CAPITOLO 16
La crisi e il Ministero Salandra - Lo scoppio della guerra mi trova a Londra- Esprimo l'opinione della mancanza del casus foederis e della convenienza della neutralità - Lettere di San Giuliano e Salandra - Miei giudizi, apertamente espressi, della lunghezza, difficoltà e sacrifici della guerra - Polemiche fra neutralisti e interventisti - Accuse smentite su l'impreparazione militare - Leggende sui miei rapporti con Bulow e sulla mia neutralità assoluta - L'azione del Governo per ottenere concessioni dall'Austria e mio appoggio - Una mia lettera ad un personaggio tedesco - Allarmi ai primi di maggio sulla condotta dei Governo - Vengo a Roma per la riapertura della Camera: dimostrazioni ostili - Trecento deputati approvano le mie opinioni - Conversazioni con Carcano, Salandra, Marcora - Non sono informato del Patto di Londra - Altre minacce ed accuse contro me - II Ministero Salandra riconfermato dopo le dimissioni - Mia condotta durante la guerra per non provocare dissensi - Ritorno al Parlamento dopo Caporetto. |
Al Governo che aveva fatto votare la legge della riforma e dell'allargamento del suffragio, competeva necessariamente di farne la prima applicazione. La quale, in circostanze ordinarie, avrebbe dovuto seguire poco dopo l'approvazione della legge, specie in un caso nel quale, da un suffragio teoricamente largo, ma nella pratica assai ristretto e quasi di classe, si passava al suffragio quasi universale; in quanto la Camera eletta col suffragio ristretto non poteva più ritenersi come la adeguata rappresentanza del paese.
Ma il prolungarsi della guerra balcanica, con tutte le conseguenti complicazioni e preoccupazioni internazionali, ritardarono lo scioglimento della Camera e l'appello agli elettori, che ebbe luogo solamente nell'autunno del 1913.
I risultati delle elezioni smentirono le preoccupazioni dei conservatori che, pure non osando di impugnare apertamente la riforma, l'avevano segretamente osteggiata. I socialisti tornarono in numero notevolmente accresciuto, ma non tanto da dare altro che la forza di una piccola minoranza; ed i cattolici fecero sentire più largamente la propria influenza, specie nelle campagne; ma nel complesso la nuova rappresentanza nazionale, sia pure con un largo mutamento d'uomini, mantenne l'antica fisionomia, con la prevalenza assoluta dei partiti liberali. Gli uomini più cospicui delle varie parti furono quasi tutti rieletti.
Ogni Camera nuova é sempre irrequieta ed ha il bisogno, alle volte salutare, di provocare una crisi. La spinta alla crisi, in quella occasione, venne dai radicali, nel cui gruppo, pure notevolmente accresciuto, si manifestò un movimento di fronda contro i propri rappresentanti al governo, e la direzione del partito deliberò di passare all'opposizione. Il distacco dei radicali dalla maggioranza, che metteva la coalizione di Sinistra nella condizione di non potere reggere un governo, portava logicamente a che il potere passasse a quegli che si presentava come il capo dei gruppi di Destra.
Il gruppo che per tanti anni aveva fatto capo, con molta devozione e disciplina all'on. Sonnino, si era disciolto dopo la guerra di Libia, constatando che le ragioni che lo avevano tenuto unito in un programma generale, erano ormai venute meno, i suoi componenti riprendendo piena libertà di azione; in seguito a ciò la persona più in vista era il Salandra, che effettivamente fu indicato al Re da me e dalla maggioranza delle persone consultate.
Il Salandra venne da me perché l'aiutassi a comporre il Ministero, e soprattutto perché persuadessi il San Giuliano a rimanere come Ministro degli Esteri; al che il San Giuliano opponeva molta resistenza, non inducendosi ad accettare se non dopo che, io lo ebbi vivamente pregato di farlo, per la continuità della politica estera, che in quegli anni aveva avuta una così essenziale importanza anche per l'Italia.
Il nuovo Ministero, appena insediato dovette affrontare alcune difficoltà, fra cui una specie di agitazione semianarchica nell'Italia centrale, ed uno, sciopero parziale di ferrovieri, ciò che il Salandra fece con fermezza, senza precipitarsi a misure di reazione, cercando di contemperare le proprie tendenze conservatrici con la pratica liberale ormai compenetrata nella vita del paese.Quando, in seguito all'assassinio dell'Arciduca Ereditario Ferdinando e della sua consorte, consumato Serajevo per mano di serbi, scoppiò la questione fra l'Austria e la Serbia, io non potei credere, sino all'ultimo, che quella questione, per quanto grave, potesse essere ragione di una guerra europea. Ricordavo i due tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare, per aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che il partito militare austriaco mirava ostinatamente a tale scopo; ma io confidavo che le ragioni della pace, che erano così grandi e universali, avrebbero prevalso contro quella criminale infatuazione.
La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi austriaci come mezzo per sanare le discordie interne, con l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano farsi illusioni sul contegno della Russia di fronte ad una tale provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del disastro che la guerra europea sarebbe stata per tutti, avrebbero all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse l'immane rovina.
Nel mese di luglio ero stato a Vichy, poi a Parigi ed a Londra; e in questa città mi trovavo negli ultimi giorni di quel mese, e seguivo sui giornali le notizie del conflitto diplomatico, sempre sperando che la guerra sarebbe stata evitata. Ma quando vidi l'intimazione della Germania alla Russia di disarmare entro dodici ore, ed alla Francia entro ventiquattro, capii che oramai la guerra era decisa e partii immediatamente per l'Italia. Passando per Parigi, il 1° agosto, mi fermai, e mi recai immediatamente all'Ambasciata d'Italia, dove non trovai Tittoni, che era in viaggio di congedo nel Mare del Nord. C'era invece il primo Segretario di Ambasciata, principe Ruspoli, al quale espressi la mia opinione, che l'Italia non avesse obbligo, per il Trattato della Triplice, di entrare in guerra, visto che l'Austria aggrediva la Serbia, mentre il Trattato era puramente difensivo, e prescriveva il nostro intervento a fianco delle alleate solo nel caso che esse fossero aggredite. E realmente si ripeteva il duplice caso del 1913, quando io avevo fatto dire all'Austria che se essa aggrediva la Serbia, noi non avevamo l'obbligo di intervenire, anzi avremmo protestato. Ed aggiunsi che, a mio avviso, l'Italia doveva dichiarare senz'altro la propria neutralità.
Il principe Ruspoli, di sua iniziativa, credette bene di comunicare subito questa mia opinione al San Giuliano. Ritornato in Italia, e fermatomi a Bardonecchia, dove era la mia famiglia, ricevetti una lettera di San Giuliano ed una di Salandra, entrambe con la data del 3 agosto. San Giuliano mi scriveva:"Ruspoli mi telegrafa la tua opinione sulla politica da seguire in questi gravi momenti. È appunto quella che sino dal primo momento io ho proposto a Salandra ed a S. M. il Re, e che é stata adottata.
Anche questa volta tu ed io abbiamo avuto lo stesso pensiero senza avere avuto modo di scambiare le nostre idee. Salandra ti ha fatto cercare per avere il tuo consiglio, e sarà lietissimo ora di sapere che è conforme all'attitudine adottata. Spero di tutto cuore che la tua salute sia buona. - Saluti cordiali, con devota amicizia del tuo aff.mo di San Giuliano».
A questa lettera io risposi, il 5 agosto, nei termini seguenti:
«Carissimo Amico,
«Sono stato a Vichy, poi a Parigi e Londra e devo confessare che non credevo alla possibilità che con tanta leggerezza si provocasse una guerra europea. Non vi credei che il 31 luglio, ed il 1° agosto partii precipitosamente da Londra per l'Italia.
