CAPITOLO 4
Un ritorno al governo di partito - I punti fondamentali del mio programma: politica liberale e politica sociale; mantenimento della Triplice e rapporti amichevoli con la Francia - Le elezioni e la vittoria della Sinistra - L'inchiesta sulla Banca Romana e i suoi precedenti - Il pericolo per il credito nazionale e la riforma delle Banche d'emissione - Gli inizi del movimento socialista - I «Fasci» siciliani e l'azione economica dei lavoratori - De Felice, Barbato,Verro - La reazione conservatrice - Il Comitato dei Sette e la sua opera inadeguata - Le accuse mosse contro di me e le mie dimissioni. |
La caduta del Ministero Di Rudinì, che era nato da una crisi provocata dagli elementi conservatori su una frase infelice del Crispi, e che, nonostante la partecipazione del Nicotera e le velleità mai adempiute del Di Rudinì di cercare altri appoggi verso la Sinistra, era stato complessivamente un Ministero di Destra, rappresentò appunto lo scacco di quel primo tentativo di restaurazione di una politica conservatrice, che in quella forma non fu più ritentata.
Avuto l'incarico di formare il nuovo Ministero io giudicai che esso dovesse essere nettamente un Ministero di Sinistra, senza dissimulazione ed accomodamenti, e chiamai a collaborare con me il Bonacci, Brin, Martini, Genala, Lacava, Finocchiaro Aprile, Di Saint-Bon, che era soprattutto un tecnico per la marina, e per la guerra il Pelloux, che nel mondo militare rappresentava allora, avanti le sue posteriori trasformazioni, un elemento molto liberale. E mi formai anche il concetto di chiamare uno dei liberali più rappresentativi alla Presidenza della Camera, scegliendo lo Zanardelli, che effettivamente fu nominato alla Presidenza dopo le elezioni generali, il 23 novembre del '92.
Il mio programma aveva alcuni punti capitali che lo distinguevano dalla politica dei miei immediati predecessori. Non solo da quella del Di Rudinì, rimasta sempre oscillante fra le tendenze conservatrici dell'uomo e il suo sforzo ad adattarsi alle condizioni dell'ambiente; ma anche da quella del Crispi, che avviatosi ormai a propositi grandiosi di espansione non teneva sufficiente conto delle condizioni ancora assai difficili della finanza e della economia pubblica, e mostrava già la disposizione a reagire con violenza al malcontento del paese, specie delle classi lavoratrici. Uno di questi punti era per me la restaurazione del bilancio, malamente scosso dalla finanza del Magliani e dalla mania spendereccia della Sinistra nei suoi primi tempi; e la necessità di adattare la nostra politica finanziaria alle condizioni del paese, che stava ancora traversando una lunga crisi economica, dalla quale non doveva uscire che parecchi anni dopo.
Un altro punto, che d'altronde era in stretta correlazione con questa necessità capitale del risanamento della nostra finanza, toccava la politica estera. Io accettavo pienamente la «Triplice Alleanza» conclusa parecchi anni avanti dal Depretis; ma non intendevo affatto di seguire l'indirizzo di Crispi, che a questa alleanza si era appoggiato per condurre una politica estera che la Francia considerava ostile e provocatrice. Tale atteggiamento di Crispi aveva avuto per noi ripercussioni gravi appunto nel campo finanziario; rendendo più acuta l'ostilità finanziaria con cui la Francia rispondeva alla ostilità politica del Crispi, e costringendoci a maggiori spese militari, come apparve poi negli anni seguenti, quando Crispi ritornò al Governo. Nel mio pensiero, già sino d'allora la Triplice doveva essere considerata da noi nell'aspetto di una alleanza difensiva, la quale, garantendoci la nostra sicurezza, ci permettesse appunto di intrattenere relazioni cordiali, sopra un piede di riconosciuta eguaglianza, con le altre Potenze. Io mi proponevo dunque nella politica estera, mantenendo fermi i nostri accordi con le Potenze Centrali, di smussare gli angoli nei nostri rapporti con la Francia, che si erano gravemente inaspriti durante il Ministero Crispi, e di ristabilire con essa relazioni equanimi e di buon vicinato. Ed a questo mio proposito riuscii, ottenendo appunto che la Francia partecipasse ufficialmente alle feste colombiane tenute a Genova, nell'agosto del '92, inviandovi una sua corazzata con un vice-ammiraglio a fare omaggio al Re, che era presente con tutti i Ministri.
Il terzo punto capitale del mio programma concerneva la politica interna; per la quale io ritenevo arrivato il momento di avviarsi ad un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici. L'av
vento infatti della democrazia al governo, con la cosiddetta rivoluzione parlamentare del '76 ed il trionfo della Sinistra, era stato di carattere più che altro dottrinario, toccando più particolarmente, e in modo non interamente benefico, la politica finanziaria dello Stato. Le inclinazioni democratiche della Sinistra si erano insomma più che altro sfogate nel fare una politica popolare di spese, che se per un verso parevano giustificate dalle condizioni e dai bisogni delle regioni meno fortunate e più arretrate, per un altro minacciavano la compagine finanziaria dello Stato. E se le convinzioni democratiche della Sinistra erano rimaste ferme nella dottrina, nella pratica parlamentare avevano subito inevitabili oscuramenti per la politica del «trasformismo» del Depretis, e per le nuove tendenze dittatorie a cui il Crispi si era ormai avviato.
C'era poi un punto nel quale le idee mie si distinguevano nettamente da quelle degli altri rappresentanti della democrazia di quel tempo. La Sinistra democratica era pur sempre una espressione della borghesia, sia pure della borghesia minuta in confronto a quella degli ottimati rappresentata dalla vecchia Destra, specie lombarda; e le sue ispirazioni dottrinarie erano pure attinte alle scuole della democrazia borghese. Ho già detto che a quel tempo gli stessi democratici più avanzati, quali lo Zanardelli e il Cavallotti, erano avversi al socialismo ed alle sue dottrine; mentre per Crispi il socialismo era addirittura il nemico della patria. Per l'opinione media il socialismo si confondeva con l'anarchismo e la rivoluzione; e i pochi socialisti già arrivati alla Camera, quali il Costa, il Prampolini, il Badaloni, l'Agnini, se personalmente erano trattati come egregie persone, come meritavano, politicamente erano considerati come un caso eccezionale. Io pensavo invece che fosse già arrivato il momento di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in quasi tutto il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche, di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano cominciato, tanto nelle grandi città industriali, che qua e là nelle campagne, ad agitarsi e a farsi sentire. Concetti questi che, anche se non espressamente proclamati, informavano lo spirito delle dichiarazioni con cui il nuovo Ministero si presentò alla Camera.
