CAPITOLO 10


IL SUFFRAGIO UNIVERSALE
IL MONOPOLIO ASSICURAZIONI
IL PROPORZIONALE - IL VOTO ALLE DONNE

(da pag. 279 a pag. 325)

Il Ministero Luzzatti: perchè cadde - La necessità di un più ampio suffragio - II mio programma e il nuovo invito ai socialisti - Manovre contro il monopolio e il suffragio universale - L'opposizione diplomatica al monopolio - La guerra di Libia - Perchè avevo anteposto il progresso economico a quello politico delle classi popolari - La partecipazione delle classi popolari alla vita politica, ed il rafforzamento politico e l'incremento economico dello Stato - Voto si o no alle donne - Come fu congegnato il mio progetto di riforma - La lotta mascherata contro di esso - I risultati del primo esperimento.


Per la formazione del nuovo Ministero le indicazioni parlamentari furono largamente favorevoli all'on. Luzzatti, il quale già da lunghi anni si era guadagnata meritatamente un'alta fama per la sua grande e geniale cultura, e per la sua eccezionale competenza in materia economica e finanziaria; competenza sperimentata ripetutamente nei vari dicasteri tecnici ed alle Finanze e al Tesoro particolarmente. Quantunque egli traesse le sue origini dall'antica Destra, il suo ingegno agile e pieghevole aveva seguito il movimento dei tempi; ed egli poté benissimo presiedere un Ministero di spiccato carattere di Sinistra, al quale parteciparono San Giuliano agli Esteri; Fani alla Giustizia; Facta alle Finanze; Tedesco al Tesoro; Spingardi alla Guerra, e due radicali, Sacchi e Credaro, ai Lavori Pubblici ed alla Istruzione.
Il suo Ministero ebbe la durata di circa un anno, dal marzo del 1910 al marzo del 1911. Per prima cosa risolse la questione dei servizi marittimi, che si era trascinata ormai troppo a lungo per le opposizioni incontrate dal progetto mio e da quello dell'onorevole Sonnino; opposizioni che furono, piuttosto che vinte, girate ed evitate mediante un progetto assai più modesto e la costituzione di una piccola Società che non dava troppa ombra ai concorrenti della marina libera.

Le incertezze della condotta dell'onorevole Luzzatti si manifestarono invece nel campo politico, e propriamente a proposito del progetto dell'allargamento del suffragio, che era contenuto nel suo programma. Si trattava di una riforma mantenuta in modesti limiti, che tuttavia allarmò certi elementi conservatori, i quali, pure non combattendola direttamente, chiedevano che l'allargamento del suffragio fosse accompagnato dal principio della obbligatorietà del voto. Codesta richiesta dei conservatori, per l'introduzione nella legislazione elettorale del nostro paese di una norma che non è stata sperimentata ed adottata che in qualche piccolo Stato, era un curioso segno delle condizioni politiche delle classi che pretendevano di mantenere la posizione di classi dirigenti, e per le quali i loro stessi capi eran costretti, appunto con quella richiesta del voto obbligatorio, a riconoscere la necessità che il loro diritto di voto fosse trasmutato in un dovere, per assicurarne l'esercizio.

La richiesta era una vera confessione di debolezza; e non fu quindi meraviglia che i socialisti, i radicali e gli altri avversari del conservatorismo, si opponessero risolutamente all'introduzione del voto obbligatorio nella riforma elettorale annunciata nel programma del governo. Questo contrasto generò una certa agitazione parlamentare, tanto più che il capo del governo, nei contatti che aveva coi rappresentanti delle sue tendenze, non si risolveva a dichiarare apertamente le proprie intenzioni, tanto che sia i fautori che gli avversari del voto obbligatorio, credevano egualmente di potere contare che il governo avrebbe accettato il loro punto di vista. Era stata nominata una commissione parlamentare per studiare il progetto di legge; ed essa pure, riflettendo codeste incertezze, conduceva le cose per le lunghe.

Si venne ad una discussione, allo scopo di stabilire la procedura per l'approvazione della legge; ed io, prendendo in quella discussione la parola, sostenni la tesi che, poiché si entrava nella questione della riforma elettorale, tante volte agitata, fosse conveniente, data la grande importanza della cosa, di prendere in considerazione una riforma più ampia e radicale. Osservai che, dopo vent'anni dall'ultima riforma elettorale, una grande rivoluzione sociale si era compiuta pacificamente in Italia, che aveva condotto ad un notevole progresso delle condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi popolari; progresso al quale corrispondeva indubbiamente il diritto ad una più diretta partecipazione alla vita politica del paese.

Non era, a mio avviso, il caso di decidere se si dovesse o no dare facoltà agli ispettori scolastici di creare qualche nuovo elettore; il problema, quale era ormai posto davanti alla Camera ed al paese, doveva essere risolto con criteri molto più larghi. L'esame sulla capacità di maneggiare le ventiquattro lettere dell'alfabeto quanto fosse necessario per scrivere il nome di un candidato sulla scheda, non poteva ormai più essere il criterio per stabilire se un uomo avesse le attitudini per giudicare delle grandi questioni che interessano le masse popolari; bisognava vedere di trovare altri criteri molto più larghi.

Passando poi dal merito della questione alla procedura, osservai che in fatto di leggi elettorali non si poteva procedere per acconti. Quando si affronta il più grave dei problemi che il Parlamento possa affrontare, si ha il dovere di risolverlo a fondo. Una ,soluzione incerta e parziale del problema elettorale non avrebbe soddisfatti i partiti popolari, lasciando il campo aperto a nuove e continue agitazioni. Osservai inoltre che la questione non era tutta contenuta nel semplice allargamento del suffragio e che si dovevano pure considerare numerosi problemi collaterali. E siccome la discussione era stata provocata da una mossa fatta da alcuni deputati contro la Commissione incaricata di studiare e riferire sulla riforma, e che veniva accusata di dilazioni e tergiversazioni, io conclusi richiamando l'attenzione al fatto che un voto che avesse provocato le dimissioni della Commissione sarebbe stato causa di nuovi ritardi, e dichiarai che avrei votato qualunque ordine del giorno, il quale, senza suonare sfiducia verso la Commissione, incitasse ad uno studio più largo e più rapido ad un tempo, per presentare al Parlamento proposte concrete per la soluzione del problema.

Il mio discorso, che ottenne pressochè generali approvazioni anche da parte dei banchi socialisti, non aveva alcuna intenzione di opposizione; esso mirava semplicemente ad avviare praticamente questa discussione sulla riforma della legge elettorale, che fino allora era rimasta sospesa e che non pochi speravano di soffocare tacitamente. Anche il voto a cui si venne non toccava il merito della questione, e tanto meno colpiva il Ministero, così che io lasciando l'aula non pensavo affatto che si potesse venire ad una crisi. Il Ministero invece la sera stessa decideva di presentare le dimissioni; non tanto per effetto diretto del voto parlamentare, quanto per la sua ripercussione in quei gruppi i quali si erano illusi che il Ministero favorisse segretamente i loro disegni nel contenere la riforma elettorale entro limiti ristretti e nell'attenuarla con l'adozione del voto obbligatorio, inteso nel loro pensiero a controbilanciare il modesto allargamento del suffragio con l'obbligare gli elettori borghesi pigri ad uscire dal loro astensionismo con la minaccia di multe e pene più noiose che il semplice sforzo di recarsi alle urne il giorno delle elezioni.

L'on. Luzzatti, reggendo per un anno la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli Interni, dette nuova prova delle sue capacità e competenze tecniche già ben conosciute; e se dal lato politico la sua condotta non riuscì ugualmente e interamente soddisfacente, ciò fu dovuto soprattutto alla sua cordialità naturale, per la quale non opponeva sempre la necessaria resistenza alle domande e pressioni da cui il governo é sempre inevitabilmente circondato. Se l'on. Sonnino, come capo del governo, peccava piuttosto nel non tenere sufficiente conto degli uomini e delle loro passioni ed interessi, che non vanno trascurati mai, non per ubbidire ad essi ma per sorvegliarli e dominarli volgendoli ai propri fini : l'onorevole Luzzatti peccò forse dal lato opposto, preoccupandosi troppo degli uomini, delle loro ostilità e dei loro possibili intrighi.

