CAPITOLO 15
Il rinnovo della Triplice Alleanza e le sue ragioni - La grave questione albanese - Le aggressioni serbo-montenegrine e greche - Scutari e il Canale di Corfù - Pericoli e minacce fra l'Austria e la Russia - Proposta austriaca all'Italia contro il Montenegro - Mio rifiuto motivato dalla convinzione che quell'azione avrebbe portato alla guerra europea - Scambio di dispacci e lettere fra me e San Giuliano - Pressioni dell'imperatore Guglielmo - La Conferenza degli ambasciatori - La questione del Dodecaneso: rigido atteggiamento dell'Inghilterra - Compromissione della Francia per la Grecia - Mantengo fermo il punto di vista italiano, che è accettato - Secondo tentativo di aggressione dell'Austria contro la Serbia - lo nego l'intervento italiano mancando il casus foederis - Gli accordi per l'Asia Minore - Il pacifismo dell'Imperatore Guglielmo. |
Circa due mesi dopo la fine della guerra di Libia e la conclusione della pace con la Turchia, e precisamente il 5 dicembre 1912, noi addivenimmo al rinnovamento della Triplice Alleanza, in anticipo di alcuni mesi sulla data valida per la denunzia.
Già durante la guerra libica la Germania e l'Austria avevano avanzata la proposta del rinnovamento anticipato; e quella loro proposta ci era pervenuta appunto subito dopo gli incidenti sorti fra noi e la Francia per il fermo e la visita del Manouba e del Carthage. Quegli incidenti in verità avevano fatta una forte impressione sulla pubblica opinione, spegnendo in buona parte quei sentimenti di più viva cordialità verso la Francia, che il suo contegno amichevole verso di noi in relazione alla guerra di Libia aveva nei primi mesi diffuso nel pubblico italiano; e si comprende che le nostre antiche alleate ritenessero opportuno di approfittare di quella occasione per avanzare la loro proposta. Quella offerta ad ogni modo costituiva un atto molto amichevole verso di noi, perché rinnovare l'alleanza in un momento in cui l'Italia era impegnata in una guerra, assumeva un notevole significato politico, ed equivaleva a fare sapere a tutto il mondo che la Germania e l'Austria, nonostante i loro particolari interessi nella Turchia, erano d'accordo con noi.
La importanza di questo aspetto dell'offerta fattaci non poteva certo essere disconosciuta, ed io risposi ai due governi che apprezzavo assai il sentimento amichevole che li induceva alla loro proposta; ma osservavo che avendo noi già emanato il Decreto di sovranità della Libia, era per noi condizione sine qua non che nel rinnovamento del Trattato d'alleanza, questo nostro possesso venisse esplicitamente riconosciuto. La Germania e l'Austria risposero che, avendo esse dichiarato allo scoppio della nostra guerra con la Turchia la loro neutralità, non avrebbero potuto, senza venir meno ai loro obblighi, stipulare un trattato in cui fosse riconosciuto come già a noi appartenente ciò che formava l'oggetto della contestazione ed era stato la ragione della guerra. A mia volta dovetti riconoscere la giustezza di codeste obiezioni; e rimase convenuto che si sarebbe proceduto al rinnovamento dell'Alleanza appena la Germania e l'Austria avessero potuto riconoscere la nostra sovranità secondo il diritto internazionale.
E così, appena la guerra fu conclusa, l'Alleanza fu rinnovata senza alcuna modificazione. Io veramente avrei voluto introdurre nel corpo del trattato gli altri accordi che avevamo concluso con l'Austria nell'intervallo intercorso dopo l'ultimo rinnovamento; uno dei quali si riferiva espressamente all'Albania e l'altro, concluso nel 1909 e mantenuto segreto, contemplava gli interessi generali delle due Potenze nei Balcani e stabiliva reciproci impegni; perché mi pareva conveniente che tutti gli accordi esistenti fra gli alleati fossero contemplati in un unico trattato. Ma l'Austria e la Germania non accedettero a questa mia proposta, avanzando l'obiezione che esse desideravano di trovarsi in condizione, sia per ragioni di politica interna che di politica estera, di potere dichiarare che il trattato era rimasto inalterato, per non fare nascere dei sospetti che qualche cosa vi fosse stato introdotto che ne snaturasse il carattere, già ben noto, di trattato puramente difensivo; ed io non insistei.
Al rinnovamento della Triplice Alleanza, fatto un anno e mezzo circa prima dello scoppio della guerra europea, e contro il quale al momento in cui ebbe luogo non furono fatte obiezioni di qualche peso né all'interno né all'estero, se non da parte di coloro che erano stati sempre nemici dichiarati di quell'alleanza, sono state fatte in seguito critiche postume, dal punto di vista degli avvenimenti capitati poi; e fra l'altro si é detto che il rinnovamento dell'alleanza con gli Imperi centrali fu un errore, perché sino da allora non mancavano indizi di un grave pericolo di guerra.
Coloro che ragionano a questo modo, confondono la situazione dell'uomo politico che deve agire sulla realtà immediata, e dal quale non si può pretendere la qualità del profeta, con quella del critico e dello storico, che si trovano nella condizione assai più comoda di giudicare sui fatti compiuti. È assai facile, fra l'altro, dopo che gli avvenimenti si sono compiuti, trovare anche in incidenti mediocri e trascurabili gli indizi di ciò che doveva avvenire; quegli incidenti ricevendo nuova luce ed assumendo una nuova importanza per ciò che é poi avvenuto. MA a chi si metta nella giusta prospettiva apparirà che, nonostante le innegabili velleità aggressive del partito militarista austriaco, propositi e minaccia di guerra non si erano in quel tempo manifestati, e che anzi si poteva avere giusta ragione di sperare in un periodo di pace, in quanto non poche delle situazioni minacciose, che negli anni precedenti avevano preoccupata l'Europa, si erano risolte: basta nominare fra le altre la questione della Bosnia-Erzegovina e quella del Marocco.
