CAPITOLO 6
La guerra d'Abissinia e la sua incerta condotta - Dissensi fra Crispi e Sonnino - La sconfitta d'Adua e la caduta di Crispi - La frettolosa liquidazione della guerra fatta dal Rudinì - Titubanze tra liberalismo e reazione - Gli avvenimenti del 1898 - La fase liberale del governo Pelloux - Il passaggio alla reazione e i provvedimenti eccezionali - La lotta dell'ostruzionismo - II colpodi mano per mutare il regolamento della Camera - Il trionfo dell'estrema Sinistra nelle elezioni e la caduta di Pelloux - I concetti da me proclamati per la soluzione della crisi nazionale. |
Gli ultimi mesi del governo Crispi, fra il dicembre del 1895 e il marzo del 1896, furono interamente occupati, nelle cose e nella opinione pubblica, dagli avvenimenti di Abissinia. La loro storia non ha luogo fra queste memorie, se non per alcune connessioni indirette; e mi limito a ricordare solo alcuni punti per dare ragione della politica da me seguita nelle condizioni generali che ne erano poi derivate.
I fatti che ci avevano condotti nel Mar Rosso, sono noti. Alla vigilia del Congresso di Berlino l'Inghilterra ci aveva chiesto di metterci d'accordo con essa, offrendoci Tunisi. È noto il rifiuto di Cairoli, per la cosidetta politica delle «mani nette», rifiuto che portò l'Inghilterra ad accordarsi per Tunisi con la Francia, con la conseguenza che al Congresso noi ci trovammo poi isolati e non avemmo nulla.
Una seconda occasione ci si presentò per entrare nella vita coloniale, quando l'Inghilterra, nel 1882, preparandosi ad occupare l'Egitto, ci offrì di partecipare all'occupazione. Noi rifiutammo ancora, ed a questo rifiuto concorse molto Magliani, per il timore che accettando l'invito noi avremmo irritata la Francia, mentre egli si illudeva di potere propiziarsi la benevolenza della finanza francese. E così finimmo di andare a Massaua, per "fiche de consolation", d'accordo con le altre potenze, nessuna delle quali protestò, eccetto la Turchia che fece una semplice protesta proforma. Il Mancini, allora ministro degli Esteri, magnificò la cosa pronunciando la famosa frase, che le chiavi del Mediterraneo erano nel Mar Rosso, ma noi non ve le abbiamo mai trovate.
Il Crispi, che aveva cercato di persuadere il governo ad accettare la proposta inglese per l'Egitto, si lasciò poi attrarre dal miraggio di conquiste verso l'Abissinia. Ho già ricordate le velleità che egli dimostrò durante il periodo in cui io appartenevo al suo Ministero quale ministro del Tesoro; ricordo pure un altro episodio. Un giorno, in Consiglio dei Ministri, Crispi disse testualmente : - Corre voce che Re Giovanni sia stato ucciso in una battaglia coi dervisci; e questa mi pare una buona occasione per occupare l'Asmara - Io gli osservai che non ero contrario a quella occupazione; ma che non mi pareva si dovesse agire su una semplice voce, ma aspettare la conferma. Crispi acconsentì ; la conferma venne e l'Asmara fu occupata. Quella precipitazione di Crispi, mostrata da questo episodio, era un segno delle sue inclinazioni, che io ritenevo pericolose.
Quando, nel dicembre del 1893, Crispi assunse di nuovo il governo, queste sue inclinazioni trovarono nuove ragioni e nuove spinte. L'opinione pubblica era turbata dagli scandali bancari e le classi dirigenti impaurite dalle prime agitazioni socialiste; una impresa coloniale si presentava come un diversivo. Ma le imprese, a cui ci si accinge in tali condizionai, diventano delle vere e proprie avventure, e generalmente risultano sfortunate. Credo che di rado una guerra coloniale sia stata iniziata in meno favorevoli condizioni e con peggiori auspici. Grandissima parte dell'opinione pubblica vi era contraria ; nella loro grande massa le classi popolari, e per tutta l'Italia settentrionale anche la maggioranza delle classi dirigenti non ne volevano sapere. Nello stesso Ministero i consigli erano divisi; e ne è una prova una lettera riprodotta poi nei documenti diplomatici, con la quale il Sonnino, nel principio del '95, consentiva a malincuore all'invio di due battaglioni, e concludeva che l'invio di altre truppe, allo stato delle cose, sarebbe stato una vera follia.
Altri documenti dimostrano la resistenza di chi aveva la responsabilità delle finanze dello Stato, ed avventurarsi in una impresa, il cui costo superava le nostre potenzialità, e non poteva essere calcolato.
Perfino nella mente del Crispi queste preoccupazioni dello stato dell'opinione pubblica e delle condizioni della finanza si facevano sentire; ed allora egli telegrafava a Baratieri che ogni ulteriore espansione in Abissinia trovava opposizioni nell'alta Italia anche fra gli amici del Ministero; che il suo collega del Tesoro se ne preoccupava per l'incertezza delle spese a cui si andava incontro, e che non permetteva che il bilancio dell'Eritrea superasse i nove milioni, concludendo con l'avvertire che non si voleva che la questione suscitasse imbarazzi nella Camera, la cui opera per la restaurazione delle finanze non doveva essere turbata. Ma poi queste esitazioni e preoccupazioni erano vinte in lui dall'allettamento di notizie di vittorie che mandava il Baratieri, e con le quali si cercava d'infiammare l'opinione pubblica. Così si continuò per parecchi mesi, senza decidere nè di fare la guerra sul serio, dando tutti i mezzi necessari, nè di abbandonare l'impresa. A mostrare con quali criteri si procedeva rimane un telegramma di Crispi, datato pochi mesi prima del disastro, con cui egli chiedeva al Baratieri quale sarebbe stata l'economia del rimpatrio di due battaglioni, e concludeva con l'ammonirlo di fare la guerra come Napoleone, col danaro dei vinti, e di sciogliere il problema - cioè il problema fra le necessità della guerra e la mancanza dei mezzi per condurla - con le risorse della colonia Eritrea e dei territori occupati.