Certo il ragionevole ed opportuno maneggio degli uomini, che é naturalmente un problema perpetuo in qualunque regime, presenta le maggiori complicazioni e difficoltà nei regimi parlamentari e democratici, per la loro stessa indole; ed ha spesso costituito lo scoglio contro cui si sono andate a infrangere capacità politiche e parlamentari per ogni altro rispetto assai promettenti. La mia esperienza però mi ha persuaso che anche in queste situazioni pubbliche, ciò che serve meglio ed involve in minori compromissioni e difficoltà, é sempre, come nella vita privata, la piena franchezza. Un pericolo da evitarsi particolarmente, é quello delle troppe promesse, quando non si abbia la sicurezza di mantenerle. Per conto mio me ne sono sempre astenuto, limitandomi per qualunque richiesta che ricevessi, di impegnarmi semplicemente ad esaminarla; e siccome quelli che hanno ricevuto o si immaginano di avere ricevuto promesse da un governo, tentano specialmente di farne la riscossione presso i successori; così io, ogni volta che ho lasciato il governo, mi sono sempre dato cura di avvertire il mio successore che, se qualcuno si presentava esigendo l'adempimento di una promessa da me fatta, egli era autorizzato di smentirla senz'altro a mio nome. Certo molti ritengono che in regime democratico sia difficile non fare promesse; ma costoro dovrebbero tenere presente che anche più difficile é mantenerle. Quelli poi che pensano che fare una promessa non significa mantenerla, mentre con questo si credono i più furbi, in realtà sono i più ingenui; perché alla conclusione, colui che semina promesse in tale modo e con tale intenzione, non si accorge che con quel sistema fa un assai magro affare, e cioé di guadagnare gli amici al minuto per poi perderli all'ingrosso.

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Un avvenimento notevole del Ministero Luzzatti fu la celebrazione del cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale d'Italia; avvenimento che fu celebrato con molta solennità, specialmente con le due grandi esposizioni di Roma e di Torino. Il merito dell'ordinamento di queste cerimonie e delle due esposizioni fu interamente del suo Ministero; e l'onorevole Luzzatti poté presiedere ancora come Presidente del Consiglio, all'inaugurazione di quella di Roma alla quale io assistetti come semplice deputato, avendo avuto solo il giorno precedente l'incarico di costituire il nuovo Ministero. Inaugurai poi io quella di Torino.
Non é fuori di luogo, in connessione a questa cerimonia, ricordare ciò che dai Ministeri da me presieduti era già stato fatto a favore della capitale. Già nel 1890, essendo Ministro del Tesoro, io avevo insieme con Crispi proposta la legge che pose a carico dello Stato l'onere che sarebbe spettato al Comune per gli ospedali e per l'assistenza dei malati poveri. Anche di quel tempo fu una legge, da me proposta, per l'erezione in Roma del monumento a Mazzini di cui é stata posta la prima pietra in questi giorni. Nel 1904 feci approvare la legge che approvava l'acquisto di Villa Borghese, e la donava alla città di Roma con l'obbligo di riunirla al Pincio; e fra il 1907 e il 1908 feci approvare la legge per le aree fabbricabili, intesa a mettere fine ad una esosa speculazione che ostacolava l'incremento edilizio della città, reso necessario dall'aumento continuo della popolazione; quella per la costruzione di un grande viale da Roma ad Ostia, per soddisfare un antico voto di congiungere Roma al mare nel suo punto più vicino; quella per la passeggiata archeologica e per le Terme di Diocleziano, che dovevano rimettere alla luce tanti antichi monumenti e memorie dell'antica Roma, ed aumentare l'interesse della città come centro archeologico, ed infine quella che riuniva a Villa Borghese la Vigna Cartoni. E tutte queste leggi le quali contenevano anche grandi provvedimenti finanziari per assestare le finanze della capitale, concorsero indubbiamente all'incremento che la città ha avuto nell'ultimo ventennio, ed all'elevamento della sua dignità come capitale d'Italia. In attestato di riconoscenza per questa mia opera in favore di Roma, il Sindaco Nathan, a nome del Consiglio Comunale, mi portò una copia in argento, in piccole proporzioni, della lupa romana.

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Assumendo nuovamente la responsabilità del governo e la Presidenza del Consiglio, io mantenni la maggior parte dei Ministri che avevano fatto parte del Ministero Luzzatti e i quali, oltre essere miei amici personali, rappresentavano con larghezza e competenza la maggioranza liberale della Camera.
Il mio programma conteneva tre punti fondamentali. Il primo punto era una riforma elettorale che si avvicinasse, per quanto era possibile nelle particolari condizioni della vita italiana di allora e specialmente delle classi popolari, al principio del suffragio universale, con alcune limitazioni e cautele che mi parevano opportune. Il secondo punto era la istituzione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, i cui utili fossero devoluti alle casse di previdenza per le pensioni operaie. Questi furono però i soli due punti enunciati nel programma e discussi per la formazione del Ministero; il terzo, cioè la soluzione della questione della Libia, già da tempo presente alla mia mente, con la ferma intenzione di cogliere la prima occasione per condurla in porto, fu tenuto segretissimo, essendo di natura tale che nessuna enunciazione pubblica, anzi nemmeno il minimo accenno doveva esserne fatto.

Della riforma del sistema elettorale e del proposito di istituire il monopolio delle assicurazioni sulla vita, io dunque trattai ampiamente con gli uomini a cui mi rivolsi per la formazione del Ministero; la maggior parte, come ho detto, già appartenenti al Ministero precedente, e che trovai tutti cordialmente consenzienti. A me pareva però che, considerata l'indole del nuovo Ministero, che comprendeva uomini della più larga e avanzata opinione liberale, fra i quali due rappresentanti di quel partito radicale che sino a poco prima si era mantenuto nei ranghi di opposizione dell'Estrema Sinistra; e tenuto conto del programma, politicamente ed economicamente favorevole alle classi popolari che io mi proponevo di condurre in porto, si presentasse nettamente l'occasione per la partecipazione al governo di uomini di quel partito che si riteneva il più diretto rappresentante delle classi popolari, e cioè del partito socialista.
Mi rivolsi quindi a Leonida Bissolati, col quale ebbi una lunga conversazione in casa di Camillo Peano, che era già stato e fu poi ancora mio capo-gabinetto. Il Bissolati, parlando non solo personalmente, ma anche a nome dei suoi colleghi, dichiarò la sua piena approvazione del mio programma; ma mi ripeté ancora quello che mi aveva già dichiarato alcuni anni fa, quando io avevo richiesta la collaborazione dei socialisti per l'inaugurazione della politica di piena libertà contro le tendenze reazionarie; e cioé che egli non credeva che il partito socialista fosse già maturo per partecipare al governo. Pareva infatti che nel partito socialista potessero maturare per il governo e le sue responsabilità gli individui; ma non il partito stesso.

Il Bissolati però mi soggiunse che egli opinava di potere meglio aiutare il governo alla realizzazione del suo programma, rimanendo al di fuori; ciò che gli avrebbe reso in buona parte possibile di ottenere per il governo l'appoggio positivo, o almeno negativo, dell'intero suo gruppo parlamentare; mentre la sua accettazione di un portafoglio avrebbe provocato, nell'ambito stesso del partito, polemiche conducenti a dissensi ed a scissioni. Io chiesi allora al Bissolati se, qualora egli fosse chiamato dal Sovrano per esporgli il suo parere sulla situazione politica e sul programma del governo, egli avrebbe accettato l'invito. Il Bissolati rispose affermativamente, ed il giorno, dopo fu infatti ricevuto in udienza dal Re. Era la prima volta che un deputato socialista varcava la soglia del Quirinale per essere interrogato dal Sovrano sulla situazione politica; ed il fatto naturalmente suscitò grandi commenti, apparendo d'accordo nel deplorarlo gli estremisti da una parte e dall'altra; cioé i conservatori reazionari ed i socialisti rivoluzionari.

Il Bissolati mantenne poi con grande lealtà e fervore l'impegno assunto di appoggiare il governo nella dura lotta che dové sostenere per convertire in leggi quei punti capitali del suo programma; e quando venne l'impresa di Libia, e la grande maggioranza dei socialisti si voltò contro, si staccò dal partito facendosi un fervente apostolo di quella impresa, le cui ragioni politiche egli aveva perfettamente comprese. Il Bissolati si trovò contro di me nell'apprezzamento della situazione in cui per la conflagrazione europea si venne poi a trovare l'Italia, e nel giudizio dei doveri e delle convenienze nazionali in quella grandissima crisi della politica mondiale; ma anche allora, nonostante la violenza dei dissensi e dei conflitti scoppiati, egli si condusse sempre al mio riguardo con cordiale correttezza di gentiluomo.