La stessa situazione balcanica che da così lungo tempo aveva tenuta inquieta l'Europa, specialmente orientale, aveva avuta con la vittoria degli Stati balcanici alleati contro la Turchia, una soluzione rispondente nella massima parte ai diritti delle nazionalità, con la quasi totale cacciata dello Turchia dall'Europa. Quella soluzione era indubbiamente contraria alle ambizioni austriache, donde gli incidenti a cui ora si dà l'importanza di indizi infallibili; ma bisogna pure aggiungere che la Germania, senza il cui beneplacito l'Austria non avrebbe certo potuto assumersi la responsabilità di provocare una guerra, era sempre intervenuta con propositi e risultati pacifici.
D'altra parte é d'uopo tenere bene presente che i rapporti fra l'Austria è l'Italia, sia per la questione delle province irredente, sia per il contrasto degli interessi nostri con quelli austriaci nei Balcani ed in Albania specialmente, erano tali, che un dilemma si poneva rigidamente: i due paesi, dovevano essere o alleati, o nemici decisi; ed un nostro rifiuto di rinnovare l'Alleanza sarebbe apparso come un proposito da parte dell'Italia di mettersi di fronte all'Austria in una posizione di ostilità dichiarata; ed in tal caso c'era ogni ragione di temere che l'elemento militare austriaco, che verso di noi era stato sempre nemico, non avrebbe mancato di approfittare del pretesto del nostro rifiuto, per dare seguito ai suoi propositi ostili verso l'Italia.
Per la stessa ragione, dunque, per la quale, come vedremo più avanti, io mi ero costantemente adoperato a impedire che l'Austria ci impigliasse in una qualunque avventura che potesse precipitare ad una guerra, io dovevo pure procurare che una situazione pericolosa non si formasse fra l'Austria e noi. D'altra parte é bene qui ricordare che sino da quando io assunsi per la prima volta la responsabilità della politica italiana, mi ero adoperato con ogni mezzo a togliere alla Triplice Alleanza, per quanto spettava all'Italia, qualunque aspetto pure lontanamente aggressivo; ed a questo scopo avevo lavorato a migliorare i nostri rapporti con la Francia, poi a stringere rapporti con la Russia, mantenendo sempre la tradizionale nostra amicizia con l'Inghilterra.
Codesta politica italiana conciliante e pacifica era stata sempre condotta apertamente; ed il fatto che essa non avesse dato mai ragione o occasione ad obiezioni da parte della Germania e dell'Austria riconfermava nel modo più autorevole la legittimità della nostra interpretazione della Triplice, come di un'alleanza pacifica ed essenzialmente difensiva.
Come ho già accennato, le ultime giornate delle trattative nostre con la Turchia per la conclusione della guerra di Libia, coincisero con lo scoppio della prima guerra balcanica. Che qualche azione decisiva nella Balcania si stesse da tempo preparando, noi avevamo avuto informazioni dai nostri rappresentanti; già alcuni mesi avanti il Venizelos ci aveva fatta la proposta di unirsi a noi nella guerra contro la Turchia, proponendoci di invadere la Macedonia con centocinquantamila uomini. I nostri impegni ed i nostri interessi erano contrari in quel momento a che venisse sollevata la questione ottomana, e non solo avevamo rifiutata l'offerta, ma avevamo anche dato a Venizelos consigli di prudenza e di pace.
Le Potenze più interessate nei Balcani, avendo a mente le gelosie e le rivalità fra gli Stati balcanici, che la Turchia aveva sempre saputo abilmente sfruttare, non credettero, fino quasi all'ultimo, alla possibilità che si formasse la Lega balcanica contro la Turchia.
Quelle loro impressioni furono smentite in una prima fase dai fatti, perché la Lega si formò e riuscì, pure contro le aspettative quasi generali, ad abbattere la potenza militare turca; ma poi in una seconda fase furono confermate dallo scoppio della seconda guerra balcanica, suscitata appunto dalle rivalità e gelosie fra i vincitori.
La diplomazia europea, che prima che la guerra scoppiasse si era limitata a fare dei moniti e delle riserve, finì per accettarne complessivamente i risultati, intervenendo con decisioni particolari su un solo punto; la questione dell'Albania. Gli albanesi avevano combattuto lealmente a fianco dei turchi; ma dopo la sconfitta si trovavano separati a grande distanza dal centro dell'Impero ottomano, ed era ovvio che la costituzione di uno Stato albanese autonomo s'imponeva. Per questo rispetto le Grandi Potenze erano d'accordo e per conto nostro ci trovammo anzi ravvicinati all'Austria per la difesa di un comune interesse. Le difficoltà però sorgevano riguardo alla delimitazione delle frontiere albanesi, che erano attaccate, da settentrione ed oriente dalla Serbia, che voleva avere Giacova ed un porto sull'Adriatico, e dal Montenegro che mirava ad impadronirsi di Scutari; ed a mezzogiorno dalla Grecia, che cercava di allargare oltre ogni limite le frontiere dell'Epiro.
Queste ambizioni erano sostenute per la Serbia ed il Montenegro dalla Russia, che perseguiva la sua politica slava, e per la Grecia dall'Inghilterra e con maggior fervore dalla Francia. Ora siccome continuava lo stato di guerra contro l'Albania, quale parte dell'Impero ottomano, la Grecia l'invadeva nel mezzogiorno, e la Serbia e il Montenegro nel settentrione; la prima cercando di arrivare al mare e il Montenegro particolarmente tentando con ogni sforzo di impadronirsi di Scutari.
L'Italia e l'Austria invece si trovavano d'accordo nel difendere l'integrità dell'Albania, la quale non avrebbe potuto costituire uno Stato vitale se fosse stata troppo mutilata; l'Austria preoccupandosi soprattutto di impedire l'avanzata verso l'Adriatico della Serbia e del Montenegro, e noi di evitare che entrambe le sponde del canale di Corfù cadessero nelle mani della Grecia; il che avrebbe peggiorata assai, secondo il giudizio della marina, la nostra situazione strategica nel mar Jonio.
La Germania appoggiava l'Austria e l'Italia, pure mostrando una certa benevolenza verso la Grecia, parte per ragioni dinastiche, una sorella del Kaiser avendo sposato l'erede del trono di Grecia, che poi é stato Re Costantino, e parte perché sperava di distogliere la Grecia dalla Triplice Intesa e di attrarla nella sua orbita.
Già sin d'allora, secondo nostre informazioni, pareva che Costantino fosse personalmente assai favorevole a questo mutamento nell'orientamento della politica greca e che la Germania vi contasse sopra; e la guerra europea mostrò poi che quelle informazioni non erano infondate.
