Storia dei partiti in Italia dall�unità a oggi |
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con in mezzo un impulso al marxismo
Il sistema politico italiano nasce il 17 marzo 1861, con la prima seduta del parlamento italiano.
Ulteriori tappe dell'unificazione italiana passano attraverso la guerra austro-prussiana (1866), che porterà all'annessione del Veneto e del Friuli, in cambio della neutralità italiana, e attraverso la guerra franco-prussiana (1870) che, tenendo impegnati i francesi, non permetterà loro di intervenire in appoggio al papato, lasciando, quindi, via libera alla conquista di Roma. La prima guerra mondiale, infine, sarà interpretata come quarta ed ultima guerra d'indipendenza e porterà al completamento dell'unità italiana.�
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Gruppi che si oppongono all'unificazione�
- legittimisti (legati ai sovrani destituiti)�
- cattolici (a seguito della conquista di Roma nel 1870 ed alla fine del potere temporale del Papa)�
il Regime politico liberale�
(1861-1922)�
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La nascita dell'Italia unita si pone, in qualche modo, in continuità col Regno di Sardegna: lo Statuto Albertino era già stato adottato nel 1848, inoltre la numerazione dei re segue quella del Regno sabaudo (il primo re d'Italia è Vittorio Emanuele II).�
Lo Statuto Albertino è una costituzione flessibile (diversamente dalla Costituzione Italiana attualmente in vigore): si può modificare con una legge ordinaria e non c'è alcun organo che ne garantisca l'effettiva osservanza.
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�FASI�
- 1861-1876: governo della destra storica�
- 1876-1900: governo della sinistra storica�
- 1901-1914: età giolittiana�
- 1914-1922: fine del regime liberale�
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Periodo della destra storica (1861-1876)�
Gli obiettivi principali che il governo persegue in questo periodo sono:�
- unificare lo Stato con l'aiuto delle potenze europee;�
- garantire l'ordine pubblico contro il brigantaggio;�
- risanare il bilancio (obiettivo portato a compimento da Minghetti, all'epoca Ministro del Tesoro, nel 1876).�
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Periodo della sinistra storica (1876-1900)�
Nel 1876 sale al governo Agostino Depretis, esponente della sinistra liberale, a cui succederà, nel 1887, Francesco Crispi. Si delinea in questi anni lo Stato di diritto, che, per Vittorio Emanuele Orlando, è una persona giuridica, diversa da governo e società, fonte del sistema giuridico. Questo Stato-persona ha la sovranità, che, pertanto, non è né del Re, né, tantomeno, del popolo. Questo principio trova una sua realizzazione nell'opera svolta da Crispi, che mira ad una profonda riforma dell'organizzazione centrale e periferica dello Stato per rafforzarne l'autorità. Da questa riforma ne escono rafforzati il governo e l'amministrazione centrale e periferica.
Nel 1883 si dissolve la differenza tra sinistra e destra (entrambe liberali), dando luogo al trasformismo. La maggioranza che sostiene il governo è mutabile e composta da gruppi di centro, mentre in parlamento nasce l'Estrema (formazione composta da Radicali, Repubblicani e Socialisti).�
Negli ultimi due decenni dell'Ottocento si assiste alla crisi di fine secolo, caratterizzata da:�
- governi instabili,�
- grandi conflitti sociali.�
Durante il governo presieduto dal gen. Pelloux (1898-1900), esponente della destra, si verificano dimostrazioni che vengono represse con l'artiglieria: ciò provoca una forte opposizione parlamentare, inizialmente da parte dell'Estrema, poi anche da parte della sinistra liberale di Giolitti e Zanardelli.�
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Età giolittiana (1901-1914)�
è caratterizzata dalla figura di Giovanni Giolitti Presidente del Consiglio (con brevi intervalli). Giolitti ha una grande conoscenza dell'amministrazione pubblica, che gli serve per gestire il governo e i prefetti (che, praticamente, rappresentano il governo nelle città).�
è ormai in vigore un regime parlamentare: il parlamento ha molta importanza, mentre al Re viene lasciato un ruolo marginale. La maggioranza parlamentare è centrista, trasformista e instabile; obiettivo di Giolitti sarà quello di integrare socialisti e cattolici.�
Nel 1912 diviene legge una riforma elettorale, che verrà applicata alle elezioni del 1913, con la quale viene introdotto il suffragio universale maschile: i maschi analfabeti possono votare a ventun'anni, se hanno fatto il servizio militare, altrimenti a trent'anni.�
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Fine del regime liberale (1914-1922)�
Nel marzo 1914 Giolitti si era dimesso per, poi, ritornare dopo un breve intervallo (come era a avvenuto in passato), ma questa volta i suoi piani falliscono, poiché nel giugno 1914 scoppia la 1^ guerra mondiale. L'Italia, allo scoppio del conflitto, si mantiene neutrale, ma il 26 aprile 1915, con la firma del Patto di Londra, si impegna ad entrare in guerra a fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia: il 24 maggio 1915 vengono consegnate le dichiarazioni di guerra.