Apparve subito che la Camera, come era stata formata nelle ultime elezioni fatte dal Crispi, non avrebbe fornito una base sicura alla esplicazione di quel programma. Quando mi presentai fui infatti attaccato particolarmente dalla Destra, che aveva per suo oratore principale Ruggiero Bonghi, che ne rappresentava appunto le tendenze più retrive. Provocai, a chiudere la discussione, un voto di fiducia; ed ebbi appena nove voti di maggioranza, con ventisei o ventisette astenuti al Centro, che facevano capo a Sonnino. Quella votazione mi dimostrò che con quella Camera era impossibile andare avanti, e la sera stessa mi recai dal Re per esporgli la situazione, che si riassumeva poi nel dilemma: o lo scioglimento della Camera o le dimissioni del Ministero. Le ragioni per cui allora non esitai a proporre lo scioglimento della Camera, e che esposi a Sua Maestà, erano le seguenti: che il sistema elettorale essendo stato mutato con la legge presentata e fatta approvare dal Di Rudinì, che ristabiliva l'antico collegio uninominale, la Camera non rispecchiava più fedelmente la situazione politica del paese; e che d'altronde, la Camera avendo abbattuti i due Ministeri del Crispi e del Rudinì, e avendo a me data una votazione in base alla quale non potevo assumermi la responsabilità del governo, ne risultava una condizione di cose per cui non appariva possibile di costituire una maggioranza. Il Re ascoltò queste ragioni e mi disse di tornare l'indomani a mezzogiorno per la risposta.
Nei rapporti che durante il mio Ministero io ebbi con Re Umberto, egli mi apparve come un uomo molto semplice, molto cortese, e correttissimo dal punto di vista costituzionale. Dopo quel mio primo Ministero io non ebbi per un pezzo più a rivederlo; ma certo in quel tempo non notai in lui prevenzioni di sorta contro una politica liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di responsabilità la sua funzione, e s'informava moltissimo delle cose di Stato, interessandosi di tutto, ma in partcolar modo della politica estera e delle cose militari.
Anche in questa occasione egli mostrò d'intendere con retto senso costituzionale l'alto compito che gli incombeva. Appena lasciato il Re io avevo convocato per l'indomani alle undici il Consiglio dei ministri. Appena fu adunato il Genala chiese la parola, e mettendo in rilievo l'impossibilità di andare avanti, dichiarò solennemente che gli pareva opportuno di proporre la convocazione dei comizi elettorali. Ricordo ancora che usò la frase: - Bisogna fare un gran colpo. - Io presi allora la parola e dichiarai ai Ministri che li avevo convocati appunto per informarli che la proposta dello scioglimento della Camera e delle elezioni era già stata da me fatta a Sua Maestà, e che a mezzogiorno dovevo tornare a Palazzo reale a prendere la risposta.
E infatti poco dopo fui ricevuto dal Re, il quale mi disse subito che, avendo esaminata la situazione parlamentare, e tenendo conto della mutazione della legge elettorale, era venuto alla conclusione che fosse opportuno interpellare il paese. Soggiunse poi che quanto al momento ed alla forma della dichiarazione, si rimetteva interamente a me. Con questa risposta tornai ai ministri, che erano rimasti ad aspettarmi, e li invitai a ritrovarsi tutti per le due all'apertura della Camera.
Vi era grande aspettativa e fermento. Quando io mi alzai a parlare e cominciai a dire: Ho l'onore di dichiarare che in seguito alla votazione di iersera il Ministero ha presentate a Sua Maestà le sue dimissioni - un applauso scoppiò dai banchi della Destra. Io li lasciai applaudire un bel po', poi soggiunsi: - Però Sua Maestà non le ha accettate. - Un altro applauso fragoroso scoppiò allora dai banchi della Sinistra, e Zanardelli alzandosi grido - Viva il Re! - Per tutto il seguito poi del mio Ministero, nella Camera fu mantenuta questa rigida divisione di Destra e di Sinistra, quale non si era avuta da un pezzo, e che si dimostrava ogni volta che si faceva una votazione per alzata e seduta.
Io conclusi chiedendo l'esercizio provvisorio per sei mesi. Seguì una lunga discussione, nella quale oratore principale contro il Ministero fu sempre il Bonghi, e si concluse con una votazione a scrutinio segreto, che mi dette settantotto voti di maggioranza.
Sciolsi la Camera solo nell'autunno, e precisamente il 10 ottobre, anche perchè per l'agosto si preparavano a Genova le feste pel Centenario di Colombo, alle quali dovevano convenire rappresentanze da tutto il mondo, e che, come ho detto, ebbero anche un particolare significato politico, per l'intervento della Francia, che indicava un attenuamento della tensione fra i due paesi.
Le elezioni ebbero luogo il 13 novembre col risultato di una notevole vittoria della Sinistra la quale guadagnò parecchi seggi contro la Destra. Rimasero pure colpiti i repubblicaneggianti dell'Estrema Sinistra, con la caduta di Cavallotti e dell'Imbriani, che ne fecero un chiasso indiavolato, attribuendomene la responsabilità, come se io avessi avuto il dovere di sostenere elementi che non erano perfettamente nell'ambito della Costituzione.
L'anno che seguì, 1893, fu grave e difficile; per l'inasprirsi delle difficoltà finanziarie, con un rialzo
del cambio che le finanze dello Stato, già da tempo in condizioni non buone, risentivano assai pei pagamenti che si dovevano fare all'estero, e che superavano i trecento milioni in oro; per le rivelazioni bancarie, specie quelle concernenti la Banca Romana, coi conseguenti scandali e polemiche che suscitarono nel mondo politico; ed infine per le agitazioni proletarie che culminarono nel movimento dei Fasci dei lavoratori, organizzatisi in Sicilia.
A complicare tutte queste difficoltà si aggiunse la morte di parecchi dei miei collaboratori al Ministero: morirono l'Eula, che teneva il dicastero della Grazia e Giustizia, e che io sostituii prima col senatore Santamaria Nicolini, poi col senatore Giacomo Arnò; morì l'Ellena, che era alle Finanze, e che fu sostituito dal Grimaldi; morì il Saint-Bon, che fu sostituito dal Racchia; ed infine morì il Genala, che sostituii io personalmente prendendo l'interim dei Lavori Pubblici.