Da questa complicata condizione di cose, risultava una situazione assai pericolosa, e che, a certi momenti appariva quasi insolubile. Fortunatamente i consigli di moderazione e la buona volontà di evitare guai peggiori avevano allora la prevalenza, nonostante il contrasto delle tendenze e degli interessi, in entrambi i gruppi delle Grandi Potenze; e si finì per deliberare che la soluzione delle questioni più intricate e minacciose fosse affidata ad una Conferenza di Ambasciatori, convocata a Londra nei primi mesi del 1913.
Le discussioni di quella Conferenza procedettero in modo assai amichevole; l'Austria, per dare soddisfazione alla Russia, finì per rinunciare alla sua opposizione contro l'assegnazione di Giacova alla Serbia; e alla sua volta la Russia riconobbe che Scutari, assediata e bombardata dai montenegrini, dovesse, rimanere all'Albania.
Ma il Montenegro, non solo si ostinava a non cedere alla volontà unanime delle Potenze, ma assumeva pure un atteggiamento provocatore contro l'Austria, tanto da ingenerare anche il sospetto che volesse suscitare un conflitto che gli desse modo di uscire dalla insostenibile situazione in cui si era messo. Tale atteggiamento del Montenegro faceva d'altra parte il gioco del partito militarista e di altri interessi austriaci i quali avevano subìto mal volentieri la nuova situazione creatasi nei Balcani par la vittoria, prima dai piccoli Stati contro la Turchia, poi della Serbia, Romania e Grecia contro la Bulgaria; in quanto i risultati di quegli avvenimenti sembravano tagliare la strada al vecchio programma austriaco di espansione orientale e di discesa al Mara Egeo per la via di Salonicco.
Il partito militarista, dopo la morta dall'Aerenthal e l'avvento dal Berchtold, cha non possedeva né autorità né prestigio, faceva sentire assai la sua influenza al Ministero dagli Esteri austro-ungarico; ed indubbiamente furono dovuti alla sua azione due gravi tentativi di aggressione dall'Austria, prima contro il Montenegro, poi contro la Serbia, e nei quali si tentò di coinvolgere l'Italia.
All'infuori di una mia breva dichiarazione fatta quando era già scoppiata la guerra europea, ma durava ancora la neutralità italiana, al Parlamento italiano nel novembre del 1914, niente si é risaputo di quegli episodi diplomatici, che se non fossero stati sventati avrebbero condotto allo scoppio dalla guerra europea un anno prima.
Credo opportuno e interessante raccontarne ora l'intera storia, tanto più che la contingenza che in entrambi quei momenti io mi trovassi fuori di Roma, ha portato che ne sia rimasta nella mia mani l'intera documentazione.
E che essi fossero compiuti durante la mia assenza da Roma, non era un semplice caso. L'ambasciatore austro-ungarico di quel tempo a Roma, conta Meray, era uno strano personaggio, che si permetteva spesso l'uso di modi e di un linguaggio non troppo diplomatici. Di quella sua inclinazione, cha poteva anche corrispondere ad istruzioni trasmessagli da Vienna, egli aveva abusato durante la guerra, facendo nascere in quelli con cui trattava, e cioé in me a San Giuliano, la velleità di metterlo alla porta. Siccome però in quella situazione non era il caso di provocare uno scandalo diplomatico, io, in risposta alle sue burbanze, avevo adottato il sistema di mostrargli chiaramente che non lo prendevo sul serio. Così ricordo che una volta agli mi aveva chiesto un colloquio di urgenza, ed arrivando nel mio ufficio mi aveva fatta una protesta perché in Corso Vittorio Emanuele era stato aperto un negozio con la scritta «Trento e Trieste». Io gli avevo risposto che se egli avesse spinto più avanti la sua passeggiata, avrebbe trovato un altro negozio intitolato «Alla Città di Vienna». Per queste ragioni il Maray evitava di trattare con me, lamentando che io lo prendessi in giro, e non c'era da meravigliarsi che egli, per eseguire certe istruzioni che gli venivano dal suo governo, approfittasse dei momenti in cui ero lontano da Roma.
Ecco ora come si svolsero le cose. Il nostro ambasciatore a Londra, Marchese Imperiali, ci aveva informati che l'ambasciatore tedesco, di ordine del suo governo, aveva presentato a Sir Edward Gray un memoriale per attirare la sua attenzione sulla necessità di una pronta ad energica azione collettiva, allo scopo di costringere la Serbia e il Montenegro ad inchinarsi dinanzi alla decisioni dalle Potenze sulla questione dei confini albanesi. Quel pro-memoria, dopo un esame della situazione, accennava, sebbene in tono dubitativo, alla convenienza di affidare eventualmente ad una o più potenze il mandato di fare rispettare dalla Serbia e dal Montenegro le decisioni delle Grandi Potenze. Grey aveva risposto che egli pure aveva dati dei moniti, ma che non credeva si potesse procedere a un passo collettivo quando la Russia si mostrasse contraria. Ed aveva aggiunto non essere sicuro sino a che punto l'Italia accetterebbe il mandato proposto, o gradirebbe che fosse dato all'Austria.
San Giuliano, in relazione all'eventualità di un mandato all'Austria, aveva subito incaricato il nostro ambasciatore a Berlino, il Bollati, di dichiarare a Von Jagow che l'Italia si sarebbe opposta recisamente a tale mandato, anche a costo di votare con la Triplice Intesa contro gli alleati, perché nelle circostanze il mandato sarebbe risultato in pratica nella conquista da parte dell'Austria di territori balcanici; ed io avevo approvato tale dichiarazione.