La mia impressione del Bissolati é stata ed é sempre rimasta di un uomo di ingegno molto acuto e logico, e di carattere semplice e diritto; il suo difetto come uomo politico e giudice delle situazioni politiche era forse in certi momenti un soverchio entusiasmo idealistico, che per sé stesso é cosa buona, ma che deve essere frenato e corretto da una più calma visione delle cose. Egli era dotato anche di molto equilibrio intellettuale, come mostrò negli anni più maturi sapendo fare la giusta parte agli interessi ed alle ragioni nazionali, pure non venendo meno alle sue convinzioni socialiste. E siccome era anche uomo energico e di coraggio, probabilmente, se non fosse mancato immaturamente, avrebbe avuta una parte importante nella politica del dopo guerra.

Mancata anche questa volta la collaborazione diretta del partito socialista e di qualche suo uomo di governo, io invitai ad assumere il Ministero d'Agricoltura, al quale competeva tecnicamente di elaborare e difendere alla Camera il progetto del monopolio delle assicurazioni su la vita, l'onorevole Nitti, che apparteneva allora al partito radicale, e che per i suoi studi e la sua vivacità polemica mi pareva particolarmente indicato. L'onorevole Nitti si mostrò da prima incerto e titubante, e ricordo che egli mi accennò alla difficoltà in cui si trovava per sostenere quella legge, avendo egli nei suoi scritti e nelle sue lezioni criticata sempre la pratica dei monopoli. Ma avendogli io dichiarato che quello era un punto del programma mio che non poteva essere toccato, egli finì per accettare, considerando il monopolio delle assicurazioni della vita come un caso particolare, e che poteva essere sostenuto anche da chi ai monopoli non fosse favorevole in generale.

Tale programma del governo fu esposto subito al Parlamento, con la maggiore chiarezza e precisione, e fu favorevolmente accolto dalla grande maggioranza. Ma le opposizioni, sia da parte degli interessati nelle assicurazioni della vita, sia per parte dei conservatori, avversi generalmente, quantunque non osassero dichiararlo apertamente, alla riforma elettorale, erano violente e tenaci, e si manifestarono ben presto, quantunque più nella stampa che nel Parlamento. E in poche settimane si era riprodotta la stessa situazione in cui io mi ero trovato nel 1901 e nel 1902, quando, per avere iniziato e proseguito con fermezza il sistema della più ampia libertà nella lotta fra capitale e lavoro, ero stato dipinto come nemico del capitale, come demolitore del diritto di proprietà, e come ministro che preparava la rovina delle istituzioni.

Anche nel 1901 il Ministero, nella sua politica di libertà, aveva avuto l'appoggio dei socialisti, e il rinnovarsi di questo appoggio per il programma da me presentato mi veniva rimproverato da alcuni come un nuovo tradimento verso il partito liberale. Evidentemente coloro che pronunziavano questa accusa, più che dei veri e propri liberali erano dei conservatori più o meno mascherati di liberalismo, o dei puri dottrinari i quali, volendo cristallizzare il partito liberale in poche formule immutabili, e tenere chiuse le sue porte ad ogni nuova corrente di idee, e ad ogni concorso degli uomini che le rappresentavano, non riflettevano che i partiti chiusi sono destinati fatalmente a decadere e scomparire; e non ricordavano che una delle maggiori forze della nostra dinastia, che pure rappresenta la tradizione, era stata di avere sempre accettato il concorso di tutti gli uomini disposti a lavorare lealmente per il bene della nazione, da qualunque partito essi provenissero e qualunque fosse il loro passato politico. Ed era poi particolarmente strano, che in questa occasione, come nelle precedenti in cui il governo si era avvicinato agli uomini dei partiti popolari ed estremi, per ottenerne la collaborazione e farli così rientrare nell'orbita della istituzione, quelli che manifestavano il più sacro orrore per tali metodi di governo fossero appunto coloro che si pretendevano e si professavano seguaci del Conte di Cavour; dimenticando che egli fece il connubio del suo partito con la parte più avanzata della Camera; che prese accordi politici con gli uomini dei partiti più estremi, mandandoli a governare il paese nei momenti più difficili.

Supporre che il Conte di Cavour sarebbe rimasto fermo alla situazione politica di cinquant'anni fa, e non avrebbe più fatto un passo avanti, sarebbe fare ingiuria al più grande e più ardito dei nostri uomini di Stato. Ad ogni modo, contro questi attacchi e queste critiche io mi limitai ad osservare che a chi vuole andare avanti vi é una sola compagnia che non é possibile, ed é quella di chi vuole andare indietro, o di chi vuole stare fermo, che in pratica é poi la stessa cosa. E poiché notavo che contro il mio programma e la mia azione politica e parlamentare si ripetevano allora le stesse accuse di dieci anni prima, io consigliai ai miei avversari, per loro risparmio di fatica intellettuale, di rileggere i discorsi dell'opposizione di allora, e valersene nelle future discussioni.

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Siccome la riforma elettorale importava una vasta preparazione di studi da parte del governo, non solo per dimostrarne, con raffronti statistici con l'uso degli altri paesi, la convenienza politica, ma anche per congegnarla, nel suo funzionamento pratico, in modo da evitare sorprese ed ostacoli nell'applicazione, e richiedeva pure un ampio ed accurato esame da parte della Commissione parlamentare; la sua presentazione alla Camera fu necessariamente rimandata. Difficoltà di tal genere non esistevano per la questione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, il cui progetto poté essere preparato rapidamente e presentato al Parlamento.
La idea di creare questo monopolio non fu affatto, come dissero allora gli oppositori, una improvvisazione per ragioni e convenienze politiche. Era una mia idea antica, che m'era in principio venuta per la considerazione del fallimento di non poche società che non avevano adempiuto ai loro obblighi dopo avere intascati i premi.

L'assicurazione sulla vita non è che una forma di risparmio, con questo carattere speciale, che gli impegni verso l'assicurato non vengono a scadenza che dopo una lunga serie di anni, da venti almeno a quaranta e più; per cui si richiede la certezza che, quando venga il giorno in cui gli impegni debbono essere mantenuti, l'assicuratore sia in grado di farlo. Senza questa certezza, che deve essere assoluta, l'assicurazione é un inganno alla fede pubblica.

Ora, l'esperienza di molti anni aveva dimostrato che, accanto a Società bene amministrate, altre ve ne erano le quali, facendo cattivi investimenti, o abbandonandosi a speculazioni aleatorie o peggio, erano andate a finire male, defraudando gli assicurati del loro avere; ciò che era la peggiore delle frodi, perché ai risparmi così collocati gli assicurati affidavano le sorti della loro vecchiaia e in caso di morte, della loro famiglia. Né le società andate a male si contavano solo fra quelle secondarie; non solo da noi, ma in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove pure l'assicurazione sulla vita aveva raggiunto sviluppi ingentissimi, c'erano stati casi di fallimento di grandi società, con l'effetto di veri disastri sociali e la rovina di migliaia di famiglie che ad esse avevano affidati i loro risparmi.

Né era il caso di dire che si poteva distinguere fra istituti solidi e bene amministrati, e istituti male amministrati e pericolanti; la buona amministrazione non é una qualità inerente agli istituti, ma agli uomini che li amministrano; e ad, amministratori capaci ed onesti possono in qualunque società succedere amministratori incapaci e senza scrupoli. E le conseguenze di tale stato di cose, almeno presso di noi, erano di carattere generale e sociale, inquantoché la diffidenza suscitata dai fallimenti, e la mancanza di una sicurezza assoluta, impediva che questo ottimo sistema di previdenza avesse quella più larga diffusione che era desiderabile per ogni verso. Io avevo pensato che questi inconvenienti sarebbero superati, e l'istinto della previdenza incoraggiato, quando si potesse dare vita ad un istituto d'assicurazione che presentasse la massima garanzia di durabilità e di sicurezza per il mantenimento dei suoi impegni.

Ora l'Ente che presenta appunto le maggiori garanzie in tale senso, é lo Stato, il quale nel mio progetto garantiva le operazioni dell'Istituto. Ad evitare poi il sospetto che l'Istituto potesse avere carattere e scopo fiscale, e che il danaro degli assicurati potesse essere esposto per questo verso a diminuzioni e falcidie, io provvedevo a che i suoi utili fossero devoluti alla Cassa per la vecchiaia ed invalidità degli operai; parendomi una nobile prova di solidarietà sociale che gli utili derivanti dalla previdenza dei cittadini in qualche misura più favoriti dalla fortuna, concorressero ad alleviare le condizioni della vecchiaia dei cittadini meno favoriti.

