CAPITOLO 17
il Ministero Nitti: sua incertezza e sua caduta - Il programma con cui assunsi il governo - Necessità di risolvere le questioni internazionali e quella di Fiume - Progetti radicali presentati al Parlamento per la politica estera e finanziaria - L'episodio di Ancona - Perchè sgomberai Vallona - Mio incontro con Lloyd George a Losanna e con Millerand a Aix-les-Bains - Il progetto dei Governo per la soluzione della questione Iugoslava - Abbandono dei progetti antecedenti per chiedere il confine naturale - Rapida conclusione del trattato di Rapallo - Vani tentativi per persuadere D'Annunzio - L'azione per ristabilire la situazione normale a Fiume. |
Il primo Ministero dell'on. Nitti aveva cominciato abbastanza bene, fronteggiando le agitazioni della piazza, provocate sopratutto dal rincaro del costo della vita, che i socialisti rivoluzionari tentavano di volgere a fini politici, con una certa fermezza che valse per un momento a vincere le diffidenze con cui era stato accolto, e gli assicurò larghi suffragi tanto alla Camera quanto al Senato. Questo suo atteggiamento però non fu duraturo; presto, e soprattutto dopo le elezioni del 1919, egli cedette sempre più alle imposizioni dei partiti estremi, dando l'impressione di credere che ormai le sorti dell'Italia e dello Stato fossero irrevocabilmente nelle loro mani. Per la politica estera non riuscì a risolvere la nostra questione con lo Stato Jugoslavo e ad assicurarsi il cordiale appoggio degli Alleati, vedendo l'una dopo l'altra le sue troppo frettolose e mutevoli proposte respinte; per le questioni interne si ridusse a ripetere continuamente la raccomandazione della necessità dell'ordine e della parsimonia; ma nella storia politica non c'è esempio che le prediche abbiano mai avuto grande effetto, richiedendosi dall'uomo di Stato non il sermoneggiare, ma l'agire.
Riuscì a lanciare l'ultimo prestito nazionale con notevole successo, la borghesia italiana rispondendo con larghezza alle domande dello Stato -nella persuasione che con quel prestito si riuscisse a sanare la situazione; ma invece i proventi, che in danaro ammontavano a sette miliardi effettivi, furono divorati dai disavanzi, specie per l'assurda politica del prezzo del pane che portava via all'erario oltre sei miliardi all'anno. L'on. Nitti ebbe la debolezza di lasciarsi imporre, per il timore di una crisi, a proposito del prezzo del pane, l'ordine del giorno Casalini, che stabiliva che tale prezzo non fosse modificato se non dopo che fossero tassati tutti i generi di lusso e solo col consenso della Camera; mentre la responsabilità della eliminazione, sia pure graduale, di quel prezzo politico, adottato d'autorità dal governo per le ragioni della guerra, competeva interamente al governo stesso. Poi, disperando di ottenere il consenso parlamentare di fronte all'opposizione socialista, che minacciava tumulti ed ostruzionismo, e rendendosi pure conto del baratro che quel prezzo assurdo apriva nel bilancio dello Stato, tentò di abolirlo mediante un decreto legge, che viceversa dovè, poi ritirare, quando il suo terzo Ministero si presentò già dimissionario.
L'unica legge che l'on Nitti riuscì a far votare dal Parlamento, fu quella del mutamento del sistema elettorale, dal collegio uninominale alla proporzionale. È giusto riconoscere che l'infatuazione per questa riforma fu in quel momento quasi universale, alcuni vedendovi in buona fede un progresso; altri, e forse i più, quelli che erano sicuri di avere perduto l'antico collegio, accettandola con la speranza di migliore fortuna. Per conto mio, agli amici che mi scrivevano magnificandola ed invitandomi a venire a Roma per dare ad essa anche il mio voto, io, limitandomi quanto al merito ad esprimere gravi dubbi, avevo risposto che a mio avviso una Camera, la quale aveva già da tempo oltrepassati i cinque anni, termine massimo fissato dallo Statuto, e che quindi non era più la rappresentante della volontà degli elettori, non aveva il diritto di mutare così in fretta e furia una delle fondamentali leggi politiche dello Stato.
Alla caduta del terzo Ministero Nitti, io fui indicato alla Corona dalla unanimità degli uomini politici consultati, ed assunsi il Governo.
Quali fossero le mie idee riguardo il compito che spettava ai governi dell'immediato dopo guerra, io l'avevo già largamente indicato col discorso pronunciato a Dronero per le elezioni dell'ottobre 1919, tanto nei riguardi finanziari, quanto in quelli politici, interni ed internazionali. Per la politica finanziaria io avevo rilevato l'enorme aumento del debito dello Stato, che si poteva allora calcolare in circa novantaquattro miliardi, ai quali altri poi se ne sono aggiunti per il mancato raggiungimento del pareggio del bilancio.
Per questo bilancio io constatavo in quel discorso un disavanzo di almeno quattro miliardi, che il mantenimento dell'assurda politica del prezzo dei pane, ed altri coefficienti derivati dalla svalutazione della moneta, avevano poi portato rapidamente ad oltre quindici miliardi. Per la politica estera io insistevo sulla necessità di assicurare la pace, ancora assai dubbia per noi per la mancata soluzione del problema dei nostri confini orientali; e rilevavo la strana contraddizione dei nostri ordinamenti politici, per i quali, mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, né creare o abolire una Pretura o un semplice impiego d'ordine, senza la preventiva approvazione del Parlamento; può invece, a mezzo . di trattati internazionali, assumere, a nome del paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né il Parlamento né il Paese ne siano o ne possano essere in alcun modo informati. Ed avevo osservato che un tale stato di cose andava radicalmente mutato, dando al Parlamento, riguardo alla politica estera, gli stessi poteri che esso ha riguardo alla politica finanziaria ed alla politica interna, prescrivendo cioè che nessuna convenzione internazionale possa stipularsi, nessun impegno si possa assumere senza l'approvazione del Parlamento.
Avevo pure richiamato l'attenzione sulla necessità di accrescere l'autorità del Parlamento contro il quale i partiti reazionari avevano condotta una campagna di diffamazione, a cui si era aggiunto il fatto che quattro anni di pieni poteri governativi avevano di fatto soppressa l'azione del Parlamento italiano, in un modo che non aveva avuto riscontro negli altri Stati alleati.