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Scontro neutralisti/interventisti�
Neutralisti: socialisti, cattolici, liberali giolittiani.�
Interventisti: anarchici, repubblicani, socialisti riformisti (Bonomi, Bissolati), liberali conservatori (Salandra, Sonnino), nazionalisti (Rocco, De Stefani).�
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Caratteri della 1a Guerra Mondiale�
- lunga�
- con molte perdite�
- con momenti di crisi (Caporetto 1917)�
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Eredità della 1a Guerra Mondiale�
- problemi sociali�
- problemi economici�
- problemi politici�
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Nel 1919 una nuova riforma elettorale estende ancora di più il suffragio: possono votare tutti i cittadini maschi che abbiano compiuto ventun'anni e, transitoriamente, coloro che, pur non avendo compiuto i ventun'anni d'età, abbiano prestato servizio militare in reparti mobilitati in zona di guerra. Cambia anche il sistema elettorale: il maggioritario cede il posto al proporzionale.�
Alle elezioni politiche del 16 novembre 1919 i liberali perdono la maggioranza in Parlamento: il partito socialista ufficiale ottiene il 32,3% ed il partito popolare il 20,5%.
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DAL CROLLO DEI LIBERALI AGLI ANNI FASCISMO
una pagina di Claudio Martinelli
di CLAUDIO MARTINELLINel Giugno del 1920 veniva formato l’ultimo gabinetto presieduto da Giovanni Giolitti. Egli fu appoggiato, oltre che da liberali di tutte le tendenze, anche dai cattolici nonostante i suoi pessimi rapporti personali con Don Sturzo. Con un discorso tenuto a Dronero, che qualificava a Sinistra il programma del Governo, Giolitti si era assicurato la "non ostilità" dei socialisti, ma ancora una volta non fu possibile andare oltre poichè Turati si vide costretto a rifiutare l’offerta di partecipazione diretta al Ministero, condizionato dalla base del partito. La larga maggioranza ottenuta non gli fu tuttavia sufficiente per riuscire a ricomporre il sistema politico prebellico: erano sorti nuovi raggruppamenti con i quali doversi confrontare, la proporzionale aveva distrutto l’Italia dei notabili, il movimento fascista imperversava nelle piazze mediante l’uso della violenza. Come già aveva fatto con socialisti e cattolici, Giolitti tentò di sfiatare il movimento inglobandolo nelle strutture dello Stato liberale. Così va letta la sua mossa di inserire nelle sue liste alle elezioni del ‘21 rappresentanti del Partito Fascista. Ma questa volta il responso delle urne non gli fu favorevole.
I deputati del "blocco nazionale", l’unione delle liste da lui capeggiate, non furono il numero previsto ed inoltre i deputati fascisti si rivelarono ben presto dei "cani sciolti", confermando l’impossibilità di imbrigliarli nel sistema democratico. Se si considera poi il fatto che questi ultimi avvenimenti avevano inasprito non poco i rapporti con le opposizioni socialiste e cattoliche, comprendiamo quanto fosse delicata la situazione parlamentare; ed infatti di lì a poco le cose precipitarono.