«II modo con cui l'Austria provocò la conflagrazione fu veramente brutale, e rivela o una incoscienza o il deliberato proposito di volere una guerra europea. Sbaglierò, ma la mia impressione é che essa, più di tutti, ne pagherà le spese.
« Per fortuna la cosa fu condotta in modo da giustificare la nostra neutralità. Non mi nascondo che questa potrà avere anche conseguenze non buone per noi, ma il Governo ora non poteva seguire altra via. Un conflitto dell'Italia con l'Inghilterra non é possibile, e il modo come la guerra fu provocata dall'Austria avrebbe reso molto difficile persuadere il nostro paese a parteciparvi con entusiasmo. Aggiungasi che evidentemente l'Austria si propone fini che non concordano coi nostri interessi.
«Ritengo che ora più che mai dobbiamo coltivare i nostri buoni rapporti con l'Inghilterra, e fare quanto ci é possibile per limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto.
«Come ritengo pure che dobbiamo tenerci militarmente pronti.
«Ti auguro buona fortuna, perché ciò significa anche la fortuna d'Italia; ti prego di salutare da parte mia l'on. Salandra, e ti stringo cordialmente la mano aff.mo Giolitti».
La lettera dell'on. Salandra, che riproduco integralmente, diceva:
« Roma, 3 agosto.
« Caro Giolitti,
«Nei giorni scorsi, quando diventarono improvvisamente imminenti le gravi decisioni circa l'atteggiamento dell'Italia nella conflagrazione europea, che non si é potuta evitare nonostante i nostri sforzi, avrei voluto sentire, nell'interesse dello Stato, il tuo consiglio. Ma il prefetto di Cuneo, al quale chiesi dove tu ti trovassi, mi rispose che eri a Londra, prossimo a ritornare, aggiungendo che il tuo in dirizzo non era noto.
«Incalzarono intanto gli avvenimenti, ed ora apprendo quasi contemporaneamente il tuo passaggio per Parigi ed il tuo arrivo a Bardonecchia.
«Ho saputo pure che a Parigi hai espresso parere favorevole alla interpretazione da noi data al Trattato della Triplice, interpretazione che oltre all'essere, a senso mio, giuridicamente esatta, corrispondeva al sentimento prevalente nella grande maggioranza del paese. E la tua opinione conforme é per me di grande importanza.
«Non mi nascondo però le gravi ragioni che militavano per una diversa risoluzione; e so bene che gli avvenimenti, i quali si svolgeranno nessuno può dire come, faranno sorgere altri problemi e imporranno altre risoluzioni; le quali, oltre che sulla politica estera, avranno conseguenza di massima importanza sulla politica interna e sulla politica economica del paese.
«Mi sarebbe perciò gratissimo giovarmi della tua lunga esperienza di governo e discorrere con te sulle più probabili ipotesi per l'avvenire, nonché sui provvedimenti più urgenti; e cercherei ben volentieri il modo d'incontrarti anche fuori di Roma, se nei momenti presenti non mi fosse impossibile lasciare la Capitale anche per un giorno.
«Non posso quindi se non pregarti di tenermi informato del tuo sicuro recapito nel prossimo periodo, affinché io, se possibile, abbia modo di prendere un contatto con te.
«Ti stringo cordialmente la mano - aff.mo A. Salandra».
A questa lettera io risposi, il 6 agosto:
«Caro Salandra,
«Io resto a Bardonecchia domani; vado a Torino il giorno 8, e poi il 9 a Cuneo per il Consiglio provinciale, e dopo torno qui a Bardonecchia, dove conto restare sino alla fine del mese.
«Sono però a piena disposizione tua. Tu non puoi muoverti da Roma, e quindi verrò io a Roma ogni qual volta tu possa desiderarlo.
«Scrissi ieri a San Giuliano le ragioni per le quali sia da approvare la deliberazione presa.
«Disponi dunque di me per qualunque cosa che tu creda io possa fare.
«Con una cordiale stretta di mano - aff.mo Giolitti » .
All'adunanza del Consiglio provinciale di Cuneo a cui nella lettera all'on. Salandra accennavo, io, prendendo la presidenza, pronunciai le seguenti brevi parole:
«Noi ci riuniamo in un momento angoscioso per tutta l'Europa, e grave per il nostro paese.
Il Consiglio Provinciale, corpo amministrativo, non può pronunciarsi su questioni politiche. Ma io sono certo di interpretare il pensiero di tutti i colleghi e dell'intera provincia, affermando che, di fronte ai pericoli che possono minacciare l'Italia, un solo pensiero ci anima: la solidarietà col Governo, che, senza distinzioni di parti politiche, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all'Italia il posto che le spetta nel mondo.
«Noi guardiamo sicuri all'avvenire, forti della conccordia di tutto il popolo e della fiducia assoluta nell'amato nostro Re».
Il giorno dopo ricevetti dall'on. Salandra il seguente telegramma:
« A nome del Governo e personalmente ti ringrazio delle nobili parole che tu pronunziasti iniziando i lavori di codesto Consiglio Provinciale. Esse inciteranno autorevolmente gli italiani alla solidarietà, alla fermezza, alla calma, così necessarie nel gravissimo momento che attraversiamo.. - Salandra».
Per concludere la rassegna delle opinioni allora manifestate, pubblicamente o privatamente, dagli uomini politici più in vista, posso ricordare di avere saputo poi, da fonte sicurissima, che l'on. Sonnino, allo scoppio della guerra europea, era dell'opinione che noi dovessimo seguire gli alleati; e che tale opinione egli manifestò apertamente agli amici arrivando a Roma, dove il Salandra l'aveva pure chiamato per sentire il suo avviso, troppo tardi e quando la deliberazione della neutralità era già stata presa. Molti altri, specie fra i nazionalisti, che poi furono fra i più accesi fautori della guerra contro gli Imperi centrali, accusando di tradimento chi da loro dissentiva, in quel primo momento avevano espresso e sostenuto il concetto che noi dovessimo schierarci a fianco degli alleati, e biasimavano il Governo per la sua decisione neutralista.* * *
Nel mese di settembre io dovetti entrare nell'Ospedale Mauriziano di Torino per sottopormi ad una piccola operazione, che fu fatta dal mio amico senatore Carle. In seguito a quella operazione, mi si sviluppò una polmonite che mi tenne all'ospedale per una ventina di giorni, ed alquanto debole per alcune settimane susseguenti, che passai nella mia residenza di Cavour. Per tutto quel tempo io rimasi affatto estraneo a discussioni, né ebbi informazioni particolari da alcuna parte; solo nelle conversazioni che avevo con amici che venivano a trovarmi, io manifestavo la mia soddisfazione che l'Italia fosse rimasta neutrale.
Venni poi a Roma per l'apertura della Camera, in ottobre; e siccome sapevo da sicura fonte che negli stessi paesi che dalla nostra neutralità erano stati beneficati e forse salvati nel primo urlo dell'immane conflitto, vi erano molti che non nascondevano l'opinione o almeno il dubbio che la nostra condotta, astenendoci dall'intervenire nella guerra a fianco dei paesi coi quali eravamo legati da così lunga alleanza, non fosse perfettamente leale, io colsi l'occasione della discussione parlamentare per fare dichiarazioni e ricordare quell'episodio del tentativo di aggressione dell'Austria contro la Serbia, narrato in tutti i suoi particolari nel precedente capitolo di queste «Memorie», e l'atteggiamento allora assunto dall'Italia, che giustificava pienamente la nostra condotta allo scoppio della guerra, in quanto dimostrava che tale interpretazione dei nostri obblighi nell'alleanza era stata già chiaramente espressa in altra occasione, senza che né Austria né Germania avessero fatta la minima obiezione.