Il giorno stesso il Merey aveva portata al San Giuliano la proposta di una dimostrazione navale contro il Montenegro, chiedendo che l'Italia si associasse all'Austria in questa dimostrazione. Il San Giuliano, nel darmi comunicazione di questo passo, pure dichiarando che una occupazione territoriale, anche provvisoria, da parte dell'Austria dovesse evitarsi ad ogni costo, osservava che per evidenti ragioni poteva essere necessario di partecipare alla dimostrazione navale. Io, pensando che una dimostrazione navale contro un paese di montagna sarebbe finita necessariamente con uno sbarco, risposi a San Giuliano nei termini seguenti:
" Sono assolutamente contrario a partecipare ad una dimostrazione navale. Questa, o finisce nel ridicolo se non é seguita da sbarco di truppe, o costituisce l'inizio di una guerra europea se si sviluppa in una vera azione militare. Questo nuovo atteggiamento dell'Austria significa che in essa ha preso il sopravvento l'elemento militare, e il suo invito tende a pregiudicare la nostra libertà di azione e a metterci mani e piedi legati al servizio di essa. Il mandare navi da guerra a Scutari costituisce qualche cosa di più che una semplice dimostrazione, perché per trasportare gli abitanti di Scutari bastano navi commerciali. Quindi sono d'avviso, che si debba rispondere negativamente".
Il San Giuliano, che si preoccupava molto di contrastare l'influenza austriaca nell'Albania, nella stessa giornata mi telegrafò ancora richiamando la mia attenzione sul danno che deriverebbe alla influenza nostra, se l'Austria, agendo da sola, si guadagnasse da sola la riconoscenza degli albanesi. Aggiungeva che la Germania non voleva la dimostrazione navale; ma che se questa dovesse avere luogo, desiderava che vi partecipasse pure l'Italia. Io gli risposi ancora con questo
telegramma:
"Nel giudicare la condotta da tenere nei rapporti con l'Austria, occorre tenere conto del fatto che il Merey fa quanto può per spingere alla guerra. La dimostrazione militare, se fatta seriamente costringerebbe la Russia ad attaccare l'Austria, e se noi avessimo partecipato alla dimostrazione saremmo fatalmente costretti a partecipare alla guerra. Questo é il fine dell'azione del Merey. Se l'Austria non é certa della nostra partecipazione, eviterà ad ogni costo la guerra. La Germania vuole la pace e quindi non vuole la dimostrazione navale; ma se questa ha luogo desidera che noi vi partecipiamo per avere la certezza che in ogni caso saremo costretti a partecipare alla guerra. L'umanitarismo dell'Austria é molto sospetto, tanto più che secondo il diritto delle genti, il Montenegro che é in guerra con la Turchia, ha diritto di attaccare le fortezze turche. Quanto alla, considerazione che se l'Austria agisce sola, l'Albania sarà riconoscente a lei sola, io non vi do importanza alcuna perché la gratitudine fra i popoli non esiste; o almeno tale considerazione é affatto secondaria di fronte alla quasi certezza che la nostra azione scatenerebbe la guerra europea, mentre l'Austria, se lasciata sola, forse se ne asterrà».
Questo scambio di telegrammi fra me e il San Giuliano continuò nei giorni seguenti; perché egli si rendeva perfettamente conto della gravità delle obiezioni mie, ma si allarmava pure all'idea che l'Austria, agendo da sola, creasse un pericoloso precedente a nostro danno nell'Albania. Lo svolgersi, assai rapido, degli avvenimenti avvalorò tuttavia sempre maggiormente la mia tesi. Anzitutto la Conferenza degli Ambasciatori a Londra aveva presa all'unanimità una deliberazione che doveva dare piena soddisfazione alle apprensioni che l'Austria ostentava, in quanto che essa aveva deciso, in base ad una proposta di Sir Edward Grey, che le Potenze, a mezzo dei loro rappresentanti a Cettigne ed a Belgrado facessero un passo collettivo per dichiarare che la delimitazione delle frontiere dell'Albania era riservata alle Grandi Potenze, e che sino a che tale delimitazione fosse fatta, nessuna azione della Serbia e del Montenegro in Albania avrebbe l'effetto di creare dei diritti acquisiti; aggiungendo più particolarmente riguardo a Scutari che il suo destino, anche se essa fosse caduta, sarebbe deciso dalla volontà delle Potenze e non già dal fatto della occupazione montenegrina.
Ora, io osservavo che, dopo tale unanime deliberazione delle Potenze, una qualsiasi azione militare da parte dell'Austria sarebbe stata un'aggressione ingiustificabile, che avrebbe provocato inevitabilmente l'intervento militare della Russia. Ed infatti un telegramma di qualche giorno dopo del nostro rappresentante a Pietroburgo, marchese Carlotti, ci avvertiva che il primo effetto di una dimostrazione navale austriaca contro il Montenegro sarebbe stato di provocare la caduta di Sazonoff, per il fallimento della sua politica di conciliazione, e l'assunzione al suo posto di persona la quale, per soddisfare l'opinione pubblica avrebbe dovuto assumere verso l'Austria l'atteggiamento più energico, moltiplicando i pericoli di guerra. Il ministro degli Esteri tedesco, Von Jagow, dichiarava poi alla sua volta al nostro ambasciatore, che egli aveva già dovuto intervenire più volte a Vienna perché si astenessero da ogni risoluzione precipitosa, e che egli aveva ciò fatto, oltre che nell'interesse della pace generale, anche per una speciale considerazione della situazione particolarmente delicata e difficile nella quale, in certe eventualità, si sarebbe potuta trovare l'Italia.
Ma ormai, egli soggiungeva, non era più possibile fare ulteriori pressioni sull'Austria; al punto in cui erano giunte le cose una ritirata da parte sua avrebbe nuociuto immensamente tanto al suo prestigio quanto alla situazione internazionale della Triplice Alleanza, che ne sarebbe stata irreparabilmente compromessa. Aggiungeva di opinare che un atteggiamento fermo e risoluto della Triplice in quel momento poteva procurarle un successo positivo, e riaffermare durevolmente la sua influenza in Europa imponendosi agli avversari. Con tali vedute egli aveva fatto sentire a Londra che, a suo avviso, un mandato dell'Europa alle Potenze più interessate, per fare eseguire le sue decisioni, gli sembrava opportuno. Egli aveva continuato dicendo di avere fatto domandare al nostro governo, a mezzo dell'ambasciatore a Roma, se l'Italia fosse disposta a partecipare all'azione che poteva rendersi necessaria nell'Adriatico, e pure non dissimulandosi le nostre difficoltà, egli era convinto che fosse nostro interesse partecipare a quell'azione, e che la partecipazione dell'Italia poteva facilitare una soluzione e diminuire i pericoli di più gravi complicazioni. Tale, egli aggiungeva, era pure l'avviso dell'Imperatore Guglielmo, il quale gli aveva espressa la speranza che, grazie al concorso dell'Italia, la situazione si sarebbe definita con un successo per la Triplice Alleanza. A tutto questo io risposi che solo nel caso che il mandato di una dimostrazione navale fosse affidato da tutte le Potenze a noi ed all'Austria, si sarebbe potuto accettare; ma che preferivo sempre che le Potenze, facessero un'azione comune, o almeno che vi partecipasse una delle Potenze della Intesa, che avrebbe potuto essere l'Inghilterra.
