resta poco; suo zio, il console AURELIO COTTA, combatte in Asia, e in Asia è spinto Cesare dall'amore per le avventure e dalla sua irrequietezza. Messo a capo di alcune schiere, Cesare penetra nella Frigia e vi sconfigge Eumachio, luogotenente di Mitridate.

Ora inizia la carriera politico-militare di Cesare. E' eletto tribuno militare e pontefice e nel 68 a.C., fatto questore, va col pretore ANTISTIO VETERE nella Spagna Ulteriore, dove conquista le simpatie degli Ispani per la sua equità.
Ha appena trentadue anni. Nel pronunciare l'elogio funebre della zia
Giulia (laudano Juliae), afferma: "È nel mio sangue la veneranda maestà dei re che tanto potere hanno fra gli uomini e la santità degli dèi da cui dipendono gli stessi re".
Visitando il celebre tempio di Cadice, al cospetto della statua di Alessandro il Macedone piange ed esclama: "Alla mia età quest'uomo aveva conquistato il mondo ed io non sono che un semplice questore !"

Nel 67 a.C., dopo un anno di dimora in Spagna, GIULIO CESARE ritorna a Roma. La città risuona da ogni parte, del nome di Pompeo, il guerriero idolatrato dai democratici ed accanitamente avversato dagli ottimati.
Cesare comprende che per conseguire il potere, sia necessario, in un primo tempo, schierarsi dalla parte del più potente e, poiché il Senato si oppone con tutto le sue forze alla rogazione del tribuno GABINIO sulla guerra dei pirati, difende strenuamente la proposta e si assicura l'amicizia e l'appoggio di Pompeo.
Ma, lontano Pompeo, gli ottimati prendono il sopravvento sui democratici rimasti senza capo.
Cesare non prende parte alle competizioni politiche, ma tiene d'occhio tutto e tutti, e intanto pensa a sé e riesce a farsi nominare edile curule. È la carica che più d'ogni altra può conciliare il favore del popolo ed egli accortamente n'approfitta. Il popolo vuol godere e vedere, e Cesare, come edile, abbellisce la città, fa lastricare quel tratto della via Appia che da Roma conduce ad Albano, adorna di statue il Comizio, il Foro, il Campidoglio e le Basiliche, fa costruire portici, offre lauti conviti al popolo, profonde nei pubblici giuochi somme enormi e raccoglie per gli spettacoli fino a trecentoventiquattro coppie di gladiatori.

Il popolo applaude. Mai s' è visto un edile più abile, dinamico e più fastoso di Cesare, né se ne vedrà in seguito uno più audace di lui. Fa di notte e di nascosto collocare sul colle Capitolino la statua di Mario e i trofei riportati su Giugurta, sui Cimbri e sui Teutoni, di modo che i senatori sgomenti possono ammirare l'effigie del loro più grande nemico sul colle sacro alla Patria; mentre il popolo gioisce contemplando la statua del grande guerriero nato dal seno della plebe, e forse capisce chi è stato ad osare tanto, e come loro lo capiscono anche gli avversari.
Cesare entra ora decisamente nella lotta, e non a torto LUTAZIO CATULO dà il grido d'allarme, sostenendo che Cesare non più in segreto ma apertamente assale la repubblica.
Smessa l'edilità curule, Cesare si trova gravato da ingenti debiti e per rifarsi chiede che gli sia affidato l'incarico di ridurre in provincia romana l'Egitto, il quale si voleva che fosse stato lasciato in eredità a Roma da Tolomeo Alessandro I o da Tolomeo Alessandro II e che allora era in potere di Tolomeo Aulete, ma per consiglio di Catulo il Senato respinge la domanda.

