Storia dei partiti in Italia dall�unità a oggi (1) |
I PARTITI
Democr. Cristiana
-- P. Comunista It. - Socialisti - Socialisti Dem. --
Liberali - Mov. Sociale - Repubblicani
DESTRA, SINISTRA (E CENTRO) - ZUFFA CONTINUA FIN DAL 1800
BREVI NOTE SUI PARTITI ITALIANI NEL DOPOGUERRA
vedi anche
'800 NASCITA
DESTRA-SINISTRA
e '900
LA SINISTRA INGLESE
DON STURZO E LA DEMOCRAZIA CRISTIANA
IL LIBERALCONSERVATORISMO - LA SINISTRA STORICA
GIOLITTI IL RIFORMATORE - LE DUE ANlME DEI SOCIALISTI
Un’analisi della storia del sistema politico in Italia deve necessariamente prendere le mosse dall’assetto degli apporti fra le forze risorgimentali. E’ in quel periodo che cominciano a delinearsi alcune linee guida che caratterizzeranno per molti decenni la sua storia nel corso dei successivi decenni. Attorno alla metà del secolo scorso il quadro era caratterizzato dal contrasto tra il moderatismo liberale piemontese, che egemonizzava lo Stato Sabaudo (soprattutto dopo la concessione dello Statuto Albertino), che riconosceva come proprio leader un giovane ma brillante e già molto potente Camillo Benso conte di CAVOUR, ad il repubblicanesimo del partito d’Azione di Giuseppe MAZZINI. Le contrapposizioni tra i due schieramenti risorgimentali vertevano certamente su ragioni di contenuto: Monarchia-Repubblica, alleanze internazionali, partecipazione popolare al processo di unificazione dell’Italia, etc.; ma tra i due movimenti, e forse ancor più tra i due personaggi, vi erano soprattutto degli insanabili contrasti metodologici e caratteriali.
Tanto erano gradualisti e moderati i liberali, quanto erano rivoluzionari ed estremisti i repubblicani. Tanto era incline al compromesso ed al sottile lavorio diplomatico CAVOUR, quanto era incendiario l’impeto Mazziniano. Utilizzando le categorie cui siamo abituati ai giorni nostri, si potrebbe forse azzardare una descrizione di questo tipo: un "centro" cavouriano tutto proteso a battere la via dell’Unità sotto la bandiera Sabauda attraverso un complesso intreccio di alleanze esplicite od implicite (quindi un risorgimento che muovesse dall’alto verso il basso); una "sinistra" democratica ed utopista che credeva nella possibilità di una grande sollevazione popolare che abbattesse ogni potere monarchico costituito (cioè un risorgimento dal basso verso l’alto).
IL LIBERALCONSERVATORISMO - Non è in questa sede il caso di soffermarsi sulle vicende che portarono all’Unità d’Italia, sta di fatto che a questo risultato si arrivò attraverso l’unificazione dei vari staterelli al Piemonte e fu quindi una logica conseguenza che la prima classe dirigente del nuovo Stato fosse quella raccoltasi attorno a CAVOUR, che peraltro morì subito dopo l’acquisizione del risultato cui aveva dedicato una vita. Quel gruppo di statisti era costituito da uomini di grande competenza e prestigio personale come Quintino SELLA, Giovanni LANZA, Marco MINGHETTI, Silvio SPAVENTA, Stefano JACINI e altri che in seguito furono chiamati la "Destra Storica", per distinguerli, come vedremo poi, dalla "Sinistra Storica".
Le linee guida della loro azione politica erano quelle di un liberalconservatorismo molto attento all’equilibrio della finanza pubblica, contrario ad ogni protezionismo doganale ma favorevole a qualche intervento dello Stato a sostegno delle grandi imprese e per la costruzione delle infrastrutture strategiche (le ferrovie, ad esempio).
E’ necessario però ricordare come il sistema politico dell’Italia liberale, soprattutto nella prima fase della sua vita, si reggesse su un suffragio elettorale estremamente ristretto (il 2% della popolazione ne aveva diritto, lo 0,9% era poi quello che votava ).