Il 23 marzo Sazonoff, in una conversazione col nostro ambasciatore, dichiarava essere principio acquisito che le Potenze procedessero solidariamente negli affari balcanici, e non essere quindi ammissibile che una di esse agisse isolatamente per gli incidenti montenegrini; ed aggiungeva che nel fare rispettare tale principio la Russia non si troverebbe sola. Aggiunse pure di aver fatto osservare all'Austria che un'azione isolata contro il Montenegro sarebbe dalla Russia considerata assai grave, e che Berchtold aveva risposto che vi sarebbe stato costretto se il Montenegro non dava all'Austria giusta soddisfazione. Alla domanda se egli considerasse la situazione allarmante, il Sazonoff aveva risposto che pendevano trattative fra la Russia e l'Austria, perché la prima si associasse all'assegnazione di Scutari all'Albania e la seconda all'assegnazione di Giacova alla Serbia; e fortunatamente lo stesso giorno la Conferenza degli Ambasciatori decise all'unanimità in tale senso, invitando in pari tempo il Montenegro a levare l'assedio di Scutari.
Il Montenegro però non voleva assolutamente piegarsi ad obbedire a tale invito, rifiutando perfino di ascoltare i consigli di moderazione che gli venivano anche da Belgrado. Io non credevo però che ciò dovesse in alcun modo mutare le nostre risoluzioni, e telegrafavo a San Giuliano «che la pazzia ed anche i delitti di uno staterello destinato a scomparire, erano cosa assai meno grave e non paragonabile col pericolo di provocare una guerra europea per l'ansia di ridurlo al più presto alla ragione».
Il San Giuliano, che ormai era pienamente d'accordo con me, lavorava intanto a Parigi ed a Londra perché invece che ad un mandato da conferirsi all'Austria ed all'Italia, fosse data la preferenza ad un'azione collettiva; come infatti fu poi deciso.
Ma il pericolo non era per questo ancora del tutto passato. Trascorsero, fra il 24 marzo e il 5 d'aprile, alcune giornate più tranquille, durante le quali intervennero fra le Potenze scambi di vedute e furono avanzate varie proposte sul modo con cui la dimostrazione collettiva avrebbe dovuto farsi; quando improvvisamente a Vienna si prospettò nuovamente la necessità di un'azione austro-italiana che andasse più a fondo, nel caso che la dimostrazione collettiva fallisse ai suoi fini di ricondurre il Montenegro alla ragione. Ecco la lettera, datata 5 aprile, con cui San Giuliano mi dette notizia di questo nuovo e pericoloso tentativo:« Merey, a nome di Berchtold, mi ha detto in via ufficiale che, in vista della possibilità che la dimostrazione navale internazionale non raggiunga il suo scopo, Berchtold crede venuto il momento che l'Austria e l'Italia si mettano d'accordo per un'azione comune, per far valere in pratica i principii sanciti dai vigenti accordi; e ciò solidalmente ed egualmente per l'intera Albania, e non già, come alcuni nella stampa sostengono, l'Italia per il sud e l'Austria per il nord.
« E ormai necessario dare all'Austria una risposta precisa.
«A me pare che noi potremmo rispondere che anzitutto bisogna esaurire tutti i mezzi per raggiungere lo stesso scopo, o con mezzi conciliativi (per esempio, compensi finanziari e forse territoriali al Montenegro, ecc.) o con l'azione internazionale.
«Aggiungerei che é solo dopo che sia ben dimostrato che si sono fatti inutilmente tutti questi tentativi che si potrebbe chiedere un mandato europeo per l'Italia e l'Austria; un tal mandato non dovrebbe essere limitato alla sola eventuale azione per Scutari, bensì verso qualsiasi Stato balcanico che si ribellasse alla volontà dell'Europa nella questione dei confini dell'Albania tanto a nord quanto a sud.
« Io ho detto a Merey che avrei scritto subito a te per dare una risposta. Nel darla dobbiamo tener conto della possibile necessità di un'azione comune italo-austriaca nella questione dello Stretto di Corfù. che c'interessa in modo speciale. Cordiali saluti.
Tuo aff.mo San Giuliano ».
A questa lettera io risposi immediatamente con la seguente:
«Ricevo la tua lettera di oggi, ore 18,40, mentre sto per partire.
«Salvo a specificare poi meglio quando occorrono risposte più precise, ritengo intanto:
«1° che non dovremo mai, per nessuna ragione, fare azione né soli nè con l'Austria senza un mandato da tutte le Potenze europee;
«2.° che dovremo cercare con tutti i mezzi di evitare questo mandato, procurando che si continui sempre l'azione europea, o per lo meno con l'intervento dell'Inghilterra;
« 3.° che né Scutari né lo Stretto di Corfù valgono una guerra europea, e che in questa non ci lasceremo coinvolgere se non vi é un nostro gravissimo interesse o si verifichi rigorosamente il casus foederis;
« 4.° che l'Austria cercherà di comprometterci per avere la sicurezza del nostro intervento, ma che dobbiamo evitare ciò in modo assoluto;
« 5.° che tutte le considerazioni partenti dal punto di vista di procurarci la riconoscenza dell'Albania non hanno valore alcuno. L'Albania come Stato è così di là da venire, che nessun calcolo si può fare su coloro che vi occupano qualche posto, trattandosi di gente, poco fida, e che agirà sempre secondo i suoi interessi caso per caso, e non per altri sentimenti.
«Insomma il nostro fine, a mio avviso, deve essere solamente questo: evitare che avvenga una guerra europea; e se questa avvenisse non averne la responsabilità e non esservi implicati. Tutto il resto per noi non ha valore alcuno, e non mi permetterei mai di cavare le castagne dal fuoco per gli altri.