Per fare fronte alle difficoltà finanziarie, che si risentivano specialmente per i pagamenti dovuti all'estero, escogitai due provvedimenti. Gli interessi del nostro Debito Pubblico all'estero si dovevano pagare in moneta estera o in oro. Col cambio salito al quindici per cento, si faceva, da Banche e privati, la speculazione di inviare all'estero i coupons per la riscossione, lucrando così quel quindici per cento a danno dello Stato. A mettere un argine a questa speculazione, che si allargava sempre più, io stabilii il sistema dell'affidavit, per cui la riscossione delle cedole degli interessi all'estero non si poteva fare che previa dichiarazione di possesso con giuramento presso le autorità consolari italiane. Stabilii pure che i dazi doganali fossero pagati da allora in avanti in oro. Questo provvedimento di far pagare in oro la dogana diede luogo a controversie con alcune potenze estere, le quali finirono poi per riconoscere che il pagare la dogana con moneta scadente avrebbe costituito una vera diminuzione della protezione stabilita dai trattati. Questi due provvedimenti riuscirono perfettamente efficaci allo scopo, e furono poi sempre mantenuti, anche quando la nostra moneta si era pareggiata per un lungo periodo di anni con l'oro; e fu fortuna quando si consideri la condizione dei cambi formatasi pur troppo dopo la guerra europea.
Ora ecco come scoppiò, e cosa fu veramente lo scandalo della Banca Romana.
Bisogna anzitutto ricordare che sino a quel tempo, la vigilanza degli Istituti di emissione non spettava, come è avvenuto poi per opera mia, al Ministero del Tesoro, ma a quello di Agricoltura, Industria e Commercio. Ai tempi dell'ultimo Ministero Crispi, nel quale io tenevo il dicastero del Tesoro, erano corse delle voci e sorte delle accuse riguardo all'amministrazione della Banca Romana; ed il Ministro d'Agricoltura di allora, Miceli, nel giugno del 1889, in seguito a quelle voci aveva ordinata una ispezione generale degli Istituti di emissione. Per la Banca Romana l'incarico era stato affidato al Senatore Alvisi, il quale chiese la collaborazione di un funzionario del Tesoro, che gli fu concessa nella persona del Comm. Gustavo Biagini.
Siccome la cosa non era affatto di pertinenza mia, i risultati di quella ispezione io non li appresi che nel Consiglio dei Ministri, e secondo la relazione che ne dette il Ministro d'Agricoltura. E' apparso poi che una relazione, compilata dal Biagini, facesse rilievi e presentasse accuse contro l'amministrazione della Banca, sia riguardo al suo portafoglio, viziato da molta carta di comodo che si rinnovava di scadenza in scadenza; sia riguardo alla circolazione ed un vuoto di cassa di nove milioni, coperto da emissione clandestina. Ma, in seguito a spiegazioni date personalmente dal Tanlongo al Ministro, ed a nuove ispezioni e studii condotti a mezzo del Commendator Monzilli, allora Direttore generale del credito, il Miceli fu convinto che il Biagini, per mancanza di pratica, fosse caduto in equivoci, tanto più che il Biagini stesso, dopo una seconda ispezione ordinata dal Ministro, aveva verificato e riferito che la Cassa era stata reintegrata; e la relazione che egli portò al Consiglio dei Ministri su l'esito dei lavori della Commissione fu complessivamente favorevole alla Banca Romana, e l'azione del Ministero d'Agricoltura verso la Banca si limito ad alcuni provvedimenti di ordine e gestione.
Dello stesso tenore come appare dai documenti ufficiali e dalla Relazione del Comitato dei Sette, furono le dichiarazioni che il Miceli fece poi alla Commissione parlamentare eletta per studiare e riferire sulla legge del 30 novembre 1889 per il riordinamento degli Istituti di emissione; alla quale egli presentò un sunto delle relazioni ricevute, in cui si tacevano le circostanze rilevate dal Biagini, anzi si facevano accenni lusinghieri alle migliorie già introdotte nell'Istituto. Nessun sospetto si poteva avere e mai si ebbe sulla buona fede del Miceli; e solo i fatti, venuti poi alla luce a mezzo della inchiesta da me ordinata, rivelarono il modo con cui la sua buona fede era stata sorpresa; fra l'altro con l'audace mascheratura del vuoto di cassa mediante un prestito provvisorio di dieci milioni ottenuto dalla Banca Nazionale.
Ad ogni modo, ai Ministri colleghi del Miceli non competeva nè il diritto nè il dovere di entrare per conto proprio nella questione; e noi tutti accogliemmo le conclusioni del Ministro competente e della cosa non si parlo più. Io, come Ministro del Tesoro, non avevo alcun diritto di ingerirmi nella vigilanza degli Istituti di emissione, che fu poi tolta all'Agricoltura e passata al Tesoro appunto con la legge che io stesso feci approvare nel 1893; e contrariamente alle presunzioni degli avversari io non conobbi la relazione particolare del Biagini, assorbita per me, quale membro del Gabinetto, nella relazione generale fatta dal Ministro Miceli.
La questione della Banca Romana, fra la fine del '92 e il principio del '93 fu portata alla Camera dal deputato Colajanni, pare, in base alla relazione Alvisi-Biagini, di cui egli avrebbe ricevuta copia dopo la morte dell'Alvisi. E cominciarono a circolare subito gravi voci sulle condizioni in cui la Banca si trovava, accennandosi sin d'allora a deficienze di cassa e ad eccedenze di circolazione. A questo proposito bisogna ricordare che sino allora le Banche d'emissione fabbricavano esse stesse i biglietti che emettevano, senza alcun controllo da parte del Governo; e la Banca Romana che faceva fabbricare i suoi biglietti in Inghilterra ne poteva commissionare sin che voleva. Ed infatti si venne poi a scoprire che, oltre alle eccedenze di circolazione di sessanta milioni, essa ne aveva fatti venire altri quaranta che costituivano una serie duplicata; e fu fortuna che alcuni impiegati superiori, saputo dell'arrivo di questi biglietti, e spaventati delle responsabilità che potevano ricadere su di loro, protestarono presso i Direttori della Banca, obbligandoli a bruciarli.
Tutto questo venne alla luce poi, per mezzo della inchiesta Finali, da me ordinata.
Gli attacchi di Colajanni contro la Banca Romana fecero molta impressione nel Parlamento e sulla pubblica opinione; e si propose una inchiesta parlamentare. Ma io, che intanto avevo cercato di raccogliere informazioni sulle cose, ebbi a notare che a tale domanda si associavano con eccessiva energia alcuni deputati che mi risultavano compromessi con la Banca, e rifiutai quella inchiesta, proponendomi di farla invece a mezzo di una Commissione di nomina governativa. Così, con un decreto del 30 dicembre 1892, nominai quella Commissione chiamandovi alla Presidenza un uomo che era da sè solo garanzia di serietà, di competenza, di severità indiscutibile, il Senatore Finali, primo Presidente della Corte dei Conti.