È assai curioso il fatto che, mentre quelle mie dichiarazioni e rivelazioni tornavano a tutto vantaggio dell'Italia, ci fossero dei deputati e dei giornali, amici del Governo, i quali tentarono di smentire la cosa. Della quale però, per la ragione della mia lontananza da Roma quando quel tentativo austriaco di involgerci in una guerra balcanica fu compiuto, esisteva una intera documentazione nei telegrammi e lettere scambiati in quell'occasione fra me e San Giuliano, solo alcuni dei quali ho riportato nel capitolo precedente e che furono poi trovati anche alla Consulta.
Non capii allora e non ho mai capito perché certi amici del governo dell'on. Salandra si risentissero di quelle mie dichiarazioni che pure giustificavano le sue decisioni, e cercassero di svalutare un fatto che dimostrava agli occhi di tutta l'Europa la perfetta correttezza nostra nel mantenere la neutralità allo scoppio della grande guerra.
In tutto quel periodo e sino alle vacanze di Natale io non ebbi con l'on. Salandra e con altri uomini del governo alcun particolare rapporto. Trovai che nei circoli politici e nella stampa la discussione sulla neutralità si andava facendo sempre più ardente ma in un altro senso; discutendosi se a noi convenisse o no di intervenire insieme alle Potenze dell'Intesa contro i nostri vecchi alleati.
Alle discussioni che si facevano nei corridoi della Camera io allora partecipai, manifestando apertamente le mie opinioni e dandone le ragioni. I fautori della guerra sostenevano allora l'urgenza di prendervi parte, ritenendo che essa sarebbe stata di breve durata; temevano che, venendo a finire senza il nostro intervento, si perdesse una magnifica occasione per compiere l'unità nazionale; ed affermavano che l'intervento nostro, rompendo l'equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra in tre o quattro mesi.
E che anche il Governo prevedesse allora una guerra brevissima é provato da molti indizi, e soprattutto dal testo del Patto di Londra, col quale l'Italia si obbligava di entrare in guerra. In quel Patto infatti, per la parte finanziaria, si era stipulato solamente l'obbligo dell'Inghilterra di facilitare all'Italia un prestito di cinquanta milioni di sterline, somma perfino inferiore a quanto abbiamo poi effettivamente speso in ogni mese di guerra; inoltre in quel Patto non si era fatto accordo alcuno per i noli marittimi, né per gli approvvigionamenti di carbone, ferro, grano, e di altre materie che a noi mancano, e che erano indispensabili per una guerra che non fosse brevissima.
Anche i provvedimenti finanziari interni erano stati ordinati solo per alcuni mesi; ed alcuni dispacci diplomatici, pubblicati nel Libro Verde distribuito al Parlamento alla nostra entrata in guerra, e che preannunciavano come imminente l'uscita dell'Austria dal conflitto e la sua pace separata con la Russia, mostravano, per il fatto stesso della loro pubblicazione in quel momento, che il Governo pensava che qualunque ritardo potesse essere pericoloso.
Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera coi quali ebbi occasione di discorrerne. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata almeno tre anni, perché si trattava di debellare i due Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant'anni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popolazione di oltre centoventi milioni potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uomini; che l'esercito dell'Inghilterra, di nuova formazione, sarebbe stato in piena efficienza, come dichiarava lo stesso governo inglese, solamente nel 1917; che il nostro fronte, sia verso il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili.
Osservavo d'altra parte che atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di popolazione, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all'accordo. Di più consideravo che l'Impero Austro-ungarico, per le rivalità fra l'Austria ed Ungheria, e soprattutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, czechi, sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all'Italia.
Inoltre, ricordando le peripezie della Russia durante la guerra col Giappone, e la violenta rivoluzione scoppiata dopo quella guerra, a me pareva dubbio che ad una guerra di molti anni quell'Impero potesse resistere. All'intervento degli Stati Uniti di America, che fu poi la vera determinante di una più rapida vittoria, allora nessuno pensava, né poteva pensare.
Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini che avrebbe imposti la guerra per la terribile sua violenza, dati i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesa che la scienza e la tecnica moderna avevano inventati e che allora erano già messi in opera sul fronte francese e sul fronte russo; come era facile prevedere che un conflitto così tremendo avrebbe segnata la totale rovina di quei paesi ai quali non avesse arriso una completa vittoria.
Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe richiesto colossali sacrifici finanziari, specialmente gravi e rovinosi per un paese come il nostro, ancora scarso di capitali, con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione. Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere di lotta per la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente serbando intatte le sue forze.
I fautori della guerra facevano anche appello al sentimento popolare offeso dalla violazione della neutralità del Belgio; ma l'Italia, come l'America, non era fra le Potenze che avevano garantita quella neutralità, e l'America non si mosse se non quando il suo intervento era richiesto dall'interesse del suo popolo.
In una lettera pubblicata nei giornali il 1915, e che più avanti riporto, io osservavo che non si può portare il proprio paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi primari interessi.
Tali sono le ragioni pratiche, che possono essere ricordate da amici ed avversari, per le quali io esprimevo parere contrario all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e dei sacrifici di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono poi pienamente confermate dagli avvenimenti.
Nel mese di dicembre del '14, mentre la Camera era ancora aperta, era venuto a Roma, quale inviato speciale della Germania, il Principe di Búlow, riguardo ai miei rapporti col quale si crearono e diffusero malignamente le più strane leggende. Ecco a che cosa quei rapporti si erano ridotti: un giorno io l'avevo casualmente incontrato in Piazza del Tritone; ci fermammo un momento, ed egli mi disse che sarebbe venuto a trovarmi. Gli risposi che sarei passato io da lui. E così feci. La conversazione che avemmo in quella occasione fu in termini affatto generici, sulla situazione generale d'Europa; da una parte e dall'altra cercando di evitare di entrare in materie delicate. Io non intendevo assolutamente di entrare a parlare di cose che erano di competenza esclusiva del governo, ed egli, che mi conosceva da lunghi anni, si rendeva certamente conto di questo mio atteggiamento.
Ricordo che, quasi per un complimento, io gli dissi che se egli fosse stato alla testa del governo tedesco, probabilmente la guerra si sarebbe evitata, perché egli avrebbe procurato di non avere contro nello stesso tempo l'Inghilterra e la Russia; - egli sorrise ma non rispose. Due giorni dopo egli venne per restituirmi la visita, e non avendomi trovato in casa, mi lasciò la sua carta; e dopo d'allora io non ebbi più occasione di vederlo, nè ebbi con lui rapporti di alcun genere, né diretti né indiretti. L'ho poi rivisto solo quest'anno (1922) incontrandolo al Pincio.
I giornali amici del Ministero Salandra avevano cominciato a muovermi attacchi ed accuse sino dal principio dell'autunno; fra l'altro avevano messo in giro la voce che il governo era stato costretto ad ogni modo a proclamare la neutralità per il grave stato di impreparazione e debolezza in cui i Ministeri da me presieduti avevano lasciato l'esercito e la marina, e perché con la guerra di Libia si erano esauriti i magazzini militari, senza poi provvedere a reintegrarli. La prima accusa, assolutamente assurda, ripetuta anche alla Camera, fu facilmente smentita e dimostrata falsa dall'on. Tedesco, già mio Ministro del Tesoro, in un discorso pronunciato il 4 dicembre, recando cifre che non ammettevano replica e che infatti fecero tacere gli accusatori, alla testa dei quali si trovava l'on. Colajanni, cioè uno di quei deputati che avevano più costantemente avversate le spese militari, e che poi erano diventati improvvisamente guerrafondai.