Per noi ogni discussione di bilancio, ogni controllo sulle spese dello Stato e sulle operazioni finanziarie era stato soppresso; il Parlamento era tenuto all'oscuro circa gli impegni finanziari che si andavano assumendo, come di ogni provvedimento militare e di ogni atto diplomatico; l'azione legislativa era stata assolutamente nulla, sostituita anche in materie estranee alla guerra da innumerevoli decreti luogotenenziali, preparati senza discussione, nel chiuso degli uffici, spesso da persone incompetenti, ignare delle vere condizioni del paese; ispirati talora a concetti contraddicentisi e che spesso aggravarono i mali a cui intendevano portare rimedio, producendo lo spreco di miliardi.
A ristabilire l'autorità del Parlamento, io osservavo che non basterebbe ora aumentarne i poteri; ma occorreva che il Parlamento stesso dimostrasse coi fatti di volerli efficacemente esercitare. La pace doveva chiudere quel periodo così deleterio per il prestigio del Parlamento e così dannoso al Paese, ed aprirne uno nuovo di attività eccezionale. La rappresentanza nazionale, dopo così grave esperimento di governi senza controllo, avrebbe dovuto sentire fortemente l'autorità sovrana che le é delegata dal paese; ed a mio parere, come suo primo atto, essa avrebbe dovuto deliberare inchieste solenni per accertare le responsabilità relative alla guerra; esaminare il modo, con cui erano stati esercitati i pieni poteri; come erano stati stipulati ed eseguiti i grandi contratti di forniture tanto all'interno quanto all'estero, e fare conoscere chiaramente al paese come erano state spese le immani somme di decine di miliardi, delle quali fino allora nessun conto era stato dato.
E riguardo al risanamento del bilancio dello Stato, riconoscevo che esso avrebbe richiesto, oltre le economie nuove, ingenti entrate. Ora queste si possono ottenere in due modi, o portando il peso delle imposte sui consumi, o coll'imporre maggiori oneri sulla ricchezza accumulata. La mia tendenza a questo riguardo non poteva essere dubbia, avendo già per tre volte, quando ero al governo, proposta l'imposta progressiva sui redditi e le successioni. Considerando però che tanto alla imposta sul reddito che a quella di successione sfuggivano quasi per intero i titoli al portatore, che costituiscono grande parte della ricchezza mobiliare, e che a nulla gioverebbe l'inasprimento delle aliquote quando non si impedissero le evasioni, avanzavo la proposta che tutti i titoli di azioni e di obbligazioni dovessero farsi nominativi.
Infine, nel riguardo economico, io dichiaravo che l'Italia non avrebbe potuto trovare la salvezza al di fuori di una austera politica di lavoro, con l'intelligente utilizzamento di tutte le sue risorse materiali e morali, tanto nell'agricoltura che nelle industrie e nei commerci. E concludevo che se il paese, lasciandosi addormentare da quella vuota retorica che tanto danno aveva già recato all'Italia, non si rendesse conto delle vere sue condizioni; seguisse la facile via degli sperperi e dei debiti; non reagisse energicamente contro lo spirito imperialista, iniziando una forte politica di lavoro e di sacrificio, sarebbe andato incontro al fallimento dello Stato, al discredito nel mondo ed alla rovina economica e politica.
Se invece, seguendo la via del dovere, avesse guardato arditamente alla realtà, affrontando energicamente le gravi difficoltà della situazione e dimostrando in pace quella magnifica resistenza e quel mirabile spirito di sacrificio che in guerra lo avevano portato alla vittoria, esso avrebbe vinto anche le difficoltà presenti, riprendendo le vie del progresso.
Sette mesi dopo, constatando che la situazione rimaneva purtroppo immutata, anzi peggiorava; che la Camera si perdeva in vane declamazioni, senza che il Governo riuscisse a indirizzarla ai suoi compiti, così che anche a guerra finita, si aveva l'ironica situazione che si aspettava che la Camera fosse chiusa, per emanare le leggi a mezzo di decreti; che il disavanzo del bilancio diventava sempre più pauroso e si viveva sui debiti, niente facendo d'altronde per recuperare il danaro mal tolto allo Stato durante le necessità della guerra; in una intervista, pubblicata sulla Tribuna, io avevo ribadito ancora questi concetti, adattandoli al momento. Ed avevo detto:
«Nelle gravissime condizioni nelle quali si trova l'Italia, occorre, a mio avviso, un programma di vera ricostruzione, che necessariamente sarà assai complesso, molte essendo le riforme sociali indispensabili, e specialmente riguardo ai lavoratori della terra; ma pure nei provvedimenti necessari vi è una gradazione di urgenza, ed è mio fermo convincimento che due pericoli soprattutto minacciano ora la compagine dello Stato; il discredito del Parlamento e la disastrosa condizione della finanza.
«Il prestigio del Parlamento é profondamente scosso nella pubblica opinione per l'assenza assoluta di qualsiasi attività legislativa, avendo esso abdicato ai suoi poteri che da molto tempo vengono esertati dal governo sotto forma di decreti legge. A questo sistema incostituzionale, che toglie ogni serietà al lavoro legislativo, si deve rinunciare; e non solamente si deve ridare al Parlamento il pieno esercizio del potere legislativo, il controllo effettivo sulle pubbliche spese e sull'ordinamento dei pubblici servizi; ma gli si devono dare anche nella politica estera poteri eguali a quelli che gli spettano sulla politica interna e finanziaria, modificando l'art. 5 dello Statuto, e istituendo nei due rami del Parlamento commissioni permanenti di controllo sulla politica estera.
«È necessario inoltre che cessi la facoltà nel potere esecutivo di prorogare le sessioni del Parlamento, poiché tale illimitata facoltà pone il Parlamento in condizioni di vera dipendenza del governo.
«Quanto alla condizione della finanza dello Stato, per dimostrare l'imminente pericolo che le sovrasta, basta considerare che nei dodici mesi dell'esercizio in corso si avrà un disavanzo non inferiore a 18 miliardi, il quale si copre con debiti e in parte, pur troppo, con emissione di altra carta moneta. L'ultimo grande prestito ha dato, in denaro, 7 miliardi che bastano appena a coprire il disavanzo di cinque mesi.
«Mentre dal 1860 al 1914, in cinquantaquattro anni l'Italia ha fatto appena 14 miliardi di debiti, ora in un solo anno, a guerra finita, ne fa 18. Se non fosse mancato il controllo del Parlamento, ciò non sarebbe avvenuto.
«Così si cammina a gran passi verso il fallimento se non si dà, subito, un potente colpo di arresto alle spese, e se non si procurano, senza ritardo, così forti entrate al Tesoro, da escludere in modo assoluto ogni ulteriore aumento di circolazione cartacea, aumento che necessariamente importerebbe una nuova svalutazione della moneta, e quindi un ulteriore aumento del costo della vita.