Allora Cesare si fa eleggere presidente del tribunale che giudica i malfattori. Lo scopo per il quale l'ex edile ha voluto tale ufficio è evidente: crescere ancora in prestigio presso il popolo purgando la città dei numerosi autori di furti ed assassini e sferrare un fierissimo colpo ai protetti di Silla e perciò degli oligarchi.
Appena. entrato nella nuova carica infatti, Cesare sferra l'offensiva contro tutti coloro che erano stati gli esecutori feroci delle vendette del dittatore per i quali Silla aveva decretato l'impunità.
Non contento di quest'offensiva, fa proporre dal tribuno PUBLIO SERVILIO RULLO una legge che sembra voglia esclusivamente favorire il popolo ed invece mira a restringere l'autorità dei magistrati e a conferire a pochi uomini un immenso potere.
È la "lex Servilia agraria". Il tribuno propone che sia venduta grandissima parte dell'agro pubblico d'Italia e delle province e sia gravata di una forte gabella la parte invenduta, che con le somme ricavate dalla vendita e dalla gabella si acquistino in Italia terre da distribuire in proprietà ai cittadini poveri, che per curare l'esecuzione della legge, infine, siano eletti dieci commissari i quali durino in carica cinque anni.
Questi avranno il compito di vendere, comprare e distribuire le terre, di giudicare le vertenze sorte dalle suddette operazioni, di fondare colonie nelle regioni d'Italia e collocare cinquemila coloni romani in Campania, e di chieder conto ai generali delle prede e delle somme non versate all'erario. Inoltre i commissari hanno l'"obbligo di risiedere a Roma" e non hanno "facoltà di chieder conto del bottino fatto da Pompeo".
Quest'ultima disposizione, astutamente suggerita da Cesare, mira a non sollevare le opposizioni dei pompeiani, ma la penultima ha lo scopo evidente di escludere Pompeo, che è assente, dalla commissione dei decemviri.
La "legge Servilia" presenta indubbiamente dei vantaggi per lo stato e per il popolo perché si propone di rifare il pubblico patrimonio sperperato dai sillani e d'impiegare una moltitudine di disoccupati pericolosi alla sicurezza della repubblica; ma rappresenta un pericolo grave per la libertà repubblicana e per gli ottimati perché tende a riunire nelle mani dei dieci uomini muniti di ampi poteri le più delicate funzioni dello stato.

Data l'insidia che la rogazione Servilia nasconde ed essendo nota l'ambizione dell'uomo che evidentemente l'ha ispirata e strenuamente ora l'appoggia, non desta meraviglia se del disegno di legge non voglia rilevare l'utilità un uomo, il quale, preoccupato soltanto del pericolo che essa minaccia, sorge a combattere accanitamente la proposta del tribuno.
Quest'uomo è Marco Tullio Cicerone.

MARCO TULLIO CICERONE

CICERONE nasce il 3 gennaio 106, ad Arpino, come il grande Mario, ed è coetaneo di Pompeo Non è di nobile, ma di agiata famiglia; ha compiuto a Roma i suoi studi e fra gli altri maestri ha avuto il famoso giureconsulto QUINTO MUCIO SCEVOLA. Ha combattuto, durante la guerra degli Alleati, agli ordini di Pompeo Strabone, contro i Marsi; terminata la guerra, ha ripreso i suoi studi sotto MOLONE di Rodi, FILONE di Larissa e DIODATO, e ha fatto le sue prime esperienze nella carriera letteraria, scrivendo un poema in onore di Mario, traducendo i "Fenomeni" di Arato, "l'Economico" di Senofonte e alcuni dialoghi di Platone e componendo il trattato "De inventione". A 26 anni, nell'81 ha esordito nel foro, difendendo un certo PUBLIO QUINZIO (pro Quintio) e l'anno dopo ha conquistato di colpo la notorietà, assumendo arditamente la difesa di SESTO ROSCIO AMERINO ("pro Roscio Amerino") accusato di parricidio da Erucio e dal malvagio Crisogono, liberto e sicario di Silla.
Recatosi poco dopo in Oriente, perfeziona i suoi studi ad Atene sotto l'accademico ANTIOCO di Ascalona, il retore DEMETRIO SIRO e gli epicurei ZENONE e FEDRO e a Rodi alla scuola di MOLONE. Tornato in Roma nel 77 a.C ha imparato la mimica presso il celebre attore ROSCIO ed ha preso in moglie TERENZIA; eletto questore nel 76, si è distinto in questa carica a Lilibeo (Marsala); eletto edile nel 71 e pretore nel 67, è salito in gran fama per le orazioni pronunciate (nel 70) contro VERRE (il disonesto governatore della Sicilia) e in difesa di FONTEJO e di CECINA, nel 66 per aver sostenuto validamente con la sua eloquenza la legge Manilia "de imperio Cnei Pompei"; e nel 63 è stato eletto console, riuscendo a battere L. SERGIO CATILINA.
Quest'ultimo si era presentato alle elezioni con un programma di audaci riforme, quali la cancellazione dei debiti (lui ne aveva una montagna), la revisione dei sistemi giudiziari, una ridistribuzione della ricchezza.

