CAPITOLO 18
La restaurazione finanziaria dello Stato - Necessità di cominciare col colpire la ricchezza - La nominatività dei titoli e i creditori dello Stato - La legge sul pane e l'ostruzionismo socialista - L'occupazione delle fabbriche e la condotta del Governo - Azione di polizia ed azione politica - I progetti di controllo delle fabbriche - La crisi industriale - Perchè indissi le elezioni e il loro risultato - Il Fascismo - Dissoluzione della maggioranza e la crisi. GIOLITTI E IL FASCISMO |
Il compito del Ministero da me presieduto in questo fortunoso e difficile periodo del dopo guerra, oltre la soluzione delle questioni di politica estera, e cioé dell'Albania, dei confini con la Jugoslavia e di Fiume, comprendeva, come ho già accennato, numerose questioni di politica interna, la cui soluzione, o almeno l'avviamento ad essa, non era meno urgente per la salute del paese. Erano questioni di ordine, di finanza e di rapporti fra le classi sociali, strettamente connesse le une alle altre, e che richiedevano quindi un'azione parallela e contemporanea, non essendo presumibile di risolvere una di esse senza tenere conto delle altre e lasciandole per il momento sospese. La più grave ed urgente di tali questioni era, per me, quella delle finanze dello Stato, il cui bilancio aveva una perdita di non meno di quattordici miliardi.
Se non si rimediava a un tale stato di cose, riducendo in notevole parte tale enorme deficit, si sarebbe andati rapidamente incontro al fallimento; o ad evitarlo si sarebbe dovuto ricorrere ad un continuo aumento della circolazione, già larghissima in confronto a quella di avanti la guerra, con la immancabile conseguenza del invilimento della moneta e di una crisi generale della economia nazionale, come mostra l'esempio dei paesi vinti che si sono lasciati scivolare per questa china pericolosa, nella quale a un certo punto non è più possibile fermarsi.
Uno dei fattori più gravi nello spareggio del bilancio era costituito dal prezzo politico del pane, che imponeva allo Stato una perdita di sei miliardi all'anno; ma era pure evidente che nessun governo avrebbe potuto affrontare con vera autorità morale questo problema che toccava le masse, se non avesse prima dimostrata la sua capacità a imporre i sacrifici, necessari al bilancio dello Stato, alle classi più fortunate, e specialmente a coloro che avevano fatta la loro fortuna nella guerra; questo esempio di giustizia sociale essendo necessario per acquietare le masse, e togliere gli argomenti più impressionanti alla propaganda dei loro agitatori.
Per queste considerazioni, nell'opera legislativa intesa a restaurare nei limiti del possibile le finanze dello Stato, alla legge che doveva condurre all'abolizione del prezzo politico del pane, io feci precedere i progetti intesi a colpire la ricchezza. E il Parlamento, ritornando finalmente alla sua più alta funzione, rispose nel modo più soddisfacente ai miei scopi.
Tutti quei progetti, che più sopra ho enumerati, furono infatti discussi fra il giugno, il luglio, e la prima metà di agosto ed approvati, e non solo dai gruppi costituzionali che avevano la loro rappresentanza nel governo, ma anche dal partito socialista, che pure nei sei mesi precedenti si era mostrato insofferente di qualunque seria discussione. Più tardi, quando anche la legge sul pane fu approvata, ed il disavanzo del bilancio ridotto a meno di un terzo di quello che io avevo trovato assumendo il potere, si cominciò a lamentare che i provvedimenti da me proposti e che avevano ottenuta la quasi unanime approvazione del Parlamento, in entrambi i suoi rami, fossero troppo gravosi, ed una campagna fu iniziata specialmente contro la nominatività dei titoli, non ancora in gran parte applicata, per la evidente preoccupazione dei detentori di tale forma di ricchezza, di trovarsi poi obbligati a pagare l'imposta sul reddito, quella sul capitale e quella sulle successioni, alle quali con l'espediente dei titoli al portatore, erano fino allora in gran parte sfuggiti.
Codesta preoccupazione é figlia dell'ignoranza, in quanto mostrava e mostra che costoro, pure di non sottomettersi, a vantaggio dello Stato, ad un certo sacrificio, non si peritano di andare incontro a danni ben maggiori, se non alla totale rovina. Nessuno dovrebbe essere infatti più interessato alla salute del bilancio dello Stato che i detentori dei suoi titoli, cioè i suoi creditori; perché, a prescindere dalla ipotesi del fallimento, se si fosse prolungata una condizione di cose, nella quale lo Stato si fosse trovato costretto a provvedere al disavanzo mediante l'aumento continuo della circolazione, ne sarebbe seguito un correlativo invilimento della moneta, che avrebbe ridotto a poco o niente il valore della ricchezza a reddito fisso, quale é appunto la ricchezza costituita da crediti, sia verso lo Stato che verso i privati, nella forma di titoli, ipoteche ed obbligazioni.
In Inghilterra, dove la quasi totalità dei valori privati o di Stato sono nominativi, e non possono quindi sfuggire all'imposta sul reddito, mirabilmente congegnata, quella imposta durante la guerra e dopo fu portata a percentuali che arrivano sino al sessanta per cento. Ma mediante quel sistema, che ha rapidamente assicurato il pareggio al bilancio, il valore della moneta inglese è stato presso a che interamente salvato, con vantaggio appunto dei detentori di titoli pubblici, che pagano le imposte come gli altri, ma ricevono i loro interessi in una moneta non deprezzata.
Non occorre una eccezionale perizia finanziaria per rendersi conto di come sia più vantaggioso pagare dal trenta al cinquanta per cento d'imposta allo Stato, e ricevere da esso gli interessi in moneta alla pari, che sfuggire all'imposta ed essere viceversa pagato con moneta che perda, come ora la nostra, il settantacinque per cento del suo valore. L'interesse dello Stato e l'interesse dei suoi creditori sono strettamente connessi; per cui costoro, anziché cercare di non adempiere i loro obblighi di contribuenti, dovrebbero essere i primi a dare l'esempio del dovere compiuto, per potere poi esigere, anche a sicurezza del proprio capitale, l'adempimento degli obblighi tributari da parte di tutti.