«Per procurare al Tesoro questo forte aumento di entrata due mezzi principalmente si offrono: la revisione dei contratti stipulati dallo Stato durante e dopo la guerra, allo scopo di ricuperare quanto sia stato pagato al di là di una equa misura; e la rigida applicazione della imposta sul capitale.
«Questa imposta può dare grandi risultati se si riesce a colpire tutta la ricchezza mobiliare, poiché il contributo della proprietà fondiaria, come fu determinato con decreto legge, sarà molto limitato. Ora la ricchezza mobiliare sfuggirà in molta parte all'imposta se non si disporrà, immediatamente per legge, che tutti i titoli al portatore, di qualsiasi specie, azioni, obbligazioni, cartelle fondiarie, titoli di debito pubblico, ecc., debbano essere convertiti in titoli nominativi.
«Il valore complessivo dei titoli al portatore sale ad oltre 70 miliardi, i quali sfuggono ora per la maggior parte alla tassa sulle successioni e sfuggirebbero egualmente alla imposta sul capitale, e alla imposta progressiva sul reddito.
Quei 70 miliardi sono in buona parte concentrati nelle grandi fortune, le quali dovrebbero pagare il venti, il trenta, il quaranta e fino il cinquanta per cento, e quando si trattasse di patrimoni formati da profitti di guerra dovrebbero pagare aliquote ancora maggiori; è quindi evidente quanto grande sia il contributo che può averne il Tesoro; ciò però a patto che la nominatività dei titoli renda impossibile la frode.
«Il provvedimento é necessario alla finanza, ed è imposto da un'alta considerazione morale, per imprimere nelle masse popolari la sicurezza che gli oneri fiscali sono distribuiti con giustizia, e che non vi possono sfuggire appunto le maggiori ricchezze; ed è consigliato anche da considerazioni di giustizia regionale, in quanto quei 70 miliardi di titoli si trovano per la maggior parte nell'Alta Italia, e solo in piccola parte nel Mezzogiorno.
«Una giusta ripartizione degli oneri fiscali è condizione indispensabile per ottenere che il Paese li accetti ;
«Ho fiducia che gli uomini politici i quali hanno la responsabilità del governo, in tempi così difficili, sentiranno il dovere indeclinabile di rialzare il prestigio del Parlamento, restituendogli l'esercizio dei suoi poteri, e di evitare, con radicali e immediati provvedimenti, il fallimento dello Stato che travolgerebbe in una comune rovina tutte le classi sociali.»
Tutte queste pubbliche manifestazioni del mio pensiero sulle principali questioni non potevano lasciar dubbio sul programma che avrebbe informata l'azione di un Ministero da me presieduto.
Io formai senza difficoltà il nuovo Ministero, chiamandovi uomini di tutti i partiti costituzionali, per stabilire un accordo su un programma preciso e concreto, che mirasse a risolvere le questioni di maggiore urgenza per far salvo il credito e la compagine dello Stato. Affidai il ministero degli Esteri ad un giovane diplomatico che aveva già fatta ottima prova nella sua carriera ed anche reggendo il sottosegretariato di quel dicastero nel governo precedente, il Conte Sforza; al Tesoro chiamai l'on. Meda; alle Finanze l'on. Tedesco; alla Guerra l'on. Bonomi; alle Colonie l'on. Luigi Rossi; all'Istruzione il Senatore Benedetto Croce, come rappresentante della più alta cultura; alle Poste l'on. Pasqualino Vassallo; alle Terre Liberate l'on. Raineri; ai Lavori Pubblici l'on. Peano; ed alla Marina mantenni il Senatore Sechi. Affidai la gestione dell'Ente degli approvvigionamenti e consumi, che doveva essere liquidato, all'on. Soleri. E sin dal primo Consiglio dei Ministri, distribuii ai miei colleghi una serie di progetti di legge, che dovevano essere immediatamente sottoposti alla discussione parlamentare.
Il Ministero si presentò al Parlamento il 24 giugno. Nel discorso con cui esposi il mio programma, ripresi e riaffermai i concetti sopra indicati. Per la politica estera indicai chiaramente che il nostro proposito era di condurre a termine la conclusione della pace, ristabilendo rapporti amichevoli con tutti i popoli; dichiarando che come salda garanzia di pace il Parlamento doveva avere nella politica estera la stessa autorità che aveva nella politica interna e in quella finanziaria. E per la completa applicazione di quel principio presentai un disegno di legge, il quale, modificando l'art. 5 dello Statuto, disponeva che i trattati e gli accordi internazionali, quale si fosse il loro oggetto e la loro forma, non sarebbero validi senza l'approvazione del Parlamento, e che senza la preventiva autorizzazione del Parlamento non potesse essere fatta dichiarazione di guerra. E perché tale controllo parlamentare sulla politica estera potesse essere esercitato, io proponevo pure la creazione di Commissioni permanenti presso i due rami del Parlamento, alle quali dovevano essere comunicati immediatamente i documenti relativi alle questioni in corso, fra le quali quella dell'Adriatico predominava.
Per la politica interna io proclamavo il concetto già esposto della necessità di ritornare all'osservanza dello Statuto; al quale scopo bisognava anzi tutto bandire l'uso dei decreti legge, con le sole eccezioni che si riferissero alla revoca o modificazione di decreti legge non ancora convertiti in legge, alla soppressione di istituti e di impieghi divenuti inutili, ed ai provvedimenti necessari per le terre redente, fino a che non fossero legalmente annesse al Regno. E prospettavo poi provvedimenti minori per le rappresentanze operaie in corpi deliberanti o consultivi; per l'incremento della cooperazione; per le autonomie amministrative basate sul referendum; e per l'esame di Stato, che io consideravo come unico mezzo serio ed efficace per il controllo non solo del profitto degli allievi, ma anche dell'operosità e della attitudine dei professori all'insegnamento.
Per la politica economica richiamavo la necessità di frenare l'aumento del costo della vita, contro esose speculazioni, sostenendo però il concetto che la vera e permanente causa di quell'alto costo, era il deprezzamento della moneta, dovuto all'eccessiva circolazione ed al grave squilibrio fra esportazione ed importazione, e che contro queste cause bisognava indirizzare i rimedi. Per cui era d'uopo estendere la coltura di quelle materie per le quali eravamo più gravemente tributari dell'estero, come il grano, chiedendo al Parlamento poteri speciali per costringere a coltivare a grano tutte le terre suscettibili di tale cultura; di ridurre la necessità delle importazioni di carbone mediante un più vasto utilizzo delle forze d'acqua, e di iniziare una razionale esplorazione del nostro sottosuolo per lo sfruttamento delle sue ricchezze minerarie.
