INNOCENTI NELL'INFERNO |
Introduzione
di GIAN LUIGI FALABRINO
(docente di storia della comunicazione visiva
al Politecnico di Torino )
Lo studio di Giacomo Scotti sugli eccidi del settembre 1943 in Istria è volutamente limitato nel tempo e nei luoghi: non considera infatti le deportazioni e le foibe delle quali furono vittime goriziani e triestini nel maggio 1945, né lo stillicidio di vittime in Istria in mezzo ai due terribili periodi. Ma, forse appunto per queste autolimitazioni, è documentato e preciso, e presenta tre grandi meriti. Il primo è di situare la tragedia del settembre 1943 nel contesto storico più ampio del dominio fascista sulla Venezia Giulia, dal 1922 al 1943, con le proibizioni dei partiti, delle scuole, dei giornali di sloveni e croati, l'interdizione all'uso delle loro lingue, le sentenze del tribunale speciale ecc., cui si aggiunge poi la repressione antipartigiana in Slovenia e in Dalmazia nel 1941 - '43. In ciò Scotti è molto vicino alle tesi di Teodoro Sala, autore di volumi e saggi sul fascismo e la Jugoslavia, sintetizzata su L'Espresso del 19 settembre 1996.
Certo, va detto che le colpe degli uni non giustificano le colpe degli altri, e Scotti ne è ben consapevole specialmente quando parla di alcuni delitti particolarmente efferati, quali l'uccisione di Norma Carretto, colpevole di essere figlia di un fascista, o delle tre sorelle Radecchi, di 17, 19 e 21 anni. Ma il giudizio storico non si preoccupa tanto delle giustificazioni, quanto delle spiegazioni. Comprendere non è perdonare, ma sbaglia chi, da una parte o dall'altra, ancora adesso, a cinquant'anni di distanza, crede che le vittime siano da una parte sola. Il secondo merito è di avere posto, con la chiarezza della propria tesi, il problema se le foibe siano state o no un atto di genocidio. Scotti lo nega, e per il settembre 1943 sarebbe difficile credere il contrario. Semmai il problema si pone per il 1944-'45, ma con Scotti, anche Galliano Fogar sembra contrario ad ammettere il genocidio: "Non fu un piano di sterminio etnico" (in "Lettera ai compagni" del settembre 1996).
Secondo Fogar, il leader del partito comunista sloveno, Kardelj, aveva dato la direttiva di "epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo"; però per fascismo, chiarisce lo storico, s'intendevano "tutti gli oppositori politici, nazionali, ideologici", compresi gli uomini del CLN di Trieste e Gorizia in quanto non comunisti e oppositori delle annessioni alla Jugoslavia. Questo chiarimento di Fogar sembra dare ragione alla tesi estensiva di Nicola Tranfaglia (L'Unità del 22 agosto 1996): "Si tratta di azioni di terrorismo nazionalista che non hanno nulla da invidiare, quanto a metodi e conseguenze, ad ogni altro eccidio di quegli anni e non hanno alcuna giustificazione storica".
Del resto, anche in forme meno cruente ma certamente odiose, le intimidazioni anti-italiane continuarono anche dopo la guerra e, in quella piccola parte dell'Istria che con Trieste avrebbe dovuto costituire il Territorio Libero, addirittura fino al 1954. Del resto Milovan Gilas in un'intervista a Panorama (21 luglio 1991) aveva dichiarato: "Nel 1946 io e Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo".
Il terzo merito del saggio di Scotti sta nel dare un contributo, preciso e documentato, al riesame delle vicende della regione orientale, che l'Italia sembra scoprire soltanto adesso, dopo che nell'agosto 1996 Stelio Spadaro, segretario del Pds di Trieste, ha reso pubblico un suo documento "revisionista" nel quale, fra l'altro, affermava: "La sinistra italiana ha rimosso a lungo la vicenda, ora deve fare i conti con la storia".