Ciò comportava la realizzazione di un sistema politico estremamente omogeneo agli interessi delle classi più benestanti del Paese, soprattutto di quell’alta borghesia di cui gli uomini della Destra erano probabilmente la migliore espressione. A merito di quel ceto politico va comunque riconosciuto, oltre ad una specchiata onestà personale degli uomini (e si sa quanto questo elemento conterà poi nel giudizio sulle successive classi dirigenti), il fatto che si seppe sempre sottrarre alla tentazione di utilizzare quel forte consenso che il sistema elettorale gli garantiva per una involuzione illiberale, ma anzi spingendo sempre più la forma di governo da monarchia costituzionale, caratterizzata cioè dalla presenza di un rapporto fiduciario tra monarca e governo, ad evolversi in monarchia parlamentare dove il rapporto fiduciario intercorre solo fra Esecutivo e Parlamento.
LA SINISTRA STORICA - Questo quadro politico ebbe vita fino al 1876, quando, a seguito della crisi di un governo Minghetti, fu nominato Presidente del Consiglio Agostino DEPRETIS, leader del raggruppamento che in Parlamento si contrapponeva agli uomini della Destra, cioè la Sinistra Storica. Quest’ultima era una forza politica molto composita, nella quale confluivano liberali moderatamente progressisti (Depretis), gli eredi di talune componenti risorgimentali di ispirazione mazziniana ma disponibili ad un compromesso con la monarchia (ZANARDELLI, CAIROLI), e la cosiddetta sinistra meridionale, espressione dei proprietari terrieri del sud. Il programma con il quale la Sinistra andò al potere, così come venne illustrato in un celebre discorso tenuto da DEPRETIS a STRADELLA nel 1875, era caratterizzato da contenuti fortemente democratici e riformatori in diversi campi, come quello fiscale, scolastico e amministrativa (fin da allora si cominciò a parlare in Italia di riforma della Pubblica Amministrazione). Ma soprattutto essa si proponeva un ampliamento del suffragio, cosa che avvenne nel 1882, portando gli aventi diritto al voto al 6,9% della popolazione. La novità ebbe delle conseguenze molto importanti sugli equilibri politici, perché l’estensione del suffragio finì per minare alla radice la sostanziale omogeneità del blocco sociale che, premiando la Destra o la Sinistra, aveva comunque governato il Paese dall’Unità, e contribuì non poco a far crescere il peso politico di quei partiti detti dell’Estrema Sinistra, cioè Repubblicani, Radicali e Socialisti. Questa evoluzione favorì il verificarsi di un fenomeno che in seguito sarebbe diventato abbastanza tipico nella vita politica italiana: il cosiddetto "trasformismo", cioè il passaggio, fortemente caldeggiato da DEPRETIS, di esponenti della Destra nelle file della maggioranza, per compattare e rilanciare il vecchio ceto politico liberale contro l’avanzata, per ora più temuta che concreta, delle Estreme. In questo modo l’antitesi Destra-Sinistra Storica che aveva caratterizzato i primi decenni del nuovo Stato veniva a perdere gran parte della sua importanza per lasciare il passo all’ascesa di certi notabili attorno ai quali, negli anni successivi, si sarebbero fatti e disfatti i nuovi equilibri.
GIOLITTI IL RIFORMATORE - La dimostrazione di ciò è costituita dalla storia politica di un personaggio che alla fine degli anni novanta si affacciò alla ribalta della scena pubblica e che sarebbe stato destinato a dominarla per circa tre decenni: Giovanni GIOLITTI. Dopo la laurea in legge intraprese la carriera burocratica. Lavorò in diversi ministeri a contatto con alcuni dei più bei nomi della Destra come SELLA e MINGHETTI, potendone apprezzare l’avversione contro la cosiddetta "finanza allegra". Ma il tratto fondamentale del giolittismo, che maggiormente interessa un’analisi del sistema politico, è sicuramente lo spirito riformatore e modernizzatore di cui lo statista piemontese permeò sempre la propria azione politica.
A riprova di questo nuovo corso è interessante riportare un brano tratto da un articolo che GIOLITTI scrisse nel ‘900 sulla Stampa di Torino da cui emerge la propensione a considerare le ragioni delle masse popolari e di conseguenza la condanna per il metodo dell’indiscriminato "pugno di ferro" proprio del suo predecessore (alla guida del governo e nella leadership della Sinistra) Francesco CRISPI:
"Quando confronto il nostro sistema tributario con quello di tutti i Paesi civili, quando osservo le condizioni delle masse rurali in gran parte d’Italia e le paragono con quelle dei Paesi vicini, resto compreso d’ammirazione per la longanimità e la tolleranza delle nostre plebi, e penso con terrore alle conseguenze di un possibile loro risveglio. Io deploro quanti altri mai la lotta di classe. Ma, siamo giusti, chi l’ha iniziata? "E’ bene insistere su questo punto per almeno due ragioni. Intanto perché questo tipo di apertura costituì il vero dato politico nuovo espresso da quella classe dirigente che all’infuori di GIOLITTI e pochi altri (Zanardelli) soffriva da tempo di grave miopia. Questa politica che potremmo definire di ricerca di un nuovo "patto sociale", mantiene tuttora una certa validità in quanto ancora oggi, seppure in tempi, condizioni e modalità diverse, è uno degli oggetti del dibattito politico. In secondo luogo perché tutto ciò ebbe delle conseguenze molto importanti anche per la storia del partito che esprimeva gli interessi ed i bisogni delle classi subalterne, cioè il Partito Socialista.