Un'altra considerazione favorevole all'Istituto statale delle assicurazioni sulla vita, era connessa con le condizioni e le convenienze generali della pubblica economia. Le statistiche dimostravano che gli istituti assicuratori cumulavano nelle loro mani ingenti capitali, e siccome in Italia oltre i tre quinti delle assicurazioni erano fatti da società straniere, ne derivava che molti dei capitali raccolti emigravano all'estero; costituendo così una vera organizzazione per la esportazione del risparmio nazionale. Creare un monopolio statale significava porre fine anche a codesto inconveniente, e accentrare nelle mani dello Stato una potenza finanziaria di primo ordine, rappresentata appunto dagli ingenti capitali che si accumulano coi versamenti degli assicurati.

Questi concetti furono da me esposti con la presentazione del progetto di legge. Alla Camera essi riscossero l'approvazione della grande maggioranza, dai liberali ai socialisti. Ma, come ho già detto, gli oppositori furono assai tenaci. Fra essi ve n'erano certo parecchi, la cui opposizione aveva ragioni dottrinarie; costoro invocavano i principi del liberismo economico, che non sempre si accordano col liberalismo politico, a cui compete di tener conto di elementi assai più vari e complessi; altri sfogavano una istintiva antipatia contro i monopoli di qualunque genere, quando invece gli ottimi risultati del monopolio nostro dei tabacchi dimostrava la capacità dello Stato per tali generi d'imprese. Non mancavano coloro che combattevano il mio progetto in rispondenza agli interessi particolari che ne erano offesi.

Ma la campagna più violenta era condotta in parte dalla stampa, specialmente conservatrice; la quale, forse più che a sostenere gli interessi degli assicuratori, era mossa da ragioni più larghe se non apertamente dichiarate; questi organi del conservatorismo combattevano il monopolio delle assicurazioni non tanto per sé stesso, quanto per colpire attraverso ad esso il governo che aveva messo nel suo Programma, come capo fondamentale, la riforma della legge elettorale col suffragio quasi universale. Soltanto la speranza di allontanare, se non di impedire assolutamente la riforma elettorale, poteva spiegare la eccezionale vivacità della battaglia contro il monopolio delle assicurazioni, assolutamente sproporzionata all'importanza del problema; e i mezzi ai quali si ricorse per ritardarne o rimandarne l'approvazione, e l'assurdità delle argomentazioni e delle invenzioni messe innanzi contro di esso.

Si cercò anzitutto di eccitare una vera sollevazione di tutti gli interessi borghesi, capitalistici, industriali e commerciali. Si cominciò col proclamare che la legge sul monopolio era nientemeno che un attentato alla proprietà, che era l'inizio o l'avviamento di un sistema tendente alla istituzione del collettivismo per mezzo della monopolizzazione di grande parte delle industrie. L'artificio di tale argomentazione consisteva in questa tentata confusione fra l'attività industriale e l'assicurazione della vita, che con quella nulla aveva a che fare, essendo essa una pura e semplice speculazione su una forma speciale di risparmio.
Lo scopo delle industrie é la produzione della ricchezza; mentre la speculazione assicuratrice altro scopo non ha, anche quando rettamente esercitata, che di fare passare una percentuale della ricchezza degli assicurati nelle tasche degli assicuratori. E questa speculazione infatti era esercitata in modo così sfrenato, che in alcuni casi aveva portato al fallimento, ed in altri alla realizzazione di guadagni addirittura scandalosi. Rispondendo agli oppositori io ebbi in questo buon gioco, limitandomi a citare esempi di utili conseguiti in un solo anno, e appunto nell'anno precedente.

Mostrai che una società, i cui azionisti avevano versate 882 lire per azione, avevano ricevuto un dividendo di 336 lire, pari al quaranta per cento, ripartendo inoltre fra gli amministratori 240 mila lire. Un'altra, su azioni di lire 250, aveva distribuito 307 lire di dividendo, pari al 122 per cento del capitale versato; una terza su azioni di 882 lire aveva distribuito 980 lire, pari al 111 per cento, e attribuito agli amministratori quasi un milione. E poiché le operazioni di assicurazione sulla vita sono per la massima parte per piccole somme e fatte da gente non agiata, a coloro che gridavano che il monopolio violava il diritto io rispondevo che il diritto che si diceva violato poteva definirsi come il diritto di esercitare l'usura sul risparmio della povera gente.
Tutto questo, ad ogni modo, nulla aveva a che fare con l'industria; ed é strano che certi gruppi di industriali si lasciassero trascinare ad una agitazione che coi loro reali interessi nulla aveva a che fare, perché anzi l'industria, quando sanamente esercitata, non deve avere alcuna amicizia con la speculazione.

Un'altra argomentazione a cui si ricorreva, consisteva nel gettare il dubbio sulla capacità dello Stato a fare l'assicuratore e ad impiegare i capitali che col monopolio si sarebbero raccolti. Codesto dubbio era però già preventivamente sfatato, perché tale attitudine da parte dello Stato era già stata provata dal modo mirabile col quale era stata amministrata la Cassa Depositi e Prestiti, la quale dalle sole Casse postali di risparmio aveva raccolti milleottocento milioni, e che mentre aveva resi servizi inestimabili allo Stato, alle Province ed ai Comuni, non aveva mai subito alcuna perdita.
Alcuni, osservando che alle casse postali non si era dato il monopolio del risparmio, proponevano che si creasse bensì un Istituto di Stato per le assicurazioni della vita, ma senza monopolio ed in concorrenza con gli istituti privati. La risposta a codesta obiezione era assai facile. Le casse di risparmio, che fanno concorrenza alle casse postali, non sono società di speculazione, ma istituti. tutti italiani, non aventi scopo di lucro, e i quali destinano i loro utili, in parte ad accrescere le riserve per sicurezza dei depositanti, e per il resto a scopo di beneficenza, che esse esercitano largamente. Se alle Società di assicurazione della vita si fosse proposto di continuare il loro esercizio con la condizione di destinare i loro utili alla beneficenza, nessuno poteva illudersi che avrebbero accettato.

La battaglia parlamentare, a cui faceva ala quella che si combatteva nella stampa e nei comizi degli interessati e dei loro dipendenti, si prolungò per parecchie settimane, assorbendo l'intera attività della Camera. Vi parteciparono anche i socialisti, in favore del governo, con un ottimo discorso tecnico per parte dell'onorevole Bonomi, e discorsi politici di Bissolati e di altri, mentre l'onorevole Sonnino, l'onorevole Salandra ed altri, della Destra specialmente, parlarono contro. La discussione fu riassunta poi, per il lato tecnico, dall'on. Nitti, il quale, pure consentendo, d'accordo con me, a modificazioni parziali che non intaccassero però minimamente il principio, difese il progetto egregiamente, essendosi bene impadronito della materia; e per il lato politico con un mio discorso, che a certi momenti suscitò una tempesta nei radi banchi dei conservatori.

Si passò quindi al voto, e la Camera dette largamente la sua approvazione di massima al principio fondamentale della legge. Si doveva quindi venire alla discussione degli articoli. Eravamo alla fine di giugno, ed io proposi che quella discussione fosse rimandata alla ripresa dei lavori parlamentari, nel prossimo autunno. E ciò feci perché avevo capito che gli avversari della legge, pure dandosi aria di disarmare davanti al principio generale, si proponevano di riprendere la battaglia nella discussione particolare, presentando una grande quantità di emendamenti. Ora in regimi di tale genere, quale é un monopolio, basta alle volte un emendamento che ne turbi il principio per farlo fallire nell'esecuzione. Non vi era, d'altra parte, la menoma ragione di urgenza, ed io preferivo che la discussione fosse ripresa dopo che la Camera si fosse riposata, per evitare che qualche emendamento pericoloso potesse passare in una Camera già stanca ed impaziente di prendersi le vacanze.