«Coi più cordiali saluti. - Giolitti».
« P.S. - Quanto a qualche spesa ora, per gli albanesi, puoi prendere accordi con Tedesco, ma tenendo presente che sono danari buttati; non escludo che qualche volta occorra buttar via qualche cosa».
Merey tornò ad insistere il 7 aprile per avere una risposta precisa; ma il giorno 8 la Serbia si ritirava dalle operazioni contro Scutari, nelle quali aveva aiutato il Montenegro; ed il pericolo, prolungatosi dal 19 marzo in poi, che per la pace europea costituiva l'eventuale caduta di Scutari, fu per allora scongiurato.
L'Austria, la quale temeva anche l'eventuale assorbimento del Montenegro nella Serbia, vedendo fallire il suo progetto di aggressione pensò che le convenisse di aiutare la dinastia montenegrina allo scopo di tenere separati i due paesi slavi, e ci propose di partecipare ad aiuti finanziari al Montenegro.
San Giuliano, nel comunicarmi questa proposta, mi descriveva anche l'abbattimento del Merey perché la sia pure tardiva ubbidienza della Serbia alle ingiunzioni delle Potenze aveva fatto perdere all'Austria l'occasione di aggredirla e di metterla a posto definitivamente. Io, in data dell' 11 di aprile, gli risposi dando il mio assenso alla proposta austriaca con questo dispaccio:
«Credo che la caduta della dinastia del Montenegro sia inevitabile nell'avvenire; ma é bene non avvenga ora per evitare un ritardo nella conclusione della pace. L'Italia potrà concorrere agli aiuti finanziari nelle stesse proporzioni dell'Austria e non più, perché un maggiore nostro concorso sarebbe ingiustificabile davanti al Parlamento. Non posso partecipare al dolore di Merey. Cordiali saluti. - Giolitti » .* * *
Il partito militarista di Vienna, che questa volta aveva subito uno scacco, stava però fermo nelle sue mire; ed il proposito di aggressione alla Serbia con partecipazione nostra venne fuori una seconda volta, a pochi mesi di distanza, e cioé nella prima metà dell'agosto del 1913, mentre la Conferenza degli Ambasciatori a Londra era nuovamente adunata per importanti deliberazioni.
Due problemi di notevole importanza per noi si trovavano allora in discussione: quello delle isole del Dodecaneso e quello dei confini della Grecia con l'Albania, col quale ultimo si connetteva la questione del canale di Corfù. Ho già accennato che noi difendevamo per questo rispetto i diritti incontrastabili degli albanesi al possesso di Coritza e di tutto il territorio da quella parte sino a capo Stilos, quei diritti collimando anche con un nostro vitale interesse: di impedire cioé che la Grecia, entrando in possesso della costa albanese che stava dirimpetto all'isola di Corfù, si assicurasse nel canale di Corfù una forte base navale la quale avrebbe potuto essere usata contro di noi in caso di guerra nell'Adriatico.
L'Austria aveva in ciò i nostri medesimi interessi; mentre non solo le Potenze dell'Intesa, Inghilterra, Francia e Russia, sostenevano fermamente la Grecia, ma sentimenti favorevoli ad essa, per ragioni dinastiche, e per il segreto proposito di attrarla nella sua orbita, mostrava pure, come ho già accennato, la Germania.
La questione delle isole era più complicata ancora. Noi, per il Trattato di Losanna, eravamo impegnati a restituirle alla Turchia quando questa avesse adempiute a tutte le condizioni poste a suo carico da quel Trattato, ed alle quali essa era inadempiente sopra tutto nei riguardi della Cirenaica, forse anche per impedimenti sopravvenutile con la guerra balcanica. Ma, a parte questi impegni con la Turchia, noi ne avevamo con l'Austria-Ungheria, in base all'art. 7 della Triplice Alleanza, e ad altri accordi speciali che vietavano ad ognuno dei due contraenti di impossessarsi di territorio ottomano - sempre esclusa la Libia - senza compensi per l'altro; a cui dovevano aggiungersi gli altri impegni, rimasti casualmente solo verbali, che noi, occupando le isole durante la guerra di Libia, avevamo assunti con Berchtold.
D'altra parte l'Inghilterra, la quale temeva che le isole del'Egeo, restando in nostra mano, potessero servire di base alle flotte della Triplice Alleanza, in caso di guerra, nel Mediterraneo orientale, aveva fatto chiaramente intendere, che anche a costo di una guerra essa non avrebbe consentito che nessuna delle isole dell'Egeo rimanesse nel possesso di una Grande Potenza, ed in ciò era seguita dalla Francia.
La Triplice Intesa, e più particolarmente l'Inghilterra e la Francia, volevano, dopo il risultato della guerra balcanica, che le isole del Dodecaneso passassero alla Grecia, fondando questo loro proposito sul fatto che la grande maggioranza delle loro popolazioni era greca.
Appena la Conferenza di Londra, il 2 agosto, iniziò l'esame di queste questioni, noi fummo informati che Sir Edward Grey aveva espressa l'intenzione di abbinare la questione del confine meridionale albanese con la questione delle isole - intendendo con ciò le altre isole dell'Egeo oltre a quelle da noi occupate. - Il pensiero di Sir Edward Grey era che Coritza e il capo Stilos fossero aggiudicati all'Albania, incaricando una Commissione internazionale di decidere del territorio intermedio sulla base del suo carattere etnico; e che tutte le isole fossero da dare alla Grecia tranne Imbros e Tenedos, che per la loro, posizione dovevano restare alla Turchia, e Tasso e Samotracia delle quali si doveva decidere più tardi nel regolamento territoriale generale.
Per quanto concerneva le isole da noi occupate, si proponeva che l'Italia le restituisse, senza tener conto se fossero o no state adempiute le condizioni del trattato dî Losanna; nello stesso momento in cui Coritza e Stilos sarebbero state consegnate agli albanesi; e Sir Edward Grey lasciava intendere all'ambasciatore di Germania, Lichnowsky, in una conversazione avuta con lui, che soltanto a queste condizioni l'Inghilterra e la Francia avrebbero dato il loro consenso alla delimitazione del confine albanese desiderata dall'Austria e dall'Italia.