Solo all'ultimo momento, quando cioè Menelick si avanzava con tutte le forze dell'Abissinia, si comprese la gravità della situazione ed il pericolo, e si volle correre ai ripari con tutti i mezzi ed inviando i rinforzi necessari, come pure sostituendo il Baratieri col Baldissera. Ma era troppo tardi, e non si seppe nemmeno nascondere l'invio del Baldissera. Baratieri avutane notizia attaccò, e la sconfitta d'Adua avvenne lo stesso giorno in cui il Re passava in rivista a Napoli i rinforzi pronti per l'imbarco.
L'impressione del disastro fu gravissima per tutta Italia, e provocò una clamorosa sollevazione degli animi, nella quale pur troppo si mescolavano i risentimenti per la politica di reazione e di violenza usata dal governo specie contro le classi e i partiti popolari. Crispi si presentò alla Camera, che era stata appunto convocata per quei giorni, con le dimissioni. L'annunzio fu accolto da un tumulto: Rudinì chiese di parlare, ma il Presidente chiuse frettolosamente la seduta.
Della costituzione del nuovo Ministero fu incaricato il generale Ricotti, il quale mise per condizione della sua accettazione di prendere accordi col Rudinì, cui cedette la Presidenza. Ricordo che io fui chiamato da Rudinì, in casa di Brin, nel palazzo Odescalchi, in cui si riunivano, per chiedere la mia opinione, e per sapere da me quale contegno avrebbero assunto i miei amici. Io gli dichiarai che avrei francamente appoggiato il Ministero, nel quale entrò anche, prendendo il dicastero della Pubblica Istruzione, il mio amico Gianturco. Agli Esteri fu chiamato il Caetani, che quantunque conservatore aveva mantenuto un atteggiamento di forte opposizione al Crispi, sia per la impresa di Abissinia, sia per la politica reazionaria.
Il Di Rudinì, assunto il potere, si preoccupò anzitutto di risolvere la situazione abissina, che teneva in fermento tutto il paese, sia per il pericolo di complicazioni, sia per preoccupazioni sulla sorte dei soldati ed ufficiali rimasti prigionieri nella sfortunata battaglia. Egli iniziò una politica di graduale ritirata, in corrispondenza ad una tendenza che si era manifestata fortissima nel paese, e che arrivava sino a desiderare e patrocinare l'abbandono totale e definitivo dell'Africa. Questo a me pareva eccessivo e poco conveniente alla stessa dignità nazionale; e trovai pure che fu esagerato l'abbandono di Cassala, che era la parte migliore della colonia, e dove si erano potuti iniziare esperimenti promettenti di cultura del cotone, e che fu retrocessa quasi per forza all'Inghilterra. Se per queste decisioni affrettate ed eccessive c'è una scusante nello stato dell'opinione pubblica, si può dire però che il Rudinì ebbe il torto di abbandonarsi ad una corrente impetuosa del momento, la quale rappresentava anche una reazione alla politica interna di violenza del Ministero caduto.
Quel periodo di governo Di Rudinì, fu un vero caleidoscopio, con continui mutamenti di ministri. Il primo Ministero durò dal 10 marzo all' 11 luglio, e fu in gran parte mutato con le dimissioni di Caetani, sostituito dal Visconti-Venosta; di Colombo sostituito dal Luzzatti; di Ricotti sostituito da Pelloux; di Perazzi sostituito da Prinetti, e di Carmine sostituito da Sineo. Queste sostituzioni non rappresentavano nuovi orientamenti o mutamenti di rotta; erano puri e semplici cambiamenti di persone per soddisfare a pretese parlamentari e tenersi in piedi.
Questo secondo Ministero tirò avanti per un anno e mezzo, sino al dicembre del '97, quando si ebbe il notevole fatto della entrata nel Ministero di Zanardelli che era intesa a dare al governo un indirizzo più liberale. Altre notevoli variazioni di persone ci furono e Pelloux fu sostituito da San Marzano; Gianturco da Gallo; Prinetti da Pavoncelli; Guicciardini da Cocco-Ortu. Questo Ministero che, soprattutto per l'entrata di Zanardelli, rappresentava una mossa decisa verso Sinistra, durò sino al 12 giugno del '98. Un terzo Ministero, sempre con lo stesso metodo, fu messo ancora insieme da Rudinì, ma non durò che ventinove giorni. Quella fu proprio l'epoca dei cosiddetti rimpasti ministeriali, metodo al quale io non ho mai creduto e mai ricorso. L'esperienza infatti insegna che quando si fa un rimpasto, col proposito di rafforzare un Ministero, si ottiene l'effetto opposto di indebolirlo sempre più, e di farlo vivacchiare senza nessuna capacità di azione.