La legge sul pane fu da me presentata quando la Camera si riaperse nel novembre, con lo scopo che si arrivasse a sopprimere ogni intervento statale nella produzione e vendita del pane, ed a ristabilire per i cereali e la loro macinazione la piena libertà di commercio. Il progetto era congegnato in modo che l'aumento del prezzo del pane, che sarebbe derivato da tale ritorno alla libertà, avvenisse gradatamente, perché il divario era in quel momento altissimo, e per colmarlo il prezzo avrebbe dovuto essere di un colpo pressoché triplicato. Ma una notevole parte del costo del frumento d'importazione, che costituiva circa la metà del fabbisogno, veniva dai noli marittimi, ancora assai alti; e si aveva quindi la ragionevole persuasione che col miglioramento dei mezzi di trasporto, dei quali vi era un enorme tonnellaggio in costruzione in tutti i cantieri del mondo, il costo dei noli dovesse rapidamente abbassarsi, con una correlativa diminuzione nel prezzo dei cereali; come poi é avvenuto. E intanto, per coprire la differenza transitoria, che non poteva prolungarsi, secondo i calcoli fatti, oltre un anno, nel mio progetto si stabilivano alcune imposte speciali, la più importante delle quali era quella sul vino; parendomi giusto e conveniente che chi, anche nelle classi popolari, volesse usare ed anche abusare di un genere di lusso, quale é il vino, dovesse contribuire a diminuire il costo di quella che é la base dell'alimentazione per tutti.
La discussione di questa legge fu assai lunga. Vi era, a proposito del prezzo del pane, una duplice compromissione: quella che il Ministero precedente si era lasciato imporre dai socialisti, sotto forma di ordine del giorno, accettato dal governo e votato dalla Camera, che impegnava a non mutare il prezzo del pane se non con legge approvata dal Parlamento; impegno che io avevo ereditato e che per ogni verso era conveniente mantenere, perché la discussione e l'approvazione parlamentare avrebbe aiutato assai a disarmare, o a togliere forza a quella opposizione che vi potesse essere nelle classi popolari; l'altra, che i socialisti, con la politica eccessivamente demagogica a cui si erano lasciati andare nel dopoguerra, avevano assunta verso le masse. Quegli impegni e quelle compromissioni non avevano nemmeno un'ombra di ragionevolezza; volere mantenere il prezzo del pane di prima della guerra con una moneta svalutata, quando in ragione appunto di tale svalutazione i salari erano stati pressochè ovunque più che quadruplicati, sarebbe equivalso a pretendere di dare il pane, prima della guerra, al prezzo di quindici centesimi al chilo, cioè per due terzi gratis. Ora, se le distribuzioni gratuite di grano e farina si potevano fare qualche volta alle popolazioni povere delle città antiche o delle repubbliche cittadine medievali non ci poteva essere chi non sentisse l'assurdità, anzi l'impossibilità economica di tali disposizioni per un paese di quaranta milioni di abitanti.
Quel socialismo granario delle repubbliche cittadine di un tempo, aveva la sua base sui tributi riscossi dai popoli soggetti; ma lo Stato italiano, per pagare il pane gratuito avrebbe dovuto stabilire tributi interni, che sarebbero ricaduti su tutti egualmente, creando un semplice circolo vizioso, con di più il danno degli inevitabili sprechi di tali amministrazioni a cui lo Stato non é assolutamente adatto. Tali ragioni erano perfettamente comprese dagli stessi capi socialisti più seri; ma essi poco potevano fare contro la deliberazione dell'ostruzionismo presa dalla direzione del Partito; in obbedienza alla quale ogni deputato socialista era impegnato a presentare un ordine del giorno ed a svolgerlo e sostenerlo con un lungo discorso.
Ma l'ostruzionismo può essere una valida arma di lotta quando abbia dietro di sé ragioni serie e salde convinzioni; quando invece esso non é che un artificio ed un pretesto, alla lunga non riesce a sostenersi. Ed infatti l'ostruzionismo socialista contro la legge del pane fu lungo, in ragione al numero grande di oratori iscritti a parlare contro, ma non energico; ed a vincerlo bastò molta pazienza da parte del governo e dei partiti che lo sostenevano. Con l'approvazione di quella legge il bilancio dello Stato fu sgravato di sei miliardi, e con gli altri miliardi forniti dalle nuove imposte sui guadagni di guerra, sulla ricchezza e sul lusso, e le riduzioni di spese, il disavanzo, che minacciava di travolgere l'intera amministrazione statale, fu ridotto a circa quattro miliardi e mezzo, ai quali poteva sopperire per un certo tempo il risparmio normale del paese.
Se l'opera di risanamento del bilancio dello Stato fosse poi stata continuata con pari energia, le condizioni della nostra finanza sarebbero ora assai migliori; ma purtroppo i piccoli interessi riuscirono a prendere il sopravvento sui grandi interessi del paese.
Qualche settimana dopo la chiusura del Parlamento, che fra il maggio e la metà d'agosto aveva lavorato con efficacia ad un programma di restaurazione e di giustizia, imponendo quasi una non patteggiata collaborazione agli stessi socialisti, si ebbe, nel settembre del 1920, l'episodio cosiddetto della occupazione delle fabbriche, che causò impressione vivissima non solo all'interno, ma anche all'estero, e fu considerato quasi come l'inizio di un grandioso movimento rivoluzionario, consapevolmente condotto. In realtà quell'occupazione, con tutti i suoi episodi concomitanti, non rappresentò che lo sfogo supremo di quella situazione, rivoluzionaria sì, ma disordinata, che si era lasciata formare sotto il precedente Ministero. E che nell'occupazione delle fabbriche ci fosse una vera preparazione a scopo rivoluzionario, per parte almeno dei suoi più immediati istigatori, fu poi provato dal fatto che, dopo terminata l'occupazione furono sequestrate in molte delle fabbriche occupate, ed in ogni parte del paese, oltre a parecchie migliaia di fucili e rivoltelle e bombe a mano ed armi bianche di ogni genere, circa cento tonnellate di cheddite e di nitroglicerina. Ed essendo da presumersi che molta parte delle armi e degli esplosivi fossero portati via nello sgombero, che fu compiuto dagli operai volontariamente e senza contrasti, quel notevole residuo così abbandonato può dare la misura della mole di quella preparazione.
A un certo momento, durante l'occupazione, in un convegno indetto a Milano dalle varie organizzazioni socialiste, fu apertamente discusso se il movimento dovesse essere spinto ad una decisiva azione rivoluzionaria, e fu fortuna che prevalesse il buon senso, specie da parte delle organizzazioni che rappresentavano in modo più genuino le masse lavoratrici, evitando al paese episodi sanguinosi.
L'occupazione delle fabbriche, per il modo con cui era avvenuta, presentava al governo tutta una serie di problemi, immediati e lontani; da quelli di semplice polizia a quelli di politica sociale. Gli operai che avevano effettuata l'occupazione, in ogni parte d'Italia, ma prevalentemente nella zona industriale della Lombardia, del Piemonte e della Liguria, non erano meno di seicentomila; e l'occupazione, provocata da una intempestiva minaccia di serrata da parte di alcuni industriali, che non avevano bene misurata la situazione ed i suoi pericoli, era basata sul concetto, da parte della massa degli operai, di poter essi gestire ed utilizzare le fabbriche senza intervento di capitalisti e dirigenti; mentre i caporioni comunisti si ripromettevano di fare uscire da quel movimento la vera e propria rivoluzione sociale, come era avvenuto in Russia, contrastati però in ciò dai socialisti laboristi più moderati, che in recenti visite avevano già potuto rendersi conto della reale situazione russa e dei mali infiniti che quella rivoluzione aveva inflitto non solo ai vinti, ma anche a quelli che parevano i vincitori.