Allora scoppiò un putiferio, la sinistra si divise, gli storici locali dimostrarono che non avevano mai ignorato le foibe, il Corriere della Sera rilanciò la questione con un editoriale, e molti intervennero con opposte interpretazioni, sia dei fatti, sia del vero o presunto silenzio della sinistra. Ci fu davvero il silenzio della sinistra? E se fu un silenzio non fu anche degli altri settori della politica e della cultura? Sono sicuro che la rimozione ci fu, e che fu generalizzata, non soltanto della sinistra, non soltanto sulle foibe, ma sull'intera vicenda della Venezia Giulia e degli esuli del 1945 - '54, ignorati o respinti come seccatori, come viventi promemoria delle conseguenze del la guerra fascista che tutti volevano dimenticare. Nella sua evidente verità, appare perfino ingenua la rivendicazione dei politici e degli storici giuliani, che dicono di non aver mai dimenticato.
Claudio Tonel, dirigente del Pds triestino, il 23 agosto 1996 aveva dichiarato "Non è vero che le vicende siano state dimenticate dalla sinistra. Forse nel resto d'Italia, ma non qui. Io stesso ho curato una decina di volumi in materia e ho organizzato convegni". E Fogar ha rivendicato il molto lavoro svolto dall'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione di Trieste. "A Trieste le foibe sono all'ordine del giorno da più di quarant'anni". Ma guai se non fosse così, in una città che ha avuto molte vittime, che ha la foiba di Basovizza nella propria periferia carsica, e che ha visto alcuni processi per le foibe, come quello del 1948 al gruppo di Villa Segré, che aveva coinvolto il celebre comico dialettale Cecchelin. Ma quando si parla del silenzio, non ci si riferisce, evidentemente, ai convegni e alle riviste locali; si parla di tutta l'Italia al di qua dell'Isonzo, dei partiti, dei giornali, dei libri si storia. le parole più chiare e convincenti le ha scritte proprio uno storico, Nicola Tranfaglia: per lui, che si dissocia da quanti cercano di difendere i massacri dei nazionalisti jugoslavi e di trovare una giustificazione storica, "la storiografia di sinistra italiana deve scontare ancora un notevole ritardo sui problemi e sui delitti dello stalinismo".
Ma chi ha vissuto quegli anni con l'interesse e con la sensibilità di chi era a Trieste fra guerra e dopoguerra, sa che il silenzio non fu soltanto della storiografia e non soltanto della sinistra. Tutto lo schieramento democratico lasciò la memoria delle foibe e dell'esodo dei 300 o 350mila istriani all'interessata propaganda dei neofascisti. Questo naturalmente diffuse un velo sulle colpe fasciste e operò quella strumentalizzazione delle vicende giuliane, che Scotti giustamente deplora. Ma la responsabilità di aver lasciato soli i missini è di tutti gli altri, anche dei governi, imbarazzati, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere della Sera del 23 agosto) "per i numerosi episodi di feroce rappresaglia compiuti dalle truppe italiane che avevano occupato la Jugoslavia dal '41 al '43.
Alla richiesta di Belgrado, subito dopo la fine delle ostilità, che fossero estradati come criminali di guerra un certo numero di ufficiali italiani che di crimini del genere ne avevano quasi sicuramente commessi davvero, parve politicamente avveduto rispondere mettendo la sordina, da parte nostra, sulle atrocità commesse a loro volta dai partigiani titini nei confronti delle popolazioni italiane".