Nel breve volgere di pochi mesi, mentre il paese era nel caos e sull’orlo di una guerra civile, si succedettero i deboli Governi presieduti da Bonomi e Facta. Giolitti intanto continuava a pensare che per non peggiorare una situazione già di estrema gravità non si dovesse procedere allo scontro frontale con i fascisti e così avviò con loro trattative per la formazione di un nuovo Governo che lo vedesse presidente e con la partecipazione di ministri fascisti. Contattò prima D’Annunzio e poi Mussolini ma anche questo estremo tentativo di salvare il salvabile non andò a buon fine. La democrazia liberale era sconfitta, la marcia su Roma un’amara realtà. Lo Stato liberale entrò in crisi e chiuse la sua esperienza a causa dell’incapacità di capire da parte di quella classe politica che il mondo andava avanti e che le masse non erano riconducibili a quel tipo di sistema politico basato sui notabili.
Il futuro di tutte le democrazie continentali era nei partiti, con tutti gli elementi positivi e negativi che questo fatto porta tuttora con sè. E’ però forse ancor più importante cercare di capire perché la fine dello Stato liberale in Italia sfociò nella formazione di una forma di Stato autoritario. E’ quindi necessario analizzare i passaggi attraverso i quali il fascismo da movimento-partito si trasformò in regime. Va preliminarmente ricordato come tutti i diversi passaggi istituzionali che caratterizzarono questa evoluzione furono possibili a causa del carattere flessibile della Carta costituzionale vigente all’epoca, vale a dire lo Statuto Albertino. Le norme contenute in questa Carta, a differenza di quelle della Costituzione repubblicana del 1947, non possedevano una forza giuridica superiore rispetto alle norme di una qualsiasi legge ordinaria e quindi fu possibile per il regime entrante fare piazza pulita delle istituzioni democratiche senza una formale abrogazione della Carta fondamentale dello Stato liberale.
Questo percorso può essere grossomodo diviso in tre periodi. 1) 1922 - 1925 - questa prima fase può essere definita, da un punto di vista istituzionale, come pseudo-parlamentare: le istituzioni tipiche del periodo statutario continuavano a sopravvivere ma perdevano sempre più le loro funzioni ed il loro ruolo di baluardo della democrazia. Vennero gettate le basi per una repentina evoluzione del fascismo in regime; basti pensare alla legge "Acerbo", la nuova legge elettorale che prevedeva l’acquisizione dei 2/3 dei seggi alla lista che avesse ottenuto il 25% dei voti validi, o fatto ancora più clamoroso, l’assassinio del deputato socialista Matteotti che in parlamento aveva osato denunciare le irregolarità della consultazione del 1924. 2) 1925 - 1929 - In questa seconda fase il fascismo si trasformò definitivamente in un regime autoritario. Il punto di svolta fu rappresentato dal discorso che Mussolini tenne in parlamento il 3 gennaio 1925, nel corso del quale Mussolini rivendicò la responsabilità morale e politica del delitto Matteotti ed il diritto-dovere di condurre il Paese con i metodi della repressione. Nei giorni successivi l’applicazione pratica di questi intendimenti non si fece attendere. I circoli politici vennero chiusi, i giornali di opposizione imbavagliati, molti rappresentanti delle opposizioni incarcerati.
Nel dicembre del ‘25 fu approvata la legge che poneva formalmente fine al governo parlamentare, con la previsione, da un lato, della cessazione di ogni rapporto fiduciario e responsabilità politica del governo nei confronti delle Camere, e dall’altro, della completa subordinazione del Parlamento all’attività direttiva del Governo.