Ora, siccome questa proposta di abbinamento portava che le isole da noi occupate sarebbero andate alla Grecia, in contrasto con l'impegno da noi assunto col Trattato di Losanna di restituirle alla Turchia, io non potevo accettarla; perché, fra l'altro, una nostra infrazione del Trattato di Losanna avrebbe giustificato la Turchia a mancare agli obblighi per parte sua. Io potevo dare assicurazioni, e le avevo date, che noi non intendevamo di annettere alcuna di quelle isole, che anche come base navate non avrebbero avuto valore senza un grave dispendio; ma esse erano in nostra mano come un pegno, e come tale dovevano rimanere sino a che gli obblighi che il Trattato di pace imponeva alla Turchia fossero pienamente assolti.
Il San Giuliano, che in un suo memoriale con cui m'esponeva l'intera questione si preoccupava che un eccessivo prolungamento della nostra occupazione potesse dare luogo ad una situazione che rischiasse di risolversi, data la speciale mentalità degli inglesi, anche senza alcuna intenzione da parte loro di danneggiarci od offendere, in uno scacco diplomatico per noi o in gravi complicazioni, ricordando in proposito anche speciali dichiarazioni fatte da Sir Edward Grey al nostro ambasciatore marchese Imperiali; avanzava pure la congettura che con la cessione delle isole alla Grecia si potesse aiutare il lavoro che la Germania stava compiendo per attrarla nella Triplice Alleanza. Ma per me il nostro impegno del Trattato di Losanna aveva la prevalenza su qualunque altra considerazione, ed al San Giuliano risposi in questi termini :
«Credo che a noi convenga insistere sulla pregiudiziale del Trattato di Losanna che ci obbliga a restituire le isole alla Turchia, e perciò ci vieta di partecipare ad accordi destinati a consegnarle ad altre Potenze. La nuova guerra tra gli alleati balcanici e la necessità di trovare compensi alla Turchia per indurla ad abbandonare Adrianopoli rendono utile anche per la pace europea questa nostra insistenza».
E che noi avessimo ragione nel sostenere questo punto, fu subito dopo dimostrato da un telegramma che la Turchia diramò ai suoi ambasciatori, col quale dichiarava che l'Italia, non essendo che depositaria delle isole del Dodecaneso, non poteva prendere alcun impegno a loro riguardo senza il suo previo consenso, e che agendo altrimenti essa si sarebbe esposta per parte della Turchia alla denuncia del Trattato di Losanna ed alla rivendicazione dei diritti turchi sulla Cirenaica.
La questione dette luogo, nella Conferenza degli Ambasciatori, ad una discussione che si prolungò parecchi giorni, in ragione delle sue stesse difficoltà, perché fra l'altro il Ministro degli Esteri francese, il Pichon, avendo creduto in buona fede, in un primo momento, che noi avessimo accettato l'abbinamento, aveva dati al governo greco degli affidamenti riguardo il Dodecaneso, dai quali gli era malagevole recedere. La discussione procedette però sempre nel modo più amichevole verso di noi, le buone ragioni della nostra tesi essendo state cordialmente riconosciute.
Si finì per accettare una nostra dichiarazione, la quale diceva: - "Il Governo italiano considera che la questione del Dodecaneso, la quale deve la sua origine alla guerra italoturca, é giuridicamente regolata dalle disposizioni del Trattato di Losanna. Ciò stante il Governo italiano ripete che renderà quelle isole alla Turchia appena il Governo ottomano avrà da parte sua eseguiti integralmente gli obblighi che gli incombono in forza dell'art. 2 del detto Trattato".
Nel testo dell'accordo seguiva poi una dichiarazione proposta dal Cambon, secondo la quale, quando il Trattato di Losanna fosse stato integralmente eseguito dai due contraenti, le cinque Potenze, al momento del regolamento finale di tutte le questioni pendenti, avrebbero deciso della sorte finale delle isole del Dodecaneso; nella quale formula l'Italia veniva lasciata in disparte come se per la questione delle isole in forza della sua occupazione il suo giudizio fosse compromesso.
Ma una tale esclusione non avrebbe avuto più ragione di essere dopo che le isole fossero state da noi restituite, e sarebbe riuscita ad una diminuzione della nostra dignità ed a nostra richiesta, e dopo cordiali spiegazioni intervenute fra il nostro ambasciatore a Parigi, Tittoni, e il Pichon, fu accettata una nostra modificazione che attribuiva a tutte le sei Potenze il compito della finale decisione, e senza alcuna compromissione preventiva.
Ora, fu appunto durante questa sessione della Conferenza degli Ambasciatori, la quale dava pure larga soddisfazione alle esigenze austriache enostre riguardo all'Albania, che si manifestò di nuovo, ad anche, in forma più precisa, il proposito austriaco di aggressione, questa volta contro la Serbia; che appare indubbiamente connesso coi risultati della seconda guerra balcanica, scoppiata il 30 giugno, fra la Bulgaria da una parte, a la Serbia, Romania a Grecia dall'altra, a che finì rapidamente con la totale disfatta dalla Bulgaria.
Io non so e non ho modo di sapere se qualcosa di vero ci fosse nelle voci cha allora corsero, che l'aggressione della Bulgaria contro l'esercito serbo, che dette occasione a quella guerra, fosse stata segretamente istigata da Vienna; ma indubbiamente i suoi risultati, col rafforzamento della Serbia, e l'assegnazione definitiva di Salonicco alla Grecia, costituivano un nuovo scacco al partito militarista austriaco, e nuovi ostacoli alla sue mire ed ambizioni.
Il 9 agosto, essendo io assente da Roma, ricevetti dal San Giuliano il seguente telegramma:
"L'Austria ha comunicato a noi ed alla Germania la sua intenzione di agire contro, la Serbia, e definisce tale azione come difensiva, sperando di applicare il casus foederis della Triplice Alleanza che io credo inapplicabile.
«Io cerco di concertare con la Germania sforzi per impedire tale azione austriaca; ma potrà essere necessario il dichiarare apertamente che noi non consideriamo tale azione come difensiva e perciò non crediamo che esista il casus foaderis. - Pregoti di telegrafarmi a Roma se approvi. - San Giuliano ».