L'analisi è acuta e probabilmente veritiera; ma forse le cause di una rimozione così generalizzata non possono esaurirsi nella furbizia governativa, ma debbono essere più ampie. Un'ipotesi è che l'identificazione compiuta dal fascismo di sé stesso con la patria, la riduzione fascista della storia del Risorgimento alla storia del nazionalismo, avessero portato a quel generale rifiuto del concetto di nazionalità, d'italianità, che ci ha distinti in questi cinquant'anni rispetto agli altri popoli europei. Buttare via il nazionalismo dopo l'orgia fascista era più che giusto; confonderlo con il senso, anche culturale, della nazionalità ha creato il vuoto del quale si è cominciato a discutere in Italia soltanto da quando il secessionismo di Bossi ha dato una sgradevole sveglia. (GIAN LUIGI FALABRINO)
FOIBE E FOBIE
di GIACOMO SCOTTI
Rapidissima premessa. Il fenomeno degli infoibati, e cioè del seppellimento di persone (fucilate o in altro modo giustiziate) nelle cave carsiche dette foibe e nelle cave di bauxite ad opera degli insorti guidati dal Movimento resistenziale sloveno, croato e italiano in Istria e nella Venezia Giulia, conobbe due periodi e due territori distinti. Il primo riguarda l'Istria e va dal 9 settembre al 13 ottobre 1943 e cioè subito dopo l'armistizio firmato da Badoglio, quando quasi tutta la penisola incuneata fra Trieste e Fiume cadde sotto il controllo degli insorti, rispettivamente dei partigiani di quella regione; il secondo periodo va dal 1° maggio alla metà di giugno 1945 e riguarda le città di Trieste e Gorizia con i rispettivi territori conquistati ed amministrati per 45 giorni dalle truppe jugoslave.
Questo lavoro si occupa dell'Istria e del primo periodo presentando nel contesto anche alcuni documenti finora inediti o scarsamente conosciuti.
Quando terminò la prima guerra mondiale e nell'Istria ex austro-ungarica sbarcarono le truppe italiane, nella regione risiedevano circa duecentomila croati e sloveni autoctoni (ne erano stati registrati 225.423 nell'ultimo censimento austriaco nel 1910) e cioè il 58 per cento della popolazione totale. Era una popolazione, quella slava, composta in prevalenza da contadini; la popolazione italiana invece era composta da lavoratori dell'industria, da artigiani, da commercianti e proprietari terrieri presenti più o meno compattamente nelle cittadine costiere quali Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Rovigno, Dignano, Pola, Albona e in alcuni centri maggiori dell'interno o poco lontani dalla costa quali Buie, Montona, Pinguente e Pisino.
Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l'Istria all'Italia, quando ancora la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell'Istria si trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da Trieste, che in quella regione si manifestò con particolare aggressività e ferocia, servendosi non soltanto dell'olio di ricino e del manganello.
Gli stessi storici fascisti, tra i quali spicca l'istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie ed altri alla distruzione delle Camere del lavoro ed all'incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la presa del potere a Roma da parte di Mussolini, con la creazione del regime fascista. Ancora una volta il risultato fu disastroso soprattutto per gli "allogeni" istriani: furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia (in alcuni casi il cambio dei cognomi fu attuato con tale diligenza che due fratelli, o padre e figlio, ricevettero due cognomi diversi), furono italianizzati anche i toponimi; migliaia di persone finirono al confino (Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene, S.Stefano, Portolongone, Lipari, Favignana, ecc.) o nel migliore dei casi, se dipendenti statali, specialmente ferrovieri furono trasferiti in altre regioni d'Italia; nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, queste stesse lingue furono cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Gli allogeni o alloglotti furono discriminati perfino nel servizio militare, finendo nei cosiddetti "Battaglioni speciali" in Sicilia e Sardegna. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. I principali "covi sovversivi" furono Rovigno, Pola e il bacino carbonifero di Albona-Arsia.
Per gli slavi il risultato fu la fuga dall'Istria di circa 60.000 persone, metà delle quali trovò rifugio nelle due Americhe e l'altra metà nell'ex Jugoslavia. Sul piano ideologico il risultato fu che nella stragrande maggioranza questi esuli istriani slavi si schierarono sui fronti di due estremismi: andarono a rafforzare le file comuniste oppure quelle nazionaliste degli ustascia e oriunasci, due fronti opposti ma accomunati dall'odio contro l'Italia.
Il movimento comunista jugoslavo, sia notato per inciso, era di per sé sostenuto da una forte tendenza nazionalista e questa tendenza fu nutrita anche da un forte sentimento anti-italiano nelle organizzazioni del PC croato e sloveno, come dimostra la politica condotta nei riguardi dell'Istria, della Venezia Giulia e Dalmazia da alcuni leader di quei due partiti negli anni della Resistenza e in particolare dal massimo esponente del comunismo sloveno Edvard Kardelj. (2a) A questa tendenza ed a questa politica nazionalista-espansionista e non all'ideologia comunista vanno addebitati alcuni "eccessi" compiuti in Istria immediatamente dopo l'armistizio del settembre 1943 e le cosiddette "deviazioni" verificatesi sempre in Istria dopo il maggio 1945 con il ritorno anche degli esuli croati di tendenza nazionalista.