L'on. Tedesco potè infatti dimostrare che nel sessennio occupato specialmente dai miei due Ministeri, e cioè fra il 12 luglio 1907 e il 30 giugno 1913, le spese annue per l'esercito e la marina erano state quasi raddoppiate, salendo da 474 a 821 milioni; mentre nel sessennio precedente, e cioè dal 1901 al 1907, l'aumento era stato solo di 45 milioni; e che l'incremento maggiore, e cioè di 173 milioni, si era ottenuto appunto nell'ultimo biennio. Nella marina poi, in un solo quinquennio, dal 1909 al 1913 si era assegnata la somma di un miliardo e cento milioni per la rinnovazione della flotta. E negli ultimi mesi del mio Ministero, fra me e il Ministro del Tesoro, il Ministro della Marina ed il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, si era stabilito un piano di provvedimenti che importava una spesa straordinaria di 500 ed ordinaria di 70 milioni da portare in aumento al bilancio nello spazio di quattro anni; alcuni dei quali provvedimenti, ed i più costosi, erano stati anche annunciati dal Ministro del Tesoro nell'esposizione finanziaria fatta il 20 dicembre 1913.
E passando dalle spese agli uomini, era da osservare che la forza bilanciata, che con la legge di bilancio dell'esercizio 1909-10 era fissata in 205 mila uomini, era stata portata a 275 mila col progetto del bilancio presentato dal mio Ministero nel novembre del 1913. Ed a tutto questo si deve aggiungere che appunto sotto i Ministeri da me presieduti si erano costruite, con spesa ingente, le fortificazioni verso la frontiera austriaca, prima disarmata.Quanto alla seconda accusa, che non fossero stati ricostituiti i magazzini militari dopo la guerra di Libia, io scrissi subito allo Spingardi, al quale competeva una speciale responsabilità, non solo per la sua qualità di Ministro della Guerra all'epoca della guerra di Libia, ma perché già aveva date precise assicurazioni in proposito al Parlamento. Lo Spingardi non volle entrare in polemiche pubbliche, ma poi più tardi, e poco prima della sua morte, si fece chiamare dalla Commissione d'inchiesta istituita dal Governo per accertare le responsabilità del disastro di Caporetto, e vi fece una ampia e documentata esposizione delle condizioni in cui era l'esercito dopo la guerra libica, dalla quale risulta quanto fossero ingiuste le accuse mosse al Ministero di cui egli era parte.
La Commissione infatti pronunciò questo giudizio sulle condizioni dell'esercito prima della guerra:
«Non si può negare che esso corrispondeva ad una condizione comune degli Stati dell'Intesa, alieni da intenzioni aggressive, e che con tutto ciò costituiva già un non lieve aggravio per d'erario, assorbendo nel 1914 per il solo esercito (esclusa cioè la marina) un quinto del bilancio passivo, e cioè 450 milioni su 2522. Ingiuste per tanto debbono ritenersi le voci che eccessivamente hanno insistito (e talune forse per dare risalto all'opera di ricostruzione) sulla nostra impreparazione alla guerra».-
Infine, per dare una cifra, va ricordato che, sempre nel sessennio 1907-1913, durante il quale la responsabilità del governo fu soprattutto mia, il valore della consistenza patrimoniale dei magazzini militari era salito da 837 milioni a un miliardo e 263 milioni, con un aumento di 426 milioni, cioè di oltre il cinquanta per cento. E sin dai primi mesi della guerra di Libia si era dato ordine per la reintegrazione dei magazzini e la ricostituzione sollecita delle scorte, adibendovi la somma di 162 milioni, inscritta ai fondi speciali della guerra di Libia.
Per la marina basterà una cifra: al principio della guerra italo-turca la quantità di carbone esistente nei depositi della marina era di 124 mila tonnellate; alla fine della guerra era più che triplicata, ammontando a 395 mila tonnellate.
Messe a posto queste accuse, e chiusa questa polemica diretta contro di me, un'altra, e sempre dalla stessa parte, fu suscitata, facendosi circolare la voce che io intendevo di abbattere il Ministero e di crearne un altro da me presieduto, col programma della neutralità assoluta.
Di queste voci ebbi avviso per lettere di amici, fra gli altri Peano, Malagodi e Colosimo. A queste lettere risposi, esprimendo le mie opinioni, e respingendo qualunque idea di una crisi, anzi dichiarando espressamente «che sarebbe molto male fare una opposizione al Ministero; che il paese giudicherebbe male tale contegno, e che era bene che in momenti così difficili il governo avesse piena autorità».
Ed aggiungevo: «Sono del resto persuaso che se la situazione europea non si muta sostanzialmente, il Governo non impegnerà il paese in una guerra difficile, sanguinosa, costosissima, e non voluta dalla immensa maggioranza».
E poiché si continuava a parlare di intrighi politici, mischiandovi il mio nome, io scrissi al Peano dicendogli che, a mettere ad essi fine, la miglior cosa era di fare pubblicare nella Tribuna, che si era già espressa chiaramente e per conto suo in tale senso contro le voci tendenziose, una lettera che io gli avevo scritto alcuni giorni avanti. E così fu pubblicata quella lettera, che qui riproduco:
«Cavour, 24 gennaio 1915.
«Caro Amico,
« È stranissima la facilità con la quale, parte in buona, parte in mala fede, si formano le leggende. Ora due tendono a formarsi; una di pretesi miei rapporti col Principe di Búlow, l'altra la opinione che mi si attribuisce che si debba mantenere in modo assoluto la neutralità in qualunque caso.
Conosco il Principe Bùlow da molti anni; ho grande stima del suo ingegno e del suo carattere; l'ho sempre trovato amico dell'Italia, beninteso mettendo sempre in prima linea il suo paese, come é suo dovere.
Egli quando era a Roma come semplice privato veniva spesso a trovarmi. Ora, che venne a Roma come ambasciatore, lo incontrai per caso in piazza del Tritone; egli mi disse che voleva venire a trovarmi; io gli risposi che essendo io un disoccupato sarei andato da lui, e così feci l'indomani. Si parlò in modo affatto accademico dei grandi avvenimenti; ma mi guardai bene dall'entrare nell'argomento del contegno che debba tenere l'Italia. Avrei mancato al mio dovere, nè egli entrò in tale argomento, perché egli é uomo che non manca mai alle convenienze.
Alcuni giorni dopo venne a rendermi la visita; io non ero in casa, mi lasciò una carta da visita e non lo vidi più essendo io partito da Roma.
La mia adesione al partito della neutralità assoluta. Altra leggenda.
Certo io non considero la guerra come una fortuna, come i nazionalisti, ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare solo quando é necessario per l'onore e per i grandi interessi del paese.
Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per un sentimentalismo verso altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del paese. Ma quando fosse necessario non esiterei nell'affrontare la guerra, e l'ho provato.
Credo molto, nelle attuali condizioni dell'Europa, potersi ottenere senza guerra, ma su di ciò chi non é al governo non ha elementi per un giudizio completo.
Quanto alle voci di cospirazioni e di crisi non le credo possibili. Ho appoggiato ed appoggio il Governo, nulla importandomi delle insolenze di chi si professa suo amico ed invece é forse il suo peggior nemico. - Gradisca i miei più cordiali saluti aff.mo Giolitti » .