Io ebbi, sino dal primo momento, la chiara e precisa convinzione che l'esperimento non avrebbe potuto a meno di dimostrare agli operai l'impossibilità di raggiungere quel fine, mancando ad essi capitali, istruzione tecnica ed organizzazione commerciale, specie per l'acquisto delle materie prime e per la vendita dei prodotti che pure fossero riusciti a fabbricare. Per tale aspetto dunque questo episodio rappresentava per me, in altre forme e condizioni, la ripetizione del famoso esperimento dello sciopero generale del 1904, che aveva prodotto tanto spavento, per poi dimostrare la propria inanità; ed io ero fermamente convinto che il governo dovesse anche questa volta condursi come si era condotto allora; lasciare cioè che l'esperimento si compisse sino a un certo punto, perché gli operai avessero modo di convincersi della inattuabilità dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il modo di rovesciare su altri la responsabilità del fallimento. Questa convenienza politica più larga e lontana coincideva del resto con le convenienze immediate di polizia. Io fui allora accusato di non essere ricorso all'uso della forza pubblica per fare rispettare la legge ed impedire la violazione del diritto privato; di non avere, insomma, né impedito l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai, né provveduto a cacciarli in ogni modo dopo che l'occupazione era avvenuta.
Ma ammettendo anche che io fossi riuscito ad occupare le fabbriche prima degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno assai difficile considerata la ampiezza e universalità del movimento; mi sarei poi trovato nella assai poco comoda condizione di avere pressoché la totalità della forza pubblica di polizia, Guardie regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi i mezzi di mantenere l'ordine fuori delle fabbriche, cioè nelle strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei rivoluzionari, che non avrebbero domandato niente di meglio.
Se poi, più tardi, fossi ricorso alla forza pubblica per costringere gli operai a lasciare le fabbriche occupate, ne sarebbe nato un vasto e sanguinoso conflitto, e con ogni probabilità le masse operaie che le occupavano, prima di cederle alla forza pubblica le avrebbero devastate. Quindi, tanto le ragioni politiche quanto quelle economiche, e le convenienze immediate e quelle lontane, coincidevano a consigliare quella linea di condotta che io ho allora seguita. Quella mia condotta sul momento suscitò grandi allarmi e preoccupazioni; ed ebbi pressioni di ogni genere perché adottassi misure più energiche e mettessi fine con la forza ad uno stato di cose che si considerava assai pericoloso.A cose finite ebbi poi la soddisfazione che gran parte di quegli stessi che mi spingevano per quella via, riconobbero che quella da me seguita era la sola che potesse ricondurre alla tranquillità; con l'ulteriore vantaggio di togliere agli stessi operai molte illusioni pericolose inducendoli a cominciare a diffidare delle parole lusinghiere di chi li spingeva ad esperimenti che avevano dati risultati ad essi dannosi. Ho poi saputo con sicurezza che chi deplorò più vivamente la mia condotta, furono appunto quegli agitatori che avevano calcolato di prendere le mosse dall'occupazione delle fabbriche per arrivare ad un movimento rivoluzionario generale.
Non occorse molto tempo perché gli operai ed i loro capi più autorevoli e ragionevoli si rendessero conto che la posizione da essi assunta non poteva essere mantenuta; che le fabbriche venute in quel modo nelle loro mani, senza direzione tecnica ed amministrativa, e senza rapporti col mercato, non servivano a nulla; e in alcuni casi si ebbero curiosi episodi che confermavano questa dimostrazione; gli operai tentando di rapire nelle loro case quei direttori ed industriali che avevano voluto mettere fuori delle officine, per obbligarli a riassumere la direzione. Ma la situazione non poteva prolungarsi, e gli stessi dirigenti degli operai presero l'iniziativa e fecero passi per venire ad una soluzione, con lo sgombero delle fabbriche occupate.
Le trattative a tal fine furono condotte fra i rappresentanti della Confederazione del lavoro da una parte, e quelli della Confederazione degli industriali dall'altra; e furono iniziate a Torino personalmente da me, con l'intervento dei due prefetti di Torino e Milano, senatori Taddei e Lusignoli, e furono poi concluse a Roma, in una lunga riunione, i cui risultati furono da me riassunti con il pro memoria seguente:
«Premesso che la Confederazione Generale del Lavoro ha formulata la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori di lavoro ed operai, in modo che questi ultimi - attraverso i loro Sindacati - siano investiti della possibilità di un controllo sulla industria, motivandola con l'affermazione che con simile controllo é suo proposito di conseguire un miglioramento dei rapporti disciplinari fra datori e prenditori d'opera ed un aumento della produzione, al quale é a sua volta subordinata una fervida ripresa della vita economica del paese;
«Premesso che la Confederazione Generale della Industria non si oppone a sua volta che venga fatto l'esperimento di introdurre un controllo per categorie di industrie, ai fini di cui sopra;
Il Presidente del Consiglio dei Ministri prende atto di questo accordo e decreta:
«Viene costituita una Commissione paritetica, formata da sei membri nominati dalla Confederazione Generale della Industria e sei dalla Confederazione Generale del Lavoro, fra cui due tecnici o impiegati per parte, la quale formuli quelle proposte che possano servire al Governo per la presentazione di un Progetto di Legge, allo scopo di organizzare le industrie sulla base dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario, o all'amministrazione dell'azienda.
«La stessa Commissione proporrà le norme per risolvere le questioni relative alla osservanza dei regolamenti e all'assunzione e al licenziamento della mano d'opera.
Il personale riprenderà il suo posto. »
I rappresentanti degli operai avevano insistito con molta energia su questo principio che l'operaio fosse messo in grado di controllare in qualche modo l'andamento della industria, per accertarsi soprattutto che la sua rimunerazione fosse proporzionata ai guadagni che l'industria conseguiva; ed anche i più avveduti fra gli industriali, che sentivano già avvicinarsi la grave crisi industriale che ha poi colpito tutto il mondo, e che sapevano che le industrie generalmente non avrebbero potuto rispondere nel futuro immediato alle continue domande di aumento dei salari, e neppure mantenere i salari vigenti, non vedevano di mal'occhio che agli operai fosse dato il modo di constatare quale fosse veramente la condizione delle industrie.