La conseguenza di tutti gli "errori", "deviazioni" e, in genere, di una politica della mano pesante, fu l'esodo di 200-250.000 persone, italiani, croati e sloveni insieme, senza distinzione. Uno di questi esuli, il rovignese prof. Sergio Borme, attualmente a Pavia, ha scritto (Il Piccolo, Trieste, 17 settembre 1996): "...la questione delle foibe. Molti commentatori hanno ritenuto di poterla indicare nell'ideologia comunista dimenticando che il "confine sul Tagliamento" era stato l'obiettivo del nazionalismo slavo molto prima che il regime jugoslavo nascesse. Facendo proprio quell'obiettivo, l'ideologia si metteva al servizio del nazionalismo e non viceversa. (...) Alla guida della Croazia e della Slovenia troviamo oggi personaggi che erano stati le colonne portanti del regime, ma una metamorfosi così repentina e radicale sarebbe stata impossibile se l'adesione all'ideologia (dell'internazionalismo comunista) fosse stata reale e convinta".
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano nelle file del Movimento partigiano di liberazione e dei partiti comunisti sloveno, croato e montenegrino fu ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò l'Italia ad aggredire i popoli jugoslavi.
Quell'aggressione tra il 6 aprile 1941 e l'inizio di settembre 1943 fu caratterizzata come documenta lo storico triestino Teodoro Sala ("L'Espresso", Roma, 19 settembre 1996) non soltanto dalle brutali annessioni delle Bocche di Cattaro, di larghe fette della Croazia e di una parte della Slovenia, ma anche da una lunga serie di crimini di guerra compiuti da speciali reparti di occupazione, fra i quali si distinsero per ferocia le Camicie Nere, per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali: "si giunse alle scelte più draconiane dei comandi militari italiani", Ne derivarono "rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza perpetrata (...) a danno delle popolazioni". Decine di migliaia di civili furono deportati nei campi di concentramento disseminati dall'Albania all'Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall'isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 4.000 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. A proposito ecco un documento del 15 dicembre 1942.
In quella data l'Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell'XI Corpo d'Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati "presentavano nell'assoluta totalità i segni più gravi dell'inanizione da fame". Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo".
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell'XI Corpo in cui si parlava di "briganti comunisti passati per le armi" e "sospetti di favoreggiamento" arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose; "Chiarire bene il trattamento dei sospetti (...). Cosa dicono le norme 4C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!". L'ultima frase è sottolineata. Il generale Robotti alludeva alle parole d'ordine riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della Il Armata italiana in Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge: "Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente". Una frase che ci fa ricordare l'eccidio di Gramozna Jama in Slovenia dalla quale furono riesumati nel dopoguerra i resti di un centinaio di civili massacrati durante l'occupazione per ordine delle autorità militari italiane. Furono alcune migliaia i civili "ribelli" falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla "Provincia del Carnaro", dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell'esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti. In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre 1942 (N. 08906) fu proposta la deportazione della popolazione slovena. "In questo caso scrisse si tratterebbe di trasferire al completo masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all'interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana".
Il figlio di Nazario Sauro (l'eroe della Prima guerra mondiale), Italo Sauro, in un "Appunto per il Duce", nel quale riferisce un suo colloquio con l'SS Brigade Fuehrer Guenter (v. Bollettino n. 1/aprile 1976 dell'Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia), lo informava tra l'altro: "Per quanto riguarda la lotta contro i partigiani, io avevo proposto il trasferimento in Germania di tutta la popolazione allogena compresa tra i 15 e i 45 anni con poche eccezioni", ma i tedeschi dissero di no.Andremmo troppo lontano se volessimo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell'Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento. Una documentazione di questi crimini la si può trovare nel mio libro "Bono Taliano" (Italiani in Jugoslavia 1941-43 - La Pietra, Milano, 1977), nel volume "La dittatura fascista" di Autori vari (Teti, Milano, 1984) nel quale Teodoro Sala dedica un corposo capitolo a "Fascismo e Balcani. L'occupazione della Jugoslavia" e in altre opere.