LE DUE ANlME DEI SOCIALISTI - Fondato nei primi anni dell’Ottocento, il P.S.I., a cavallo tra i due secoli, aveva già al suo interno due anime: quella riformista, favorevole ad una collaborazione con il governo, capeggiata da Filippo TURATI, e quella massimalista, favorevole alla rivoluzione sociale, anche violenta, capitanata da uomini come FERRI o LABRIOLA.
Giolitti considerava ovviamente quale suo interlocutore naturale il Turati, nel quale vedeva l’uomo "ad hoc" con cui sarebbe stato possibile instaurare un rapporto di collaborazione. Ma questo rapporto tra i due non sarebbe mai potuto sfociare in qualcosa di veramente concreto a causa della chiusura in cui si vennero a trovare fra le loro ali estreme.Tutta la cosiddetta "età giolittiana" fu caratterizzata da questa continua dialettica tra lo Statista di Mondovì ed il Partito Socialista. Basti pensare alla vicenda relativa alla formazione del governo GIOLITTI del 1903.
Nella sorpresa generale, il Re conferì il mandato di formare il nuovo governo a GIOLITTI, non perchè nutrisse per lui una particolare predilezione, anzi i loro rapporti si limitarono sempre all’espletamento dei rispettivi compiti istituzionali senza mai cedere spazio alcuno alla cordialità (soprattutto da parte del Re), ma perchè Vittorio Emanuele III era conscio del fatto che lo Statista piemontese fosse l’unico uomo politico in grado di guidare l’Italia in quel momento.Durante le trattative per la formazione dell’Esecutivo, GIOLITTI sollecitò la partecipazione nella compagine governativa di ministri socialisti oltre che radicali e repubblicani. TURATI, se fosse stato l’assoluto padrone del partito, avrebbe sicuramente accettato ma ancora una volta le sue mosse furono totalmente condizionate dalle pressioni dell’ala massimalista che lo costrinse a declinare l’invito. (VEDI - ANTONIO GRAMSCI ) GIOLITTI quindi, a causa di queste defezioni, si vide costretto a distribuire i posti ministeriali tra uomini del centro-destra e del centro -sinistra, tornando così alla vecchia logica trasformista inaugurata da DEPRETIS. Come si vede, l’intera responsabilità del mancato accordo politico-sociale tra dirigenza Liberale e rappresentanti della classe operaia ricadde in primo luogo sulla corrente più estremista del P.S.I., la quale è quindi da ritenere, assieme alle opposte correnti ultra-conservatrici, gravemente colpevole della fine dello Stato Liberale ed in qualche misura dell’avvento del Fascismo.
CATTOLICI ALLO SBANDO - Un altro tema interessante da analizzare per avere un quadro complessivo del panorama politico di inizio secolo, è quello del rapporto tra i cattolici e la politica. Fin dai tempi della presa di Roma l’impegno politico dei cattolici era stato reso impraticabile dal " non expedit", cioè dal divieto papale all’impegno politico. Questo divieto sarebbe rimasto ufficialmente in vigore fino al 1929, anno in cui venne soppresso con la firma dei Patti Lateranensi, ma già Papa LEONE XIII si era reso conto di come l’intransigenza non pagasse ed avrebbe continuato a non pagare.