La Commissione fu composta di persone il cui giudizio non era pregiudicato da inchieste precedenti o da uffici da esse coperti, e che furono scelte fra quanto di più elevato, per competenza, per oculatezza e per carattere, vi era nella pubblica amministrazione. L'inchiesta doveva estendersi a tutti gli Istituti di emissione, che allora erano sei; e cioè la Banca Nazionale e la Banca Romana; il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia; la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Furono scelti sei funzionari, ad ognuno dei quali fu affidata l'ispezione di una Banca, e di quella per la Banca Romana fu incaricato il Commendatore Martuscelli, segretario generale della Corte dei Conti. Il decreto con cui costituii la Commissione era molto semplice, ma diretto ad andare a fondo di tutte le varie parti che costituiscono una azienda bancaria: creazione, emissione e ritiro dei biglietti; circolazione e quantità dei biglietti di scorta; consistenza delle riserve metalliche; natura e entità degli impieghi, delle sofferenze e delle immobilizzazioni. Intervenni alla prima seduta della Commissione per dichiarare che ponevo a servizio di essa tutti i funzionari dello Stato, e tutti gli elementi di cui il Governo disponeva, e per pregare la Commissione di procedere in modo che avvenisse contemporaneamente la verifica di tutte le casse degli Istituti di emissione per evitare che con trasporti di fondi potesse coprirsi qualche vuoto di cassa.
Nei giorni seguenti essendomi poi allontanato da Roma per recarmi a visitare a Cavour un mio parente ammalato, ricevetti un telegramma del mio collega, il Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, il quale mi comunicava il desiderio del Senatore Finali che fosse spedita una circolare ai Prefetti affinchè lo aiutassero in tutte le indagini occorrenti. Ed io risposi immediatamente affidando allo stesso Senatore Finali di formulare tale circolare nei termini che egli credesse più adatti a raggiungere lo scopo, ed autorizzando, nel caso vi fosse urgenza, il Rosano, mio sottosegretario, a firmarla in mia vece.
Pochi giorni dopo che io aveva ordinata l'inchiesta presieduta dal Finali, cominciarono a correre per Roma voci di gravi disordini che si temeva fossero per scoprirsi alla Banca Romana; tali voci traevano origine da discorsi di impiegati di quella Banca, e vennero riferite al Ministero anche da agenti della Pubblica Sicurezza. Le prime indagini del Commendatore Martuscelli parevano riconfermare l'esistenza di quei disordini, e si ebbe pure il sospetto che alcuno dei responsabili potesse mettersi al sicuro all'estero.
Allora io diedi ordine che fossero sottoposti a vigilanza gli amministratori tutti di quella Banca senza distinzione, e che in specie il Tanlongo, il Commendatore Cesare Lazzaroni e il barone Michele Lazzaroni che apparivano più coinvolti in quei fatti, fossero diffidati di non allontanarsi da Roma, chè altrimenti sarebbero arrestati. Tale diffida fu fatta il 15 gennaio '93; il Tanlongo e Cesare Lazzaroni dettero parola che non si sarebbero allontanati, e il Michele Lazzaroni dichiaro che se i suoi interessi lo avessero, come era probabile, costretto a partire, ne avrebbe dato avviso.
Fra i censori della Banca c'era il Duca di Ceri, che non aveva colpa alcuna nei fatti, e poteva solo essere considerato responsabile per negligenza del suo ufficio. Vedendosi vigilato, egli si fece accompagnare presso me da un amico, chiedendomi che cosa quella vigilanza significasse. - Niente altro che questo, - gli risposi, - che se si scopriranno magagne nella Banca Ella sarà immediatamente arrestato. - Ma poi conoscendolo per un perfetto galantuomo, lo rassicurai, senza pero modificare la sorveglianza.
Il lavoro della Commissione fu condotto avanti, avendo in considerazione la mole e complessità delle indagini, con eccezionale sollecitudine; così che il 18 di gennaio il Martuscelli potè stendere il suo rapporto. Il Finali mi annunciò che la sera stessa me l'avrebbe portato, insieme col Martuscelli, preavvertendomi che constatava dei fatti gravissimi. lo allora avvisai il Bonacci, Ministro di Grazia e Giustizia, di trovarsi egli pure a Palazzo Braschi per la venuta del Finali. Il Bonacci giunse al mio ufficio, verso le nove di sera, accompagnato dal senatore Bartoli, procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, dichiarandomi di averlo condotto per esaminare la questione se il Tanlongo, essendo stato nominato Senatore ma non ancora convalidato, potesse essere soggetto alla giurisdizione ordinaria dei Tribunali o dovesse essere mandato davanti al Senato. Il Senatore Bartoli, entrando poi nella mia stanza - e ricordo questi particolari perchè intorno a quel convegno fu architettato poi un vero romanzo - mi disse che essendo egli un po' indisposto di salute, aveva creduto conveniente di condurre con se il giudice istruttore ed il sostituto procuratore del Re e li aveva lasciati nella prima camera del mio ufficio. Io non avevo a questo nulla da obiettare, ma quei funzionari non furono da me visti in alcun modo. Finali, arrivando poi col Martuscelli, mi consegnò il rapporto, ed io dopo averne data lettura lo consegnai al Bonacci, accompagnandolo con una lettera affinchè rimanesse traccia ufficiale della sua provenienza; ed il Bonacci alla sua volta lo consegno al Procuratore generale, che lo ricevette, dichiarando che si ritirava coi funzionari che aveva condotti con se, per deliberare sul da farsi. Poi io mi allontanai dal Ministero perchè era già ora tarda. L'indomani mattina si tenevano al Pantheon le esequie in memoria di Vittorio Emanuele (19 marzo), e fu là, mentre io vi assistevo, che il mio sottosegretario, il deputato Rosano, mi informò che l'autorità giudiziaria aveva nella mattinata presto spedito mandato di cattura contro il Tanlongo e Cesare Lazzaroni, ordinando nello stesso tempo alla Pubblica Sicurezza di procedere alle perquisizioni.
Pur troppo la relazione della Commissione confermava i peggiori sospetti, precisando le accuse, sia riguardo alle eccedenze, ed alle irregolarità della circolazione ed ai vuoti di cassa, sia alle pessime condizioni del portafoglio, dove giaceva una ingente mole di cambiali in sofferenza. La inchiesta era stata condotta con tanta oculatezza e diligenza, che in tutte le indagini successive, comprese quelle ordinate dalla autorità giudiziaria per il processo penale contro Tanlongo e i suoi complici, non fu accertata una sola. irregolarità che dalla inchiesta non fosse già stata rivelata. Credo che di rado una indagine ordinata su una materia così vasta e complessa sia riuscita ad andare a fondo con tanta sollecitudine e così pienamente.