E per la politica finanziaria proponevo di avocare totalmente allo Stato i soprapprofitti di guerra, in quantoche é ingiusto e immorale che la guerra possa essere fonte di guadagno; di procedere ad una inchiesta parlamentare sulle spese di guerra e per la revisione dei relativi contratti; di rendere più fortemente progressiva la tassa sulle successioni; di aumentare di molto l'imposta sulle automobili private e di imporre l'obbligo di rendere nominativi i titoli al portatore, che rappresentavano almeno settanta miliardi, la maggior parte dei quali sfuggiva alle tasse sulle successioni, a quella sui redditi ed a quella sul capitale.
E disegni di legge riferentisi a tutti questi punti furono da me in quella stessa prima seduta presentati; perché il mio primo pensiero era di ridare al Parlamento quell'autorità che solamente poteva venirgli dalla dimostrata capacità di riprendere con ogni energia il suo compito essenziale, e cioè l'opera legislativa, e di dare all'interno e all'estero la prova del fermo proposito di ristabilire l'equilibrio del bilancio.
Assumendo il governo io trovai una situazione gravissima sotto tutti i rapporti. Nella politica estera, i cui problemi dovevano essere per primi risolti, perché l'attenzione e l'opera del governo potesse poi portarsi tutta alla politica interna e di ricostruzione economica e finanziaria, trovai aperta una guerra in Albania, dove morivano oltre cento soldati al giorno di febbre malarica, e Vallona minacciata e stretta d'assedio, perché lo sgombero e la ritirata dai territori dell'interno, in se stessa una buona decisione, era stata condotta con troppa manifesta fretta e con conseguente disordine; trovai Fiume occupata da D'Annunzio, con una situazione che costituiva una minaccia continua di guerra ; trovai che i negoziati con la Jugoslavia per la definizione del nostro confine orientale erano arenati, perché tutte le proposte e richieste avanzate dal nostro Governo per una soluzione erano state costantemente respinte.
All'interno l'irrequietezza dei partiti estremi era giunta al colmo; non solo, ma era cominciato un disgregamento negli stessi organi dello Stato, tanto che non si poteva fare viaggiare la forza pubblica senza che i ferrovieri arrestassero immediatamente i treni, e contro un tale stato di cose non era stata tentata la minima reazione o preso alcun serio provvedimento. Nel rispetto della politica finanziaria trovai un disavanzo di quattordici miliardi nel bilancio dello Stato, sei dei quali dovuti, come ho già detto, al prezzo politico del pane, ciò che avrebbe in breve volgere di tempo condotto al fallimento.
Tutti questi problemi, ognuno di per sè gravissimo, e che tutti insieme formavano una situazione piena di pericolo, dovevano essere risolti. Il primo che affrontai per forza delle cose fu quello dell'Albania. Le tremende condizioni sanitarie in cui si trovavano le truppe nell'Albania erano note nell'esercito, anche per il rimpatrio continuo dei soldati colpiti dalla malaria; e la notizia che un reggimento di bersaglieri, che si trovava acquartierato ad Ancona, sarebbe stato inviato in Albania per rafforzare la guarnigione di Vallona, provocò una sedizione militare, a cui concorse la sobillazione di elementi anarchici, allo scopo di provocare un movimento insurrezionale.
In quella occasione io percepii in tutta la gravità le condizioni del paese, in quanto non si poterono trasportare con la ferrovia le truppe e i carabinieri necessari a domare la rivolta ed a ristabilire la disciplina e l'imperio della legge; e per l'urgenza della situazione dovemmo provvedere al trasporto delle truppe a mezzo di camions. Che un tale stato di cose fosse in buona parte effetto di inerzia e troppa paura da parte del precedente governo, che nulla aveva fatto per impedire che si formasse, a per arrestarlo alle sue prime manifestazioni, fu poi mostrato dal fatto che per rimettere un po' di disciplina fra i ferrovieri, non fu necessario ricorrere a mezzi eccezionali; e che in breve tempo si riuscì, parte con la persuasione ed il richiamo al dovere, e parte con la ferma applicazione delle punizioni comminate dai regolamenti, ad ottenere che le ferrovie servissero da allora in poi all'interesse dell'ordine pubblico, né si ebbe più alcun caso di rifiuto per il trasporto di truppe, guardie e carabinieri.
Per quanto concerneva l'Albania io ero venuto immediatamente ad una decisione radicale, e l'avevo comunicata ai miei colleghi, dandone le ragioni che avevano ottenuta la loro piena approvazione. A mio parere la questione dell'Albania e di Vallona era profondamente mutata per noi dopo la caduta dell'Impero degli Asburgo. Fino a che esisteva quell'impero militare, le cui coste si estendevano per così grande tratto lungo l'Adriatico, noi avevamo un primario interesse a che esso, penetrando nel territorio albanese, non creasse una situazione per noi ancora più difficile, diventando padrone dell'entrata di quel mare; donde gli accordi speciali intervenuti fra l'Austria e noi, allo scopo di evitare gravi conflitti.
Dopo la guerra balcanica e la quasi totale rovina del dominio turco in Europa, la nostra politica, nella quale avevamo pure potuto procedere abbastanza d'accordo con l'Austria, era stata di assicurare l'autonomia del territorio albanese, impedendo che la Serbia l'invadesse da settentrione e la Grecia da mezzogiorno. Nelle nuove condizioni sortite dalla guerra europea, l'interesse nostro era pure che l'Albania fosse autonoma, e che nessuno potesse insediarsi nelle sue coste e nei suoi porti; sicuri che l'Albania per conto proprio non avrebbe avuta mai una flotta che potesse essere una minaccia alle nostre coste ed alla nostra libertà di traffico in questo mare.
Riguardo poi a Vallona, io facevo questo ragionamento: che in caso di guerra, se noi fossimo i più forti in mare non avremmo avuto bisogno di Vallona; se fossimo i più deboli, non potendo difenderla e rifornirla per mare, saremmo costretti ad abbandonarla. E ciò prescindendo anche dalla considerazione della radicale trasformazione che il più largo uso dei sottomarini e degli idrovolanti porterà, secondo i tecnici, nella guerra navale del futuro.
Ad ogni modo, ciò che veramente ci interessa è che Vallona non possa costituire una base di operazioni contro di noi; e questo scopo è raggiunto con l'occupazione dell'isolotto di Sasseno, che sta all'imboccatura della baia stessa. Per fare di Vallona una base navale nostra, data la enorme portata delle artiglierie moderne, sarebbe necessaria una occupazione territoriale estesissima perché il porto non fosse esposto al tiro delle artiglierie nemiche; il che avrebbe comportato non solo spese ingenti e continuative, ma, in caso di guerra, l'immobilizzamento di nostre considerevoli forze, che verrebbero sottratte al teatro principale della guerra ed alla difesa del territorio nazionale.