La Commissione fu poi composta; ma, come non era difficile prevedere, le due parti non riuscirono ad accordarsi su un progetto comune, e finirono per presentare due progetti fondati su principii diversi; gli operai per una parte sforzandosi di estendere il principio del controllo e gli industriali di Limitarlo. Siccome io avevo assunto l'impegno di investire il Parlamento dell'arduo e complesso problema, nella mancanza di un progetto nel quale le due parti si fossero accordate, compilai io stesso un disegno di legge che fu subito presentato alla Camera, ed al quale io aggiunsi come allegati i progetti presentati dalle due parti, ed inoltre un terzo, compilato dal Partito popolare sullo stesso argomento, e fondato sul principio della partecipazione degli operai agli utili dell'azienda, senza però alcun accenno di controllo. A questo riguardo però io avevo osservato che quando si ammette il principio che l'operaio abbia diritto ad una quota degli utili, non gli si può negare di controllare quale sia il vero utile a cui ha diritto di partecipare, diventando egli in qualche modo un azionista.
Questo progetto presentato alla Camera, secondo l'impegno che io avevo assunto, fu però lasciato in disparte, e neanche il partito socialista ebbe più ad insistere per la sua discussione. Il che si spiega con la grave crisi industriale, la quale, già assai avanzata pure nei maggiori paesi industriali, quali l'Inghilterra e gli Stati Uniti, cominciò a farsi sentire in Italia appunto nella seconda metà del 1920, e si é poi sempre più incrudita.
Le organizzazioni operaie dovettero riconoscere la realtà di questa crisi, che non potrà essere superata che fra lunghi anni, col riassetto generale dell'economia mondiale; e preoccuparsi, più che delle tendenze ideali, dei problemi immediati della disoccupazione e della riduzione delle giornate di lavoro, con conseguente diminuzione di salari.
A mio avviso, il concetto del controllo o di un più diretto interessamento degli operai nelle vicende delle industrie in cui sono occupati, non ha nulla di rivoluzionario, e non é che una estensione dei rapporti che intercedono anche attualmente fra sindacati operai ed industriali per il regolamento dei contratti di lavoro e per la determinazione della misura dei salari; ma l'introduzione o l'estensione di riforme di tale carattere nella vita economica richiedono condizioni floride e non già tempi di crisi, più adatti a promuovere agitazioni e aspirazioni vaghe, che a fornire gli elementi per solide costruzioni.* * *
Dopo la firma del Trattato di Rapallo, che con l'assetto definitivo delle nostre frontiere, lasciato sospeso nella Conferenza di Parigi, compiva l'unità nazionale entro i confini segnati dalla natura, s'imponeva al governo il dovere di chiamare i cittadini delle nuove province a partecipare pienamente alla vita politica della nazione, eleggendo i loro rappresentanti al Parlamento.
A questo fine si poteva giungere in due modi; o facendo elezioni parziali per le nuove province, chiamando i loro rappresentanti a fare parte della Camera eletta nelle altre province del Regno con i Comizi del 1919; o indicendo elezioni generali che chiamassero contemporaneamente l'intero popolo italiano a determinare l'indirizzo politico, economico, culturale ed amministrativo che doveva essere dato al paese nel nuovo periodo storico che col grande avvenimento del compimento della unità nazionale si iniziava.
Questo secondo modo appariva più degno, ed era inoltre confortato dai precedenti. Nel 1866 si erano veramente fatte elezioni parziali, dopo l'annessione del Veneto, alla fine di novembre; ma poi soli tre mesi dopo la Camera, che pure non aveva che un anno e quattro mesi di vita, era stata sciolta, ed erano state indette elezioni generali, cosicche le nuove province avevano avuto l'inconveniente di due elezioni politiche a tre mesi di distanza. E quattro anni più tardi, per l'occasione dell'annessione di Roma, si indissero le elezioni generali. Ma a queste considerazioni di carattere storico e morale, se ne aggiungevano altre di carattere politico, di più sostanziale importanza.
Le elezioni del 1919 erano state tenute in condizioni estremamente sfavorevoli, quando, sia per le difficoltà interne, sia per gli scacchi subiti nella Conferenza della pace, all'entusiasmo della vittoria era succeduto un grave periodo di agitazioni e di malcontento. Nell'autunno del 1919 l'Italia era ancora impegnata in guerra nell'Albania; la nostra posizione nell'Adriatico appariva debole e precaria, tanto che c'era da temere che gravi difficoltà di ordine internazionale, che non si era riusciti a superare, ci imponessero una soluzione del problema dei nostri confini orientali contraria ai nostri più vitali interessi; a Fiume si era creata una situazione che minacciava di dare origine a nuovi conflitti; lo Stato era sempre sul piede di guerra, perché vi era armistizio, non pace; e questa condizione di cose imponeva alla sua volta un regime di monopolio e di ingerenze statali di così vaste proporzioni da sopprimere quasi ogni libertà commerciale; infine la finanza dello Stato, con un disavanzo di almeno quattordici miliardi, poneva innanzi al Paese lo spettro del fallimento, con le terribili conseguenze che ne sarebbero derivate dalla completa svalutazione della moneta, dal fantastico aumento del costo della vita, dalla caduta di Istituti di credito e delle principali industrie; disastri questi che avrebbero colpito tutte le classi sociali, ma soprattutto, e in modo più duro, le classi lavoratrici.
Ed infatti codesta situazione, materiale e morale, del paese, ebbe appunto la sua espressione nella Camera uscita da quelle elezioni; non tanto per il gran numero dei deputati dei partiti estremi che erano stati eletti, quanto per lo spirito generale da cui era dominata, come apparve dalla sua stessa prima seduta per il discorso della Corona, che risultò in una affermazione tracotante degli elementi sovversivi, senza che gli elementi costituzionali si mostrassero disposti e pronti a presentare una energica resistenza.
Le condizioni generali del paese in un anno e mezzo di tempo erano naturalmente mutate. Per il problema albanese si era ritornati alla nostra migliore tradizione, intesa ad assicurare le indipendenza dell'Albania, senza mire di dominio; il trattato di Rapallo ci aveva infine data la pace, assegnando all'Italia i suoi confini naturali ed iniziando una politica di cordiali rapporti non solo con gli jugoslavi, ma anche con gli altri popoli che avevano formato parte della Monarchia asburgese; la situazione di Fiume era stata risolta, assicurandone l'indipendenza e l'italianità ed eliminando i pericoli che potevano sorgere dalla irregolare posizione in cui quella città si era trovata per oltre un anno e mezzo.
All'interno lo stato di pace con tutte le sue conseguenze aveva ormai sostituito lo stato di guerra; al regime del monopolio statale succedendo quello della piena libertà commerciale. Infine, mercé l'eliminazione del sistema del prezzo politico del pane, e con l'applicazione delle imposte sui profitti di guerra, sulla ricchezza e sul lusso, il disavanzo del bilancio era disceso da quattordici a poco più di quattro miliardi; ad una cifra cioè che con la rigida applicazione delle imposte vigenti, con migliori ordinamenti che ne rendessero più efficace la riscossione, e con una forte politica di economie si aveva ragione di sperare che potesse in un tempo non remoto essere pareggiata.