Quando venne così a mia notizia l'esistenza di una circolazione clandestina di circa settanta milioni, e l'altro fatto enorme che con una ordinazione mandata a Londra si erano potuti fare spedire a Roma, come se si trattasse di un barile di birra, quaranta milioni di altri biglietti all'insaputa di tutti, due timori gravissimi sorsero in me: il primo che un panico disastroso si spandesse in Italia per tutti i biglietti di Banca, unica nostra moneta, vigendo allora il corso forzoso, col pericolo di un turbamento incalcolabile di tutta la vita economica del nostro paese; il secondo, che potesse esservi una circolazione clandestina ancora maggiore di quella accertata, e che altre spedizioni di biglietti da Londra, oltre quella scoperta, avessero forse avuto luogo. Al primo di questi pericoli altro rimedio non v'era all'infuori di quello che pochi giorni dopo adottai, facendolo poi approvare dal Parlamento, di dichiarare cioè che, trattandosi di biglietti a corso legale, se ne rendeva garante lo Stato. Ma prima di fare tale dichiarazione mi premeva di avere la certezza, per quanto era possibile averla, che il male non fosse più grave di quello che dalle indagini compiute dal Martuscelli era risultato.
Mi preoccupavo pure del pericolo che qualche creazione clandestina di biglietti potesse venire trafugata. Perciò incaricai il sottosegretario di Stato e la Direzione generale di Pubblica Sicurezza. di informarmi immediatamente di tutto quanto venisse a sapersi intorno alla Banca Romana, sia per i risultati delle perquisizioni, sia per altre informazioni di qualunque genere; e così pervennero alle mie mani copie di alcuni documenti sequestrati in casa Lazzaroni ed elenchi di documenti sequestrati in casa Tanlongo e alla sede della Banca Romana. Tanto gli elenchi quanto le copie si riferivano esclusivamente a documenti trasmessi alla autorità giudiziaria. Ma, come vedremo appresso, queste mie disposizioni, che entravano nell'orbita dei miei doveri di governo, dettero poi luogo ad una campagna di persecuzione e diffamazione contro di me.
Le risultanze delle indagini condotte presso le altre Banche di emissioni, riuscirono assai meno gravi, e in ogni modo non rivestirono l'aspetto così criminoso di quelle uscite dalla indagine sulla Banca Romana. Per il Banco di Napoli, dalla relazione risultò che era ridotto senza capitale, ed anzi con venti milioni di passivo. Non c'erano disordini nella circolazione; ma il suo portafoglio era gravato di una mole stupefacente di cambiali di nessun valore. Il metodo che era stato seguito nel Banco di Napoli per fare delle generosità a spese del Banco, consisteva nello scontare cambiali firmate da nullatenenti, che poi venivano messe fra le inesigibili.
Di fronte alla scoperta di queste gravissime condizioni di cose, che gettava tanta ombra di discredito sulla nostra moneta, io pensai che il primo dovere che s'imponeva al governo era di fare casa nuova, procedendo ad un riordinamento totale degli Istituti di emissioni, con provvedimenti tali che dessero la massima possibile garanzia al credito ed al biglietto di Banca. Ebbi consenzienti i miei colleghi, e presentai al più presto a tale scopo un progetto di legge al Parlamento.
Questo progetto conteneva i seguenti punti principali :
1.° Soppressione della Banca Romana, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito, perchè l'esistenza di sei Banche, con sei specie di biglietti a corso legale, creava grandi complicazioni ed aumentava le difficoltà di vigilanza da parte del governo; lasciando sussistere solo la Banca Nazionale, trasformata in Banca d'Italia, il Banco di Napoli e quello di Sicilia che avevano antiche tradizioni;
2.° stabilire che non si potessero fare emissioni di biglietti senza il controllo dello Stato, così che d'allora ogni biglietto porta il timbro dello Stato, impresso dalle Officine carte-valori, rendendosi così impossibile qualunque emissione clandestina;
3.° si proibì in modo assoluto che potessero fare parte delle amministrazioni e direzioni degli Istituti di emissione deputati e senatori, che sino a quel tempo vi partecipavano in grande numero, disposizione questa che ferendo interessi mi attirò vivi risentimenti ed odii che si sfogarono nelle campagne successive. La legge inoltre comprendeva disposizioni severissime per ristabilire il credito del Banco di Napoli, molto scosso, e per smobilizzare la Banca d'Italia; talmente severe, che quando cominciarono a ristabilirsi condizioni più normali, furono attenuate.
Così grave era stato il pericolo corso dal credito nazionale, e così evidente la necessità di rimedi immediati e radicali, che quella legge fu approvata quasi senza discussione non ostante gli interessi che feriva. Ed essa può considerarsi il risultato benefico del grave scandalo, perchè mi dette modo di creare, per il funzionamento delle Banche di emissione, e per la circolazione monetaria, un sistema sicuro ed efficace, che vige tuttora, e per forza del quale i gravi, criminosi inconvenienti per quegli scandali venuti in luce, non si sono mai più ripetuti.
La relazione della Commissione d'inchiesta, e le voci che correvano sui risultati delle perquisizioni e delle istruttorie processuali contro Tanlongo, Lazzaroni e i loro complici, e di responsabilità e colpevolezze di uomini politici, avevano intanto creato una grande agitazione nella opinione pubblica, nella stampa e nel Parlamento. Così in una seduta della Camera fu presentata la proposta di nominare un Comitato col preciso incarico di accertare le responsabilità politiche e di riferirne. Io, che mi ero opposto ad una inchiesta politica che precedesse quella amministrativa, perchè avevo ragione di temere che l'inchiesta politica prematura potesse essere strumento di salvataggio, e perchè mi premeva di stabilire avanti tutto quale fosse la reale condizione degli Istituti di emissione, e di provvedere ai rimedi; quando l'indagine amministrativa fu compiuta non avevo più ragione di oppormi a che fossero ricercate e constatate le eventuali responsabilità di uomini politici. La Camera affidò al suo Presidente, che era allora lo Zanardelli, l'incarico di nominare questa Commissione, che prese poi il nome di Comitato dei Sette, e che fu nominata il 21 marzo; e risultò composta di Mordini, presidente e relatore, di Alessandro Paternostro, segretario, di Cesare Fani, altro segretario, e di Giovanni Bovio, Antonio Pellegrini, Eduardo Sineo e Suardi Gianforte.
Il secondo importante avvenimento di quell'anno fu l'agitazione proletaria, che si manifesto particolarmente con la costituzione dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, e con la loro lotta per il miglioramento dei patti agrari e dei salari.