Per tutte queste ragioni io decisi di rinunciare al mandato, conferitoci dalla Conferenza di Parigi, sull'Albania, che avrebbe rappresentata una enorme passività senza alcun utile, e di limitare la nostra azione alla protezione diplomatica dell'Albania contro le mire di altri Stati, e di abbandonare Vallona, assicurandoci però il riconoscimento del possesso di Sasseno; ed inviai in Albania il Barone Alliotti, con tutti i poteri per trattare col governo albanese a questo scopo. Si venne facilmente, come era da presumere, all'accordo, e Vallona fu sgombrata. Io definii quella decisione e la sua esecuzione, l'estirpazione di un dente, per la quale il paziente esita e ritarda, ma di cui poi alla fine é lieto di essersi liberato.
Assai più difficile si presentava la soluzione della questione dei nostri confini orientali col nuovo Stato della Jugoslavia, tanto più che essa era stata in certo modo compromessa dal Ministero precedente, con negoziati che non avevano approdato a nulla. Il che però era stata anche una fortuna, perché in quei negoziati era stata da parte nostra richiesta e non ottenuta, una linea di confini non conveniente, in quanto non corrispondeva al confine naturale. Quella nostra domanda costituiva una grave compromissione, che rischiava di fare sentire i suoi effetti anche su trattative nuove, intralciando l'opera dei nuovi negoziatori. Per questa ragione io mi astenni per parecchi mesi dall'entrare in rapporti col governo di Belgrado, premendomi di fare ben capire che le nostre eventuali trattative non dovevano in nessun modo considerarsi come una ripresa o continuazione di quelle precedenti, ma come trattative ex-novo. Resistei perciò anche alle pressioni, che ricevevo da alcune parti, perché io mi affrettassi a risolvere quella questione, che pure io stesso giudicavo pericolosa.
Ricordo a questo proposito che, nei primi giorni di agosto, da parte inglese ci si manifestò una certa ansietà per la ripresa delle trattative nostre con la Jugoslavia. Al Foreign Office si temeva che i serbi, incoraggiati dagli avvenimenti di Albania, che naturalmente essi interpretavano dal loro punto di vista, fossero tentati a seguire lo stesso sistema usato dagli albanesi; e, a riprova di questi timori, e come un indizio di tali disposizioni da parte dei serbi, ci si indicava l'ammassamento di truppe serbe che si calcolava a trentasei divisioni, pronte a marciare contro di noi. Si lasciava intendere di temere che potesse nascere, provocato dalla Serbia, un conflitto, con le più gravi conseguenze, fra Serbia ed Italia; ma noi avevamo qualche ragione per ritenere pure che il Trumbic facesse pressioni a Londra perché noi fossimo indotti alla ripresa dei negoziati, in un momento che a lui pareva specialmente opportuno, con la preoccupazione evidente di giungere ad un risultato prima che il Presidente Wilson, della cui protezione la Jugoslavia aveva particolarmente goduto, lasciasse il potere; mentre l'interesse nostro era l'opposto.
Non credetti poi, nè allora nè dopo, opportuno di invocare il Trattato di Londra, per l'altra compromissione che esso conteneva riguardo alle sorti della città di Fiume.
Io giudicavo poi opportuno, prima di riprendere quelle trattative, di mettermi in rapporti diretti prima con Lloyd George, poi con Millerand. Lloyd George mi aveva già fatto sapere che riteneva utile d'incontrarsi con me; e si convenne che io mi sarei recato a visitarlo a Lucerna nel periodo in cui egli si sarebbe trovato colà per le sue vacanze. Così c'incontrammo nella seconda metà di agosto.
Le lunghe conversazioni che io ebbi con lui nei tre giorni che restai a Lucerna, ebbero sempre per principale obiettivo lo studio dei mezzi coi quali si sarebbe potuto ottenere il più rapidamente possibile la pacificazione dell'Europa. Io rilevai che fra i punti che più urgeva di sistemare, era la questione dei confini fra l'Italia e la Jugoslavia. Io partivo, in questo, dallo stesso punto sostenuto nel Parlamento, e cioè la necessità della pacificazione definitiva fra i due paesi. Io feci conoscere a Lloyd George quali erano i punti dai quali l'Italia non poteva assolutamente recedere, senza però entrare con lui in alcuna discussione su tutte le varie questioni che concernevano semplicemente i rapporti fra noi e la Jugoslavia; e Lloyd George pure, per parte sua, si astenne dal discutere la ragionevolezza di ciò che noi chiedevamo; limitandosi a manifestare cordialmente il proposito di adoperarsi perchè la Jugoslavia entrasse in trattative con noi con la stessa intenzione di giungere ad una pace conclusiva. E mi risultò in seguito che, entro questi limiti di un intervento generico inteso a favorire la soluzione del problema, egli aveva poi fatta opera molto amichevole verso l'Italia.
La mia ferma intenzione, insomma, era che i negoziati per le decisioni sostanziali dovessero svolgersi unicamente fra noi e gli jugoslavi, convinto come ero e come sono tuttavia, che comune interesse dei due popoli fosse di stabilire e mantenere amichevoli rapporti, sia politici che commerciali e che, in genere, sia assai preferibile che qualunque negoziato si svolga direttamente ed unicamente fra le parti interessate; l'intromissione di un terzo, sia pure con le migliori intenzioni, avendo spesso l'effetto di introdurre nella questione altri interessi, che la rendono più complicata e di più difficile soluzione.
Passando alla situazione generale, Lloyd George, mostrandosi soprattutto ansioso del ristabilimento di una pace sicura per tutto il mondo, osservava che la prima garanzia di tale pace doveva trovarsi nei trattati firmati, e nel modo della loro applicazione. I vincitori, secondo lui, dovevano mostrare uno spirito di moderazione, ed i vinti uno spirito di lealtà nel metterli in esecuzione. A parte però le questioni risolte coi trattati, vi erano pure numerose questioni pendenti, la maggioranza delle quali indissolubilmente connesse con gli avvenimenti della Russia. Egli osservava che finché la pace non fosse stata raggiunta fra la Russia e gli altri paesi, l'atmosfera internazionale rimarrebbe sempre torbida e minacciosa. Qualunque attacco della autocrazia soviettista russa contro l'indipendenza nazionale dei suoi vicini, renderebbe impossibile la pace con la Russia, e gli Alleati avrebbero dovuto opporvisi con tutti i loro mezzi, tenuto conto degli altri loro obblighi. Qualunque tentativo d'imporre ad un altro paese qual si voglia forma di governo, costituirebbe una violazione della sua indipendenza.