Tuttavia, trattandosi qui dell'Istria, vogliamo accennare rapidamente almeno a pochi episodi che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre1943. Nell'estrema parte nord-orientale dell'Istria, alle spalle di Abbazia, le autorità militari italiane intrapresero all'inizio di giugno 1942 un'azione prettamente terroristica contro le famiglie dalle quali risultava assente qualche congiunto, sicché potevano ritenere che avesse raggiunto le file dei "ribelli" (partigiani). Un comunicato del generale Lorenzo Bravarone informò che il 6 giugno erano state arrestate e deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Kastav/Castua, Marcelji/Marcegli, Rubessi, San Matteo (Viskovo) e Spincici.
I loro beni mobili, compreso il bestiame grosso e minuto, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero passate per le armi senza alcun processo. Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnik/Grobnico, a nord di Fiume. I maestri elementari Giovanni e Franca Renzi, mandati dal regime a "italianizzare" i bambini croati del villaggio di Podhum annesso alla Provincia del Carnaro nel 1941, erano diventati malfamati nella zona per i maltrattamenti e le punizioni inflitte a quei bambini colpevoli unicamente di non apprendere rapidamente la lingua italiana. Tra l'altro, il maestro, affetto da TBC, soleva sputare in bocca ai disgraziati alunni a lui affidati quando sbagliavano un verbo o un vocabolo. Finirono ammazzati da non si sa chi il 10 giugno 1942. A un mese di distanza, risultati vani i tentativi di individuare gli uccisori dei due insegnanti, e insoddisfatto della spedizione punitiva compiuta il 6 giugno, il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, ordinò una rappresaglia sanguinosa: reparti di camicie nere nei quali furono mobilitati per l'occasione anche numerosi giovani fascisti italiani di Fiume, insieme a reparti delle truppe regolari; irruppero nel villaggio di Podhum all'alba del 13 luglio. Rastrellata l'intera popolazione, questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva saccheggiato e poi incendiato. Il fuoco distrusse alcune centinaia di case, oltre mille capi di bestiame furono portati via, 889 persone finirono nei campi di internamento italiani: 412 bambini, 269 donne e 208 maschi anziani. Altri 91 uomini furono fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena. Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, per ordine del solito Testa, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici "covi di ribelli", distruggendo completamente 80 case a Kukuljani e 54 a Zoretici. Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici.
Alla luce di questi fatti, dunque, vanno visti gli avvenimenti del settembre 1943 in Istria. Alla notizia della capitolazione militare italiana, diffusasi anche in Istria nel tardo pomeriggio dell'8 settembre, in quella penisola ci fu una generale, pressoché spontanea rivolta popolare che coinvolse in eguale misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell'interno. Nell'uno e nell'altro caso (e fatte le solite eccezioni) gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano estrinsecato la propria gioia per la "fine della guerra", mentre la punta offensiva della lancia fu rivolta in alcuni casi contro i Carabinieri, la Polizia di Stato e soprattutto contro i gerarchi fascisti.
Sporadicamente, nell'interno, si fece di tutta l'erba un fascio ed i vocaboli "fascista" e "italiano" ebbero un unico significato. Le strutture militari dello Stato non opposero alcuna resistenza (fece eccezione Pola dove contro i manifestanti fu aperto il fuoco per ordine del Comando di guarnigione e si ebbero tre morti fra i civili), sicché nel giro di pochi giorni entro l'11 settembre le armi dell'esercito e dei carabinieri passarono agli insorti. Senza colpo ferire cedettero le armi i presidi, piccoli e grandi, di Antignana, Lanischie, Pisino, Cerreto, Castel Lupogliano, Rozzo, Pinguente, Canfanaro, Rovigno, Carnizza, Altura, Arsia, Parenzo e via via di altri centri presidiati da reparti di Alpini, di Fanteria costiera, di Carabinieri e Guardia di Finanza. Molti soldati si unirono agli insorti.