Durante questo periodo, che fu di due anni e tre mesi, di continui cambiamenti di uomini con ondeggiamenti ora a destra ora a sinistra, io mi trovai molto d'accordo con Cavallotti per combattere il Ministero quando esso prendeva degli atteggiamenti reazionari. Ricordo che Cavallotti ed io avevamo cercato di dissuadere in tutti i modi lo Zanardelli dall'entrarvi, essendo convinti che avrebbe potuto formarne uno egli stesso sulla base della Sinistra. Anzi ci recammo insieme a casa dello Zanardelli lo stesso giorno in cui egli accettò le offerte del Di Rudinì; e dopo una nostra lunga conversazione con lo Zanardelli, uscendo Cavallotti mi disse: - Credo che siamo riusciti a dissuaderlo - ma io gli risposi: - Temo invece che siamo arrivati troppo tardi - ed infatti l'ingresso di Zanardelli nel Ministero fu annunciato l'indomani.
Per questi nostri contatti ebbi allora campo di conoscere bene il Cavallotti. Egli era uomo di molto e vivo ingegno; impetuoso di carattere ma sinceramente interessato al bene del paese. Le mie relazioni con lui furono varie. Quando ero stato alla Presidenza del Consiglio, egli mi aveva combattuto; ma più tardi ci trovammo in pieno accordo nel combattere la reazione di Crispi, come pure nel combattere il Di Rudinì quando prese un atteggiamento troppo conservatore, che lo portò poi alla proclamazione degli stati d'assedio. Non ho mai avuto a lagnarmi di lui, anche quando mi ha combattuto; anche quando aggrediva violentemente e alle volte passava i limiti era sempre animato da passione politica e la sua condotta non era mai obliqua e sleale. Se fosse vissuto sarebbe certo pervenuto al governo; lo stesso Re Umberto, negli ultimi tempi prima che morisse gli aveva mandato a dire che per il caso di una combinazione ministeriale egli non faceva alcuna esclusione. Ricordo che il giorno in cui si battè nel duello dove trovò la morte, io mi trovavo alla Camera, e Giampietro, suo grande amico, e che molte volte era stato suo padrino, venne a parlarmi dimostrandosi inquietissimo, perchè conosceva il pericolo al quale il Cavallotti con la sua impetuosità si esponeva di fronte ad un avversario di sangue freddo. E mentre eravamo in questi discorsi giunse alla Camera la notizia della sua morte.
I fatti del '98 furono occasionati nel loro inizio dalla miseria in cui si trovava il paese, al colmo di una lunga crisi che aveva colpito l'economia mondiale, e da un improvviso, grave rincaro del costo del pane, dovuto a cattivi raccolti; al quale rincaro il governo non aveva provvisto nemmeno con una abolizione temporanea del dazio sul grano. A mio parere fu allora un errore il credere che si trattasse di un grande movimento politico e sovversivo, mentre si trattava di una esplosione di malcontento. Ma perdurava ancora nelle classi dirigenti uno stato d'animo paurosissimo di qualunque agitazione popolare e delle sue manifestazioni, e il governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a provvedimenti eccessivi. Così fu proclamato, o proposto all'autorità locale la proclamazione dello stato d'assedio in province e luoghi dove non c'era nessun pericolo.
Ricordo che si trovava a Torino Re Umberto, con alcuni ministri e numerosi senatori e deputati per la celebrazione del cinquantesimo anniversario dello Statuto, e proprio in quei giorni vi giunse l'ordine di proclamare lo stato d'assedio, ordine provocato indubbiamente da informazioni false o per lo meno esagerate. Fra l'altro era stato riferito a Roma, non so da chi, che gli operai della fabbrica Leumann, sita nelle vicinanze della città, si erano messi in marcia su Torino; ora quella fabbrica impiegava quasi esclusivamente donne le quali, essendo in sciopero, furono trovate sedute tranquillamente nei prati contigui alla fabbrica. Era a Torino, insieme al Re, anche lo Zanardelli, ministro di Grazia e Giustizia; e il generale Besozzi, che comandava quel corpo d'armata, fece osservare che mancava qualunque motivo per proclamare lo stato d'assedio; e così l'ordine fu revocato. Un altro generale che pure rilevò non essere necessario lo stato d'assedio, fu il Pelloux, che teneva il comando del corpo d'armata di Bari. I provvedimenti eccessivi a cui si era lasciato andare il governo per codesti avvenimenti ebbero il loro contraccolpo sulla situazione parlamentare e sullo stesso Ministero, da cui uscirono gli elementi di Sinistra: Zanardelli, Cocco-Ortu, Gallo, Sineo e Visconti-Venosta. Il Di Rudinì volle tentare un'altra ricomposizione, e fra gli altri invitò il Pelloux, offrendogli il portafogli degli Esteri. Il Pelloux venne da me, per avere in proposito il mio parere, ed io lo dissuasi dall'accettare, sia perchè a me pareva che, dopo la caduta del Rudinì, sarebbe stato molto opportuno offrire l'incarico a lui, che fra i generali, astenendosi dal proclamare lo stato d'assedio a Bari, si era mostrato il più liberale, sia perchè d'altra parte nella sua qualità di generale offriva particolari garanzie per il mantenimento dell'ordine, allora sempre turbato. Egli accettò il mio parere e rifiutò. Il Di Rudinì mise assieme un Ministero alla meglio; ma non potendo più contare su un appoggio a Sinistra ed avendo così perduta la maggioranza, dopo ventinove giorni dovette ritirarsi definitivamente.