E’ invece del gennaio del ‘26 la legge sul potere normativo del Governo, che consentiva all’Esecutivo una amplissima possibilità di avvalersi di strumenti come i decreti-legge, le leggi delegate o i regolamenti governativi. Vi fu poi una legge dell’aprile del ‘26 che riservò ai soli sindacati fascisti la competenza a stipulare contratti collettivi obbligatori per un’intera categoria di lavoratori. Questi ed altri provvedimenti testimoniano di come sia stata chiara e irrefrenabile l’evoluzione verso un sistema autoritario che poi avrebbe fatto scuola anche per altri Paesi come la Germania nazista, la Spagna franchista ed il Portogallo di Salazar.
3) Dal 1930 inizia poi la fase di consolidamento del regime e soprattutto della sua personalizzazione nella figura del Duce. Mussolini spesso riservava a se stesso, oltre alla carica di capo del Governo e di Duce del Fascismo, anche alcuni Ministeri chiave, il Re era sempre costretto ad avallare qualsiasi sua decisione, ed il suo rapporto con le masse era sempre più stretto. Va infatti sfatata l’idea che il fascismo sia consistito in un regime dittatoriale che vessava una popolazione anelante la democrazia, la libertà e la difesa del Diritto.
La realtà è che la grande maggioranza del popolo italiano del ventennio era consenziente o, per lo meno, non contraria al tentativo di risolvere gli endemici problemi nazionali con la scorciatoia del totalitarismo: le folle oceaniche che acclamavano il Duce in Piazza Venezia non erano solo fatti propagandistici, ma la spettacolarizzazione di un consenso di cui il popolo italiano dovrà di lì a poco amaramente pentirsi. La parabola del regime era destinata a raggiungere il suo apice fra il ‘36 ed il ‘38, in coincidenza con la vittoria nella guerra d’Etiopia e la conseguente retorica dell’Impero. In quegli anni inoltre Mussolini raggiunse anche un prestigio internazionale (basti pensare alla cosiddetta "pace di Monaco" ) che contribuì non poco a consolidarne il carisma interno.
Ma con lo scoppio della guerra iniziò quella catena di errori che porteranno Mussolini, nel breve volgere di pochi anni, dai fasti di una macchiettistica riedizione dell’Impero romano al macabro spettacolo di Piazzale Loreto.
Non fa certamente parte dell’oggetto di questo scritto l’analisi dei fatti e dei motivi che condussero al crollo del fascismo, tema su cui gli storici si sono a lungo cimentati. Basterà qui ricordare che i passaggi fondamentali furono la risoluzione del 25 luglio ‘43 con la quale il Gran Consiglio del Fascismo (organo di partito istituzionalizzato da Mussolini negli anni della identificazione dello Stato con il Regime), a seguito dei negativi eventi bellici, destituì Mussolini dalle proprie cariche; l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, che segnò il cambio di alleanza del nostro Paese. Iniziava così quel periodo conosciuto con il nome di resistenza, che alla nostra trattazione interessa per le implicazioni che avrà il Comitato di Liberazione Nazionale (organismo che raccoglieva al proprio interno i partiti antifascisti) sugli sviluppi del sistema politico del periodo repubblicano. Il CLN era un organismo che si riprometteva di costituire un coordinamento dei gruppi partigiani impegnati nella lotta contro i nazisti ed i fascisti di Salò.
Entrarono a farvi parte tutti i partiti antifascisti allora presenti sulla scena. Ciò fu evidentemente un fatto straordinario: comunisti e liberali, azionisti e cattolici, socialisti e conservatori, tutti uniti contro la tirannide straniera e domestica.
Questo spirito unitario ebbe poi delle conseguenze notevoli anche sugli assetti politici dell’immediato dopoguerra, nel senso che, pur in presenza di contrasti profondissimi dal punto di vista ideologico, le forze politiche riuscirono a far prevalere un comune intento di rifondazione istituzionale dello Stato. Infatti, nell’assemblea costituente eletta a suffragio universale il 2 giugno 1946 (unitamente al referendum istituzionale su monarchia o repubblica), la ricerca di un alto compromesso costituzionale fece premio su qualsiasi diatriba riguardante la gestione politica ordinaria, che pure doveva anche in quel periodo essere assicurata, ed il risultato che ne scaturì, cioè la Costituzione repubblicana, nonostante le parole che spesso a sproposito si sentono pronunziare, rappresenta tuttora, sotto molti aspetti, una delle Carte più moderne e avanzate del mondo.