Sembrava un trionfo, ma non era così. La svolta si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la grave minaccia tedesca. Così in piena autonomia, spontaneamente, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all'avanzata dei Tedeschi. Una decisione presa anche sull'onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l'aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di Via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche con il supporto di manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti con le armi; gli altri, catturati, finirono impiccati agli alberi di Via Medolino. I primi conflitti a fuoco nella penisola istriana avvennero quello stesso giorno contro due colonne tedesche: una scendeva da Trieste verso Parenzo e Rovigno lungo la costa occidentale con l'intento di raggiungere Pola (dove riuscì infatti ad arrivare); un'altra, partita da Pola, cercava di salire lungo la costa orientale.
I primi caduti fra gli insorti, purtroppo numerosi, furono italiani e croati, massacrati nei pressi di Tizzano, a nord di Parenzo, poi presso il Canale di Leme a nord di Rovigno e infine sulla strada che da Dignano porta a Pola. Gli scontri con la seconda colonna, che invece fu respinta, si ebbero sulla strada tra Arsia e Piedalbona ed a Berdo presso Vines sempre nell'Albonese. Si trattava di distaccamenti della 71ma Divisione germanica, circa 300 uomini. Presso Tizzano i caduti fra gli insorti furono ben 84, dei quali pochi uccisi in battaglia, tutti gli altri trucidati dopo la cattura. Fra i massacrati ci furono alcuni soldati "regnicoli", tutti gli altri erano giovani croati e italiani del Parentino. Tutti italiani furono invece i 16 caduti rovignesi che tentarono di fermare la colonna dapprima sul Leme e poi nei pressi di Dignano. In gran parte italiani, infine, furono i 43 caduti nelle file degli insorti che, al comando di Aldo Negri, si opposero alla colonna tedesca presso Arsia e Vines nella zona di Albona. Nonostante queste perdite, l'Istria intera ad eccezione di Pola, Dignano, Fasana e isole di Brioni occupate dai tedeschi il 13 settembre grazie al cedimento dei comandi militari italiani, cadde sotto il controllo degli insorti che entro il 14 settembre costituirono ovunque i Comitati popolari di liberazione (CPL), quali organi amministrativi della Resistenza in sostituzione dei Podestà e dei Commissari governativi italiani.
In concomitanza con l'insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio da parte degli insorti sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari CPL. Fra gli arrestati -e gli arresti avvennero anche su denuncia di persone convertitesi all'ultima ora alla causa del Movimento di Liberazione- vi furono persone indicate come responsabili di collaborazionismo con l'occupatore tedesco per aver guidato, o in altro modo aiutato, le due colonne germaniche nella loro marcia e nel corso degli scontri. I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al PC italiano, a Parenzo e dintorni e nel Pisinese.
La maggioranza degli arrestati era formata da quei gerarchi fascisti locali che si erano meritati l'odio delle popolazioni vittime delle loro persecuzioni e vessazioni pluriennali.
Nel mucchio capitarono però anche "fascisti" che non avevano colpe da espiare o con i quali i delatori avevano antichi conti personali da regolare. I vendicatori, ovviamente, si servirono pretestuosamente degli slogan e dei simboli della Resistenza e del comunismo. Gli arresti, preludio degli efferati anche se non progettati infoibamenti, avvennero quasi tutti fra il 13 e il 25 settembre. A questo proposito per la prima volta in versione italiana, presenterò qui un documento di provenienza croato-ustascia, uscito cioè dagli archivi dell'ex cosiddetto Stato indipendente di Croazia, creato dal Poglavnik ovvero Duce fascista croato Ante Pavelic con l'aiuto di Mussolini e Hitler e durato dal 10 aprile 1941 all'8 maggio 1945. Il documento è stato rintracciato dallo storico Antun Giron di Fiume, da oltre tre decenni impegnato presso il Zavod za povjesne i drustvene znanosti, Istituto di scienze storiche e sociali, dell'Accademia croata di arti e scienze.