Dopo la caduta del Di Rudinì, il Re chiamò Visconti-Venosta il quale, dopo i primi assaggi si persuase di non potere formare un ministero capace di reggersi, e quindi declinò l'incarico. Fu chiamato un altro senatore, il Finali, che venne da me dichiarandomi che riteneva suo dovere di esaminare quali possibilità vi fossero, pure non facendosi nessuna illusione di potere riuscire, e infatti due giorni dopo si ritirò. Allora il Re chiamò Pelloux. Questi volle ancora vedermi, e in una conversazione che avemmo mi osservò che per comporre un Ministero, considerata la situazione parlamentare, gli occorreva l'appoggio tanto di Zanardelli che degli amici di Crispi. Io mi impegnai con lui di tastare il terreno per quanto riguardava gli elementi di Sinistra, e mi recai subito dallo Zanardelli, insieme al suo intimo amico, il deputato Picardi; e lo Zanardelli convenne con noi che, considerate le condizioni dello spirito pubblico in quel momento, la migliore soluzione che si presentasse con probabilità di buon successo, era appunto di dare l'incarico a Pelloux, che per i suoi precedenti dava seri affidamenti ai partiti liberali.
Mi recai pure da Guido Baccelli, amico di Crispi, che pure convenne della opportunità di tale soluzione. E così Pelloux potè formare il suo primo Ministero, interamente su base di Sinistra, prendendo con se il Fortis, il Lacava, il Finocchiaro-Aprile, ecc. ed avendo come sottosegretario agli Interni un mio amico, il deputato Marsengo-Bastia.
Giunto così al governo, il generale Pelloux abbandonò i disegni di legge restrittivi della libertà della stampa e del diritto di associazione presentati dal suo predecessore; accennò al proposito di governare con le leggi ordinarie rigidamente applicate; e pose a base del suo programma una riforma tributaria in senso democratico; tenne insomma, per circa sette mesi, una condotta politica liberale, cercando anche di attenuare negli effetti le condanne degli uomini politici, radicali e socialisti, colpiti dai tribunali militari, quali il Turati, il Romussi ed altri. Ricordo che per un caso speciale toccato al Romussi, intervenni io personalmente, ottenendo che fosse revocato un assurdo provvedimento per il quale, avendo il Romussi scritta nella sua detenzione una vita di Silvio Pellico, la si voleva considerare come lavoro carcerario, ed attribuirne la proprietà allo Stato. Ed il Pelloux in tutto questo periodo ebbe l'illimitato e disinteressato appoggio del Partito liberale.
Poi improvvisamente egli mutò rotta; e il 4 febbraio del 1899, cedendo alle intimazioni della parte più intransigente del partito conservatore; e forse anche impressionato per il fatto che, non ostante la repressione del '98, il movimento operaio e socialista si propagava per tutta l'alta Italia, con grande spavento dei conservatori, il Pelloux presentò alla Camera le cosiddette leggi eccezionali, che miravano a restringere i diritti statutari di riunione, di associazione e di libertà di stampa. Di fronte a tale atto del Ministero, il Partito liberale momentaneamente si divise; una parte, ritenendolo definitivamente avviato a reazione, lo abbandonò, rifiutandogli il voto per il passaggio alla seconda lettura del disegno di legge presentato; altri, fra i quali io c'ero, vollero tentare ancora di ricondurre il Ministero al programma con cui era sorto. A me, e a quelli fra i miei amici che allora consentirono con me, repugnava di credere che il Pelloux, andato al governo con programma liberale, volesse volgersi a una politica reazionaria. Noi consideravamo d'altra parte che il disegno di legge ministeriale con alcuni emendamenti poteva essere reso accettabile; in quanto la parte relativa al diritto di riunione riguardava solamente quelle tenute all'aperto, lo scioglimento delle associazioni si deferiva all'autorità giudiziaria, e si avevano affidamenti per la modificazione della parte più grave, quella che concerneva la libertà di stampa.
Io e Zanardelli esaminammo quindi se fosse il caso di passare immediatamente all'opposizione o se convenisse attendere la discussione. E finimmo per trovarci d'accordo che si potesse accettare il passaggio alla discussione degli articoli; e questo tanto più che il Pelloux, a mezzo del Lacat, ci aveva date assicurazioni, promettendoci fra l'altro che la Commissione per l'esame del progetto sarebbe stata nominata di pieno accordo col Partito liberale, così che le leggi proposte avrebbero potuto essere modificate in guisa che non riuscissero ad alcuna restrizione o menomazione dei diritti statutari, mentre io e Zanardelli eravamo poi disposti ad accettarne quella parte che mirava ad assicurare la continuità dei pubblici servizi.
Se non che ogni tentativo di ritrarre il governo dal suo nuovo indirizzo politico apparve presto vano, e fallaci gli affidamenti dati. Infatti, appena ottenuto il voto per il passaggio alla seconda lettura, il Pelloux mostrò apertamente il fermo suo intendimento di non attenuare in alcun modo il carattere reazionario dei suoi provvedimenti; fra l'altro, quando si fu a comporre la Commissione che doveva riferire alla Camera, egli, mancando alle dichiarazioni che a suo nome aveva fatto Lacava, propose una serie di nomi scelti appunto fra coloro che si erano mostrati favorevoli alla restrizione dei diritti statutari, e specie del diritto di riunione. Nello stesso tempo, ripetendo l'esempio di Crispi, per quella legge fatale per la quale ad ogni movimento reazionario all'interno corrisponde un tentativo di diversione all'estero, egli iniziò in Cina una nuova impresa che la maggioranza della Camera disapprovava, perchè non consigliata da alcun evidente interesse del Paese e rivolta a luogo che escludeva ogni possibilità di colonizzazione, e perchè intrapresa senza scopo preciso, senza conoscenza del luogo che si voleva occupare e senza alcun serio calcolo delle sue difficoltà e delle spese che avrebbe importate.