Quantunque quella lettera esprimesse idee che corrispondevano pienamente all'azione che il Governo aveva cominciato a svolgere sin dal 9 dicembre con la prima Nota all'Austria, stampata poi nel Libro Verde, e che continuò a svolgere ancora per alcuni mesi; e quantunque essa si opponesse decisamente alle velleità di crisi e di opposizione, le malignità ed insinuazioni continuarono. Per cui io, rispondendo ancora, il 3 aprile, ad un'altra lettera dell'onorevole Peano, scrivevo:
«Lo spettacolo più doloroso é quello che danno molti uomini politici, i quali cercano di risuscitare le antiche gare, che furono la vera peste dell'Italia, parteggiando per nazioni straniere, anziché pensare agli interessi veri del nostro paese. Io conto di restare qui a Cavour per molto. tempo, per evitare la nausea di pettegolezzi che, a Camera chiusa, infestano la vita politica».
E così feci; e per tutto quel periodo non ebbi rapporti di alcun genere con nessuno; solo constatavo che la corrente contro la guerra andava diventando in tutto il Piemonte predominante in misura straordinaria, e che tutti gli uomini politici di quella regione si mostravano apertamente e decisamente contrari al nostro intervento nell'immane conflitto.
Tornai a Roma nel mese di marzo (1915), per la riapertura della Camera. Trovai l'ambiente assai agitato, anche per ragione del ritardo dei soccorsi, e dell'azione, che pareva poco efficace, compiuta dal Governo per il terremoto della Marsica. Molti deputati mostravano apertamente di non fidarsi della condotta del governo, temendo che si lasciasse trascinare alla guerra, e molti dei miei amici politici credevano opportuno provocare una crisi. Io ero invece di contrario avviso, perché si sapeva ormai che trattative erano avviate fra il governo e l'Austria, ed io pensavo che non si dovesse in alcun modo disturbare tale azione, avendo io piena fiducia che il Governo comprendesse la convenienza di ottenere dall'Austria le maggiori concessioni evitando di portare il paese al rischio della guerra.
Queste mie convinzioni e sentimenti io procurai di fare prevalere presso i miei amici; mentre nelle conversazioni che in quei giorni ebbi assai frequenti, nelle sale del Parlamento, specie con gli uomini politici che volevano la guerra e si industriavano a persuadermi della sua convenienza, sostenendo sempre che sarebbe stata brevissima, e che il nostro intervento sarebbe riuscito decisivo; io sostenevo il mio punto di vista, già esposto, sulle difficoltà ed i sacrifizi a cui si sarebbe andati incontro; e ricordo che dicevo loro che, lungi dal credere ad una prossima fine, io ero d'avviso che la guerra fosse appena incominciata, e che quindi ad ogni modo non c'era ragione di avere fretta.
Il. Governo intendeva di domandare un voto di fiducia, con piena libertà d'azione, riferendosi ai negoziati, ormai a tutti noti, che stava conducendo. L'on. Salandra, qualche giorno avanti questo voto e prima che il Parlamento si chiudesse per le vacanze di Pasqua, desiderò avere un colloquio con me, e venne a trovarmi a casa mia. Avemmo una conversazione nella quale egli mi confermò le voci che il Governo stesse trattando con l'Austria, senza però entrare in particolari.
Io gli dissi che era mio desiderio che il Parlamento gli desse modo di premere sull'Austria tanto da potere ottenere le massime concessioni possibili. Questa conversazione mi persuase sempre più della necessità di lasciare mano libera al Governo, e mi convinse pure che non c'era affatto ragione di allarmarsi per i provvedimenti militari che il Governo stava prendendo, i quali, mentre erano generalmente giustificati dalla situazione, dovevano soprattutto servire a dimostrare all'Austria la necessità per essa di affrettarsi a fare serie concessioni.
Da questa conversazione io avevo del resto ritratta la precisa impressione che il proposito del Governo non era di entrare in guerra, ma di premere con tutti i mezzi per persuadere l'Austria a mettere fine alle sue tergiversazioni, ed a decidersi a soddisfare alle giuste esigenze italiane, in base all'art. 7 del Trattato di alleanza ed alle convenzioni particolari pei Balcani; e questa mia impressione io la manifestai apertamente a molti amici. Il contrasto voluto poi stabilire, fra la mia cosiddetta politica neutralista e delle concessioni, e la politica del Governo, non ha ragione di essere, ed é anzi smentiti decisamente dalla stessa pubblicazione del Libro Verde; la quale dimostra come il nostro Governo trattasse lungamente con Vienna per ottenere delle concessioni, appoggiato in ciò dalla Germania; e come anche all'ultimo fossero fatte delle richieste moderate, e quindi intese evidentemente a che fossero accettate, fra l'altro rinunciando alla aspirazione, pure giustificatissima, che la città italiana di Trieste fosse inclusa nei confini del Regni.
E certo il torto del fallimenti di quelle trattative, fu principalmente dell'Austria, col respingere, sino a quando apparve poi essere troppo tardi, le domande che il Governo italiano aveva avanzate con spirito di equità e di moderazione.
Dopo la mia conversazione con l'on. Salandra, io esortai caldamente i miei amici, pure ancora dubbiosi, a votare per il Governo. Una crisi in quel momenti, nel mio pensiero, avrebbe avuta una di queste due conseguenze: - o sarebbe venuto un Ministero propenso alla guerra, e questo io non potevo approvare; o veniva un Ministero a tendenze troppo evidentemente neutraliste, ed allora non si sarebbero ottenute dall'Austria le concessioni, senza le quali la guerra non avrebbe potuto essere evitata. Le mie argomentazioni persuasero i miei amici, e il Ministero ottenne il voti di fiducia, per la piena libertà d'azione, che aveva richiesto.
Durante il mese di aprile ricevetti da amici ed anche da altre persone del mondo politico con le quali ordinariamente non avevo dimestichezza, lettere sempre più allarmanti, che mi segnalavano il pericolo che l'Italia fosse trascinata di sorpresa alla guerra, indicando indizi e raccogliendo voci, ma senza niente di veramente preciso. Erano preoccupazioni ed allarmi che potevano rispondere semplicemente alla polemica, che si agitava sempre più vivace nei giornali, fra le due schiere degli interventisti e dei neutralisti, in cui si era ormai divisa la pubblica opinione. Un solo fatti mi fu segnalato che avrebbe potuto essere assai significante, e che cioè alla cerimonia di Quarto, per la quale era stati chiamato come oratore il D'Annunzio, che aveva già manifestato in modo acceso la sua convinzione che l'Italia dovesse partecipare alla guerra, sarebbe intervenuto il Re; ma ciò poi non avvenne.
Il 29 aprile ricevetti una lettera di un notevole personaggio tedesco, amico del Principe di Búlow, e che io avevo già conosciuto ad Homburg nella occasione del mio incontro col Principe stesso, parecchi anni prima; il conte von Hutten Czapxski, il quale mi scriveva da Milano dicendomi di essere venuto direttamente dalla Germania, e di parergli suo dovere di chiedermi il grandissimo favore di un colloquio, nella speranza di rendere un servizio ai nostri due paesi. A quella richiesta io risposi con la lettera seguente
" Onorevole Signor Conte,
Ella non può dubitare che con gran piacere avrei una conferenza con Lei; ma le circostanze attuali sono tali che ho dovuto prendere la decisione di astenermi da qualunque atto che sia o possa apparire ingerenza mia nelle questioni di politica estera. Con la migliore intenzione potrei produrre un effetto contrario ai miei desideri.