Era sempre stato, nel passato, mio fermo concetto che ogni legislatura debba compiere il ciclo consentito dallo Statuto, per poter così svolgere il programma per il quale il Paese ha affidato ai deputati la sua rappresentanza; ed a questo concetto io avevo sempre conformata la pratica nella mia opera di governo. Le ragioni sopraddette mi persuasero però della convenienza, anzi della necessità, nel caso attuale, di derogare da tale pratica, e di chiamare, alla distanza di circa un anno, e mezzo dalle elezioni precedenti, il paese a manifestare le proprie tendenze politiche nelle condizioni di cose notevolmente mutate; tanto più che per certi problemi che io consideravo di primo ordine, e che erano parte integrale del programma con cui avevo assunto il governo, quale il problema della libertà della scuola e dell'esame di Stato, si erano manifestate, fra gli stessi partiti costituzionali dal cui appoggio il governo dipendeva, contrarietà ed incertezze che solo dal responso dei comizi generali potevano essere risolte.
Il programma col quale il governo si presentò alle elezioni non era che un proseguimento di quello annunciato e in parte attuato nei mesi precedenti, con più particolari richiami alle necessità di riforme nell'amministrazione dello Stato e ad una politica sociale intesa ad aprire nuovi campi di attività ed a dare nuovi mezzi di graduale elevazione alle masse popolari. Per lo svolgimento della lotta elettorale, considerando che la più grave debolezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro frazionamento, in confronto alla unione e compattezza dei socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi in cui tutte le forze dei vecchi, partiti liberali e democratici fossero raccolte.
Le elezioni furono indette per il 15 maggio. Negli ultimi giorni non mi fu più possibile occuparmi del mio ufficio perché colpito da atroce sventura, la morte di mia moglie Rosa Sobrero già da tempo malata, che morì il 10 maggio a Torre Pellice, dopo 52 anni di matrimonio passati nella più completa concordia. La stima universale che essa godeva per il suo elevato carattere diede luogo alle più commoventi manifestazioni di sincero cordoglio.
Contro le elezioni si erano dichiarati violentemente i socialisti ed un gruppo di deputati che facevano capo all'on. Nitti, pronunciando perfino minacce contro la Corona. Fra l'altro era stato addotto come argomento per ritardare le elezioni, le condizioni alquanto turbate di alcune province; ma a mio avviso la inquietudine, che si manifestava appunto in episodi riprovevoli e dolorosi, era una ragione di più per accelerarle, perché la manifestazione solenne della volontà del paese é la più grande delle forze morali per imporre a tutti di cessare dalle violenze ed inchinarsi alla legge.
Ad elezioni compiute, quegli stessi che le avevano deprecate credettero di trovare nei loro risultati la conferma della giustezza dei loro punto di vista, in quanto che tali risultati non rappresentavano spostamenti di numeri tali da mutare decisamente la situazione. Tale giudizio era però assolutamente erroneo; ne io mi ero nè proposto né aspettato un capovolgimento della situazione in tale senso, a cui fra l'altro si opponeva il sistema elettorale della proporzionale, che pare appunto sia stato inteso soprattutto, da parte dei suoi ideatori, ad impedire tali bruschi e radicali mutamenti, che venivano qualificati come rivoluzioni parlamentari, a cui appunto si prestava troppo, secondo loro, il sistema maggioritario.
Infatti, in confronto di quelle del novembre 1919 le elezioni del maggio 1921, dettero, su circa otto milioni di votanti, uno spostamento di oltre mezzo milione di voti dai partiti sovversivi a quelli costituzionali; proporzione certo assai alta in così breve volgere di tempo, e che col sistema maggioritario e il collegio uninominale sarebbe stata sufficiente a ridurre di più della metà il numero dei deputati socialisti, comunisti e repubblicani eletti nei Comizi antecedenti; mentre tale spostamento di voti, col sistema proporzionale non poteva portare che allo spostamento da venti a trenta seggi, quale appunto si ebbe.
Ma, specie con l'uso di tale sistema, il risultato elettorale non va misurato solo col numero dei seggi guadagnati o perduti dai vari partiti, ma anche col carattere generale della nuova Camera che ne deriva.
Ora indubbiamente la Camera eletta nel maggio del 1921, riuscì ed apparve subito assai diversa, nel suo spirito, da quella uscita dalle elezioni del 1919. A parte la perdita di ventiquattro seggi da parte dei socialisti e comunisti, si ebbe in quelle elezioni un notevole miglioramento nella qualità degli eletti. In quelle elezioni entrò pure nel parlamento, con un manipolo di una trentina di deputati, la più parte giovani ed animati da spiriti combattivi, il PARTITO FASCISTA; ciò che io considerai cosa vantaggiosa, perché il fascismo costituendo ormai una reale forza nel paese, era bene avesse la sua rappresentanza parlamentare, secondo il mio antico concetto che tutte le forze del paese devono essere rappresentate nel Parlamento e trovarvi il loro sfogo.
Complessivamente la nuova Camera rappresentò innanzitutto una rianimazione delle forze costituzionali, che nella Camera precedente, specie nei primi mesi, erano apparse assai disanimate.
La nuova Camera fu convocata per l'11 giugno, per il discorso della Corona, che ribadì nelle sue linee generali il programma che io avevo annunciato assumendo il governo un anno prima.
Nei giorni seguenti si venne ad una discussione generale, nella quale il governo si trovò contro, oltre i socialisti e gli altri elementi di costante opposizione, che gli rimproveravano le elezioni e la costituzione dei blocchi, anche i nazionalisti e la destra, che lo attaccavano per la politica estera e specie per la meschina questione di Porto Baros.
Venuti ad un voto di fiducia (giorno 27 giugno ndr.) il governo ottenne una maggioranza di trentaquattro voti, infirmata però da una dichiarazione fatta dall'on. Girardini a nome del gruppo della Democrazia sociale, il quale, pure votando per il governo, faceva delle riserve sul significato del suo voto.
Ora, é stata sempre mia abitudine di contare i voti di favore, dati con limitazioni e riserve, come dei voti contrari, quali essi diventano sempre, prima o poi, in una qualche successiva votazione, perché chi vota con riserva ha già ragioni o la disposizione a votare contro. Nel caso attuale poi, il governo che io presiedevo essendo un governo di coalizione costituzionale, formato essenzialmente per l'attuazione di un programma, era evidente che il distacco di gruppi costituzionali importanti, toglieva ad esso l'autorità necessaria per compiere l'opera che si era proposta.
Nei giorni che avevano preceduto il voto, io mi ero poi trovato personalmente in contatto con rappresentanti o porta voce dei vari gruppi costituzionali, dai quali avevo avuto vive premure perché mi decidessi ad un rimpasto del Ministero. Io ho già espresso, in queste mie memorie, la mia ripugnanza a tale sistema dei rimpasti, che non mi é mai apparso né politicamente utile, né leale verso i miei collaboratori.