Un certo movimento nelle classi popolari, e specialmente fra quelle operaie delle città, si era già iniziato in Italia da non pochi anni. Nella sua prima fase, e col favore degli elementi democratici, esso si era affermato con la creazione delle società operaie di mutuo soccorso, aliene la maggior parte dalla politica, ed anche nelle campagne, con la costituzione di cooperative di lavoro, per le quali, come Ministro del Tesoro nel Gabinetto Crispi, io avevo già preso disposizioni perchè certi lavori pubblici potessero essere affidati loro direttamente. Ma lo spirito e le dottrine socialiste, che avevano già avuti grandi movimenti di organizzazione ed episodi di lotta all'estero, specie in Germania ed in Francia, cominciavano a filtrare anche in Italia; e già nel 1874 c'era stata a Milano la costituzione della prima Camera del Lavoro, con intendimenti di lotta anche politica, che avevano molto allarmato i conservatori lombardi ed il governo; tanto, che era stata sciolta, e i suoi capi, tutti operai, processati.
È da notarsi che anche i democratici milanesi non mostrarono alcuna simpatia per quel movimento, ed anzi l'avversarono. Poi ci furono le agitazioni e la propaganda nella Romagna da parte di Andrea Costa, che per alcuni anni fu il solo deputato socialista alla Camera, ed il cui socialismo era di carattere rivoluzionario, e si mescolava col repubblicanesimo. In generale, in quelle primissime agitazioni il socialismo si confondeva assai con l'anarchismo che aveva per capi il Gori e il Cipriani, ed anche, specie in Romagna, col garibaldismo; era un movimento assai confuso, con tendenze di congiura e complotto e velleità insurrezionali, che attirava gli spiriti disordinati e ribelli, ma non si spandeva molto nelle masse operaie.
Un chiarimento nel senso socialista, e secondo le idee marxiste di progressiva educazione ed organizzazione dei lavoratori, si era avuto più tardi, dopo 1885 con la propaganda condotta da Prampolini ed Agnini nelle province di Reggio e di Modena, da Badaloni nel Polesine, e poi dal Berenini a Parma, da Enrico Ferri nel Mantovano, e da Bissolati nel Cremonese. A Milano, con la pubblicazione della Critica Sociale da parte del Turati, mi pare verso il '90, si era formato un centro di cultura e di rigida dottrina marxista, che esercitava una notevole influenza sulla gioventù universitaria dell'Italia settentrionale, e che raccolse presto collaboratori a Bologna, a Genova ed a Torino, molti dei quali, come il Treves, lo Zerboglio, il Canepa ebbero poi notevole parte nel movimento politico socialista.
Nell'agosto del 1892 era stato tenuto un Congresso a Genova, nel quale le due tendenze, quella anarchico-rivoluzionaria e quella socialista organizzatrice si erano trovate di fronte, e che si era concluso con la rottura; i socialisti, facenti capo a Turati e Prampolini e con l'adesione della maggioranza degli intellettuali e di parte delle organizzazioni operaie, quale la Camera del Lavoro di Milano, costituirono il Partito socialista italiano, che con varie vicende si è mantenuto sino ad ora, mentre i rivoluzionari, andarono scemando di numero e d'influenza.
Nella Sicilia il movimento operaio aveva avuta la sua origine a Catania, per opera di De Felice Giuffrida. Questi non possedeva molta cultura, e la sua indole era piuttosto di un agitatore popolano. Aveva cominciato con il condurre una violenta lotta contro il municipio conservatore, muovendo accuse contro i suoi capi; e costoro, per vendetta e per liberarsi di lui l'avevano coinvolto in un processo ed erano riusciti a farlo condannare. Si trattava di questo: il De Felice avrebbe dovuto testimoniare in un processo contro un suo amico, e se ne sottrasse presentando un certificato medico di malattia. I suoi nemici l'accusarono di falso intenzionale, per essersi giovato di quel certificato pure sapendo di non essere malato, e il Tribunale lo condannò a tredici mesi di reclusione. La condanna che parve ingiusta, suscitò una forte reazione nell'opinione pubblica; il De Felice diventò popolarissimo presso le masse e portato deputato nelle elezioni del '92, nonostante gli sforzi dei suoi avversari, fu eletto con una grande maggioranza. Per sfuggire alla condanna egli si era rifugiato a Malta, e dopo la sua elezione io lo feci avvertire che poteva ritornare sicuramente. Il suo ritorno fu veramente trionfale; per dare una idea della popolarità che si era conquistata, ricordo che durante le elezioni erano stati eretti molti altarini, sui quali davanti al suo ritratto bruciavano le candele, come davanti ai santi.
Io conobbi poi il De Felice come deputato, e la mia impressione di lui è sempre stata, che fosse un uomo di buonafede, un galantuomo che ha sempre vissuto modestamente; un po' imaginoso ma fondamentalmente buono. Ricordo un curioso episodio della sua vita, che mi narrò egli stesso; e che mostra tutto il suo carattere. C'era il colera in un' grosso comune della provincia di Catania, e la sua diffusione era attribuita specialmente all'infezione di un acquedotto, che apparteneva a un ricco barone. Il municipio aveva intimato al barone di interrompere l'acquedotto, ma costui si rifiutava negando l'infezione e minacciando di chiedere al municipio milioni di danni se l'interruzione avesse avuto luogo. Allora De Felice, insieme con alcuni amici, si recò nella campagna ad un punto dove l'acquedotto passava, e lo fracassò, per assumersene la responsabilità personalmente e non involvere il municipio in una lite costosa, dicendo: - E adesso il barone venga a chiedere a me i milioni per i danni subiti. -Egli era odiatissimo da Crispi, che aveva sempre attaccato.
L'agitazione dei contadini, che condusse alla costituzione dei Fasci dei lavoratori, scoppiò nella primavera del '93 per dispute di salari, e si estese per tutta la Sicilia, ed ebbe dei capi energici, venuti dalla borghesia, come il Garibaldi Bosco, che era un impiegato privato, il Barbato medico, Bernardino Verro e molti altri. Io mi resi subito conto che si trattava di un movimento economico, pienamente giustificato dalle penosissime condizioni in cui si trovavano i contadini ed i minatori, come fu allora ampiamente dimostrato da inchieste condotte da giornali autorevoli, quali la Tribuna e il Corriere della Sera, le cui rivelazioni sulle miserrime condizioni in cui si trovavano i lavoratori siciliani, e sull'atroce abuso che si faceva del lavoro dei fanciulli nelle miniere produssero una viva impressione sulla pubblica opinione.