Noi ci trovammo quindi d'accordo nel compiacerci che nulla di simile si trovasse nelle condizioni allora in discussione per la conclusione della pace fra Russia e Polonia. Constatammo pure che l'esperienza aveva dimostrato che qualunque tentativo esteriore di intervenire nella lotta interna russa, avrebbe avuto il solo effetto di prolungare lo spargimento di sangue e di ritardare la soluzione pacifica desiderata.
L'impressione della personalità di Lloyd George, che io ritrassi da quelle conversazioni, fu di un ingegno grande e vivido, e di una straordinaria prontezza ad afferrare tutti i lati di una questione; come pure di una sincera e appassionata volontà per la reale pacificazione dell'Europa, dopo le tremende rovine della guerra. Il mio pensiero in ciò coincideva pienamente col suo, come pure coincidevano gli interessi dei due paesi, e noi lo constatammo su tutti i punti in discussione con la più viva, reciproca soddisfazione.
Nel mese di settembre ebbi pure un convegno col Millerand, presidente del Consiglio dei ministri francese, avendo entrambi ritenuta opportuna una intervista personale. Siccome allora io ero a Bardonecchia, il Millerand, con molta cortesia, fece fissare il luogo del convegno ad Aix-les-Bains, che è a poca distanza dal confine. Vi restai due giorni, ed anche con lui si parlò di quasi tutte le questioni generali europee, ma in modo più speciale di quelle che riguardavano i rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia ed anche la Grecia, come pure dei rapporti di carattere economico fra l'Italia e la Francia. Le conversazioni si svolsero sempre nel tono più cordiale; ed a lui pure esposi, come avevo fatto con Lloyd George, quali fossero i punti sui quali l'Italia non poteva transigere nella soluzione della nostra questione con gli jugoslavi.
Ci fermammo sopratutto sulla questione dei nostri confini orientali; esaminando sopra una carta le varie linee, inaccettabili, proposte dal Presidente Wilson, e quella, pure non conveniente, che si denominava la linea Nitti. Io insistetti che l'Italia, per necessità strategiche, doveva possedere la linea del Monte Nevoso; cosa che era stata pure riconosciuta autorevolmente, in una sua conversazione con Badoglio, dal Maresciallo Foch. Aggiunsi che, non avremmo insistito per il possesso della Dalmazia, la popolazione della quale era nella immensa maggioranza slava, salvaguardando però la città di Zara, che doveva essere italiana, e chiedendo garanzie per gli altri centri in cui fossero elementi italiani.
Millerand, senza entrare nell'esame delle singole questioni, discussione che dovevamo fare direttamente con la Jugoslavia, manifestò il fermo proposito di adoperarsi per una soluzione che corrispondesse ai giusti desideri dell'Italia; e tali buoni uffici in favore dell'Italia furono poi da lui cordialmente fatti, sia quando era ancora Presidente del Consiglio, sia dopo quando assunse la Presidenza della Repubblica.
S'informò poi delle nostre intenzioni riguardo l'Albania, ed io gli risposi che l'Italia aveva rinunciato già ad ogni possesso diretto in Albania, come pure a qualunque mandato o protettorato; ma che avrebbe sostenuto costantemente il diritto dell'Albania all'indipendenza entro i confini segnati dalla Conferenza di Londra, e che non dovevano essere violati né dalla Serbia nè dalla Grecia. E siccome il Berthelot, segretario generale del Ministero degli esteri francese, mi chiedeva se l'accordo concluso fra Tittoni e Venizelos, durante la permanenza del Tittoni nel Ministero Nitti, - accordo che fra l'altro implicava la cessione delle isole del Dodecaneso - non fosse d'ostacolo all'indipendenza ed integrità albanese, io gli risposi che quel trattato era stato da me denunciato appena avevo assunto il governo ed aveva cessato d'esistere, checché se ne potesse pensare ad Atene. Al che il Berthelot esclamò : - Politis sera désespéré quand il le saura.
Si parlò poi della pace fra la Russia e la Polonia; dei rapporti fra gli Alleati e la Russia; dell'applicazione dei trattati; della pace colla Turchia, ecc. ; ed in tutte queste questioni, anche dove vi era divergenza di vedute, io ebbi a notare nel Millerand un grande senso di responsabilità e di moderazione. Pure denunciando lo spirito pericoloso che, secondo lui, permaneva in Germania, ove il popolo pareva ancora persuaso di essere stato aggredito e di avere subito una guerra difensiva, si mostrava disposto ad applicare i trattati con moderazione. Parlando della Russia, io gli dissi essere mia convinzione che, lungi dall'impedirlo, convenisse incoraggiare i socialisti nostrani a visitare la Russia, donde sarebbero ritornati disgustati in modo da fare esitare i più esaltati, e convinti che il paese dei soviety non è un paradiso terrestre; come infatti è poi accaduto.
Millerand mi rispose che non voleva in Francia un rappresentante dei soviety, che si dedicherebbe certamente alla propaganda sovversiva ed alla corruzione. Discutemmo poi della questione del tonnellaggio austro-ungarico a noi dovuto; di quella del carbone, dei fosfati, dell'emigrazione e delle relazioni commerciali generali fra i due paesi, arrivando su ogni punto a ragionevoli intese o ad impegni di studio per il futuro. Del Millerand ebbi una impressione simpaticissima, per il suo carattere evidentemente franco e leale, e per le buone disposizioni che egli mostrava verso l'Italia.
Qualche tempo dopo il governo di Belgrado, a mezzo dell'Inghilterra, ci fece sapere che avrebbe volentieri ripreso le trattative. Lloyd George esprimeva però, in una conversazione col nostro ambasciatore, qualche dubbio sui possibili risultati pratici dei negoziati, data la complicata situazione del regno Jugoslavo. Una carta in nostro favore, a suo avviso, era però il quasi certo trionfo dei repubblicani nelle elezioni presidenziali americane; ciò che produrrebbe un grande abbattimento fra gli jugoslavi, per la scomparsa dell'uomo che li aveva così pertinacemente sostenuti nelle loro pretese. Ed aveva aggiunto che, se egli fosse stato al mio posto, qualora questi negoziati definitivi fallissero, procederebbe senz'altro ad occupare ciò che volevamo mantenere, e ad evacuare il resto.