Cicerone, come avvocato, è il difensore fedele dei Cavalieri al cui ceto appartiene, e come uomo politico vagheggia la conciliazione tra il ceto senatorio e l'equestre, tra la nobiltà del sangue e� quella del denaro. Lui è dunque avverso alla parte democratica e nella legge agraria proposta da SERVILIO RULLO non vede una legge che tende a rialzare le sorti economiche del popolo e, insieme, dello stato, ma una manovra politica fatta dai "populares" solo per strappare agli avversari il potere, quel potere che Cicerone vuole in mano alla parte moderata dei nobili e dei cavalieri.
Appunto per questo che nel gennaio del 63 con tre orazioni fiere e serrate ("de lege agraria") si scaglia contro la rogazione Servilia mostrando quale grave pericolo costituisca per la Repubblica una magistratura straordinaria e così potente come quella proposta da Rullo, e dimostrando quanto sia dannoso all'economia dello stato comperare nuove terre invece di distribuire l'agro pubblico già esistente.
La legge di Servilio cade, ma Cesare non si dà per vinto. Non potendo con l'astuzia carpire il potere, tenta di screditare l'autorità del Senato, di abbatterla, adoperandosi a far condannare quei decreti eccezionali per mezzo dei quali è solito violare le leggi per soffocare la voce della plebe.
Il tribuno T. ATIO LABIENO, prestandosi al giuoco di Cesare, accusa di "perduellione" (alto tradimento contro lo stato) il senatore C. RABIRIO per avere questi, al tempo della sommossa di L. Appulejo Saturnino, spinto il Senato a conferire al console poteri eccezionali contro l'agitatore plebeo.

A giudicare il senatore, il pretore urbano nomina duumviri L. GIULIO CESARE e C. GIULIO CESARE. Rabirio è condannato alla pena capitale. L'infelice vecchio si appella al popolo e i senatori tentano ogni mezzo per salvarlo. Vi riescono grazie all'opera del pretore QUINTO METELLO CELERE e di CICERONE.
Già le centurie che dovevano decidere erano riunite e gli animi di tutti non erano, in verità, inclini alla clemenza, quando il vessillo che era posto sul Gianicolo improvvisamente fu rimosso. In altri tempi, con il togliere il vessillo dal colle si annunziava che il territorio di Roma era invaso dal nemico e si invitava il popolo a correre in difesa della città.
Pur sapendo che nessun nemico era alle porte di Roma, i comizi in rispetto alla tradizione sono sciolti e il processo contro Rabirio va in fumo, differito .
LABIENO chiederà più tardi che il senatore sia condannato ad una multa, ma Cicerone che lo difende con tanta eloquenza ("pro Cajo Rabirio") fa terminare il processo con l'assoluzione di Rabirio.

Cicerone ha inflitto due successivi scacchi a Cesare, ma questi ha saputo agire così enigmaticamente che non ne risente alcun danno. Intanto la sua popolarità aumenta di giorno in giorno e quando muore QUINTO METELLO il Pio e resta vacante la carica di pontefice massimo, il popolo, sebbene vi aspirino il principe del Senato, Lutazio Catulo, e P. Servilio Vezio l'Isaurico, la conferisce a Cesare.
E' l'ascesa lenta ma sicura dell'uomo che sarà domani l'arbitro dei destini della Repubblica. Forse quest'ascesa poteva prendere un ritmo più celere se un avvenimento di capitale importanza non avesse contribuito a mantenere la figura di Cicerone in primo piano nella vita di Roma.
E questo avvenimento è la congiura di Catilina.

LA CONGIURA DI CATILINA

(VEDI QUI ALTRE PAGINE SU CATILINA, CICERONE,
E L'ORAZIONE COMPLETA)

LUCIO SERGIO CATILINA discendeva da un'antichissima famiglia patrizia, il cui capostipite -lui diceva- era un compagno di Enea. Vantava tra i suoi antenati un Sergio Silo che, ferito ventisette volte nelle guerre contro Cartagine, nonostante privo di un braccio, aveva continuato a impugnare la spada per mezzo di uno speciale apparecchio costruito per lui apposta.
Secondo il ritratto che ne fa Sallustio, sapeva sopportare la fame, la sete, il freddo ed il sonno; era di animo audace, scaltro, ricco di risorse, capace di simulare in ogni circostanza, bramoso dell'amore altrui e prodigo del proprio; molto eloquente, poco giudizioso e sempre assorto in progetti irrealizzabili.
Qualcuno ha cercato di mettere in una luce migliore Catilina accusando di esagerazione gli storici antichi, ma nessuno è riuscito a dimostrare che lui operando fosse mosso veramente da nobili sentimenti.
A Catilina certo non mancavano buone qualità, ma queste erano di gran lunga inferiori a quelle cattive. Di lui si ricordava che era stato l'amante della figlia, che aveva assassinato il fratello, che aveva ucciso il figlio, per riuscire ad avere una sua donna, e che era solito bere insieme con i suoi seguaci il sangue delle vittime umane.
Forse tutto queste malignità non sono vere, ma il barbaro assassinio di Marco Graditiano è però sufficiente per mostrarci di quale animo malvagio fosse dotato Catilina.
Al tempo delle persecuzioni sillane, parteggiando per il grande avversario di Mario, aveva -con le confische- saputo procacciarsi una vistosa fortuna, ma ben presto l'aveva dilapidata nei piaceri e nelle crapule e assillato dai creditori si era, nel 67, fatto eleggere pretore e l'anno seguente era riuscito ad avere il governo della provincia d'Africa a danno delle cui popolazioni si era arricchito. Ritornato in Roma nel 65, si era presentato candidato alle elezioni consolari, ma la sua candidatura non era stata accettata.
Uomo senza scrupoli, avrebbe voluto vendicarsi sopprimendo i due consoli eletti, AURELIO COTTA e MANLIO TORQUATO; non essendogli riuscito il colpo, aveva deciso di ripresentare la sua candidatura per l'anno 64, ma vi era stato impedito da un processo intentatogli da Publio Claudio Pulcro per concussione; si era poi salvato corrompendo con l'oro l'accusatore e procurandosi la difesa del console Torquato.