Il punto di svolta che segna il passaggio dalla fase costituente a quello di un asperrimo scontro politico, fu costituita dalle elezioni del 18 aprile 1948. In quella campagna elettorale l’Italia era di fatto spaccata fra coloro che si riconoscevano nel sistema di valori della civiltà occidentale, e coloro che invece propugnavano la costruzione di una società nuova, basata sui dettami dottrinari della filosofia Marxiana e sulla pratica rivoluzionaria di matrice bolscevica.
Non si può certamente dimenticare che sullo sfondo (o forse sarebbe meglio dire sopra) di questo epico scontro vi erano gli accordi di Yalta e gli equilibri internazionali che da quegli accordi erano stati prodotti, ma ciò nondimeno se quella consultazione elettorale avesse sortito la vittoria del blocco socialcomunista la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale sarebbe stata certamente più problematica, e soprattutto sarebbero state adottate scelte di politica economica che difficilmente avrebbero consentito al nostro Paese l’eccezionale sviluppo economico che conobbe negli anni della ricostruzione post-bellica.
Il sistema politico di quel periodo è dunque caratterizzato da un "bipolarismo" imperniato, da un lato, sulla Democrazia Cristiana ( il partito dei cattolici impegnati in politica che riprese la tradizione del Partito Popolare dell’epoca pre-fascista), che allora poteva contare su di un leader di statura internazionale come Alcide De Gasperi, e, dall’altro, dal Partito Comunista, guidato, a sua volta, da un capo carismatico come Palmiro Togliatti. Secondo alcuni studiosi, il fatto che la neonata democrazia italiana fosse egemonizzata da un partito comunista ( con tutti i legami con Mosca che all’epoca erano intrecciati) e di uno cattolico (che, come vedremo, dovrebbe essere considerato forse più come una federazione di partiti che non come un unico raggruppamento viste le profonde divisioni che ne caratterizzarono sempre la vita) costituisce la vera anomalia italiana rispetto alle grandi democrazie occidentali.
La presenza a Sinistra del più forte Partito Comunista dell’occidente rendeva molto difficile la possibilità di un’alternativa credibile al potere democristiano, dato il radicale cambiamento che avrebbe comportato. D’altra parte il fatto che il fronte moderato avesse come indiscussa guida la Democrazia Cristiana, causa una quantità di voti enormemente superiore rispetto ai suoi alleati centristi (liberali, repubblicani e socialdemocratici), rese più difficile la crescita di una moderna borghesia laica che facesse dell’efficienza del mercato la sua bandiera. Questo assetto politico si protrasse per tutti gli anni ‘50, passando attraverso scelte di portata epocale. Piano Marshall, adesione al Patto Atlantico, liberalizzazione degli scambi, impulso alla costituzione delle comunità europee, furono tutte decisioni prese dai governi centristi di De Gasperi.
Lo statista trentino, però, nonostante fosse saldamente alla giuda del governo, non è che fosse particolarmente amato all’interno del proprio partito, in particolare dalle correnti più di sinistra. La DC fu fin dalla nascita caratterizzata dalla divisione in gruppi e sottogruppi, chiamati appunto correnti. Talvolta, nei casi più nobili, esse rappresentavano legittime aspirazioni ideali, visioni diverse dell’impegno dei cattolici in politica, una divergente concezione del rapporto fra il partito, il Vaticano ed il mondo cattolico.