Insieme a quella parlamentare, il governo dovette, per il progetto del monopolio, sostenere pure una battaglia di carattere diplomatico ed internazionale.
Ho già rilevato che per oltre i tre quinti le assicurazioni sulla vita erano raccolte in Italia da istituti stranieri, e più particolarmente austro-ungarici, inglesi, americani, tedeschi e francesi. Questi istituti, alcuni dei quali di mole gigantesca, non si preoccupavano forse tanto della perdita del mercato italiano, assai limitato in paragone alla grandiosità dei loro interessi, quanto del fatto che la creazione di un monopolio statale potesse essere un esempio che altri Stati prima o dopo avrebbero imitato. La preoccupazione e l'irritazione ad ogni modo deve essere stata assai viva, ed accordi devono essere passati fra questi istituti legati da comuni interessi, perché noi assistemmo ad un movimento diplomatico di protesta quasi generale. Tali proteste si basavano sulla supposizione che l'Italia violasse gli accordi e gli usi internazionali, inibendo a cittadini stranieri di esercitare in Italia la loro industria ed il loro commercio.
Noi però rispondemmo respingendo assolutamente tale accusa, la quale avrebbe avuto ragione d'essere solo in un caso; e cioè quando noi avessimo inibito la pratica delle assicurazioni sulla vita alle Società straniere, permettendola invece alle italiane. Ma così non era; l'Italia, creando il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, era pienamente nei suoi diritti di sovranità, e il trattamento che essa faceva agli stranieri era eguale a quello fatto ai suoi cittadini, e gli stranieri più non potevano pretendere. Questo nostro argomento, dopo qualche ulteriore opposizione e discussione, fu alla fine riconosciuto valido quasi universalmente dagli altri Stati.
Ricordo che una più particolare ed ostinata resistenza fu fatta dall'Austria, la quale aveva tanto meno diritto di protestare ed insistere nella protesta, in quanto che nel trattato di commercio che pochi anni prima aveva concluso con noi, era stata riservata, e per desiderio dell'Austria stessa, ai due paesi contrattanti la facoltà di istituire dei monopoli.

La insistenza, ingiustificata ed insostenibile del governo austriaco, non era attenuata o raddolcita dal contegno del suo ambasciatore Conte Merey, uomo che si compiaceva di ostentare una certa bruschezza di modi. Ricordo che, venuto da me per protestare contro la istituzione del monopolio, essendosi nell'anticamera incontrato con un grosso assicuratore, che era venuto per la stessa cosa, e col quale egli aveva forse ragioni di malumore, esclamò nel vedermi: - Vous recevez ce cochon là?... Al che io risposi : - Ce cochon est venu ici pour la méme raison que Vótre Excellence. - Il Merey fece allora una requisitoria contro il progetto con le parole più aspre che gli venivano sulla bocca; ma siccome io mi contentavo di rispondergli : - Je ne suis pas de votre avis - egli finì col mettersi a ridere e lasciar cadere la cosa. L'Austria però cercò ancora di insistere, per vie indirette, e mandò qui a Roma alcuni banchieri francesi con l'incarico di tentare una intimidazione finanziaria.

Io li ricevetti, e siccome uno di essi ad un certo punto della discussione esclamò: - Noi combatteremo la finanza italiana e faremo ribassare la vostra rendita - io gli risposi che, lungi dall'allarmarmi, glie ne sarei stato riconoscente. E poiché quei finanzieri si meravigliarono a questa mia uscita, io osservai loro che, siccome l'Italia stava allora ricomprandosi la sua rendita collocata all'estero, io sarei stato loro grato se ci avessero dato così il modo di acquistarla a miglior mercato.

La discussione della legge del monopolio fu poi ripresa, come era stato stabilito, dopo le vacanze e condotta a porto nel 1912. Era nel frattempo intervenuta la guerra di Libia, che occupava grandemente l'attenzione pubblica, e l'opposizione alla legge si attenuò notevolmente, gli avversari avendo ormai compreso che qualunque maneggio per ferire a morte la nuova istituzione con emendamenti che ne ostacolassero l'applicazione, sarebbe riuscito vano. Il governo poi fece alcune concessioni, principale fra le quali fu quella di autorizzare le Società che, già esercivano in Italia, a continuare il loro esercizio per dieci anni, limitatamente però alle somme assicurate superiori alle ventimila lire, e di cedere una quota delle altre all'istituto di Stato. Era una concessione di interesse reciproco, perché mentre permetteva alle Società di liquidare il passato, dava al nuovo istituto il tempo necessario per ordinarsi. Si stabilì pure che il monopolio statale potesse riscattare il portafoglio che le Società private, italiane o estere, avevano in Italia; e la maggior parte delle società ne profittarono immediatamente, venendo ad equi concordati e liquidando così senz'altro la loro posizione.

Il monopolio, dopo i primi tempi di avviamento, ha potuto funzionare egregiamente, smentendo tutte le previsioni pessimistiche, e rendendo eccellenti servizi allo Stato durante la guerra. L'esperimento fatto finora è di ottimo augurio per un maggior sviluppo nell'avvenire, essendosi anche in questo campo dimostrato che, dopo tutto, il cittadino italiano ha la maggiore fiducia nello Stato. Come vi erano stati gli avversari accaniti, così per questa questione del monopolio ci furono pure i fautori eccessivi i quali avrebbero voluto estenderlo ad altre forme assicurative, come gli incendi, la grandine, gli infortuni e così via. A cotali estensioni io sono stato sino dal principio contrario. Io scelsi per il monopolio il ramo vita, per la grande semplicità e sicurezza degli elementi che lo costituiscono, non essendo facile ne presumibile che si possa fare apparire morto chi è vivo. Ma io penso che lo Stato si involverebbe in gravi difficoltà, e si esporrebbe ad, abusi di ogni genere, quando si assumesse l'assicurazione di danni che diano luogo a contestazioni, per i quali è meglio
lasciare libero il campo alla iniziativa privata.

* * *

Avanti che la Camera si convocasse nuovamente, era intervenuta nell'ottobre 1911, la guerra con la Turchia. Ma prima di narrare di questa, delle ragioni che l'avevano determinata, e della sua preparazione politica e diplomatica, ritengo opportuno, con una breve infrazione dell'ordine cronologico seguito in queste memorie, di esporre la questione della riforma elettorale e della conversione in legge del progetto che, assumendo la responsabilità del governo, io avevo presentato.
Quando io misi nel mio programma, come punto fondamentale, la riforma elettorale, con un allargamento del suffragio che arrivava quasi al suffragio universale, vi fu chi mi ricordò con rimprovero che io altre volte mi ero dichiarato contrario a tale estensione del diritto politico fondamentale. E la cosa era vera per se stessa; ma era viceversa assurdo richiamarsi a tali dichiarazioni da me fatte in altri momenti come prova che io fossi stato avverso al suffragio popolare per ragioni di principio.
Tutta la condotta politica da me seguita nel passato, intesa alla elevazione delle classi popolari, ed all'allargamento della influenza dei loro interessi nella vita pubblica, smentiva nettamente quell'accusa. La verità era che, proponendomi come programma capitale della mia azione politica l'elevazione delle classi popolari, io avevo dovuto anzitutto considerare le loro condizioni materiali, e restituendo loro quel pieno esercizio delle libertà statutarie, che era stato posto in forse da quasi dieci anni di politica reazionaria, rimetterle nelle condizioni necessarie per lottare per il proprio miglioramento economico.

Questo mio primo concetto era stato pienamente giustificato dall'esperienza, e dieci anni di regime di libertà nei conflitti fra capitale e lavoro, rispettato da tutti i governi che si erano succeduti, aveva da per tutto accresciuto, e in molte parti d'Italia più che raddoppiata la misura dei salari degli operai delle officine e dei campi, contribuendo anche potentemente alla loro educazione. Le associazioni di ogni genere, economiche e politiche, che si erano formate dovunque fra le masse lavoratrici; il maggiore interessamento che esse erano andate prendendo nella vita della nazione, avevano indubbiamente avuto una grande influenza educativa, dando ad esse una consapevolezza della vita politica, fino allora quasi totalmente ignorata. Di fronte a tali mutate condizioni non era più ammissibile che in uno Stato sorto dalla rivoluzione e costituito dai plebisciti, dopo cinquant'anni dalla sua formazione si continuasse ad escludere dalla vita politica la classe più numerosa della società, la quale dava i suoi figli per la difesa del paese, e sotto la forma delle imposte indirette concorreva in misura larghissima a sostenere le spese dello Stato.