Ad ogni modo io, d'accordo con Scorza, aderii volentieri alla richiesta di Belgrado, e fu stabilito che il convegno dei plenipotenziari avrebbe avuto luogo a Santa Margherita. Intanto io e Sforza, insieme anche a Bonomi ministro della guerra, avevamo esaminato accuratamente l'intero problema, ed avevamo fissati i punti seguenti
1.° Una frontiera terrestre sicura, che non poteva essere, come si era tentato nei vari progetti antecedenti, una semplice correzione della linea di Wilson. Il confine doveva essere al Monte Nevoso, ed includerlo, saldandosi ai massicci montuosi settentrionali secondo una linea prossima a quella del Patto di Londra, escludendo solo quei territori che non fossero indispensabili alla nostra difesa;
2.° Indipendenza dello Stato di Fiume (Corpus separatum) senza ingerenze o controllo della Società delle Nazioni. Tale Stato doveva risultare contiguo al territorio italiano, o adottando il confine del Patto di Londra, o attribuendo allo Stato di Fiume alcuni dei territori intermedi ;
3.° Annessione all'Italia delle isole di Cherso e di Lussino ;
4.° Rinuncia a favore della Jugoslavia delle altre isole e della Dalmazia del Patto di Londra, ad eccezione di Zara, con inoltre garanzie per la cultura italiana, e col diritto dei dalmati di optare per la cittadinanza italiana, conservando il loro domicilio ed i loro beni.
Nel caso che i negoziati fossero falliti, sarebbe seguita una azione decisa da parte nostra, per l'annessione dei territori sopra indicati, e col mantenimento della occupazione militare, in virtù dell'armistizio, delle isole e della Dalmazia, e con la dichiarazione che saremmo stati pronti a negoziare la sorte definitiva di quei territori in relazione al riconoscimento internazionale della indipendenza di Fiume.
Le linee di questo programma furono poi da noi esposte nel Consiglio dei Ministri, ed ebbero l'unanime approvazione; tutti convenendo che, a parte Zara, non convenisse di insistere per la Dalmazia, l'immensa maggioranza della sua popolazione non essendo italiana.
Prima che i delegati jugoslavi venissero a Santa Margherita, non ci fu alcun scambio di idee, nè di domande, nè direttamente nè a mezzo di intermediari di qualunque genere, fra una parte e l'altra. La delegazione jugoslava che arrivò in Italia per la data convenuta, era composta dei signori Vesnic, Trumbic e Stoianovich; per l'Italia c'eravamo io, Sforza e Bonomi.
Prima andarono Sforza e Bonomi, io riservandomi d'intervenire se dalle prime conversazioni apparisse la possibilità di giungere ad un accordo. Ed infatti partii appena essi mi telegrafarono che le cose parevano bene avviate, e la delegazione jugoslava sinceramente volonterosa di giungere ad una soluzione.
I negoziati procedettero infatti assai rapidamente. Arrivando ed intervenendo nel dibattito, io sostenni immediatamente la necessità di non lasciare che la discussione divagasse, e di venire subito alle questioni precise. La seconda giornata dopo il mio arrivo, i negoziati cominciarono alle nove del mattino; lavorammo tutto il giorno, ed alla sera si arrivò alla conclusione. Io volli che si procedesse senz'altro alla compilazione del trattato, che fu firmato alle due dopo mezzanotte. La discussione fu molto serrata, ma pure sempre amichevole. Uno dei fattori che concorse maggiormente a tale rapido raggiungimento dell'accordo, fu la convinzione, che era in entrambe le parti, della convenienza di stabilire fra i due paesi rapporti commerciali molto intimi; in quanto la Jugoslavia poteva trovare sul mercato italiano un largo sfogo della sua abbondante produzione agricola, e noi potevamo rifornirla di prodotti industriali, e specialmente di macchinario ferroviario e per l'agricoltura.
Quando ci separammo, Vesnic mi disse: - Le farà molto piacere di apprendere che anche qui abbiamo ricevute delle premure di Millerand perché arrivassimo ad una conclusione. -
Il testo del Trattato fu redatto in italiano, poi in serbo; però io insistetti che dovesse fare testo la versione italiana; perché i delegati serbi conoscevano benissimo l'italiano, mentre il serbo non era conosciuto da alcuno di noi.
Concluso il Trattato di Rapallo, che fu approvato dal Parlamento ed accolto con soddisfazione dalla grandissima maggioranza dell'opinione pubblica, bisognava eseguirlo; e ciò importava anzitutto che Fiume si costituisse come Stato indipendente, e quindi ne uscisse un Comando che era italiano e non fiumano.
Avevo già dichiarato, in discorsi pubblici, il mio rammarico che la Conferenza di Parigi avesse rifiutato di riconoscere il carattere italiano di Fiume, e di soddisfarne le aspirazioni; e nei negoziati di Rapallo mi ero proposto ed ero riuscito a salvarne l'indipendenza contro l'assegnazione che nel Trattato di Londra ne era stata fatta alla Croazia. I miei sentimenti in proposito non erano dubbi; ed io avevo potuto comprendere l'atto compiuto dal D'Annunzio e dai suoi compagni con l'occupazione di Fiume in un momento in cui la sua sorte pareva minacciata.
Ma quell'atto aveva però un lato oscuro e deplorevole per le infrazioni che aveva portato alla disciplina dell'esercito, inducendo dei soldati a venire meno al loro giuramento ed al loro dovere; e qui va ricordato che il più glorioso condottiero popolare della nostra storia, Garibaldi, anche quando credette, nel fervore della ricostituzione nazionale dell'Italia, di dovere compiere un'azione distinta ed anche contraria a quella a cui il Governo era obbligato per i suoi impegni e le necessità internazionali, non fece mai appello all'esercito, e non volle mai che la compagine morale dell'esercito fosse in alcun modo offesa.
Il D'Annunzio ed i suoi, d'altra parte, una volta occupata Fiume, non si tennero entro i limiti degli scopi che al primo momento li avevano mossi ed avevano procurato loro l'approvazione di molta parte dell'opinione pubblica, irritata per il modo con cui la questione di Fiume era stata trattata nella Conferenza della pace, e fermamente decisa a non consentire che quella città italiana cadesse nelle mani dei croati, con violazione dei diritti che erano ad essa riconosciuti anche nel regime imperiale austroungarico; ma avevano concepito ed annunziati, più o meno apertamente, ogni sorta di grandiosi e fantastici progetti, sia di politica internazionale, sia nei riguardi della politica interna italiana; mentre, per rifornirsi di mezzi e di armi, avevano di fatto consumata una quantità di atti illegali, rasentanti la pirateria.
In tali condizioni Fiume era diventata un centro di turbamento per la vita italiana, ed anzi di pericolo, anche per l'enorme quantità di armi e munizioni che vi erano state adunate; basti dire che quando noi la occupammo, solo nella prima settimana ne caricammo diciotto piroscafi per trasportarli a Pola e si continuò anche dopo, per parecchio tempo, a scoprirvi depositi clandestini.