Né questo era stato il solo processo cui era andato incontro. Accusato dell'assassinio di GRATIDIANO da L. Lucceio presso il tribunale presieduto da Cesare, era stato assolto.
Catilina non si era perso d'animo e nelle elezioni del 63 si era ripresentato insieme con C. ANTONIO IBRIDA, ma il suo programma sui debiti (che abbiamo già su accennato) e sul richiamo dei proscritti sillani e il suo stesso passato di nequizie e di violenze gli avevano fatto contrapporre dai patrizi e dai cavalieri CICERONE, (appoggiato dall'"uomo nuovo" di Arpino), il quale, eletto console con lo stesso ANTONIO IBRIDA, si era abilmente assicurata la fedeltà del collega promettendogli il governo della Macedonia.
Ogni altro uomo, dopo tanti insuccessi, non avrebbe più tentato di ottenere il consolato; CATILINA invece volle insistere e per riuscirvi cominciò un abile ed assiduo lavorio di trame con il quale sperava di formarsi un fortissimo partito.

Roma, l'Italia e le province erano piene di malcontenti. Vi erano i proscritti sillani che bramavano di ritornar dall'esilio e riavere i propri beni, vi erano coloro che, arricchitisi sotto Silla, avevano -come lui- sciupato poi nelle crapule la loro fortuna; vi erano patrizi e cavalieri, uomini dissoluti, spiantati, ambiziosi, carichi di debiti, condannati per delitti infamanti.
Catilina seppe con astute promesse attrarli tutti a sé, servendosi per i suoi scopi di alcune donne, specie di quelle che, come Sempronia, erano di animo perverso e di costumi depravati.
Avvicinandosi le elezioni per l'anno successivo (il 62 a.C.), una moltitudine di elettori di Catilina era convenuta a Roma specialmente dall'Apulia, dall'Etruria e dal Piceno.
Il tristo patrizio -dopo la sconfitta- era questa volta sicuro di riuscire. Ma ad attraversargli la via ci fu ancora Cicerone. Il console fece approvare una sua proposta di legge (lex Tullia de ambitra) con la quale si inasprivano le pene stabilite contro i brogli elettorali, poi fece differire i comizi consolari all'ottobre sempre del 63.
A prender questo provvedimento l'avevano indotto non solo la presenza a Roma della turba favorevole a Catilina, ma anche le confidenze di una donna di nome Fulvia.
FULVIA era amica di Cicerone ed amante di un certo Curio, intimo di Catilina. Da Curio Fulvia aveva appreso che Catilina, risoluto a raggiungere i suoi scopi, tramava una congiura, il cui centro d'azione era a Fiesole. Il fine che la congiura si proponeva, era, di sopprimere Cicerone, assassinare buona parte degli oligarghi e impadronirsi a viva forza del potere. Alle confidenze di Fulvia si erano aggiunte le lettere di M. MARCELLO e di METELLO SCIPIONE che avvertivano della congiura Cicerone.
Questi provvide alla sua sicurezza personale uscendo da casa armato di corazza e scortato da numerosi amici; a quella della repubblica cercò di provvedere radunando il Senato e proponendo che fossero prese misure speciali; ma il Senato, sebbene fosse convinto della trama ordita da Catilina dal contegno minaccioso di costui e dalle stringenti argomentazioni del console, non volle ricorrere ai provvedimenti straordinari.
Le elezioni avvennero di lì a poco e furono eletti consoli per l'anno 62 due nemici di Catilina: L. LICINIO MURENA e DECIO GIUNIO SILANO. Le elezioni veramente non furono fatte con tutta legalità e pare che Murena commettesse dei brogli per riuscire eletto. Contro di lui e contro le elezioni insorsero SERVIO SULPICIO e CATONE il giovane, riproponendo i comizi; ma le loro proteste e le loro accuse furono vane e MURENA, difeso da Cicerone ("pro Murena"), fu assolto dalle accuse.
Inasprito dall'ultimo scacco elettorale, LUCIO SERGIO CATILINA decise di ricorrere alla violenza armata; mandò CAJO GIULIO in Apulia a prepararvi la rivolta, SETTIMIO nel Piceno, e commise a CAJO MANLIO, uomo molto ricco e centurione di Silla, di reclutare armati nell'Etruria e di capeggiare lui gl'insorti.