Ricorderò anche che molti anni avanti il Sonnino insieme col Franchetti avevano compiuta una inchiesta e compilato uno studio sulle condizioni della Sicilia, rilevando le miserabili condizioni fatte alle classi lavoratrici e gli abusi dei proprietari; e venendo alla conclusione pessimistica che i rimedi ordinari non sarebbero mai riusciti efficaci, e quello stato di cose non avrebbe potuto essere mutato che con una rivoluzione. Nonostante però queste sue considerazioni di studioso, il Sonnino si trovò poi a far parte del Ministero Crispi, che reagì violentemente contro il primo tentativo di quelle classi lavoratrici di ottenere miglioramenti alle loro condizioni di lavoro e di vita. Io, senza lasciarmi troppo impressionare, avevo dato ai prefetti istruzioni corrispondenti alla realtà della situazione; disponendo cioè perchè mantenessero l'ordine pubblico ed impedissero in qualunque modo l'uso della violenza; ma lasciassero pero d'altra parte che i contadini e i minatori potessero ottenere patti migliori e cercassero anche di persuadere i proprietari a venire a risoluzioni conciliative.
La situazione certo presentava in alcuni punti difficoltà gravi e qualche pericolo di disordini locali; ma, a mio avviso e secondo le informazioni che ricevevo dalle autorità, tutte le voci che si facevano correre di pericoli rivoluzionari e di minacce alla unità nazionale, erano senza fondamento. Quel movimento, in conclusione, era molto meno grave di altri venuti dopo; ma quello era il primo, e le classi ricche, non ancora abituate a questo genere di lotte, scambiavano le agitazioni economiche addirittura con la rivoluzione sociale. Io sin d'allora ero convinto che fosse da aspettarsi che le masse dei lavoratori non si adattassero a tirare avanti con condizioni di salari insufficienti non solo a vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Una cieca repressione delle loro legittime agitazioni intese a migliorare la propria sorte, non avrebbe a mio avviso risolta, ma solo rinviata la questione, esacerbandola, e facendo nascere davvero il pericolo rivoluzionario. Perciò il mio indirizzo politico era di lasciare che queste lotte economiche si risolvessero di per sè col miglioramento delle condizioni dei lavoratori, riducendo l'azione del governo al mantenimento dell'ordine e ad un'opera di persuasione per mettere d'accordo le parti. Ed avevo ragione di ritenere che, a parte i proprietari direttamente interessati, ed i conservatori reazionari, l'opinione pubblica fosse pure di questo avviso. Anche nel Parlamento gli avvenimenti di Sicilia erano considerati sotto questo aspetto e non vi avevano destata molta impressione; ed anzi vi si ascoltavano con molta attenzione ed una certa benevolenza i discorsi con cui i deputati socialisti, Prampolini e Badaloni, esponevano la situazione.
Solo la Pubblica Sicurezza, abituata alle idee antiche ed agli antichi metodi, si mostrava preoccupata, e mi chiedeva di provvedere con un decreto di scioglimento dei Fasci, che mi fu proposto in effetto dall'allora Direttore della Pubblica Sicurezza, Comm. Ramognini, al quale io lo rifiutai, mandandolo poi prefetto. Il Ramognini, quando fu al governo Crispi, temendo di essere ritenuto egli pure responsabile per il non avvenuto scioglimento, si recò da Crispi a ricordare che egli l'aveva proposto, e che quindi su lui non pesava nessuna responsabilità. Ed infatti la responsabilità era tutta mia, ed intendevo che fosse mia, in quanto rappresentava, non una negligenza, ma una nuova veduta di governo. Ricordo ancora che venne da me una rappresentanza di grossi proprietari agricoli delle province di Palermo, Trapani e Caltanissetta a reclamare provvedimenti energici, e soprattutto lo scioglimento dei Fasci; - essi mostravano di riconoscere che le condizioni dei lavoratori dovevano essere migliorate, ma insistevano di non poterlo o volerlo fare finchè i Fasci fossero in esistenza, per non parere di avere ceduto alle loro intimidazioni. Ma io dubitavo assai di queste buone intenzioni; ed infatti quando tornai al governo nel 1901 volli verificare quali concessioni fossero state date dopo lo scioglimento dei Fasci fatto dal Crispi; e dovetti constatare che in molti luoghi le condizioni dei salari, invece che migliorate, erano state anche peggiorate. Ricordo anche che dopo lo scioglimento, si raccolse a Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il coraggio di proporre, per tutta riforma, l'abolizione della istruzione elementare, perchè i contadini ed i minatori non potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove.
Il punto di vista e la condotta del governo mutarono poi quando io, per altre ragioni, mi dimisi. Allora gli elementi conservatori, che avevano cominciato a stringersi intorno a Crispi come al loro uomo, levarono grandi reclami perchè non si era fatta una politica di repressione; e Crispi e il suo contorno, per stornare anche l'attenzione pubblica dalle questioni morali e politiche sollevate dallo scandalo della Banca Romana, avevano ogni interesse a ingrossare il pericolo, per acquistare la benemerenza di salvatori dell'ordine pubblico e delle istituzioni.
Nell'attesa della presentazione della relazione del Comitato dei Sette sulle responsabilità politiche della Banca Romana, la situazione parlamentare si manteneva nervosa. La lotta contro il Ministero veniva sempre soprattutto dalla Destra, con Bonghi come suo oratore principale; ma anche con l'adesione, che rappresentava uno strano connubio, degli elementi di estrema Sinistra, quali il Cavallotti e l'Imbriani, che del resto in quei tempi erano sempre contro qualunque governo, ed infatti dopo le mie dimissioni si schierarono anche contro Crispi.
A questa curiosa politica di ostilità contro qualunque governo, senza nessuna distinzione delle sue tendenze, partecipavano anche i socialisti, i quali non avevano capito allora la mia politica riguardo le classi lavoratrici, e si accanivano contro di me, come avrebbero fatto contro qualunque altro. L'avvento del governo di Crispi, con la sua politica verso i Fasci siciliani, e in seguito e per parecchi anni quella dei vari governi Rudinì e Pelloux, a tendenze e con azione reazionaria di cui i socialisti dovevano specialmente soffrire, e come partita e come persone, li condusse poi a rendersi conto della differenza che ci può essere fra governo e governo, soprattutto dal punto di vista degli interessi delle classi lavoratrici.
La relazione del Comitato dei Sette fu presentata alla Camera il 23 novembre del '93. Dopo la sua presentazione, siccome la conclusione conteneva accuse a mio riguardo per la nomina di Tanlongo a senatore, ed apprezzamenti e interpretazioni di altri miei atti e parole, che non potevo accettare, io dichiarai che davo subito le dimissioni, non volendo, se occorreva, difendermi dal banco di Ministro, ma da quello di semplice deputato.