Lo studioso ha pubblicato il documento sulle pagine della rivista "Vjesnik PAR" -N.37/1995. Si tratta di un rapporto segreto relativo ai fatti accaduti in Istria nel settembre-ottobre 1943, scritto il 28 gennaio 1944 dal prof. Nikola Zic, un pubblicista croato nato a Villa di Ponte (Punat) sull'isola di Veglia nel 1882. In quel periodo lo Zic lavorava per i servizi di informazione del Ministero degli Esteri dello Stato croato. Secondo Zic, "il popolo considerava la rivolta popolare solamente dal punto di vista nazionale croato".
La sua relazione continua riandando ai primissimi giorni dell'insurrezione istriana: "All'inizio a nessun Italiano è stato fatto nulla di male. I partigiani avevano diramato l'ordine che non doveva essere fatto del male a nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare (e cioè il 13 settembre, N.d.T.) alcuni corrieri a bordo di motociclette sidecar hanno portato la notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro, Sanvincenti e Parenzo, fornendogli informazioni sui partigiani. Rispondendo alla chiamata è subito arrivata a Sanvincenti una colonna tedesca. Tutte queste voci hanno creato una grande avversione verso i fascisti. Essi ci tradiranno! si sentiva dire dappertutto. Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare e imprigionare i fascisti, ma senza alcuna intenzione di ucciderli. I partigiani decisero di fucilarne soltanto alcuni, i peggiori, ma anche molti fra questi sono stati salvati grazie all'intervento dei contadini croati e ancor più dei sacerdoti".
A questa affermazione del relatore ustascia va aggiunta una precisazione: per la liberazione delle persone arrestate fu decisivo l'intervento presso i capi partigiani del vescovo di Parenzo e Pola, Mons. Raffaele Radossi. La relazione Zic prosegue informandoci della sorte di coloro che rimasero in carcere - le prigioni principali gestite dai partigiani istriani erano quelle di Albona, Pinguente e Pisino - sottoposti a interrogatori e giudizi dei "tribunali del popolo". "Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell'impaccio, non sapendo dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi. In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200 gettandone i corpi nelle foibe. Tuttavia molti altri fascisti sono riusciti a scappare raggiungendo Pola e Trieste, rivolgendosi ai Tedeschi per aiuto. Stando a quanto si è saputo in seguito, i fascisti istriani avrebbero informato i tedeschi che nella sola Pisino si trovavano 100 mila partigiani; in verità ce n'erano forse in tutto un paio di centinaia. A questo punto il Comando germanico ha deciso di rastrellare l'Istria inviando nella regione alcune divisioni SS corazzate".
Il rapporto prosegue enumerando i massacri compiuti dai tedeschi fino alla metà di novembre da un capo all'altro dell'Istria, ma noi per ora ci fermiamo qui. Avremo occasione di tornare al documento in seguito. La cifra riferita dallo Zic è largamente incompleta. Stando a una dichiarazione rilasciata alla fine di gennaio 1944 dal segretario del Partito fascista repubblicano e pubblicata dalla stampa della RSI dell'epoca, in Istria finirono infoibate dagli insorti 349 persone, in gran parte fascisti. Ora è vero che l'alto gerarca ci teneva ad arricchire il martirologio dei "combattenti per la causa" del fascio littorio, ma gli va pur riconosciuto il merito di non aver esagerato come fanno certi "storici" odierni simpatizzanti di quel regime: quella era la cifra che all'epoca si dava per accettabile. Oggi siamo addirittura propensi a considerarla inferiore alla realtà. Un'altra considerazione da fare a proposito della relazione Zic riguarda gli arresti dei fascisti. Essi non cominciarono il 14 o 15 settembre come si potrebbe dedurre da quel documento (e cioè dopo gli scontri di Tizzano, Leme, Albona e Vines) bensì alcuni giorni prima, l'11 settembre; le prime esecuzioni sommarie, invece, ebbero luogo il 18 dello stesso mese. Secondo lo storico Giron, "le fucilazioni venivano eseguite dopo gli interrogatori ed a conclusione di processi sommari collettivi, oppure senza essere preceduti nemmeno da un procedimento istruttorio. I cadaveri dei fucilati venivano gettati nelle grotte carsiche, oppure nelle vecchie cave delle miniere di bauxite".