Tutti questi maneggi non rimasero segreti: Fulvia informò Cicerone che la rivolta doveva scoppiare il 27 ottobre, giorno in cui si celebravano i ludi in commemorazione della vittoria di Silla su Mitridate.
Di fronte all'imminenza del pericolo, il 21 di quello stesso mese, MARCO TULLIO CICERONE convocò d'urgenza il Senato. Le prove dei tristi disegni di Catilina mancavano, e anche questa volta il Senato diede ampi poteri ai consoli affinché provvedessero alla sicurezza della Repubblica.

Furono mandati Q. MARCIO REGE e Q. METELLO CRETICO in Etruria con un buon contingente di truppe; nel Piceno fu inviato il pretore Q. METELLO CELERE; nella Campania il pretore Q. POMPEO RUFO; alle porte e sulle mura di Roma furono dislocate numerose guardie, altri soldati posti attorno alla Curia e nei punti strategici della città e fu pubblicato un bando con il quale si promettevano premi vistosi a quei cittadini che denunziavano i cospiratori, oltre ad assicurare l'impunità ai congiurati che rivelavano i loro complici.

Roma fu angosciata all'annunzio della misteriosa congiura: i templi si gremirono di donne imploranti l'aiuto dei Numi, i timorosi di sventure fuggirono o si nascosero, i ricchi misero al sicuro i loro tesori.
Giunse il fatidico 27 ottobre, ma non scoppiò nessuna rivolta, grazie alle energiche misure preventivamente adottate da Cicerone.
Catilina però non aveva abbandonato l'idea della sommossa, l'aveva semplicemente differita, dinanzi ai provvedimenti del Senato.
Il 5 novembre di quello stesso anno, convocò nella casa di MARCO PORCIO LECA i capi della congiura, espose loro il piano d'azione ed affidò a ciascuno la parte che doveva sostenere. Ai due congiurati, C. CORNELIO e L. VARGUNTEIO, fu affidato l'incarico di uccidere Cicerone.

Ma anche di questa riunione segreta, Cicerone ebbe notizia dall'amica Fulvia. Occorreva uscire sollecitamente da una situazione che poteva cagionare la rovina dello stato; era necessario non più che si vigilasse e si prendessero altre misure di sicurezza, ma che si troncassero le radici della congiura arrestando e processando i colpevoli prima del misfatto..
Cicerone non indugiò molto, agì subito. Fra i tanti lui solo si rendeva esattamente conto della gravità della situazione e lui solo era deciso ad agire con suprema energia.
Convocò pertanto nel tempio di Giove Statore il Senato il 7 novembre. Il tempio era gremito di senatori nell'attesa che il console rivelasse quello che aveva annunciato, i "gravi fatti", quando Catilina comparve nell'assemblea.

S'ignorano i motivi che spinsero Catilina a presentarsi nell'adunanza senatoria. Vogliono alcuni, che agì così per allontanare i sospetti fingendo sicurezza; vogliono altri che Catilina mirava con la sua presenza a disarmare l'ostilità dei senatori nemici e a convincere della sua innocenza i dubbiosi; altri ancora hanno voluto vedere nella comparsa del capo della congiura un gesto di spavalderia e di provocazione. E forse tutte queste cose insieme spinsero Catilina a presenziare alla famosa seduta.
Il modo con cui fu accolto gli fece capire subito di quale considerazione godeva presso i suoi colleghi. Difatti, appena entrò nel tempio un mormorio d'indignazione si levò e tutti si scostarono da lui come se temessero di essere contagiati da un appestato.

CATILINA non si sgomentò a quell'accoglienza e a testa alta sostenne audacemente lo sguardo sdegnoso che i senatori gli rivolgevano.
Cicerone, incoraggiato dal contegno della Curia e sdegnato pure lui dall'arrivo dell'impudente patrizio, si scagliò contro di lui con le roventi parole di quell'aspro ammonimento che con il nome di "prima catilinaria" costituisce l'atto d'accusa del celebre oratore e fiero patriota a carico del sanguinario e malvagio agitatore.
"E fino a quando abuserai, o Catilina, della nostra pazienza? Come! Non le guardie che vigilano intorno alla Curia, non la milizia della città, non il timore del popolo né il concorso dei cittadini probi né l'indignazione degli sguardi t'impressionano? Non comprendi che tutti i tuoi disegni sono noti? Il Senato sa ogni cosa; ogni cosa ho io scoperto, ogni tua mossa io conosco. Ho saputo e denunziato l'insurrezione di Manlio in Etruria; ed ho avvertito che tu avevi deciso di assassinare i principali ottimati.
Tu volevi sorprendere Preneste, ma sei stato prevenuto da me perché ad ogni passo ti segue la mia vigilanza. Due notti or sono, nell'adunanza in casa di Leca, dividesti fra i tuoi soci l'Italia, assegnasti a ciascuno la sua parte nell'incendio di Roma, annunciasti che era giunto per te il tempo di partire per il campo di Manlio, annunciasti che avevi tardato perché io ero ancora vivo e mandasti due cavalieri perché mi trucidassero. Io tutto ho saputo e mi sono circondato di più vigili custodi. Rinunzia, Catilina, ai tuoi disegni di rovina e d'incendio e parti, allontanati dalla città che gli dèi invece proteggono dalle tue insidie. Parti ! La patria che tu hai contaminato di tanti delitti te lo comanda !".