Nei Ministeri che ho presieduti io sono sempre stato, in tutto e per tutto, senza riserve e limitazioni, consenziente e solidale con la politica svolta dai miei colleghi, e non ho mai ammesso che si possa esimere il capo del governo delle responsabilità che toccano i suoi colleghi; ciò che non sarebbe nemmeno suo onore, perché farebbe supporre che questi colleghi agiscano contro la sua volontà o a sua insaputa. Tutte queste ragioni, come erano valse per il passato, valsero anche questa volta a farmi dichiarare esplicitamente e formalmente a coloro che insistevano, esprimendomi fiducia personale, che io salvassi la situazione mediante un rimpasto, che io non intendevo di fare; aggiungendo che la politica del Ministro degli esteri, del quale più specialmente si chiedeva la sostituzione, era stata condotta in tutte le sue parti in pieno accordo con me.
Aggiungo che se anche io avessi accettata come sufficiente, per restare al governo, quella maggioranza apparente di trentaquattro voti, avrei poco dopo incontrato un altro ostacolo, tale da determinare da solo la crisi ministeriale.
Io avevo presentato un disegno di legge, approvato ad unanimità dal Consiglio dei Ministri, col quale chiedevo i pieni poteri per effettuare la riforma burocratica, resa necessaria per le condizioni del bilancio, per l'enorme numero di impiegati e di istituti inutili, e per la convenienza di dare maggiore efficacia e più sicuro indirizzo a molti servizi pubblici. A far ciò ritenevo indispensabili i pieni poteri, unico mezzo per superare la resistenza degli interessi di classe degli impiegati, e degli interessi locali, ai quali i deputati difficilmente possono resistere, e che uniti nelle resistenza creano nella situazione parlamentare difficoltà invincibili. Io comprendevo perfettamente che il Ministero, quando avesse compiuta seriamente tale opera, avrebbe dovuto lasciare il potere con molte maledizioni di interessi privati offesi, ma, convinto di rendere un servizio al paese, ero deciso ad affrontare così grave responsabilità.
Però in quei giorni la direzione del partito popolare aveva deciso di negare al Ministero i pieni poteri, e l'opposizione già era incominciata nella Commissione incaricata di esaminare quel disegno di legge. Ora, senza il voto dei deputati popolari il disegno di legge non poteva essere approvato; e senza i pieni poteri una riforma seria era, a mio avviso, impossibile. Data una tale situazione, se anche la crisi non fosse avvenuta subito dopo il voto della Camera, sarebbe avvenuta pochi giorni dopo sulla questione della burocrazia, lasciando ai successori definitivamente compromessa la questione stessa.
Quindi, la mattina dopo il voto, io convocai il Consiglio dei Ministri, ed osservai che dopo il distacco della destra e le riserve della democrazia sociale, il Gabinetto non poteva evidentemente contare più su una sicura maggioranza parlamentare, che gli desse modo di esplicare il concreto programma di riforme richiesto dalla situazione generale, economica e politica del paese. I miei colleghi approvarono unanimemente la mia interpretazione della situazione e le conseguenti decisioni, e dopo quindici minuti il Consiglio fu sciolto.
Io mi recai immediatamente da Sua Maestà, a cui riferii le decisioni prese dal gabinetto di presentare le dimissioni. Ed alle tre del pomeriggio il Ministero sì presentò alla Camera, dove io lessi la seguente dichiarazione:
«Ho l'onore di annunciare alla Camera che, in seguito al voto di ieri, il Ministero ha considerato che la piccola maggioranza riportata dal Ministero, maggioranza il cui valore politico è diminuito da riserve fatte nel corso della discussione, non dà al governo la forza necessaria per affrontare le gravi questioni che si devono risolvere; e quindi ha presentate a Sua Maestà le dimissioni. Sua Maestà si è riservata di deliberare».
Quando mi recai al Senato a ripetere tale dichiarazione, fui accolto dall'alto consesso con un applauso quasi unanime, che, lo confesso, mi fu di grande soddisfazione.
Nei giorni seguenti mi furono rinnovate da ogni parte premure perché io assumessi l'incarico della formazione del nuovo Ministero; ma mantenni il mio rifiuto, ed indicai al Re gli on. De Nicola e Bonomi, il quale ultimo formò poi effettivamente il nuovo governo.
Nell'ultima adunanza del Consiglio dei Ministri, tenuta il 1° luglio 1921, avanti la consegna del governo al nuovo Ministero, i miei Colleghi mi presentarono, con grande cortesia, una specie di ben servito, scritto da Benedetto Croce, e recante la loro firma, e col quale mi é grato chiudere queste memorie della mia vita.
«Al nostro illustre Presidente, in questa ultima riunione del Consiglio dei Ministri, non abbiamo bisogno di dire con quanto desiderio ci separiamo da lui. Il nostro sentimento risponde a quello di tutto il popolo italiano, che in questi giorni mostra con mirabile unanimità di sapere ricordare e riverire. Ma ha anche qualcosa di particolare e di proprio l'orgoglio di essere stati, in un periodo difficile e storico della vita nazionale, suoi collaboratori.
Raineri - Croce - Luigi Rossi - Facta - Giulio Alessio - Sechi - Peano - Carlo Sforza - Luigi Fera - Pasqualino Vassallo - Marcello Soleri - Antonio Labriola - G. Micheli - Giulio Rodinò".
FINE DEL DICIOTTESIMO E ULTIMO
CAPITOLO
fine delle "Memorie della mia vita"
Dopo aver sciolto la Camera, il 7 aprile 1921, Giolitti imperniò la battaglia elettorale che ne seguì sul sistema dei «blocchi nazionali», formati da tutti i partiti «borghesi» e dai fascisti, fiducioso com'era (e fu un grande errore psicologico) che i fascisti sarebbero stati assorbiti nel processo della vita costituzionale del paese, come lo erano stati nel passato, sotto la sua guida, i socialisti riformisti.
Fu proprio questa alleanza elettorale che assicurò a Mussolini l'ingresso nella Camera, mentre nel 1913 e nel 1919 non era riuscito ad entrarvi.
Nella discussione iniziata alla Camera il 20 giugno, nel corso del suo discorso sulla politica interna ed estera, del 26 giugno, Giolitti viene duramente contestato dai socialisti, dai comunisti, dai nittiani e dalle destre.
Chiesto il giorno dopo (27) il voto di fiducia, la nuova Camera gli diede una debole maggioranza, di 34 voti, e perciò decise di dimettersi, aprendo così praticamente la porta al fascismo.
Ciò che aveva chiesto Giolitti era una forte maggioranza che gli avrebbe dato nella sua arte di governare ampi poteri. E' singolare che l'anno seguente questo stesso Parlamento concesse senza discernimento alcuno a Mussolini (con soli 35 seggi fascisti e 10 nazionalisti) i pieni poteri che ora rifiutava allo statista piemontese.