Questo posso dirle, che l'Austria, con la sistematica persecuzione degli italiani suoi sudditi, ha creato in Italia una opinione pubblica ostilissima ad essa, e di ciò credo sia anche Ella informata.
Quanto alle trattative in corso, mi consta che le ottime intenzioni d'ella Germania incontrano ostacolo insuperabile nella mala volontà dell'Austria, la quale fa offerte assolutamente non tali che possano condurre ad una soluzione pacifica.
Anche ora l'Austria arriverà troppo tardi, perché la sua mentalità non le permette di comprendere la mentalità e i sentimenti degli italiani.
So che il Governo italiano fa domande ragionevoli, e chiede il minimo occorrente ad una soluzione pacifica; la sola opera che praticamente possa conservare la pace deve essere rivolta a persuadere l'Austria a cedere ciò che non potrà a meno di perdere, e che per essa oramai non costituisce più che una debolezza, poiché non potrà contare mai sulla devozione degli attuali suoi sudditi italiani.
Sono proprio dolente di non potere avere una conversazione con Lei; ma da un lato non potrei dirle che ciò che Le scrivo, e dall'altro ogni mia anche indiretta ingerenza potrebbe avere per effetto di creare equivoci dannosi.
Gradisca, signor Conte, gli attestati della più distinta stima - Giovanni Giolitti » .
Questi, furono i cosiddetti obliqui contatti che io ebbi coi rappresentanti e personaggi austriaci e tedeschi in quei mesi della neutralità italiana.
Altre lettere ricevetti da Roma, nei primi giorni di maggio, da parte di amici che insistevano sugli indizi che ormai il Governo fosse deciso alla guerra. Sino all'ultimo io non avevo però avuta notizia alcuna di impegni che il Governo avesse preso, o anche soltanto di deliberazioni in tale senso; e quando partii da Torino per Roma, io non venivo che per la prossima apertura della Camera, ed anche per rendermi conto da vicino di ciò che stava accadendo. Alla partenza da Torino ci fu un primo episodio di tentata intimidazione, evidentemente preordinato; un certo numero di giovanotti vennero a fischiarmi alla stazione, e furono redarguiti dagli amici che mi accompagnavano. Arrivando a Roma, la cosa si ripeté in maggiori proporzioni. Alla stazione fui avvertito che una folla di nazionalisti mi attendeva per farmi una dimostrazione ostile, e fui consigliato di uscire, non dalla solita porta, ma da un passaggio; ma io rifiutai, rispondendo che volevo passare per dove ero passato sempre, e che se c'era una dimostrazione contro di me era bene che io la vedessi. E infatti un gruppo di dimostranti attorniò me e gli amici che erano venuti ad incontrarmi, e mi accompagnò sino a casa mia, fischiando e gridando abbasso. Quando io fui al portone, mi rivolsi e dissi loro: - "Ma almeno per una volta tanto gridate "viva l'Italia!"".
Nella giornata e nella mattinata seguente ricevetti oltre trecento biglietti da visita e lettere di deputati che si dichiaravano d'accordo con l'opinione, da me sempre apertamente manifestata, che non si dovesse allora entrare in guerra; e pure molte lettere e biglietti di Senatori. Erano una dimostrazione del sentimento e del pensiero della maggioranza parlamentare. Quei deputati e senatori furono poi accusati di faziosità, e di avere tentato di sovrapporsi alle prerogative della Corona, a cui compete nello Statuto la decisione per la guerra e per la pace.
Ora io ricordo in proposito che quando la Germania dichiarò la guerra alla Francia, Asquith, dopo avere convocato il Consiglio dei Ministri, chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: "Il Governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo l'approvazione del Parlamento". - La Costituzione nostra é in ciò simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al Parlamento.
La mattina del giorno 7 maggio ricevetti un biglietto di Carcano, allora Ministro del Tesoro, che mi diceva di avere bisogno di parlarmi nella giornata. Io gli fissai un appuntamento per le quattro e mezza del giorno dopo, perché nel pomeriggio mi recavo a Frascati, dove era mia moglie, e dove intendevo trattenermi sino al pomeriggio dell'indomani. Il Carcano venne all'appuntamento fissato, ed avemmo una lunga conversazione, nella quale egli mi espose largamente le ragioni per le quali il Governo credeva necessario di entrare allora in guerra. Io ribattei pure lungamente le sue argomentazioni, dimostrandogli tutti i pericoli ai quali l'Italia sarebbe andata incontro. Il Carcano si commosse molto alle mie parole, e gli vennero le lacrime agli occhi; ma concluse che ormai la decisione del Governo di entrare in guerra era definitiva.
Egli non mi parlò però in alcun modo, né fece il minimo accenno di un trattato che fosse stato sottoscritto; e il suo silenzio su questo punto lo compresi solo qualche anno dopo quando, il Trattato di Londra essendo stato pubblicato dai bolscevichi, vidi che c'era in esso l'impegno formale di tenerlo segreto. Prima che mi spiegassi il suo silenzio per tale ragione, era perfino sorto in me il dubbio che egli non ne avesse conosciuta l'esistenza, perché fra lui e me vi era tale intimità, sino dal tempo che egli era stato mio sottosegretario nel 1893, che senza quell'obbligo del segreto non avrei capito che egli non me ne avesse parlato più apertamente e non me l'avesse confidato, sapendo che poteva fare pieno assegnamento sul mio silenzio.
Ricevetti poi l'invito di recarmi da Sua Maestà il Re, che vidi il mattino del giorno dopo, ed al quale io esposi tutte le mie ragioni contrarie alla guerra; ma anche in quella conversazione l'obbligo del segreto, scritto nel Trattato, impedì che io ne fossi informato. Più tardi, verso mezzogiorno, venne da me Bertolini, che mi aveva già informato delle offerte fatte dall'Austria con la garanzia della Germania, e le quali del resto erano state messe largamente in circolazione negli ambienti italiani dal deputato tedesco Erzberger, e che si avvicinavano assai alle domande fatte dall'Italia, come apparve poi con la pubblicazione del Libro Verde; per dirmi che Salandra desiderava vedermi. Io gli risposi che non avevo nessuna difficoltà; e siccome il Salandra, nell'ultimo nostro incontro era venuto a casa mia, così mi proposi di recarmi questa volta a casa sua. E vi andai alle quattro dello stesso giorno. Salandra mi disse che sapeva della mia conversazione col Re; io ripetei a lui tutte le ragioni per le quali credevo che l'Italia avrebbe commesso un errore entrando in guerra nelle condizioni in cui la guerra si presentava allora; e nessuno certo allora immaginava nemmeno che potessero intervenire gli Stati Uniti.
Salandra mi rispose che il Governo aveva ormai presa la deliberazione di entrare in guerra; che gli era impossibile tornare indietro, e che se non avesse potuto dichiarare la guerra per ostacoli da parte del Parlamento, avrebbe dovuto dimettersi. Egli era informato della quantità di adesioni che i deputati avevano espresso al mio punto di vista, donde desumeva la possibilità che il Parlamento potesse votargli contro. Queste stesse dichiarazioni dell'on Salandra escludono che io venissi informato dell'esistenza del Trattato di Londra, perché altrimenti la conversazione e la discussione si sarebbero rivolti ad altri punti ed avrebbero preso altro corso.
Anche per lui si comprende che l'obbligo del segreto valse ad impedirgli di darmi intera notizia del come stessero le cose. E dopo compresi pure che il Governo aveva un'altra e specialissima ragione per mantenere il segreto più assoluto.