E quella impresa infatti, non ebbe altro risultato che lo sperpero di parecchi milioni ed una umiliazione nazionale; e malamente iniziata fu poi abbandonata in modo così poco dignitoso, che più tardi io, quando si discusse il bilancio degli esteri, mi sentii in dovere di raccomandare al Ministro che per carità di patria non ne pubblicasse i documenti; raccomandazione che il Ministro accolse.Venuta in discussione quella sciagurata impresa, il Pelloux, prevedendo una sicura sconfitta, si dimise senza attendere il voto del Parlamento e formò un nuovo Ministero con la sua base principale negli elementi più conservatori della Camera: Finocchiaro Aprile fu sostituito da Bonasi, Carcano da Carmine, Fortis da Salandra, Vacchelli da Boselli, Nasi da San Giuliano; sostituzioni tutte che portavano alla trasformazione totale del Ministero da Sinistra a Destra, da liberale a conservatore. Per inevitabile conseguenza, e per assicurarsi l'appoggio dei conservatori più intransigenti, il Pelloux dovette modificare i suoi progetti di legge in senso anche più reazionario, arrivando a sopprimere addirittura, contro lo stesso voto della Commissione parlamentare, il diritto di riunione garantito dallo Statuto, ed a togliere ogni garanzia di intervento dell'autorità giudiziaria nello scioglimento delle associazioni. Nello stesso tempo, e per logica conseguenza del nuovo indirizzo politico, il Pelloux abbandonò pure quei propositi di riforma tributaria a favore delle classi popolari, coi quali aveva da prima assunto il governo.
Con questo atteggiamento assunto dal governo, la vita parlamentare fu travolta in una lotta senza limimtazioni. L'Estrema Sinistra, che riteneva i provvedimenti antistatutari del Pelloux contrari agli interessi politici delle classi che essa rappresentava, rispose alla sfida ricorrendo ad un'arma che sino allora non era mai stata usata nel parlamento italiano: l'arma dell'ostruzionismo.
Nè io, nè Zanardelli, né gli altri dell'opposizione costituzionale partecipammo alla lotta dell'ostruzionismo, e lo dimostrammo votando contro tutte le proposte che a scopo di ostruzionismo venivano avanzate; io.. anzi un giorno, in un mio discorso ebbi a dichiarare che noi ci trovavamo presi fra due violenze: quella del governo che presentava leggi contro i diritti statutari, e quella degli estremi che rendevano impossibile il funzionamento del Parlamento, ciò che non poteva essere approvato dal partito liberale. Non sarebbe, del resto, stata cosa difficile vincere l'ostruzionismo, se il Ministero avesse avuta autorità per dirigere i lavori parlamentari e se fosse stato sorretto da una maggioranza sicura; ma codeste condizioni mancavano, ed il Ministero non riuscì neppure a tenere presente alla Camera la sua maggioranza, cosicchè parecchie volte, sebbene l'opposizione costituzionale non avesse mai abbandonata l'aula, mancò il numero legale.
L'aiuto più efficace all'ostruzionismo fu pure dato dalla incertezza dello stesso Ministero nei suoi propositi. Infatti esso abbandonò il primo suo disegno di legge; ne abbandonò un secondo dopo averlo trasmesso alla Commissione parlamentare; non accettò un progetto elaborato dalla Commissione stessa, e lasciò che la Camera discutesse per quindici giorni senza sapere precisamente quale fosse il disegno di legge voluto dal Ministero, la cui incertezza giunse al punto che il 15 giugno del 1899 il Ministro di Grazia e Giustizia sostenne una disposizione relativa al diritto di riunione che poteva essere accettata dal Partito liberale, ed all'indomani il Presidente del Consiglio ne propose un'altra sostanzialmente diversa ed equivalente all'assoluta abolizione di quel diritto.
Dopo tutti questi errori il Pelloux, trovatosi impotente a dominare la situazione, non seppe escogitare altro che un atto da lui stesso dichiarato illegale; e con semplice decreto, contro la esplicita disposizione dello Statuto fondamentale dello Stato, senza il voto della Camera, senza il voto del Senato, modificò le leggi esistenti sulla stampa e sui diritti di riunione e di associazione; cosa che non era stata mai tentata dal 1848 in poi. E devo qui ricordare, ad onore del Parlamento, che tale aperta violazione dello Statuto, ebbe aperti rimproveri, non solo dalla opposizione costituzionale, ma dai più autorevoli capi della stessa maggioranza ministeriale. Tale decreto fu poi dichiarato incostituzionale dalla Corte dei Conti ed annullato dalla Corte di Cassazione.
Ma ormai il governo di Pelloux doveva giungere sino al fondo della china pericolosa in cui si era messo incautamente. Per debellare l'ostruzionismo e renderlo impossibile nell'avvenire, d'accordo con la Presidenza, pensò di modificare il regolamento della Camera; ma anche queste modificazioni dovevano essere discusse ed approvate, e si trovavano quindi e non meno dei provvedimenti eccezionali, di fronte all'ostacolo dell'ostruzionismo. Per girare questo ostacolo si ricorse, da parte del governo, con la connivenza della Presidenza, tenuta allora dal conservatore Colombo, ad uno stratagemma. Era stato già preparato il progetto di regolamento, che fu subito pubblicato, ma non iscritto all'ordine del giorno. Il Colombo, all'inizio di una seduta, dichiarò improvvisamente: - I deputati hanno già visto il nuovo progetto di regolamento: lo metto ai voti: chi lo approva alzi la mano. - Naturalmente in tal modo il progetto fu approvato, ma senza che fosse passato traverso ad alcuna discussione. L'Estrema Sinistra si sollevò in tumulto; e noi pure dichiarammo di non potere riconoscere quel regolamento, perchè non approvato nelle debite forme. Per dare maggiore importanza a questo rifiuto, Zanardelli fu incaricato da tutte le Sinistre di fare una solenne dichiarazione di non riconoscerlo; dopo di che uscimmo in massa dall'aula.