(VEDI QUI ALTRE PAGINE SU CATILINA, CICERONE,
E L'ORAZIONE COMPLETA)

Catilina partì protestando la sua innocenza e scagliando oscure minacce contro il suo accusatore; lasciò Roma dove gli era ormai impossibile rimanere e si diresse alla volta dell'Etruria, verso il campo di Manlio, rivestito delle insegne consolari.
Il giorno dopo Cicerone con la "seconda catilinaria" informava il popolo della congiura, minacciava i soci di Catilina rimasti in città e tranquillizzava la cittadinanza assicurandola che il governo avrebbe tutelato la repubblica e fatte rispettare le leggi.
Ma Cicerone non sapeva in verità come comportarsi. Da buon avvocato capiva che per mettere sotto processo i congiurati occorrevano delle prove inconfutabili; e le prove mancavano.

Si narra che il caso l'aiutò. CATILINA, partendo aveva lasciato in città per sorvegliare le mosse dei consoli e del Senato e per capeggiare la rivolta, il pretore P. LENTULO SURA, CETEGO e ANTONIO. Vi erano a quel tempo a Roma alcuni ambasciatori degli Allobrogi, giunti per protestare sul malgoverno del loro paese, assistiti da Q. FABIO SANGA.
LENTULO imprudentemente tentò di fare entrare nella congiura i legati stranieri, i quali prima accettarono, poi, impauriti o pentiti, si rivolsero per consiglio a Sanga, che subito fece avvertire del fatto Cicerone. Questi ordinò ai legati di fingere di volere accettare le indicazioni dei congiurati e di farsele dare solo con precise indicazioni scritte. Lentulo cadde nel tranello e diede agli Allobrogi uno scritto firmato da lui e dagli altri capi e una lettera per Catilina.

Avuti questi preziosi documenti i legati finsero di partire, ma, giunti al ponte Milvo, furono fermati, perquisiti e arrestati. Durante la notte, Cicerone mandò a chiamare i congiurati e quando essi furono in sua presenza li dichiarò in arresto, poi sguinzagliò guardie nelle case dei cospiratori, dove fu rinvenuta una considerevole quantità d'armi.
Avute le prove della congiura, il giorno dopo (3 dicembre) Cicerone convocò il Senato nel tempio della Concordia, custodito da buon numero di milizie, espose i fatti di cui era venuto a conoscenza, riferì la deposizione dei legati, mostrò gli scritti e interrogò ad uno ad uno, alla presenza dei senatori, i congiurati, i quali prima negarono, poi finirono con il confessare ogni cosa dichiarandosi autori degli scritti.
Il senatore L. AURELIO COTTA propose che il console fosse pubblicamente ringraziato per aver salvato la patria e che s'iniziassero con grande solennità le supplicazioni agli dei. La proposta fu accettata unanimemente e Q. LUTAZIO CATULO, principe del Senato, nominò CICERONE "padre della patria", e SCRIBONIO CURIONE chiamò apoteosi quel suo consolato.
P. LENTULO SURA fu privato della pretura e insieme con gli altri congiurati fu tenuto in prigione nell'attesa del processo.
In un'arringa ("terza catilinaria") al popolo, Cicerone informò la cittadinanza degli avvenimenti, annunziando anche di avere accertata la piena responsabilità dei congiurati.
Il 5 dicembre avvenne nello stesso tempio della Concordia una memorabile adunanza per decidere la sorte degli arrestati che erano cinque: LEUTULO, CETEGO, GABINIO, STATILIO e CEPARIO.
Cicerone, temendo dei disordini, aveva preso le misure necessarie, messo forti guardie alle porte e sulle mura della città, fatto circondare il tempio da una forte schiera di cavalieri e il Campidoglio dalle milizie, inoltre aveva messo intorno al foro numerosi soldati.
La seduta fu tempestosa nonostante lo scarso numero dei senatori intervenuti.
Il primo a dare il voto fu il console designato DECIO GIUNIO SILANO, il quale propose per gli accusati la pena capitale, imitato da tutti i consolari presenti.
Invece CAIO GIULIO CESARE, che era pretore designato, pronunciò una vibrante orazione, in cui protestando contro il Senato che si arrogava quel diritto che invece spettava al popolo, di condannare a morte dei cittadini romani; proponeva che i colpevoli fossero puniti con la prigionia e con la confisca dei beni; che la loro riabilitazione non potesse esser proposta né al Senato né al popolo e infine di dichiarare dichiarato nemico dello stato chi ardiva contravvenire a questa condanna.