A questo telegramma io risposi:
« Se l'Austria attacca la Serbia é evidente che non si verifica il casus foedaris. È una, azione, che essa compie per conto proprio, perché non si tratta di difesa, poiché nessuno pensa ad attaccarla. È necessario che ciò sia dichiarato all'Austria nel modo più formale, ed é da augurarsi una azione della Germania per dissuadere l'Austria dalla pericolosissima avventura ».
La cosa non ebbe più seguito. Per due volte dunque il partito militarista di Vienna, che aveva preso sempre maggiore prevalenza sul Governo, aveva complottata l'aggressione alla Serbia, procurando di involvervi la prima volta l'Italia, e la seconda anche la Germania, andando a cuor leggero contro il pericolo della guerra europea. Per due volta il tentativo fallì; ma la terza, col pretesto dell'assassinio dell'Arciduca Ereditario Ferdinando, non incontrando più la resistenza, o essendosi assicurata la approvazione dalla Germania, riuscì malauguratamente al suo scopo, provocando, come io avevo previsto, una delle più immani catastrofi che ricordi la storia.
La narrazione cha ho qui fatta di tali eventi, in gran parta sconosciuti, darà ad ogni modo ragione dalla politica che io seguii o consigliai quando la guerra europea fu scoppiata, e dei motivi a principi di cui quella mia politica era informata.* * *
Prima di chiudere con questo capitolo il ricordo di quei mesi, che oggi apparirebbero fortunosi, se l'impressione di quegli avvenimenti non fosse stata soverchiata da quelli assai più vasti e gravi che seguirono poi, devo fare menzione di alcune altre cose secondarie.
Una volta assicurata, entro confini ragionevoli, l'esistenza dell'Albania come Stato indipendente, bisognò pensare a trovare un capo per il nuovo Stato. Non era il caso di cercarlo fra le antiche e più insigni famiglie albanesi, che si trovavano in una continua e brutale lotta di rivalità ed erano estraniate l'una dall'altra da odi e competizioni ereditarie; e fra noi e l'Austria, come le due Potenze più interessate, si convenne di tentare la prova di mettere sul trono albanese un qualche personaggio di illustre famiglia forestiera. Fra gli aspiranti c'era Fuad pascià della famiglia Kediviale egiziana, che io conobbi e che mi parve avesse non poche delle qualità adatte al governo di un tale paese; ma la sua candidatura fu scartata dall'Austria, perchè Fuad era musulmano. Un secondo candidato fu il principe Napoleone, secondogenito di Girolamo e della principessa Clotilde di Savoia, e che sposò poi Clementina del Belgio; e che io sostenni pure, ma che fu scartato dall'Austria forse per sospetto della sua parentela con Casa Savoia.
Si finì per accordarsi sul principe di Vied, uno junker prussiano, il quale, venuto a Roma nel suo viaggio per l'Albania, non, fece né a me nè a San Giuliano l'impressione che fosse persona adatta per il difficile compito che gli era affidato. Insediato infatti come Principe d'Albania nei primi di marzo del 1914, pochi mesi dopo doveva abbandonare il paese, in cui non era riuscito a farsi amici e a trovare appoggi.
Un altro evento che devo ricordare, é la concessione, di carattere economico e commerciale, che, a mezzo del Nogara prima e poi del Garroni nostro ambasciatore, noi ottenemmo dal Governo turco nell'Asia Minore, nella regione di Adalia. Codesta concessione aveva per noi un valore più eventuale che immediato, ed una ragione più politica che economica; perché nell'eventualità di una dissoluzione dell'Impero ottomano, già così gravemente colpito, era utile stabilire dei nostri diritti, che ci permettessero poi di mantenere l'equilibrio nel Mediterraneo orientale. Quando la concessione fu conosciuta, provocò obiezioni da parte dell'Austria col pretesto di sue domande anteriori per la stessa concessione. San Giuliano, per il quale il problema delle nostre relazioni con l'Austria era ragione di continue e giustificate preoccupazioni, propose di trarre profitto da tali obiezioni nel senso di andare incontro ai desideri dell'Austria e di venire con essa ad accordi per una spartizione della concessione stessa, col concetto che se l'Austria avesse nuovi interessi fuori dell'Adriatico che richiamassero la sua attenzione e la sua attività, la sua pericolosa rivalità con noi in quel mare ne sarebbe attenuata. Quindi, dopo accertato a Berlino quali fossero i limiti della sfera di influenza che la Germania intendeva riservata a sè stessa nell'Asia Minore, noi iniziammo a Vienna, per la delimitazione delle due sfere d'influenza austriaca ed italiana, conversazioni che non ebbero poi seguito per i sopravvenuti avvenimenti.
A chiudere questi ricordi di eventi diplomatici che precedettero la guerra, credo interessante riportare alcune informazioni ed impressioni raccolte da San Giuliano nel viaggio a Berlino da lui fatto nei primi di novembre del 1912, e trasmessemi per dispaccio. Il 6 novembre egli era stato ricevuto con molta affabilità dall'Imperatore Guglielmo, che aveva conversato a lungo con lui sulla situazione europea, esprimendo giudizi che non collimavano sempre con l'azione svolta dal suo governo. Così egli dichiarava di credere utile la completa liquidazione della Turchia europea, con piena soddisfazione degli Stati balcanici, di cui preconizzava una Confederazione che sarebbe stata un nuovo elemento di equilibrio e di pace. Voleva la soluzione definitiva della questione orientale e l'entrata dei bulgari in Costantinopoli. Si mostrò preoccupato delle insistenze della Serbia, appoggiata dalla Russia, per un porto nell'Adriatico, a cui l'Austria non avrebbe consentito mai. Sperava che tale difficoltà sarebbe eliminata col dare alla Serbia un porto nell'Egeo, e che in tal modo il pericolo di complicazioni europee sarebbe stato allontanato.
Ed aveva infine espresso il desiderio della rinnovazione della Triplice Alleanza, che infatti ebbe luogo in quei giorni. Ed anche fra gli uomini principali del governo, quali Kiderlen Wachter e Bettmann Holwegg, il San Giuliano trovò allora prevalenti i sentimenti di fiducia nel mantenimento della pace europea, e di conciliazione degli interessi divergenti e contrastanti delle Grandi Potenze.
FINE DEL QUINDICESIMO CAPITOLO