Il governo, col mettersi nell'illegalità, altro non aveva ottenuto che di riunire in un blocco compatto tutte le opposizioni; e l'ostruzionismo non potè essere vinto. Ci fu qualche tentativo di riconciliazione ma senza risultato. Ricordo che un giorno io avevo incontrato il Colombo nell'auletta della Camera, che si stava riassettando, ed in una conversazione che ne era seguita il Colombo aveva assentito ad una mia proposta conciliativa, riservandosi però di darmi la risposta. E il giorno dopo mi portò la risposta, negativa, dicendomi: - Sonnino non vuole. -
L'on. Sonnino aveva in quel tempo tenuta la posizione di capo della maggioranza, ed in un suo famoso scritto, col titolo «Torniamo allo Statuto» aveva patrocinata la tesi conservatrice sino alle sue ultime conseguenze, di tornare cioè alla forma del governo cosiddetto costituzionale, in opposizione al governo parlamentare, con la responsabilità cioè dei ministri invece che verso il Parlamento, verso la Corona. Quella tesi, e la lotta sostenuta da Pelloux per l'approvazione delle leggi antistatutarie, rappresentarono l'ultimo sforzo dei conservatori per dominare i destini del Paese; sforzo condannato all'insuccesso perchè in contrasto con le tendenze sempre più democratiche dei tempi e in quasi tutti i paesi. Più tardi poi il Sonnino, dopo il mio secondo Ministero, ebbe a dichiarare francamente che l'Italia poteva essere governata solo con i metodi miei, ed in tutta la sua opera ulteriore ritornò e si tenne lealmente alle norme del governo parlamentare.
Al governo, battuto con l'ostruzionismo, non rimaneva che un ultimo espediente: l'appello al Paese, che s'imponeva anche per tranquillare gli animi ad uscire dalla situazione mediante un verdetto della pubblica opinione. Le elezioni furono indette il 18 maggio 1900 per il 3 ed il 10 giugno, e riuscirono ad un trionfo dell'Estrema Sinistra, che ritornò alla Camera notevolmente rafforzata.
In una lettera indirizzata ai miei elettori, io avevo osservato che, per il modo con cui erano condotte le elezioni, risultava evidente che il Ministero considerava come nemici suoi coloro che invocavano la integrità dello Statuto fondamentale dello Stato; ed aggiungevo che, la violenza non essendo mai durevole, noi potevamo considerare con piena sicurezza il Ministero Pelloux come destinato a scomparire di fronte alla nuova rappresentanza del Paese, lasciando dietro di sè tristi ricordi e rendendo più gravi e difficili nella nuova legislatura i doveri dei sinceri amici delle istituzioni. Quel mio pronostico, che irritò assai il Pelloux, fu pienamente adempiuto. Alla convocazione della Camera vi fu lotta per l'elezione del Presidente, il Governo portando il Gallo e l'opposizione lo Zanardelli. Il Gallo riuscì solo per pochi voti; ed a me che gli presentavo i miei rallegramenti personali, pure non avendogli dato il voto, e gli chiedevo se ora egli farebbe le parti di forza, come il Colombo, egli rispose: - Mi pare che sarebbe perfettamente inutile. - Ed egli stesso consigliò poi il Pelloux a dare le dimissioni, che furono presentate il 24 giugno.
Con questo il Pelloux chiuse la sua carriera politica, scontando l'errore di essersi lasciato trascinare ad una politica ultra-conservatrice, dopo aver assunto il governo grazie ai suoi precedenti liberali e con l'appoggio, da lui stesso chiesto, della Sinistra. Personalmente egli era un uomo altamente stimabile, gentiluomo cortese ed onestissimo; uomo d'ingegno pronto e vario, ma deficiente nella cultura politica. I nostri rapporti erano sempre stati assai amichevoli; ma poi egli si alienò da me per un episodio svoltosi più tardi al Senato. Egli sostenne che la militarizzazione dei ferrovieri, da me applicata, non era legale. Allora io gli ricordai che egli era generale in attività di servizio, e come tale avrebbe avuto l'obbligo di pubblicare gli ordini del governo con la sua stessa firma; sotto la quale i ferrovieri avrebbero potuto stampare le parole contrarie a quegli ordini che egli pronunciava come senatore. Egli ne rimase turbato, e d'allora in poi i nostri rapporti furono rotti.* * *
Con la caduta di Pelloux si chiuse definitivamente un periodo assai torbido della nostra vita nazionale, periodo che, iniziato con il Ministero Crispi, succeduto al mio primo Ministero, e passando per i vari Ministeri Di Rudinì e Pelloux, rappresentò nel suo complesso, non ostante momentanei proponimenti ed affidamenti, un continuo tentativo di risolvere in senso conservatore e reazionario la grande crisi, materiale e morale, che travagliava il paese. Gli intendimenti reazionari, con l'uso dei mezzi più violenti, furono più espliciti e diretti nella politica del Crispi; mentre col Di Rudinì e il Pelloux le cose andarono diversamente, perchè il primo, venuto al potere contro appunto il reazionarismo del Crispi, si lasciò trascinare egli stesso ad una politica di reazione; e il Pelloux, chiamato, con la fiducia del partito liberale contro all'ultimo periodo reazionario del Rudinì, finì per riassumere tutta la politica reazionaria nel tentativo di mutare le leggi statutarie liberali.