Seguì, il breve ministero Bonomi, quello stesso che era stato espulso da Partito Socialista per aver dato l'appoggio alla giolittiana guerra libica. Era un personaggio onesto ma troppo mite, e in politica era scialbo, privo di chiarezza di visione. Salvemini che accusava Giolitti di fare il "dittatore", ora si rammaricava che Bonomi "mancava completamente di autorità e poteva fare indifferentemente il male come il bene". Effettivamente Bonomi si dimostrò ingenuo; era ancora convinto di poter restare imparziale fra i socialisti ed i fascisti, e fallì in pieno quando - per assicurarsi una nuova maggioranza - volle fare un tentativo di conciliazione fra gli uni e gli altri. Ottenne ancora una fiducia il 6 dicembre 1921, ma già il 1° febbraio 1922 era costretto a dare le dimissioni.
A Bonomi seguì il 26 dello stesso mese Facta, che segnò il momento culminante di una serrata partita in cui Giolitti, sempre deciso ad evitare uno scontro frontale con i fascisti, cercò di destreggiarsi con Mussolini per trovare un punto d'intesa con lui. In questa politica gli conveniva, allora, non solo con la grande maggioranza della superstite classe dirigente italiana, ma anche con le attese e le speranze di larghe correnti di opinione pubblica delle grandi potenze occidentali.
In tale situazione, oramai orientata verso la volontaria abdicazione del vecchio regime, Mussolini vinse facilmente la partita. In questa lunga crisi, parlò esplicitamente dell'eventualità di una dittatura come unico mezzo idoneo per porre rimedio all'"acuto senso di disgusto che l'attuale regime parlamentare provoca".
Alle dimissioni di Bonomi, aveva parlato di un ritorno di Giolitti, ma questa volta ad opporsi furono i Popolari, ma per un motivo molto semplice, erano contro la legge di Giolitti (che giaceva in un angolo, ed era in attesa di essere applicata): ed era la legge sulla nominatività dei titoli invisa al Vaticano, oltre che ai detentori dei titoli. (Per la cronaca, quando prese il governo Mussolini, di questa legge non si parlò più, ridando sogni tranquilli ai capitalisti).
In ottobre arriva la minaccia della "Marcia su Roma" fatta da Mussolini già nel discorso di Napoli pochi giorni prima (il 24) "O ci daranno il potere o caleremo su Roma".
Inizia la famosa tempesta e crisi del governo Facta. Lui garantì solo verbalmente che all'occorrenza avrebbe dato degli ordini precisi alle autorità militari per garantire ordine e legalità in caso di tumulti. E sembra che anche il Re lo avesse autorizzato a proclamare, se necessario lo stato d'assedio.
Anche se non è mai stato accertato con piena sicurezza cosa veramente sia accaduto in quelle ore, e chi furono veramente i protagonisti, don Sturzo in seguito disse che Facta aveva lavorato segratamente per preparare un ritorno di Giolitti al governo. Giolitti invece espresse la sua convinzione che Facta avesse fatto il doppio gioco nella speranza di guadagnarsi qualche incarico nel nuovo governo mussoliniano.
Resta il fatto che in effetti Facta, inviò un telegramma a Giolitti, che proprio il giorno 27 avrebbe festeggiato il suo ottantesimo compleanno. Gli scrisse che il re desiderava vederlo. Per formare un governo? Probabilmente questa era l'intenzione del Re (o di Facta?). Giolitti prima di muoversi e fare un viaggio di 600 chilometri, avrebbe voluto ricevere espressamente l'incarico, e quindi pigro com'era e con ottanta anni sulle spalle, non volle rinunciare a celebrare il suo compleanno (Più tardi rimpianse di non essere sceso subito a Roma).
Forse con Giolitti al Governo, Mussolini non sarebbe stato tanto sicuro del suo minaccioso "bluff". Mussolini sapeva benissimo che Giolitti poco più di un anno prima, aveva dato il famoso ordine di prendere a Fiume a cannonate D'Annunzio e i suoi legionari, e - conoscendo l'uomo - non era solo una ipotesi che con Giolitti a Roma, prendendo in mano subito lui le redini del Governo, sarebbe stato capace di fare altrettanto nei confronti di quel manipolo di fascisti, che invece misero nel panico la Corona, i Militari, i Politici.
La cronaca a Roma, prima, durante e dopo quelle ore, diventa inattendibile e piuttosto confusa oltre che ambigua. Ognuno disse poi la sua per giustificarsi (Diaz, Facta, Badoglio, Re ecc.) Ma sappiamo che in seguito con Mussolini ormai al potere, ci furono subito molte smentite di prese di posizioni; poi caduto vent'anni dopo il fascismo, ci furono le smentite delle precedenti smentite. Noi sappiamo solo con certezza che il mattino, quando i manipoli di rivoltosi stavano avvicinandosi a Roma, mancò la fermezza politica e il coraggio morale. Quando Facta alle nove del mattino del 27, si recò a palazzo per ottenere la promessa ratifica sovrana al decreto di proclamazione dello stato d'assedio, il Re rifiutò di firmare. Da quel momento Mussolini non ebbe più intralci, e la marcia su Roma si concluse nella capitale con un tripudio di popolo. E con lui al Governo.Da quel momento Giolitti (e lo aveva sempre fatto con tutti) si dimostrò favorevole ad una collaborazione con la politica fascista, spinto sempre dalla fiducia in una "rapida normalizzazione, quale, a suo giudizio, "sarebbe seguita alla giovanile baraonda, non appena i capi avessero morso i pomi del potere". Non per questo Giolitti era fascista. Né sarebbe mai potuto diventarlo.
La sua medesima inclinazione di medico empirico della politica, tendente piuttosto a favorire il processo naturale di guarigione che a interrompere la febbre con violente medicine, esprimeva l'inclinazione d'un autentico liberale, aperto ai problemi della democrazia in cammino.
Nelle successive elezioni del 6 aprile 1924 si presentò in Piemonte a capo di una lista «parallela», ai posti di minoranza e perciò distinta dal «listone» governativo cui spettavano i due terzi dei seggi ove avesse raggiunto il venticinque per cento dei voti. Per il prestigio che godeva, ovviamente fu rieletto.
Ma a novembre, dopo la riapertura del Parlamento (dopo l'Aventino, cui non aveva aderito) Giolitti preferì appoggiare l'opposizione nell'aula con una dichiarazione di voto (15 novembre 1924) contraria alla soppressione avvenuta di fatto (con decreto 8 luglio) della libertà di stampa .