Le foibe con i resti mortali di persone uccise tra il 18 settembre e i primi giorni dell'offensiva tedesca (sferrata nella notte tra l'1 e il 2 ottobre) vennero esplorate dai vigili del fuoco di Pola, a più riprese, alla presenza di autorità militari tedesche, a cominciare dalla zona di Vines il 21 ottobre 1943, fino al gennaio 1944 quando si era ormai conclusa l'offensiva "Istrien", durante la quale le SS, appoggiate da gruppi di fascisti italiani uccisero circa 3 mila persone, appiccando il fuoco a circa mille case e deportando alcune migliaia di istriani, pochi dei quali sono tornati fra i vivi. (Il 7 ottobre, il Comando germanico, comunicando di aver portato a termine il grande rastrellamento, comunicò testualmente: "Sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi (...) Altri 4.500 sono stati catturati, fra cui gruppi di soldati e ufficiali italiani".
Il 13 ottobre un altro comunicato parlava invece di 13.000 banditi "uccisi o fatti prigionieri" . Ma era una esagerazione). Le foibe esplorate dai pompieri di Pola, oltre a quelle di Vines, furono quelle di Barbana, Gimino, Lindaro, Surani, Castellier, Carnizza ed alcune altre. Ma non tutti i fucilati finirono nelle foibe. D'altra parte non va taciuto il fatto che numerose persone arrestate e imprigionate a Pinguente e Villanova (Nova Vas) non subirono procedimenti istruttori né furono fucilate. A Pinguente furono trascinati oltre 100 gerarchi fascisti rastrellati a Capodistria, Isola e Umago il 26-27 settembre dagli uomini della II Brigata istriana: furono tutti liberati alla notizia che stavano arrivando i tedeschi. Nei dintorni di Pisino, invece, agenti dell'OZNA (Distaccamento per la difesa del popolo) fucilarono negli stessi giorni alcuni "narodnjaci" croati che avevano massacrato per vendetta alcuni italiani. Va anche detto che nella zona tra Rovigno, Orsera e Parenzo, e ad Albona, una cinquantina di persone tutti italiani furono arrestate per decisione dei capi "rivoluzionari" italiani del luogo.
A Rovigno, città compattamente italiana etnicamente, i militanti del PC italiano costituirono un "Comitato Rivoluzionario Partigiano" composto da Aldo Rismondo, Egidio Caenazzo, Mario Cherin, Giusto Massarotto, Mario Hrelja, Antonio Braicovich, Paolo Poduje, Pino Budicin, Francesco Poretti, Riccardo Daveggia e Giovanni Pignaton. Una delle misure "rivoluzionarie" prese da quel comitato fu la compilazione di una lista di fascisti locali maggiormente distintisi come persecutori, in tutto 18, che vennero subito arrestati e portati al Comando partigiano nella sede dell'ex Casa del Fascio. Dopo l'interrogatorio sul posto, i prigionieri furono trasportati a Pisino dove insieme ad altri fascisti di nazionalità italiana e croata in precedenza catturati nelle varie località istriane furono condannati a morte dal Tribunale del popolo. Saranno giustiziati alcune ore prima dell'arrivo dei tedeschi all'inizio di ottobre.
Dal volume del Rocchi apprendiamo poi di 55 salme estratte "a grappoli di tre quattro" dalla foiba di Terli scandagliata dai pompieri di Pola il 1° novembre, ma qualche riga più avanti l'autore si contraddice presentandoci cifre diverse: "delle 27 vittime vengono riconosciute 25" e passa ai nomi: tre sorelle Radecchi (Radeki, famiglia croata) di Polje (Lavarigo) presso Pola: Fosca di diciassette anni, Caterina di diciannove e Albina di ventuno, quest'ultima in stato di gravidanza, che erano state arrestate il 1° ottobre (e seguono i nomi degli altri infoibati. N.d.R.).