Il sogno clericale di restaurare il potere temporale sullo Stato era definitivamente svanito e quindi il Papa invitò i fedeli a riconoscere lo Stato italiano, cioè uno stato laico e liberale, e al tempo stesso a curarsi dei problemi politici senza tenere conto delle direttive che la gerarchia ancora manteneva ma che ormai erano da considerarsi solo di facciata. A dare il primo esempio di ciò era stato addirittura il Papa stesso con la promulgazione della famosa enciclica "Rerum Novarum" (1891) in cui, tra l’altro, si rivendicavano migliori condizioni di lavoro. Certamente il Papa era pervaso da nobili principi, ma vi è da dire che un’enciclica così "rivoluzionaria" fu anche dettata dalla consapevolezza che se la Chiesa avesse fino allora continuato a tenere un atteggiamento distaccato verso i problemi sociali, le masse popolari sarebbero state totalmente in balia del Partito Socialista, con grave nocumento per la Chiesa stessa. Negli anni successivi i nuovi fermenti cattolici crebbero sempre più con la formazione di movimenti e associazioni (una delle quali si chiamava Democrazia Cristiana). Alla morte di LEONE XIII avvenuta nel 1903, il conclave elesse il Patriarca di Venezia Giuseppe Sarto che prese il nome di PIO X.
COMPROMESSO STORICO PAPALE - Egli era considerato, a ragione, un conservatore ed infatti considerava i Modernisti, cioè quella corrente cattolica che credeva nella revisione dei dogmi adattandoli alle nuove scoperte scientifiche, come i suoi peggiori nemici, a tal punto che non esitò ad allestire una "caccia alle streghe" di stampo medievale ed a rompere le relazioni diplomatiche con la Francia, rea a suo parere, di avere alimentato le spinte moderniste. Anche la sua posizione verso i movimenti cattolici fu di totale chiusura, prova ne sia lo scioglimento della Democrazia Cristiana. Gli atteggiamenti del nuovo Papa sembrarono un passo indietro per l’integrazione dei cattolici nella vita politica e invece non fu così.
Egli era infastidito dagli intendimenti programmatici della Democrazia Cristiana per il fatto che contenevano idee socialisteggianti e soprattutto filomoderniste ma ben presto capì che per combattere questa corrente, che egli considerava un’eresia, era necessario l’appoggio dello Stato, il quale glielo avrebbe concesso solo se le gerarchie ecclesiastiche avessero compiuto atti concreti di condanna verso gli atteggiamenti filosocialisti o sovversivi. Pio X quindi caldeggiò esplicitamente intese dei clerico-moderati con i liberal-conservatori. Dal canto suo GIOLITTI, sui rapporti fra Stato e Chiesa, si manteneva sulle classiche posizioni cavouriane che prevedevano la non interferenza reciproca, me era anche ben conscio dell’influenza che le gerarchie cattoliche esercitavano su ampi strati delle masse popolari o piccolo-borghesi. Un’intesa con loro avrebbe consentito a Giolitti di usufruire di un appoggio parlamentare decisivo. egli in pratica ritentò ciò che non gli era pienamente riuscito con i socialisti. Nei suoi piani i cattolici dovevano diventare un’altra componente di quell’ampio mosaico di forze di cui lui era, e doveva essere per molti anni ancora, la figura centrale. E così avvenne, sia pure a fasi alterne, per tutta l’ "eta giolittiana", cioè più o meno fino alla vigilia della prima guerra mondiale.
STATO LIBERALE AL CRAK - Ma fu solo dopo le riforme del sistema elettorale, dapprima con l’estensione del suffragio universale maschile e poi con l’istituzione del sistema proporzionale, che le masse cattoliche poterono trovare un’autonoma rappresentanza politica, espressa dal Partito popolare di DON STURZO. Alla soglia degli anni ‘20 le fondamenta dello stato Liberale erano quindi ormai irrimediabilmente minate. Omogeneità sociale, suffragio ristretto, sistema maggioritario, prevalenza del sistema dei notabili su quello dei partiti, erano diventati solo il ricordo di un’epoca che stava imboccando il viale del tramonto. Il cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), cioè quel periodo caratterizzato da scioperi e disordini, diede un’ulteriore e robusta spallata, ma fu presto chiaro a tutti che a dare il colpo definitivo alla forma di Stato che aveva accompagnato l’Italia dalla sua Unità, ci avrebbe pensato un neonato movimento di recente costituzione e dagli incerti tratti ideologici: il Fascismo di BENITO MUSSOLINI.
By Claudio Martinelli
Ringraziamo per l'articolo
(concesso gratuitamente)
il direttore di
STATO LIBERALE AL CRAK : il Fascismo di BENITO MUSSOLINI.
A indicarci che cos'è il fascismo, é lo stesso BENITO MUSSOLINI
OPPURE PROSEGUI NASCITA DEI PARTITI