La questione della elevazione dei quarto Stato alla dignità della totale cittadinanza politica, nella quale ai diritti corrispondono i doveri, era pure imposta, oltre che da superiori considerazioni di giustizia, da altre ragioni di convenienza nell'interesse stesso delle classi dirigenti. L'elevazione del quarto Stato ad un più alto grado di civiltà, era per noi ormai il problema più urgente, e per molti punti di vista. Anzitutto per la stessa sicurezza sociale, in quanto che l'esclusione delle masse dei lavoratori, non solo dalla vita politica, ma anche da quella amministrativa del paese, togliendo loro ogni influenza legale, ha sempre per effetto di esporle alle suggestioni dei partiti rivoluzionari e delle idee sovvertitrici, in quanto gli apostoli di queste idee hanno a loro disposizione un argomento formidabile, quando osservano che, per ragione di codesta esclusione, alle classi popolari non resta altra difesa, contro le possibili ingiustizie, generali e particolari, delle classi dominanti, che l'uso della violenza.

Dove le masse sanno di non potere col loro voto e con la legale azione politica modificare le leggi che siano proposte ed elaborate a loro danno, e ovvio che esse si lascino persuadere che i soli mezzi per mutare un tale stato di cose, sono i mezzi rivoluzionari. Partecipando invece alla vita politica, le masse, nelle quali il buon senso finisce sempre alla lunga col prevalere, possono, non solo rendersi conto delle difficoltà che lo Stato deve superare per aiutare il loro incremento, ma anche dei limiti che le condizioni generali del paese e del tempo pongono alla soddisfazione delle loro aspirazioni e delle loro richieste; e così esse vengono ad essere interessate al mantenimento dello Stato.
È troppo facile oggi opporre a questi concetti l'esempio delle manifestazioni in senso contrario ad essi, avutesi dopo la guerra; ma gli episodi di momenti eccezionali non fanno regola; e del resto la rapidità con cui le agitazioni e le pretese soverchie ed irragionevoli determinatesi nelle masse dopo la guerra sotto la influenza dei partiti estremi, si sono attenuate, è una riprova della fondamentale giustezza di questo mio modo di vedere. In secondo luogo tale elevamento è desiderabile, anzi necessario per un altro aspetto, e cioè quello della convenienza economica, perchè la partecipazione attiva ad ogni forma di progresso, da parte di tutto il popolo, e strettamente connessa con l'incremento della ricchezza di un paese.

Le condizioni generali della civiltà in quel momento dimostravano infatti che soltanto le nazioni al cui progresso concorrevano attivamente le masse popolari, quali l'Inghilterra, la Germania, la Francia, gli Stati Uniti d'America, erano economicamente potenti; gli Stati anche grandi, anche militarmente fortissimi, quale la Russia, nei quali però le classi popolari avevano un grado di civiltà inferiore, soffrivano economicamente di grave debolezza. E questo si comprende, quando si pensa quali forze di intelligenza, di volontà, di operosità si trovano latenti nelle masse popolari delle città e delle campagne; e quale contributo al progresso di un paese esse potrebbero dare se, istruite ed educate, fossero in condizioni tali che ognuno potesse prendere nella società un posto corrispondente alle sue naturali attitudini, alla sua intelligenza ed alla sua forza morale.

La sicurezza sociale e la ricchezza economica del paese a me erano sempre parse strettamente collegate col benessere e con l'elevazione materiale e morale delle classi popolari ; aiutando questa elevazione le classi dirigenti compivano dunque una opera in cui il dovere morale della solidarietà umana era in pieno accordo col loro stesso bene inteso interesse. Se esse si fossero opposte al movimento di ascensione delle classi più numerose della società, sarebbero state, prima o dopo, inesorabilmente travolte; se invece, adempiendo al dovere della solidarietà umana, avessero assunto la tutela dei diritti e degli interessi del proletariato; se con sapienti leggi avessero provveduto al suo benessere materiale e morale; se lo avessero spontaneamente chiamato a prendere il suo posto nell'esercizio della sovranità nazionale, esse avrebbero conseguito il vanto di sostituire alla lotta delle classi, proclamata dagli estremisti, la loro collaborazione, assicurando nello stesso tempo un progresso regolare e benefico alla intera società, ed un incremento della potenza e della dignità dell'Italia fra le altre nazioni.
Per cui, quando nella discussione della Camera, e nelle polemiche dei giornali, vi fu chi mi rimproverò di essere andato spontaneamente incontro ai partiti estremi; di avere offerto in regalo ai socialisti più di quanto essi osassero domandare e si aspettassero di potere ottenere, invece di lasciare che essi conquistassero la riforma combattendo passo a passo; io ritorsi questa accusa, facendone un vanto, non personale mio, ma del partito e del governo liberale, il quale, invece di resistere ad esigenze giuste, le soddisfaceva spontaneamente, mostrandosi superiore agli interessi particolari, e quindi veramente degno di regolare i destini della nazione.


Quando io presentai la mia proposta di riforma elettorale, erano trascorsi trent'anni dalla riforma anteriore, a cui aveva lavorato soprattutto l'onorevole Zanardelli. La legge del 1882 aveva rappresentato un notevolissimo progresso su quella prima vigente, e nel senso veramente democratico, in quanto aveva abolito tutti i privilegi basati sul censo, ed aveva istituito teoricamente il principio del suffragio universale, dando il diritto di voto ad ogni cittadino che avesse compiuto il primo corso elementare. Quando quella riforma era stata adottata, si calcolava che l'analfabetismo sarebbe stato rapidamente debellato, e che la legge avrebbe automaticamente portato all'esercizio del diritto politico da parte della grandissima maggioranza dei cittadini. A tali speranze non aveva però corrisposto il successo, e per varie ragioni; sia cioè per l'inefficacia del nostro sistema di educazione elementare, sia anche, e forse soprattutto, perchè la semplicità della nostra vita agricola non rendendo necessario l'uso del saper leggere e scrivere, non spingeva le classi popolari a procurarselo. D'altra parte, tutti sanno che nelle nostre campagne vi sono contadini che, pure non sapendo firmare che con la croce, hanno facoltà di primo ordine nel maneggio dei loro affari, e conducono mirabilmente floride aziende agricole; mentre vi sono dei cittadini, a cui la vita della città ha reso necessario il saper leggere e scrivere, e che tuttavia non ne fanno certo il migliore degli usi.

S'aggiunga ancora che tale sistema, in cui il diritto elettorale era basato sul certificato scolastico, creava grandi disparità, da regione a regione e da provincie a province, in relazione alla maggiore o minore diffusione e comodità di accesso alle scuole e della conseguente diversa opportunità per parte dei ragazzi di frequentarle.
Il mio predecessore, onorevole Luzzatti, come ho già riferito, aveva già presentato un suo progetto di allargamento dei suffragi, che a mio parere era insufficiente. Esso infatti manteneva ancora il criterio dell'alfabetismo come base del diritto elettorale, limitandosi a facilitarne la constatazione ed a rendere più agevole l'ammissione. Si trattava, insomma, di aggiungere agli elettori alfabeti quelli che si trovavano in una specie di limbo fra l'alfabetismo e l'analfabetismo; con la quale aggiunta si attendeva un incremento graduale, da un milione ad un milione e mezzo di elettori. A me, ed alla Commissione parlamentarle che poi esaminò il mio progetto, questo calcolo pareva esagerato, apparendo assai difficile che gli uomini già maturi, non ben sicuri della materia, si sarebbero molto volontieri presentati all'esame necessario davanti al pretore; mentre poi, valorizzando sino all'estremo una qualunque capacità di leggere e scrivere, esso riusciva ad aggravare gli squilibri e le incongruenze del sistema vigente, nel non tenere conto di qualunque altro genere di capacità individuale e sociale.

Ma, come ho già accennato, la più forte obiezione contro le proposte dell'onorevole Luzzatti, stava in questo: che invece di affrontare nel suo complesso la questione, ne proponeva una soluzione parziale. Ed a mio parere, poichè esigenze superiori di varia indole imponevano oramai la riforma elettorale, doveva essere cura del legislatore che cotali esigenze fossero al più possibile soddisfatte, per evitare il pericolo di dover tornare sopra al problema a breve scadenza.
Era quindi d'uopo trovare altri criteri; non volendo io d'altra parte, con l'adozione del suffragio universale puro e semplice, esteso a tutti i cittadini, anche illetterati, sembrare di non fare alcuna distinzione fra chi è istruito e chi non è; fra chi adempie alla legge della istruzione obbligatoria e chi la viola; e togliere una spinta alla istruzione pubblica, e ciò appunto nel momento quando, col progresso delle industrie e del tecnicismo, nella stessa agricoltura: il problema della istruzione primaria si affermava sempre più come un problema di primissimo ordine ed una vera necessità per l'incremento economico e civile del paese.
E conclusi col risolvere il complesso problema rinunciando al semplicismo del principio unico, ed adottando principi diversi, corrispondenti appunto alle diversità delle condizioni a cui ci dovevamo adattare. E così presentai il mio progetto, che conteneva, riguardo all'estensione del suffragio, i punti seguenti:
Primo: era mantenuto il diritto elettorale a ventun anni per tutti coloro che sapessero leggere e scrivere;
Secondo: era concesso il diritto elettorale a tutti coloro che avessero adempiuto agli obblighi del servizio militare;
Terzo: diventavano elettori anche coloro che mancassero dei requisiti necessari dell' istruzione, quando compissero il trentesimo anno.