Il Di Rudinì e il Pelloux parvero insomma essere spinti nella corrente della politica conservatrice e reazionaria piuttosto contro la loro volontà, dalla forza dei fatti e delle cose; e sarebbe ingiusto non riconoscere le difficoltà delle condizioni a cui si trovarono ripetutamente di fronte. Il malessere economico che gravava sul paese, col conseguente sorgere e diffondersi del malcontento e delle agitazioni nelle classi popolari e nella piccola borghesia, che ne erano particolarmente colpite; l'affacciarsi di nuove dottrine politiche, quale il socialismo, che facevano presa sulle folle tanto nelle città che nelle campagne, creavano indubbiamente nuovi e gravi problemi, sia economici che politici di non facile soluzione, e che preoccupavano le classi dirigenti ed il Parlamento.
La principale questione che, in tali condizioni, si poneva alle classi politiche ed agli uomini di governo, era se questi problemi potevano risolversi col regime di libertà, o se essi richiedevano e imponevano un restringimento di freni e l'adozione di provvedimenti eccezionali.
Per conto mio non dubitai un solo momento che la loro retta soluzione non potesse ottenersi che col mantenimento dei principii liberali, e che qualunque provvedimento di reazione, per soffocare il malcontento e per impedire la manifestazione delle nuove aspirazioni popolari, avrebbe avuto il solo effetto di peggiorare le cose e minacciare le stesse istituzioni. Cotale criterio io cercai di applicare nel mio primo Ministero, e lo mantenni fermamente nella lotta contro la politica di Crispi, e poi contro il Di Rudinì e Pelloux quando, venendo meno agli impegni presi ed agli affidamenti dati al partito liberale, passarono alla reazione. E tali principii ribadii costantemente in lettere indirizzate ai miei elettori, per rendere conto del mandato politico da essi affidatomi, e in discorsi pronunciati dal 1897 al 1899 in varie sedi del mio collegio e specialmente a Busca e Coraglio.
Non credo fuori di luogo, tralasciando le questioni più particolari del momento, di riassumere qui brevemente la parte generale dei concetti politici allora da me proclamati, nel vivo della lotta fra conservatorismo e liberalismo; tanto più che essi rappresentano i principii fondamentali della mia condotta politica, a cui mi sono, e prima e dopo, costantemente attenuto.
Dunque, in quei miei discorsi, dopo avere rilevato come, in seguito alla persistente politica di reazione, in contrasto con gli affidamenti dati, il paese non prestasse più fede al governo ed ai partiti costituzionali, e che solamente con una energica azione ed un radicale mutamento di indirizzo, si poteva riacquistare la fiducia delle popolazioni, io domandavo
- Quale deve essere il nuovo indirizzo?
Ed osservavo che due sistemi politici stavano di fronte: l'uno, quello del partito reazionario, che consisteva nel rifiutare qualunque concessione e nell'opporre ai malcontenti la forza, diminuendo le pubbliche libertà ed accrescendo i mezzi di repressione; l'altro, quello del partito liberale, che consisteva nel dare soddisfazione ai giusti desideri della grande maggioranza del paese, e così togliere o almeno attenuare, per quanto può dipendere dalle leggi e dai metodi di governo, le cause del pubblico malcontento.
Notavo quindi che la via della reazione era consigliata da alcuni uomini politici, i quali si presentavano come continuatori dell'antico partito moderato, e della politica del Conte di Cavour. Giammai era stata fatta a quel partito ed a quella gloriosa politica più grave ingiuria; la storia c'insegnava che i legittimi rappresentanti dell'antico partito moderato, Lamarmora, Ricasoli, Farini, Menabrea, Lanza, Sella, Minghetti avevano saputo, nei momenti più difficili, come dopo Novara, Villafranca, Aspromonte, Mentana, rendere la pace al paese senza togliergli la libertà; e invocare il nome di Cavour per sostenere una politica reazionaria e violatrice della libertà equivaleva a tentare una delle più audaci falsificazioni della storia. E facevo notare che i reazionari di quel tempo non appartenevano alla scuola politica del Conte di Cavour, ma a quella dei governi che quella politica aveva abbattuti nel 1859 e nel 1860.
Esaminavo poi quali sarebbero state le conseguenze di una politica reazionaria.
Evidentemente tale politica sarebbe stata diretta contro la piccola borghesia e contro le grandi masse popolari, e perciò avrebbe potuto contare solamente sulla forza delle classi nella reazione interessate, vale a dire di quelle classi che temevano le riforme necessarie ad attenuare il pubblico malcontento. Ora, era mai possibile che reggesse a lungo un governo che avesse contro di sè la maggioranza dell'opinione pubblica, specie in un paese, quale era l'Italia, dove il governo non avrebbe avuto neppure l'aiuto incondizionato del partito clericale?
Una tale politica reazionaria avrebbe dovuto contare principalmente sulla forza armata; e poteva essere ammissibile che l'esercito italiano, che esce dalle fila del popolo e ne è la più schietta rappresentanza, diventasse strumento di oppressione della libertà del paese? A ciò si doveva aggiungere che una tale condizione di cose non avrebbe potuto non avere un triste riflesso sulle condizioni dell'Italia all'estero, perchè un paese che deve mettere ogni tanto una parte dell'esercito sul piede di guerra per mantenere l'ordine all'interno, non può avere all'estero seria influenza.