L'orazione di Cesare ebbe l'approvazione di molti; QUINTO, fratello di Cicerone, si dichiarò favorevole alla proposta di Cesare e lo stesso SILANO precisò che nella sua dichiarazione di voto con l'espressione da lui usata di "extremo supplicio" intendeva parlare di "esilio".
Quel giorno e a quel punto, i cinque congiurati avrebbero avuto certamente salva la vita se non si levavano a parlare CICERONE e CATONE il giovane, chiedendo per gli accusati la pena di morte. Quest'ultimo anzi propose che alla pena capitale fosse aggiunta la confisca dei beni.
Allora GIULIO CESARE scattò in piedi e si scagliò contro i due oppositori, accusandoli di ferocia, e invitò i tribuni affinché mettessero il veto e si appellassero al giudizio del popolo.
Alle fiere parole di Cesare nacque un pandemonio; i tribuni non osarono protestare, i senatori cominciarono a vociferare; pesanti ingiurie furono scagliate e i cavalieri che erano a guardia penetrarono nel tempio con le spade sguainate ed avrebbero ucciso Cesare se alcuni senatori non avessero impedito che la violenza degenerasse in atti criminali.
Tornata la calma, l'aggiunta di Catone non fu accettata, e comminata la pena capitale per gli accusati.
La difesa dei congiurati fatta quel giorno fece sospettare che GIULIO CESARE fosse partecipe della congiura, né i sospetti erano senza fondamento. Non aveva Cesare assolto Catilina dall'accusa d'assassinio di M. Gratidiano? Ma le prove della sua complicità mancavano e lo stesso Cicerone, che, più tardi, doveva condividere i sospetti, non volle ascoltare Q. CATULO e C. PISONE che lo consigliavano di coinvolgere pure Cesare nel processo.

La sentenza di morte ebbe immediata esecuzione. Il giorno stesso della condanna i cinque congiurati furono tradotti nel carcere Tulliano, presente Cicerone.
Questi, uscito nel foro dopo l'esecuzione, annunziò al popolo la morte dei condannati con le rituali parole: "Vissero !".
Propagatasi la notizia, la gente si accalcò intorno al console e gli fece una calorosa dimostrazione salutandolo salvatore della patria.

CICERONE trionfava; ma il suo trionfo fu amareggiato dai rimproveri che non pochi gli rivolsero per la condotta tenuta nel reprimere la congiura. Fra gli altri il tribuno METELLO NEPOTE, quando Cicerone, terminato l'anno del suo consolato, si apprestava a rivolgere al popolo un'arringa con il proposito, certo, di enumerare i suoi meriti, gli vietò di dire altre parole oltre quelle d'uso che pronunziavano i consoli uscenti, il giuramento cioè di nulla aver fatto contro le leggi dello stato.
Cicerone si limitò al giuramento, ma seppe fare l'apoteosi del suo consolato giurando di aver salvato la Repubblica.

Con la punizione di Lentulo e dei suoi compagni la congiura aveva inferto un durissimo colpo all'opposizione, ma il pericolo non era del tutto cessato.

LA BATTAGLIA DI PISTOIA

Restava CATILINA con un esercito di ventimila uomini non abituati però alla guerra e anche male armati; aveva il suo quartiere generale nell'Etruria; di là tentò di passare nella Gallia Cisalpina. Ma i valichi dell'Appennino erano controllati dal pretore METELLO CELERE accorso con molte truppe dal Piceno, mentre la via di Roma era sbarrata dall'esercito del proconsole ANTONIO IBRIDA.
Catilina, non si sa perché, preferì affrontare quest'ultimo e, sceso nelle campagne di Pistoia, il 5 gennaio del 62 a.C., ingaggiò un'impari battaglia con le truppe di M. PETREIO, luogotenente del proconsole ANTONIO.

La battaglia si svolse a Campotizzoro e durò più del previsto; le forze governative dovettero ricorrere all'impiego straordinario dei pretoriani che, infastiditi da un coinvolgimento che non avevano messo in conto, si gettarono nella mischia con inaudita ferocia. All'esercito dei congiurati, ben presto fu preclusa ogni via di salvezza; si batté con il coraggio della disperazione difendendo a palmo a palmo il campo di battaglia, ma la sorte era già segnata, non vi era più nessuna via di scampo e alla fine le truppe della Repubblica li annientarono e uccisero lo stesso CATILINA.