Il primo punto corrispondeva alla legge vigente. Il secondo punto, oltre la presunzione che chi abbia fatto il servizio militare ha già ricevuta una certa istruzione e non appartiene più alla categoria degli analfabeti, aveva per sè una elementare ragione di giustizia, essendo evidente che non si può negare il diritto della partecipazione alla vita politica del paese, a colui a cui si domanda di sottostare per la sicurezza comune al servizio militare e di essere disposto a dare la sua vita. Quanto al terzo punto, a parte la giusta differenziazione fra i diritti politici di chi adempia agli obblighi dell'istruzione e chi non li adempia, mi pareva che esistessero ragioni di carattere generale per le quali si poteva concedere il voto all'illetterato che abbia compiuto i trent'anni, negandolo in età più giovanile. Le persone infatti che manchino di qualunque più elementare cultura, e non abbiano nemmeno compiuto lo sforzo per apprenderne i rudimenti, sforzo che è già ragione di una certa disciplina, sono indubbiamente più soggette alle suggestioni di idee estreme, tanto rivoluzionarie come reazionarie.

Nove anni di esperienza nella vita, quanti sono quelli che corrono fra il ventunesimo e il trentesimo anno, sono una buona scuola, che può, e per certi rispetti con vantaggio, sostituire l'istruzione elementare, specie nelle classi popolari dove gli individui devono presto assumersi la responsabilità della loro condotta e guadagnarsi il pane. L'uomo del popolo, che generalmente a trent'anni ha già famiglia e figli, diventa riflessivo e sedato, e non si lascia troppo agevolmente fuorviare dalle propagande di idee e propositi eccessivi. Del resto, il numero di questi analfabeti che diventavano elettori a trent'anni, non era così grosso come si presumeva generalmente; i calcoli degli uffici da me incaricati di studiare il lato tecnico della legge, li portavano circa a ottocentomila; mentre il numero complessivo degli elettori era più che raddoppiato, salendo dai tre milioni e mezzo degli iscritti secondo la legge vigente, a circa otto milioni. Si doveva d'altra parte attendersi ad una diminuzione notevole nella percentuale dei votanti, come poi fu confermato dall'esperienza; e ciò perchè solo gradatamente i nuovi iscritti avrebbero usato del loro diritto, e perché una parte notevole dei nuovi elettori appartenenti alle classi popolari, era allontanata dalle correnti di emigrazione.

L'introduzione degli illetterati nel suffragio importava necessariamente considerevoli modificazioni tecniche, dovendosi conciliare l'esercizio del voto con l'eventuale incapacità a scrivere il nome del candidato, e con la necessità di mantenere il segreto dell'urna. Queste difficoltà furono genialmente superate con l'adozione di un sistema speciale di buste e di controllo, escogitato e proposto dal relatore della legge, on. Bertolini.
Presentando il disegno di legge io lo corredai con un completo quadro delle legislazioni elettorali straniere, dalle quali risultava che il suffragio universale era già adottato in Europa, non solo dagli Stati più liberali ed avanzati in civiltà, ma anche da Stati di carattere conservatore e da altri di civiltà meno avanzata; - e cioè dalla Francia, dalla Germania, dall'Austria, dalla Spagna, dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Norvegia, dalla Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, ed era nello stesso momento proposto per l'Ungheria ; e che quanto a numero di elettori, in Italia ogni cento individui aventi l'età richiesta non erano elettori, col sistema ancora vigente, che trentadue, rimanendo così esclusi dalla vita politica il sessantotto per cento; mentre in tutti gli altri paesi di Europa, compresi quelli che non avevano ancora adottato il suffragio universale, la proporzione andava dal sessanta al novantotto per cento. Noi dunque, quanto ad estensione di suffragio, eravamo gli ultimi in Europa.

Esponendo la battaglia combattuta contro il Monopolio delle Assicurazioni sulla vita, ho già accennato al fatto che l'accanimento di quella lotta, più che per quella legge stessa, si spiegava per quella del suffragio, mirandosi a colpire indirettamente il governo che l'aveva proposta.
L'opposizione diretta alla legge per l'allargamento del suffragio non era facile; gli uomini politici, i deputati che vi si fossero impegnati dovevano sentire di esporsi, quando la legge fosse approvata, alla rappresaglia elettorale di coloro a cui essi avessero tentato di sbarrare la strada al conseguimento dei diritti politici; e questa preoccupazione era per me un tacito omaggio al progetto stesso, ed un riconoscimento, sia pure dissimulato, che le condizioni per la sua adozione erano già mature nella coscienza politica del paese.

Più tardi, nella discussione della legge, non vi furono che due deputati, l'on. Gaetano Mosca e l'on. Vincenzo Riccio, che lo combatterono direttamente, con argomenti che io non potevo accettare, ma che erano logici e rispettabili dal punto di vista conservatore. E si ebbe allora un singolare fenomeno; che mentre, di fronte a quella mia proposta, la più democratica che in cinquant'anni di vita nazionale fosse stata presentata da qualunque governo, la stampa conservatrice si manifestava assolutamente contraria, molti degli uomini politici ap
partenenti ai partiti più decisamente conservatori dichiaravano invece di accettarla.

Non c'era il minimo dubbio sulla sincerità di uomini, quali l'onorevole Sonnino, il quale pure essendo avversario del Ministero si dichiarava apertamente fautore della estensione del suffragio; ma c'era ragione di ritenere che in quel suo atteggiamento egli fosse seguito da pochi. Per chi ha l'abitudine di indagare le inclinazioni e seguire le manovre dei partiti, intese al conseguimento dei propri fini anche quando non credono opportuno confessarli, e che in questo caso era di fare naufragare la riforma elettorale; era evidente che si erano scelte, per combatterla, le vie indirette e traverse. Una delle manovre più interessanti per l'osservatore in questa battaglia consisteva, non solo nel non avversare la riforma, ma nel cercare anzi di svalutarla dichiarandola insufficiente; e non è ormai scienza occulta, dopo tanto scaltrimento parlamentare, che uno dei modi più efficaci per combattere una proposta, consiste nell'esagerarla. E ricordo che vi fu allora chi propose di allargare il suffragio al di là dei miei intendimenti, con togliere quel limite dei trent'anni che io aveva fissato per gli illetterati; altri che proposero di dare senz'altro anche il voto alle donne; mentre altri ancora proponevano l'adozione dello scrutinio di lista, o l'applicazione del sistema proporzionale, tutti mezzi sicuri per raddoppiare gli ostacoli e rendere più difficile al governo di condurre la legge in porto ; mentre altri proponeva che si approvasse la riforma, ma la sua applicazione fosse rimandata, tenendosi le prossime elezioni con le liste attuali.

Altri ancora qualificavano la legge come un suffragio universale deformato per quelle limitazioni che vi avevo introdotte. Ora io ammetto che nelle leggi la massima semplicità sia l'ideale; ma esso non è sempre raggiungibile, perchè le leggi devono tenere conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese, come nel nostro caso era l'analfabetismo, ed adattarsi ad essi. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito.
Non dirò che l'intenzione di ostruzionismo fosse in tutti coloro che avanzavano queste proposte atte a complicare le cose; ma era assai istruttivo il fatto che esse fossero sempre accolte e contrapposte al progetto del governo da quegli organi della pubblica opinione nei quali era evidente l'interesse e l'intenzione di fare naufragare la riforma, o di mutilarla o almeno di ritardarla. Quando fra l'aprile ed il maggio del 1912, la Commissione presieduta dall'onorevole Bertolini presentò la sua relazione e la legge venne in discussione, questi maneggi si erano assai attenuati, come era avvenuto per la legge del monopolio.