L'articolo secondo del Trattato disponeva infatti così - L'Italia da parte sua s'impegna a condurre la guerra con tutti i mezzi a sua disposizione d'accordo con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia, contro gli Stati che sono in guerra con esse. - La guerra, per l'articolo ultimo, doveva iniziarsi entro il 26 maggio. Per effetto di questi patti l'Italia avrebbe dovuto entrare in guerra nello stesso tempo contro l'Austria e contro la Germania: invece il Ministero di quel tempo parlò sempre esclusivamente di guerra all'Austria per la liberazione delle terre italiane irredente.
Parlamento e Paese non seppero, come non seppi io, che si entrava in guerra contro la Germania, alla quale la guerra infatti non fu dichiarata finché rimase al potere quel Ministro, che mancava così al patto, destando nei paesi alleati diffidenze che cessarono solamente quando, oltre un anno dopo, il Ministero Boselli dichiarò la guerra alla Germania. Tutto questo spiega perché a me non si parlò nel maggio del 1915 del Patto di Londra.
Ad ogni modo, ritornando agli avvenimenti di quei giorni, il Salandra parve rendersi conto delle difficoltà della situazione, ed all'indomani, 11 maggio, presentò le sue dimissioni. Io fui chiamato nuovamente dal Re per le consultazioni d'uso che si fanno quando avviene una crisi ministeriale. Sempre nell'ignoranza degli impegni formali che l'Italia aveva assunti verso le potenze dell'Intesa, io espressi l'avviso che non potesse essere incaricato del Governo un uomo il quale fosse ritenuto come avverso all'entrata dell'Italia in guerra, e suggerii i nomi di Marcora o di Carcano, i quali essendo conosciuti come uomini che in caso di necessità sarebbero arrivati anche alla guerra si trovavano in condizioni di ottenere dall'Austria le maggiori concessioni.
Il Marcora, dopo essere stato in udienza dal Re, mi scrisse che desiderava di vedermi, e venne effettivamente a trovarmi, il giorno 14, e mi dichiarò che egli pure era d'opinione della necessità di entrare in guerra senz'altro. Carcano non lo rividi più. L'indomani il Re non accettò le dimissioni dell'on. Salandra; ed io, avendo considerata finita la mia missione, il giorno 17 partii per Cavour.
Per tutti quei giorni che fui a Roma, nell'intervallo fra le dimissioni e la riconferma del Ministero Salandra, si promossero per la città dimostrazioni e comizi, diretti contro di me particolarmente e contro il Parlamento, senza che la polizia intervenisse anche quando le cose passavano la misura. Ricordo che in un comizio tenuto al teatro Costanzi, vicino a casa mia, il D'Annunzio incitò il pubblico ad ammazzarmi; e difatti la folla, uscendo dal teatro, si diresse tumultuosamente verso casa mia. Gli agenti di polizia la lasciarono passare, ma uno squadrone di cavalleria ed un plotone di carabinieri l'arrestò e non permise che arrivasse fino a me.
La sera dopo, quando non c'era più alcuna minaccia, si fece intorno a casa mia uno spiegamento enorme di forze, bloccando tutte le strade che conducevano a Piazza Esquilino. In quei giorni ricevetti un'immensa quantità di lettere anonime, direttemi da ogni parte; erano tante che ne riempii due volte il cestino della cartaccia. Il fatto più curioso e caratteristico di quelle lettere anonime, provenienti da paesi lontani l'uno dall'altro, dal Veneto, dalla Sardegna, dalla Toscana, dalla Sicilia, era che tutte contenevano la stessa formula, e cioé l'accusa che io avessi presi venti milioni dall'Austria e dalla Germania per cercare di impedire la guerra. Alcuni degli anonimi scrittori, trovando forse la cifra troppo modesta, l'avevano raddoppiata. Questa strana coincidenza della identità di un'accusa fantastica e canagliesca, mi fu di conforto in quei torbidi giorni; perché capii che essa non era la spontanea espressione di cittadini che ragionassero con la propria testa, ma una cosa preordinata ed organizzata dai fautori e dagli interessati alla guerra ad ogni costo.
Mi ritirai a Cavour; e poiché, dopo dichiarata la guerra, ogni cittadino, qualunque siano le sue opinioni, ha il dovere di fare quanto può per assicurare la vittoria, da quel giorno non una parola uscì dal mio labbro cha potesse generare sconforto o turbare la concordia cittadina, prima necessità par un paese in guerra. Per cui mi astenni anche dal rilevare gli insulti e dal rispondere alla più assurde calunnia di giornali i quali, in nome del patriottismo, seminavano la discordia.
Era evidente che non mancava chi cercava di sfruttare quella situazione agli affetti della politica interna; e ci furono parecchi che, pretendendo di fare del super-patriottismo accusando gli altri, in realtà compivano una pericolosissima opera di disgregazione. Ebbi occasione di parlare della guerra poco dopo, il 5 luglio del 1915, al Consiglio Provinciale di Cuneo, e così mi espressi:
« I sentimenti della rappresentanza di una provincia come la nostra, la cui storia é da secoli una serie non interrotta di lotte per l'indipendenza dallo straniero e di devozione alla Monarchia di Savoia, non possono essere dubbi. Quando il Re chiama il paese alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzione di partiti e senza riserve, é unanime nella devozione al Re, nell' appoggio incondizionato al Governo, nella illimitata fiducia nell'esercito e nell'armata. L'impresa alla quale l'Italia si é accinta é ardua e richiederà gravi sacrifici ; ma nessun sacrificio ci parrà troppo grave se ricorderemo sempre che dall'esito di questa guerra, dalla condizioni della pace che vi porrà termine, dalla situazione politica nella quale ci troveremo a pace conclusa, dipenderà l'avvenire dell'Italia per un lungo periodo della sua storia» .
E terminavo con un appello alla concordia. Tale appello, fatto anche da altre, parti, rimase inascoltato da molti che del patriottismo volevano il monopolio per poterlo meglio sfruttare, ed io, cha per la saldezza del paese credevo necessario evitare perfino qualunque apparenza di discordia, mi astenni par molto tempo dall'intervenire alla Camera. Nella condizione che mi era stata creata, era quello l'unico servizio che io potessi allora rendere al mio paese.
La notizia delle infausta giornate di Caporetto, io la ebbi a Cavour da un tenente degli alpini, Palaccoli, che fu mandato a me da Bissolati per dirmi se io avevo modo di fare qualche cosa per sostenere lo spirito pubblico. Io risposi cha non potevo prendere una iniziativa individuale; ma siccome si sarebbe certo convocato il Parlamento, io non avrei mancato di intervenire e di fare la parte cha si fosse creduta più utile. Ricevetti quasi subito dopo una lettera del Presidente del consiglio Orlando ed una del Presidente della Camera Marcora che mi chiedevano di intervenire all'apertura della Camera. Giunto a Roma fu convocata presso il Presidente della Camera una riunione degli antichi Presidenti del Consiglio; cioè Salandra, Bosalli, Luzzatti ed io. Ricordo che appena entrato nella sala fui io il primo a stendere la mano a Salandra, per dimostrare che, in quel momento non doveva esserci alcuna divisione di persone.
In quella riunione, in cui intervenne anche Orlando, che pochi giorni prima di Caporetto aveva assunto la Presidenza, si accennò di dare ad uno solo l'incarico di parlare alla Camera, e capii che si voleva evitare che parlassi io, per il timore di qualche dimostrazione il cui significato potesse parere ambiguo. A questo io, non potevo consentire, non volendo parere che ad intervenire al Parlamento io fossi stato trascinato quasi riluttante, e dichiarai che avrei parlato, in forma brevissima, e procurando che, per parte dei miei amici nessuna dimostrazione, fosse fatta che potesse dare luogo ad ambigue interpretazioni. Allora si convenne che ognuno di noi avrebbe parlato; ed io feci infatti nella solenne seduta dell'11 novembre 1917 una brevissima dichiarazione.