Alla forza della pubblica opinione non avevano potuto resistere le monarchie reazionarie che governarono l'Italia prima del 1860, le quali avevano per sè l'appoggio della chiesa, la tradizione secolare ed i pregiudizi allora prevalenti nel popolo. Come avrebbe potuto poi reggersi un governo sorto dalla rivoluzione, dopo che cinquanta anni di vita libera, di discussione e di libera stampa avevano fatto penetrare in tutti la coscienza dei propri diritti?
Il movimento reazionario, secondo i propositi di quelli che lo caldeggiavano, avrebbe dovuto cominciare da una restrizione del suffragio elettorale. Tale restrizione, se fatta in misura molto limitata, mentre sarebbe stata un atto odioso a carico di alcuni cittadini, non avrebbe prodotto effetto sensibile, perchè il malcontento più pericoloso non si manifestava tanto nelle ultime classi sociali, che ne sarebbero state colpite, quanto nelle classi operaie più colte e nella piccola borghesia. Se poi si avesse voluto togliere il diritto di voto a numerose classi di cittadini, si avrebbe avuto l'effetto di gettare codeste classi sociali fuori delle istituzioni, e di creare una vera situazione rivoluzionaria.
Togliere il voto ai malcontenti, io osservavo, poteva avere l'effetto di evitare momentaneamente la manifestazione del male, senza però curarlo, anzi aggravandolo. Si temeva che i voti delle classi popolari si rivolgessero tutti ai socialisti, ma in realtà, più che a socialisti noi ci trovavamo di fronte a malcontenti; la forza del socialismo, assai più che dalle sue dottrine in gran parte contrarie all'indole ed alle tradizioni del popolo italiano, che ha saldo il sentimento della famiglia e della proprietà individuale, derivando in parte dall'essersi presentato come difensore delle classi più numerose, che i partiti costituzionali avevano avuto il torto di trascurare, e più ancora dal generale malcontento diffuso per il paese.
Era mai pensabile che un paese così poco soddisfatto del suo governo, consentisse ad abdicare nelle mani di esso le proprie libertà, conquistate con tanti sacrifici? E poi che cosa si sarebbe offerto al paese in compenso della libertà perduta? Quando le ristrette consorterie che spingevano il governo verso la reazione, avessero raggiunto il principale loro scopo, che era appunto di non dividere il potere coi rappresentanti delle classi popolari, per esercitarlo solo nel proprio egoistico interesse, chi si sarebbe illuso che proprio allora sarebbe sorto in esse l'affetto per le classi popolari, e che avrebbero cominciato allora a sacrificare gli interessi propri a quelli generali del paese?
Ed io concludevo che la politica della reazione sarebbe stata fatale alle nostre istituzioni, appunto perchè le avrebbe poste a servizio di una esigua minoranza, ed avrebbe rivolto contro di esse le forze più vive e irresistibili della società moderna, cioè l'interesse delle classi più numerose e il sentimento degli uomini più colti.
Esclusa così la convenienza, anzi la possibilità stessa di un programma reazionario, io osservavo che restava come unica via, per scongiurare i pericoli della situazione a cui il malessere generale e i conati reazionari avevano portato il paese, quel programma liberale che si proponeva di togliere, per quanto possibile, le cause del malcontento, con un profondo e radicale mutamento di indirizzo, tanto nei metodi di governo, quanto nella legislazione.
Ma un programma di tal fatta, di cui parte non piccola doveva essere la riforma tributaria a favore delle classi più numerose e meno favorite dalla fortuna, non avrebbe potuto essere proclamato ed eseguito che da un governo il quale avesse solida base nella maggioranza del paese, e non fosse quindi costretto a cedere ad interessi illegittimi. Nel campo politico soprattutto vi era un punto essenziale, nel quale i metodi del governo dovevano essere immediatamente mutati. Negli anni corsi dal 1895 al 1899, nell'azione reazionaria del Crispi prima, poi del Rudinì e del Pelloux, si era a poco a poco giunti a confondere la forza del governo con la violenza, considerando forte quel governo che al primo stormire di fronda proclamava lo stato d'assedio, sospendeva la giustizia ordinaria, istituiva i tribunali militari e calpestava tutte le franchigie costituzionali.
Quella invece non era forza, ma debolezza e della peggiore specie; debolezza giunta a tal punto da fare perdere la visione esatta delle cose. Primo dovere del governo è e sarà sempre di mantenere l'ordine a qualunque costo; ma la vera dimostrazione di forza si fa quando l'ordine è mantenuto con la rigida e costante applicazione della legge; quando il governo sa resistere alle pressioni degli interessi illegittimi, e quando ha un programma preciso e lo attua con fermezza e costanza, senza consumare nè subire alcuna violenza.
E per riuscire a possedere questa forza fatta soprattutto di autorità, è necessario che il governo lasci pieno agio a tutte le classi, ed in special modo a quelle più numerose, di fare conoscere e fare valere le proprie aspirazioni e di difendere, nell'ambito delle leggi, i propri legittimi interessi. Accogliendo così nel loro ambito la rappresentanza dei più larghi interessi nazionali, le istituzioni potevano acquistare quella solidità che i metodi della reazione e della violenza, non che assicurare loro, avevano gravemente compromessa.
Tali furono i criteri di governo che io proclamai costantemente in un periodo difficile, durante il quale essi parvero oscurarsi nella coscienza delle classi dirigenti. Ma, con l'ultimo fallimento del tentativo reazionario del Pelloux, e coi molteplici segni della rovina a cui, perseverando in quella via, si andava incontro, tali criteri cominciarono a riprendere il sopravvento, portando il loro benefico effetto su l'intero svolgimento della vita nazionale.FINE DEL SESTO CAPITOLO