Gli arcinoti fatti del delitto Matteotti, e il famoso duro discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, lo allontanarono del tutto dal Parlamento. Discorso quello del capo del fascismo, che Albertini interpretò come la "Caporetto del vecchio liberalismo parlamentare" (la pagherà cara!). Ed anche Salvemini, questa volta davanti ad una vera dittatura, dopo aver stampato clandestinamente il suo "Non mollare", il 4 agosto dopo essere già stato arrestato per l'attività del giornale, rimesso in liberta provvisoria, fugge in Francia, dove rimarrà in esilio vent'anni. (lui che si era sempre lamentato che Giolitti governava come un dittatore!, provò così cos'era la vera dittatura).
Giolitti calmo come sempre, non mise più piede alla Camera, ritornò quindi a Cavour «Tra il governo che ha soppresso la libertà della stampa e l'opposizione che ha soppresso la tribuna parlamentare - scrisse il 1° maggio all'amico Corradini - un povero diavolo che abbia la disgrazia di aver conservato un po' di buon senso non ha altra risorsa che starsene in campagna a far la parte di osservatore».
Il 16 marzo 1928 ritornò l'ultima volta alla Camera per opporsi al nuovo disegno di legge che attribuiva al Gran Consiglio del fascismo il diritto di designare i candidati per un'unica lista di deputati. A nome dello sparuto gruppo di deputati che ancora costituivano l'opposizione liberale in aula, Giolitti ormai 86enne, tenne il suo ultimo discorso parlamentare, indicando in quella legge la definitiva rottura operata dal regime nei confronti dello Statuto albertino.
Discorso battagliero, ma inutile, perchè la legge fu approvata con 216 voti a favore e 15 contrari.
La Camera in base a questa legge veniva composta da 400 deputati, e al Gran Consiglio del Fascismo era affidato il mandato di designare l'elenco dei candidati.
Quattro mesi dopo, Giovanni Giolitti, lasciava definitivamente la scena della sua lunga battaglia, il 17 luglio, a 86 anni di età moriva a Cavour.
Risorse quindi per la terza volta non più come mortale presidente o capogruppo, ma come personificazione, tuttora ben viva, di quel nostro recente passato.
Nino Valeri (in Cento anni d'Italia, 1870-1970. Il Resto del Carlino)Per la cronaca: Le elezioni - come aveva promesso Mussolini - furono abolite. Al loro posto si svolse il "Plebiscito", il 24 marzo 1929, dopo aver firmato con la Santa Sede, l'11 febbraio i patti Lateranensi, e dopo che l'Azione cattolica, aveva invitato i cattolici a partecipare con il voto alla rielezione del Governo fascista, guidato dall' "uomo che ci ha mandato la provvidenza". E stessi appelli furono lanciati dalle colonne di importanti giornali cattolici, come "Civiltà Cattolica" e "L'Avvenire d'Italia".
Risultato: su 9.460.737 aventi diritti al voto, e con votanti 8.661.820; i SI furono 8.517.838 (il 98,4%).
Il successivo "Plebiscito" del 1934 andò fu ancora più palese: votanti 10.041.997, con 10.026.513 SI (99,84%); solo 15.265 furono gli italiani che dissero NO al fascismo..
Insomma l'Italia era tutta fascista.
GIOLITTI E IL FASCISMO
20 aprile 1921 (dispaccio ai prefetti):
" Violenze fasciste in tempo lotta elettorale costituiscono grave reato e disonorano il Paese. Camera eletta con violenza mancherà di autorità morale. Purtroppo forza pubblica in codesta provincia manca al suo dovere non reprimendo così gravi reati. Occorre, quindi, cambiare quei capi della forza pubblica che per debolezze o connivenza non fanno il loro doveri. Invito, quindi, lei ad indicarmi, entro domani, con telegramma diretto a me personalmente, il nome degli ufficiali e guardie regie che sia conveniente traslocare. L'avverto che la terrò personalmente responsabile dell'opera dei comandanti di forza".19 agosto 1922 (lettera):
"Sono molto lieto di non essermi trovato a Roma nel periodo della crisi: ho evitato uno spettacolo nauseante". (il 19 luglio era caduto il governo Facta, che aveva attribuito la responsabilità dei numerosi incidenti in varie città d'Italia alle forze dell'ordine, ma nello stesso tempo negò la necessità di ricorrere a misure eccezionali - Ndr.).1° aprile 1924 (lettera):
"Molto mi addolora quanto avviene in Abruzzo. Non c'è altro rimedio che la resistenza passiva e la perseveranza. Pazienza, pazienza e pazienza! La teoria di Tolstoi!"
11 maggio 1925 (lettera):
"Tra un Governo che ha soppresso la libertà di stampa e un'opposizione che ha soppresso la tribuna parlamentare, un povero diavolo non ha altra risorsa che starsene in campagna"
Agosto 1925 (lettera):
"Colpire il pane; sgravare le successioni, sgravare la benzina a favore dei poveri diavoli che tengono automobili, sopprimere la tassa sui titoli mobiliari per soccorrere i pescicani ai quali il gioco di borsa era andato male, sono veramente numeri di un programma logico. Poveri conservatori che avevano governato prima del 1876! Erano proprio degli ingenui!"
Settembre 1925 (lettera):
"Di salute sto benissimo, e l'essere stato un mese all'estero senza sentir parlare di fascismo, di Aventino ecc., vi ha contribuito"
27 agosto 1926 (lettera):
"Nulla ho trovato di nuovo, salvo la continuazione dell'opera di demolizione sistematica di quanto riguarda il passato. Il primo passo preconizzato per l'avvenire e la soppressione del Parlamento, e poi si passerà ad altro. Procura di conservarti in buona salute: non vi e altro da fare"
28 aprile 1927 (lettera):
"A misura che invecchio divento più appassionato della campagna, e qui (a Cavour) passo la maggior parte della giornata all'aria libera. Qui mi son messo a leggere libri vecchi, le opere di Machiavelli (quante osservazioni applicabili oggi!). E sto pure leggendo diverse pubblicazioni recenti sulle origini della guerra mondiale; quanta leggerezza, quanta vanità, quanta inettitudine nei dirigenti dell'Europa: quanto è vero il detto quam parva sapientia regitur mundus!"
30 aprile 1927 (lettera):
"La vita politica è una gran brutta vita. lo vi entrai senza volerlo; ma se dovessi nascere una seconda volta, piuttosto mi farei frate, e sono molto contento che nessuno dei miei figli nè dei nipoti sia entrato o accenni minimamente al proposito di entrarvi!"16 marzo 1928 - Giolitti torna alla Camera per il suo ultimo discorso parlamentare contro la riforma della rappresentanza politica nella nuova legge elettorale. La legge affida al Gran Consiglio del Fascismo il mandato di scegliere un elenco di nomi per formare una lista di 400 candidati, e su questa gli elettori saranno chiamati ad esprimere la loro approvazione.
Quattro mesi dopo a Cavour il 17 luglio 1928, a 86 anni di età muore Giovanni Giolitti.