Questo, e i discorsi che pronunciai alle aperture annuali del Consiglio Provinciale di Cuneo, alcuni dei quali riguardavano anche il futuro e causarono viva impressione, furono i soli miei atti pubblici durante la guerra. Privatamente, nella corrispondenza con amici e con persone, fra le quali anche alcuni che nel maggio del '15 si erano da me distaccati, io sostenni sempre la necessità della resistenza e della lealtà verso i nuovi alleati sino all'ultimo, quantunque le mie più gravi preoccupazioni sulla lunghezza dei conflitto, sulle sue difficoltà e l'enormità dei sacrifici si fossero purtroppo avverate.
La caduta della Russia, che già io avevo prevista nelle conversazioni e nelle lettere scambiate durante il periodo della nostra neutralità, e la cui previsione era stata una delle maggiori ragioni per cui io avevo raccomandata la prudenza, non mi giunse naturalmente inaspettata.
Per fortuna ci fu la coincidenza dell'intervento americano, che io consideravo decisivo, soprattutto perché mentre assicurava a noi i mezzi finanziari ed i rifornimenti necessari, rendeva assolutamente impossibile qualunque ulteriore rifornimento del nemico, col conseguente effetto morale. Io avevo sempre, sino dall'inizio, considerata la guerra come uno di quei supremi conflitti storici nei quali vengono poste a repentaglio le intere fortune ed i destini secolari delle nazioni; per cui le nazioni che vi sono impegnate non cedono e non si rassegnano sino a che tutti i loro mezzi di resistenza non siano esauriti. Trattandosi quindi di una guerra di esaurimento, l'intervento americano, chiudendo qualunque sia pure indiretta strada ai rifornimenti nemici, ed assicurando i rifornimenti nostri, segnava già la decisione finale del conflitto.
Quanto alle cose interne, io seguii sempre con grande ammirazione lo spirito di sacrificio e il valore dei soldati, come pure la resistenza e la fermezza del paese; ma non potei non constatare anche la deplorevole avidità di soverchi guadagni in molti che avevano rapporti d'interesse con lo Stato, e l'ostentazione di lusso e di divertimenti degli arricchiti della guerra, che facevano una sinistra impressione sui soldati che venivano dalle trincee per i loro brevi congedi presso le loro famiglie.
Caporetto fu una grande sventura, ma servì però anche a risvegliare in tutto il paese la coscienza della gravità della situazione e della necessità di affrontarla con sentimento più austero. E le cose migliorarono, non solo nell'opinione pubblica, ma anche nell'esercito, con la sostituzione nel Comando Supremo del generale Diaz al Cadorna, che aveva lanciata la indegna accusa di viltà ai nostri soldati, i quali pure avevano risposto con così esemplare abnegazione e cruenti sacrifici per due anni e mezzo a tante sue richieste.
Gli effetti del mutato indirizzo nel trattamento dei soldati, si videro poi nella gloriosa battaglia del Piave, che per il momento in cui venne combattuta e vinta dai soldati italiani, fu una delle più importanti battaglie della guerra europea, e fu preludio alla grande vittoria di Vittorio Veneto, che segnò la definitiva sconfitta dell'esercito austriaco e la distruzione dell'Impero degli Asburgo.
Nessuno poté sentire per la definitiva vittoria una gioia più viva di me, che avevo avuto chiara la visione delle spaventevoli conseguenze che per l'Italia avrebbe avuta la guerra, se non fosse terminata con una vittoria completa e definitiva.
Non ebbi alcuna parte nella pace, e non fui richiesto da alcuno. Io considerai però che alla grandezza della vittoria non corrisposero certamente le condizioni fatte all'Italia nelle trattative diplomatiche; e particolarmente ingiusto mi parve il rifiuto di riconoscere alla città di Fiume il diritto di ricongiungersi alla madre patria.
Bisogna però riconoscere che la responsabilità di ciò risaliva a quel Governo che nel Trattato con cui eravamo entrati in guerra aveva scritta una clausola nella quale era detto espressamente che Fiume doveva essere data alla Croazia. Questa rinuncia, ingiustificabile perché fatta in un momento in cui i futuri alleati nulla avrebbero negato all'Italia, fu la prima fonte delle difficoltà che si incontrarono nelle trattative di Parigi. Nessun argomento, per negare Fiume all'Italia, avrebbe potuto trovare il Presidente Wilson, che fosse così forte come la esplicita adesione del Governo italiano di consegnarla ai Croati.
Ed altro grave errore era pure stato commesso quando, entrando in guerra, il Wilson aveva dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero riconosciute le stipulazioni dei trattati segreti. Il ministro degli esteri italiano avrebbe dovuto fare subito fronte a quella dichiarazione del Presidente americano, mettendolo al corrente del nostro Trattato con gli altri alleati, per togliergli lo stigma della segretezza, e per provocare spiegazioni che potevano riuscire più favorevoli mentre la guerra durava, anzi doveva affrontare ancora alcune delle più aspre prove, che non a guerra finita. Ed é a ricordarsi che nelle polemiche diplomatiche che seguirono poi fra Wilson, l'Italia e gli Alleati, il. Wilson si lagnò appunto, e con asprezza, del segreto mantenuto verso di lui, su gli accordi intervenuti fra gli Alleati e l'Italia.
Con l'avvento della pace, anche a parte le difficoltà internazionali per la soluzione dei problemi del nostro confine, io prevedevo pure gravi difficoltà interne ; e ritenevo opportuno che al più presto si rafforzasse l'autorità del Governo e del Parlamento, con elezioni che portassero alla Camera una rappresentanza che fosse in piena corrispondenza con il sentimento ed il pensiero del paese; tanto più che per le necessità della guerra, la Camera eletta con i comizi dell'ottobre 1913, aveva sorpassati i limiti fissati alla sua vita dallo Statuto, e non possedeva più alcuna autorità, essendo effettivamente una Camera di semplici futuri candidati.
E credevo pure opportuno che la nuova Camera fosse eletta quando l'entusiasmo della vittoria non fosse stato troppo attenuato ed oscurato dalla constatazione delle nuove, gravissime difficoltà che l'Italia doveva affrontare pure nella pace, col conseguente malcontento. Quindi nel mese di aprile del 1919, scrissi due volte al mio amico Facta, che era Ministro Guardasigilli con Orlando, esponendogli le ragioni per cui conveniva che si procedesse al più presto alle elezioni politiche. Orlando conveniva pienamente con me, riconoscendo la giustezza delle mie osservazioni; ma impegnato nelle trattative internazionali, non si decise a tempo a interrogare il paese. Chiusasi la Conferenza senza che le aspirazioni dell'Italia fossero soddisfatte, Orlando cadde e gli successe l'on. Nitti.
Per quanto concerne l'opera compiuta dall'onorevole Orlando, durante il suo Ministero che s'iniziò con l'avvenimento più infausto della guerra, e finì con la vittoria completa, io riconobbi sempre il grande merito che egli ebbe nel sostenere, con incrollabile fervore, lo spirito pubblico dopo Caporetto. Sul modo con cui egli condusse poi a Parigi le trattative, nessun giudizio posso esprimere, mancandomene i necessari elementi.
FINE DEL SEDICESIMO CAPITOLO