Troppo spesso però esse nascevano e si sviluppavano più per ragioni di potere, riconducibili esclusivamente alle alchimie interne ai notabili che di volta in volta guidavano il partito, dediti più all’occupazione delle poltrone che ad una effettiva azione di sviluppo del Paese. Questa complessa rete di rapporti, congiure, doppigiochi e bizantinismi, fini così per avere il sopravvento anche su una figura come quella di De Gasperi che la Storia si sarebbe poi incaricata di onorare come il più importante e decisivo statista dell’Italia Repubblicana. Alla metà degli anni ‘50 la DC era un partito ormai nelle mani delle correnti e dei loro capi. Le maggioranze centriste, pur continuando a governare il Paese fino ai primi anni ‘60, cominciarono ad entrare in crisi, in primo luogo per una perdita di leadership che le sapesse di nuovo compattare attorno a grandi obbiettivi comuni. Nel ‘53 De Gasperi aveva provato a dare nuova linfa a questa formula politica con la cosiddetta "legge-truffa", cioè con una riforma elettorale che garantisse un rilevante premio di maggioranza alla coalizione che avesse vinto le elezioni superando una determinata soglia di suffragi.
Il premio non scattò per pochissimi voti, e da allora il nostro Paese rinunciò per molti decenni ad utilizzare una qualsiasi riforma elettorale come cura al proprio endemico male: l’instabilità politica. Questa instabilità però è sempre stata paradossalmente accompagnata da un elemento che apparentemente può essere considerato il suo esatto opposto, e cioè la costante presenza al governo e quindi al potere della DC, attorno alla quale dal dopoguerra fino alla sua liquidazione si facevano e disfacevano maggioranze e governi.
Come si spiega questo apparente paradosso? Si spiega con una considerazione alla quale già accennavamo in precedenza. L’egemonia a Sinistra di un partito così antisistema, che propugnava l’edificazione di una società così radicalmente diversa non poteva fare altro che spaventare anche quei ceti sociali che non arano certo entusiasti di dare il proprio consenso ad un partito per tanti versi discutibile e controverso, portatore talvolta anche di una visione clerical-conservatrice della società italiana (basti pensare alla vicenda della legge sul divorzio).
L’impossibilità di un’alternativa credibile e praticabile, fu quindi fin dall’inizio della storia repubblicana uno dei tratti distintivi della democrazia italiana. Sulla fine degli anni ‘50 il quadro politico era dunque quanto mai stagnante e privo di prospettive. Fu così che all’interno della DC, e anche in alcuni esponenti di area laica come il repubblicano La Malfa, cominciò a farsi largo l’idea che l’unico sblocco possibile per una situazione il cui stallo taluni ritenevano persino pericoloso per la democrazia (portando ad esempio il Governo Tambroni del 1960 appoggiato dai missini), fosse l’ingresso nella maggioranza e nella compagine governativa dei socialisti. Nacque così una formula politica destinata a caratterizzare lunga parte della vita politica italiana: il centro-sinistra. Anche questa formula però, nonostante avesse introdotto elementi di fortissima novità nel quadro politico, fu ben lungi dal risolvere l’annoso problema dell’instabilità. Nel giro di pochi anni infatti si succedettero diversi governi, le cui sorti venivano determinate soprattutto dai rapporti di forza fra le correnti interne alla Democrazia Cristiana. Le linee programmatiche di fondo di quell’esperienza erano comunque tutte volte ad una più ampia ingerenza dello Stato nell’economia, e questo spiega la forte avversione dei liberali.
L'obbiettivo venne perseguito attraverso le nazionalizzazioni ( per esempio dell’energia elettrica), l’aumento della spesa pubblica e l’impostazione, forse più teorica che pratica, di una politica di programmazione economica. Insomma quella stagione fu caratterizzata dal tentativo di mettere in pratica le linee tipiche di una politica economica Keynesiana.
L'apertura a sinistra non riuscì però ad impedire l’esplosione anche nel nostro Paese della contestazione giovanile del’68, di cui ci occuperemo nella puntata di quegli anni.
CLAUDIO MARTINELLI
Ringrazio per quest'ultimo articolo
il direttore di
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