Catilina fu trovato in mezzo ad un mucchio di cadaveri, che ancora respirava, accanto all'aquila d'argento che aveva avuto come insegna nella guerra contro i Cimbri. Il generale Antonio, che comandava le operazioni, non ebbe il fegato di farlo curare per portarlo di fronte a un tribunale, e ordinò che venisse decapitato, ancora cosciente. Poi il lugubre trofeo fu inviato a Roma.
"Dopo la battaglia - scrive Sallustio - si poté constatare quanta audacia e quanta energia regnassero fra i soldati di Catilina: ognuno di essi copriva dopo morto, con il proprio corpo, il posto che, vivo, aveva tenuto in battaglia".

(*) (Campotizzoro è una località che si trova nell'attuale  SS che porta alla zona sciistica dell'Abetone. Ma sembra che Catilina non fu ucciso li, ma molto piu' a nord , e piu' precisamente in localita' Cutigliano , a pochissimi chilometri dalla località sciistica suddetta. Nel centro di Pistoia, tuttavia, esiste tutt'oggi una via che porta ancora il suo nome: <via tomba di Catilina>, e si trova vicino all'ospedale del Ceppo, e porta nella stupenda piazza Duomo. Tuttavia, -se ricordo bene, perchè sono anni che non ci passo-, a Cutigliano, c'è un antico cippo che ricorda dove fu ucciso Catilina.) (Ndr.)

La congiura di Catilina ebbe poi uno strascico quando nei processi che furono celebrati l'anno dopo, furono sottoposti a giudizio alcuni suoi seguaci: L. VARGUNTEJO, C. CORNELIO, M. PORCIO LECA, SERVIO e PUBLIO CORNELIO SILLA. Quest'ultimo ottenne la difesa di Cicerone consacrata nell'orazione "pro P. Sulla".
Tutti questi erano stati accusati da L. VEZZIO di violenza contro la Repubblica. Vezzio - e Cicerone si era servito di lui come spia, accusò anche GIULIO CESARE davanti al questore NOVIO NEGRO mentre Q. CURIO lo accusava al Senato.

Si tentava con queste accuse, già suscitate da CATULO e da PISONE, di abbattere la potenza di Cesare che cominciava già a preoccupare molti; ma non ottennero i risultati che i promotori si ripromettevano, anzi su Vezzio e su Novio cadde la punizione: il primo per calunnia fu messo in prigione e la stessa sorte subì il secondo per alcuni intrallazzi.

Quando l'anno 61 terminava, con il trionfo del "salvatore della patria", a Roma la situazione non era per nulla tranquilla. Perché tutti i fatti che abbiamo sopra narrati, avvenivano durante l'assenza dell'ambizioso uomo che si trovava da circa quattro anni impegnato nella guerra in Oriente.
Terminata questa con una pace, con la creazione di nuove province, e un riassetto dell'intero territorio romano in Oriente, POMPEO, proprio alla fine del 61 si apprestava a fare ritorno a Roma. Otterrà subito i desiderati Fasti trionfali (parleremo di questo e d'altro nel prossimo capitolo) ma subito dopo, è sdegnato per l'ingratitudine riservatagli per aver lui -questa l'accusa- fatto e disfatto in Oriente, regni, province, territori, distribuito terre ai suoi veterani del suo "fedelissimo esercito"; profondamente amareggiato, entra in forte contrasto con l'oligarchia senatoria che non ratifica i suoi provvedimenti, e si avvicina ad un altro uomo sdegnato della vita politica romana, e che proprio per questo si è fatto molti nemici, e che fino ad ora ha controllato la sua insofferenza: è GIULIO CESARE, che da qualche tempo, per agire, cercava un appoggio; e quello di POMPEO non è solo un sostegno morale, ma e un appoggio militare, lui ha, infatti, un potente esercito!
Dunque CESARE è pronto a trarre profitto dalle circostanze.
Sfruttare abilmente le ambizioni di Crasso, il nobile che aveva sconfitto Spartaco, e il malcontento di Pompeo.

I successivi fatti del dopo 61, sono nel prossimo capitolo�

�il periodo dall'anno 61 al 57 a.C. > > >

Fonti, Bibliografia, Testi, Citazioni: 
TITO LIVIO - STORIE (ab Urbe condita)
POLIBIO - STORIE
APPIANO - BELL. CIV. STORIA ROMANA
DIONE CASSIO - STORIA ROMANA 
PAOLO GIUDICI - STORIA D'ITALIA 
UTET - CRONOLOGIA UNIVERSALE
I. CAZZANIGA , ST. LETT. LATINA, 
+ altri, in Biblioteca dell'Autore 


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