Io dunque, sia per gli impegni presi col Trattato di Rapallo, divenuto, dopo la approvazione del Parlamento, un solenne impegno internazionale, sia per ovviare a nuovi pericoli, avevo il preciso dovere di agire e di ristabilire a Fiume una situazione normale. Il pericolo più imminente, di cui avemmo poi sentore, era che il D'Annunzio e i suoi precipitassero le cose compiendo un atto di aggressione verso la Jugoslavia; il che avrebbe involta l'Italia in nuovi guai e nella peggiore delle umiliazioni; perché niente vi é di più umiliante per un paese, e niente può più gravemente ferire la sua dignità, che il dimostrarsi incapace di tenere fede ai propri impegni internazionali, ed il venir meno alle norme dei diritti delle genti.
Io sperai per qualche tempo che queste ragioni decisive sarebbero state comprese e sentite dal D'Annunzio, e che la situazione avrebbe potuto risolversi senza che io dovessi compiere un doloroso dovere ricorrendo alla forza. E contavo che, dopo i risultati raggiunti a Rapallo, fra l'altro col conseguimento di un confine che dava all'Italia, nel giudizio dello Stato Maggiore dell'esercito, la piena sicurezza, il D'Annunzio, ascoltando il consiglio dei suoi amici più autorevoli, non avrebbe turbata la concordia del paese, che si mostrava sempre più necessaria per il nostro prestigio fra le nazioni, e per l'urgente opera di ricostruzione morale ed economica.
Ed infatti questi migliori amici del D'Annunzio, fra cui l'Ammiraglio Millo che era allora governatore di Zara, fecero a questo scopo del loro meglio. Il Millo, richiesto dal D'Annunzio stesso, l'incontro in mare ebbe con lui una lunga conversazione, dissuadendolo soprattutto dal tentare una qualche azione in Dalmazia, di cui in quei giorni era corsa la voce; ma neanche egli riuscì ad ottenere precise assicurazioni o a rendersi chiaramente conto delle sue intenzioni. Anche alcuni dei compagni che erano stati con lui alla spedizione di Fiume, se ne uscirono dichiarando di riconoscere che col Trattato di Rapallo i destini di Fiume erano ragionevolmente salvaguardati. Il governo fu pure richiesto di fare il possibile per rispondere alle domande che D'Annunzio avanzasse per i bisogni di Fiume dal punto di vista economico, e per questo riguardo io detti pieno affidamento.
Ma tutto questo a nulla valse; e si mettevano avanti sempre nuove pretese o questioni, intese a condurre le cose per le lunghe e a intorbidire la situazione. Si giocò soprattutto sulla questione di Porto Baros. Ora io avevo dovuto riconoscere che Porto Baros era fuori dal Corpus separatum di Fiume, nel cui statuto noi avevamo l'appoggio diplomatico e storico alla nostra tesi della indipendenza della città; e che Porto Baros apparteneva effettivamente ai croati, ai quali serviva per il commercio del legname; ed in questo senso io avevo fatto delle dichiarazioni davanti alla Commissione parlamentare degli esteri. Ma del resto tutto questo era una quisquilia; il problema dovendosi considerare sotto un aspetto ben più alto. Il porto di Fiume aveva un grande valore per i paesi del retroterra, e specie per la Croazia e per l'Ungheria, come lo sbocco più prossimo e naturale per il loro movimento commerciale; ma viceversa il porto per sé stesso sarebbe stato morto, senza la disposizione dei paesi del retroterra a servirsene, e senza l'uso delle ferrovie che a quei paesi appartenevano. Era dunque il caso di interessi reciproci, che avrebbero trovato la loro soddisfazione in un accordo fatto con spirito cordiale e con larghe vedute.
La vita di Fiume è nel suo porto, ed era quindi precipuo interesse dei fiumani di evitare e qualunque rottura su questioni secondarie, e trovare coi popoli del retroterra un largo accordo di carattere commerciale, ed evitare fra l'altro che essi cercassero altri sbocchi o si procurassero un altro porto.
Quando compresi che oramai era inutile cercare di indurre alla persuasione il D'Annunzio e i suoi compagni della necessità e del dovere di inchinarsi alle disposizioni del Trattato di Rapallo, e di permettere che esse fossero eseguite riguardo a Fiume, dovetti, con mio rammarico, decidermi ad agire. Io quindi detti incarico al Generale Caviglia, che aveva il comando delle truppe della regione Giulia, di fare comprendere definitivamente al D'Annunzio che il Trattato doveva essere eseguito, e che egli e i suoi dovevano sgomberare da Fiume. Ritardare più oltre questa esecuzione sarebbe riuscito ad avvilire l'Italia agli occhi del mondo.
Alla Camera ed al Senato vi fu una certa agitazione fra i deputati combattenti e nazionalisti, e si formò una commissione per recarsi a Fiume a persuadere il D'Annunzio a non opporsi ormai all'esecuzione del Trattato. Questa missione si mise prima in contatto con me, offrendo la sua opera per evitare incidenti certo dolorosi per tutti; ma io, pure apprezzando lo spirito da cui era mossa, dovetti dichiarare che non potevo dare ad essa alcun incarico, in quanto l'incaricato del Governo era il Generale Caviglia, la cui autorità e la cui libertà d'azione, nei termini assegnati, non dovevano essere in alcun modo diminuiti.
Anzi, perché non nascesse nessun dubbio, e ad evitare qualunque equivoco, io telegrafai al Caviglia per avvertirlo che i deputati e senatori che si recavano a Fiume facevano ciò per conto proprio e con la propria responsabilità personale e non avevano alcun incarico, né dal Governo, né dal Parlamento. Questo mio telegramma, a scanso di ogni equivoco, lo partecipai ai deputati che andavano a Fiume.
Purtroppo essi pure non riuscirono a smuovere dai suoi propositi il D'Annunzio, il quale, come apparve poi dopo, si era fatta qualche illusione che l'esercito e la marina non avrebbero agito contro di lui, o che almeno vi sarebbero state defezioni, e che l'opinione pubblica si sarebbe commossa ed agitata in suo favore.
Nulla invece di ciò avvenne: i soldati e i marinai d'Italia compirono, come sempre, austeramente il loro dovere, non ostante il rammarico di dovere agire contro dei loro concittadini e commilitoni; e l'opinione pubblica, anche nella maggioranza di coloro che avevano prima approvata l'opera del D'Annunzio, non lo seguì affatto in questa sua ultima azione. Segno codesto che in tutti era l'intima convinzione che essa, in quella sua ultima fase di opposizione alla volontà del paese, espressa nel Governo e nel Parlamento, ed agli impegni del Trattato, non rispondeva più agli interessi ed alla dignità della Nazione.
FINE DEL DICIASSETTESIMO CAPITOLO