Ed a tanto maggiore ragione. Era infatti intervenuta la guerra; e come si sarebbe potuto negare il pieno diritto alla cittadinanza politica ed alla partecipazione alla vita dello Stato a quelle stesse classi a cui si domandava di lare la vita dei loro figli per l'incremento e per i più alti interessi politici del paese?

La discussione fu pertanto assai blanda e la legge fu approvata in poche settimane. Rispondendo ai diversi oratori, ed esaminando alcune loro proposte dal governo non accettate, io dovetti toccare di alcune questioni che voglio ricordare.
C'era la questione del voto alle donne, questione, io osservai, degna di ogni studio e di ogni ponderazione, poiché si trattava nientemeno che di una metà del genere umano. Ma, riguardo alla situazione delle donne, vi erano altre questioni da risolvere, che le concernevano, prima di addivenire alla considerazione della loro capacità politica. Anzitutto bisognava cominciare col modificare quelle leggi che restringono la indipendenza e la capacità della donna nel campo puramente civile, creando ad essa una speciale situazione di sottomissione. Poi prima del voto politico era il caso di provvedere per essa al voto amministrativo, come quello che poteva servirle da tirocinio per la comprensione dei suoi doveri e diritti politici.

Ricordai poi che in proposito io avevo nominato una Commissione, affidandole il compito di studiare a fondo il problema; Commissione a cui avevano appartenuto persone assai autorevoli; fra gli altri i senatori Finali, Bodio, Brusa, Villari e i deputati Boselli, Bertolini, Nitti, Finocchiaro Aprile, Luigi Rossi ed altri. La Commissione aveva studiato lungamente ed ampiamente il problema; ed i risultati dei suoi studi erano stati raccolti in una lettera comunicatami il 5 luglio del 1911, dal suo Presidente, senatore Finali, nella quale lettera si dichiarava che nella sua ultima seduta la Commissione, a maggioranza, aveva approvato un ordine del giorno esprimente l'avviso che non fosse opportuno, per allora, concedere alle donne nemmeno il voto amministrativo. La Commissione però aveva ad unanimità approvato il concetto che si dovesse modificare il Codice Civile in quella parte che riguardava le donne, e più specialmente le donne maritate.

Nonostante tale autorevole parere contrario, io non credevo che la questione del voto amministrativo alla donna si dovesse ritenere così negativamente risolta, e pensavo che potesse essere riproposta e ripresa in esame; ma ritenevo assolutamente prematura qualunque concessione di voto politico. E niente mostrava meglio tale inopportunità e immaturità, che il modo stesso con cui alla Camera si era condotta la discussione su quel punto. Si era, in conclusione, fatta piuttosto una questione accademica, di simpatia; ma nessuno c'era stato che avesse sostenuto con profondità di argomenti convincenti l'opportunità e l'utilità di creare altri sei milioni di elettori politici, quando il Codice civile manteneva ancora per le donne una condizione giuridica diversa ed inferiore.
Il paese non avrebbe nè compresa nè approvata una simile riforma. Quanto poi alla opportunità, accennata da alcuni, di concedere il voto alle sole donne in condizione finanziaria, intellettuale e morale più elevata, quale si fosse la forza degli argomenti portati a sostenere tale proposta, essa non avrebbe potuto essere accettata; il valore di tali argomenti essendo annullato dall'inconveniente gravissimo di creare, con tale attuazione, dei privilegi che oltre che individuali, sarebbero stati necessariamente anche privilegi di classe.

Si era pure avanzata la proposta di abbassare il limite di eleggibilità, indietreggiandolo dai trenta ai venticinque anni. Era una proposta oziosa, perché era già rarissimo il caso di deputati di trent'anni. Ad ogni modo se si voleva che la legge trovasse una maggioranza favorevole era bene non introdurvi troppe novità. Terminai con uno scherzo consigliando di lasciare questo desiderio di deputati più giovani per quando le donne avessero il voto.

Si pose avanti nuovamente la questione del voto obbligatorio. Ma quando si estendeva il voto ad otto milioni di cittadini, l'obbligatorietà sarebbe stata un principio non liberale, e di difficilissima applicazione pratica. Il cittadino deve sentire il dovere di partecipare alla vita politica del suo paese. Se non lo sente, é meglio considerarlo come una quantità trascurabile. Se un cittadino di tal fatta non vota, é un bene.

Fu allora in quella discussione, nominato per la prima volta il sistema proporzionale. Lo sostenne l'on. Cornaggia, del partito clericale, e ne parlò favorevolmente anche l'on. Sonnino nel suo discorso; mentre l'on. Caetani presentò un vero e proprio progetto, sostenendo che una tale riforma sarebbe stata l'unico rimedio per avere un Parlamento che corrispondesse perfettamente alle condizioni politiche del Paese.
Il progetto presentato dal Caetani era male congegnato anche tecnicamente, e si sarebbe prestato alle più singolari manovre e sorprese; per cui, ad esempio, io sarei potuto diventare il rappresentante di un gruppetto di anarchici, o una mia elezione plebiscitaria a Cuneo, sarebbe stata annullata se qualcuno mi avesse fatto lo scherzo di iscrivermi prima in una lista di Girgenti. Ma, a parte questi scherzi, io ero avverso al sistema proporzionale, in primo luogo perché lo ritenevo non conforme agli interessi generali del paese, dato che solo i partiti di minoranza erano organizzati in modo da potersene giovare; come del resto era dimostrato dall'esempio dei paesi in cui era stato sperimentato. A me pareva poi che quel sistema dovesse inevitabilmente produrre la difficoltà di creare maggioranze omogenee e compatte, capaci di costituire e sostenere un governo forte e duraturo.

La riforma elettorale diventò legge nella prima metà del 1912, ma il prolungarsi della guerra di Libia rese necessario rimandare ancora per un anno e parecchi mesi le nuove elezioni, che in condizioni normali avrebbero dovuto essere tenute al più presto dopo l'approvazione di una legge che recando un mutamento così vasto e profondo nelle basi stesse della vita politica, toglieva inevitabilmente autorità ad una rappresentanza nazionale, alla cui scelta era concorso appena un terzo del nuovo elettorato. I risultati delle prime elezioni col suffragio quasi universale, tenute nell'ottobre del 1913, smentirono le previsioni di una rivoluzione parlamentare, che era stato uno degli argomenti con cui gli organi conservatori nemici della riforma, l'avevano combattuta. Il numero dei deputati socialisti aumentò certo notevolmente, arrivando ad una cinquantina, e gli elementi che facevano capo al partito clericale, allora non ancora trasformato, esercitarono una maggiore influenza in numerosi collegi; ma nel complesso i partiti liberali mantennero le loro posizioni più anche che non fosse necessario per un esercizio efficace del potere.

Quando dopo la guerra, essendo passati oltre sei anni dal primo esperimento della riforma elettorale, gli elettori mandarono al Parlamento oltre centocinquanta deputati socialisti ed un centinaio di popolari, mutando così profondamente la situazione parlamentare, e rendendo assai difficile e precario l'esercizio del governo liberale, ci fu chi volle disseppellire quelle antiche previsioni pessimiste, facendo ricadere sulla riforma del suffragio del 1912 la responsabilità di quei mutamenti e delle loro conseguenze.
Ma, per ragione della guerra, nuove, ampie estensioni del suffragio si erano prodotte; i quattro milioni e mezzo di nuovi elettori creati dalla mia riforma essendosi più che raddoppiati in seguito a nuovi provvedimenti mentre poi sarebbe assurdo non tenere conto del concorso dei fattori morali della guerra nel produrre quella nuova situazione.

Ma a parte questo, si può domandare se con una guerra, la quale aveva chiamati a portare le armi e ad arrischiare la loro vita oltre cinque milioni di italiani, in molta parte usciti dalle classi popolari, e in cui si era avuto un mezzo milione di morti e un milione e mezzo di feriti; si può domandare, dico, se vi sia alcuno, anche fra i più tenaci conservatori, che si illuda che si potesse richiedere ad un popolo un così immane sacrificio, negandogli nello stesso tempo il diritto a partecipare alla vita pubblica del paese.

Ed io ritengo che fu cosa provvida che il popolo italiano in tutte le sue classi fosse stato investito del diritto di partecipare alla sovranità dello Stato, prima che egli fosse chiamato ai sacrifici gravissimi della guerra.

FINE DEL DECIMO CAPITOLO

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