Sull'opera di quel Comitato e sulle conclusioni a cui giunse, bisogna dire la verità. E la verità è che il Comitato dei Sette non si mostrò nè abile nè volonteroso a condurre a fondo la missione che gli era stata affidata, di constatare cioè le responsabilità politiche connesse con gli scandali della Banca Romana, nè franco ed imparziale nei giudizi che credette di potere esprimere. Per la prima parte basti osservare che, mentre la Commissione da me nominata, in meno di due mesi aveva condotto a fondo una indagine ponderosa su l'intera situazione delle Banche di emissione, giungendo alla scoperta di fatti gravissimi; il Comitato dei Sette con più di sei mesi di lavoro non riuscì ad aggiungere neppure un fatto nuovo a quelli già constatati.
Nè basta: la poca voglia di andare a fondo fu provata anche da un episodio assai significante. Achille Fazzari aveva ricevuto, il 16 maggio di quell'anno, dal figlio di Tanlongo carte di tale gravità da indurlo a portarle al deputato Mordini, presidente del Comitato, e ad incitarlo a riunire gli uomini politici principali di tutti i partiti, per evitare uno scandalo che oltre ad oscurare tanti anni di patriottismo di qualche alto uomo politico, sarebbe stato di danno grave al paese. Il Mordini si prese ventiquattro ore a riflettere; ma l' indomani, quando il Fazzari lo ripide, gli si mostrò molto preoccupato, e finì per dichiarare che non si sentiva di fare ciò che gli era stato consigliato.
Il Fazzari, come ne fece poi egli stesso narrazione non mai smentita, quantunque non autorizzato, giunse al punto di dichiarargli che si sarebbe assunta la responsabilità di lasciare presso di lui quelle carte ma il Mordini non le volle, rispondendo che esse stavano bene nelle mani di un patriota quale egli era. Ed il Fazzari, vedendosele respinte, le restituì lo stesso giorno a chi glie le aveva date; e questo episodio fu ammesso come vero dallo stesso Mordini alla Camera dei Deputati, quando nel dicembre 1894 si discusse sulla presentazione da me fatta di documenti relativi alla Banca Romana. Della esistenza di altri gruppi di documenti importanti, che il Tanlongo e gli altri imputati erano riusciti a sottrarre alle perquisizioni, si parlava ovunque e si accennava sui giornali; alcuni furono poi usati dalla difesa nel processo Tanlongo; altri contenenti lettere di numerosissimi uomini politici, furono più tardi pubblicati, in un volume di 193 pagine dal figlio del Tanlongo, ma non risulta che il Comitato dei Sette abbia mai cercato di porre sopra essi le mani.
Per quanto riguarda i giudizi, io non intendo di disseppellire ciò che allora fu sepolto, e mi limito alle cose che mi riguardavano personalmente. Le accuse che mi furono fatte erano quattro: che io avessi conosciuto, a mezzo della inchiesta Alpisi-Biagini, le vere condizioni della Banca Romana quando ero stato Ministro del Tesoro nel Gabinetto Crispi, e le avessi dissimulate; che avessi contratto con la Banca Romana un prestito di sessantamila lire; che avessi preso dalla stessa Banca altre quarantamila lire per le elezioni, e che infine, per premio di questa prestazione avessi nominato il Tanlongo senatore.
Ora, per la prima accusa, ho già detto e dimostrato che la vigilanza delle Banche di emissione non spettava in quel tempo al Ministero del Tesoro, e che dei risultati della ispezione Alvisi-Biagini io non avevo altro saputo che ciò che il Ministro competente, il Miceli, ne aveva riferito al Consiglio dei Ministri, attenuando, anzi quasi smentendo, ingannato ed in buona fede, la, relazione che quei due ne avevano fatta.
Per la seconda accusa, ecco come le cose erano andate. Quando nell'agosto del 1892 erano state tenute a Genova le feste per il centenario della scoperta dell'America, che avevano dato occasione ad un miglioramento delle relazioni fra l'Italia e la Francia, io credetti opportuno di fare una azione nella stampa estera, perchè questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo. Siccome i fondi messi a disposizione del governo per le spese segrete non possono spendersi che a un dodicesimo per mese, e la somma che si trovava in cassa non era sufficiente, io chiamai il Comm. Cantoni, Direttore generale del Tesoro, e gli dissi che mi occorreva una anticipazione di sessanta mila lire, che sarebbe stata rimborsata entro sei mesi. Siccome il Tesoro non fa anticipazioni, così la somma doveva essere presa a prestito presso una Banca, ed il Cantoni si rivolse alla Banca Romana, rilasciando regolare ricevuta. Il prestito era stato chiesto non da me, ma dal Direttore generale del Tesoro, a cui io non avevo nullamente indicato a chi rivolgersi. La somma fu restituita entro sei mesi, coi suoi interessi, e della restituzione io ottenni regolare ricevuta, che potei esibire al Comitato dei Sette, che riconobbe del resto la regolarità della operazione. Se la Banca Romana non avesse fatto che negozi come quello, vivrebbe ancora, ed in floride condizioni.
La voce sparsa che io avessi poi avuto quarantamila lire dalla Banca Romana per le elezioni, era una assoluta invenzione, senza la minima base di una qualunque testimonianza o documento. La diceria fu sparsa prima da uno degli imputati che ne parlò a parecchie persone ma poi si disdisse; fu ripetuta poi da un altro imputato. Si era cercato con molta abilità di creare degli indizi indiretti; il Comitato dei Sette concluse con un giudizio di «non provato» arzigogolando intorno ad una lettera mia trovata presso il Tanlongo, la quale invece si riferiva a tutt'altra cosa.
Dopo la morte dell'Ellena, mio collega alle Finanze, molti elettori avevano offerto al fratello di lui, colonnello Ellena, la candidatura. Egli mi aveva chiesto il mio parere sulla convenienza di accettare, ed io l'avevo consigliato di accertarsi prima se non sarebbe stato combattuto da coloro che nel collegio avevano maggiore influenza, fra i quali era il Tanlongo. Egli ebbe da questi assicurazioni e fu eletto a scrutinio di lista. Un mese dopo, essendo stata sciolta la Camera egli si ripresentò al collegio uninominale di Frosinone; ed avendo notizia che egli fosse combattuto dagli agenti della Banca, io probabilmente avevo scritto in proposito rammaricandomene col Tanlongo. Dico probabilmente perchè, come dichiarai al Comitato, non avevo della cosa sicura memoria.
Ad ogni modo contro cotale presunzione - che io avessi preso dalla Banca Romana quarantamila lire per le elezioni, stava un altro fatto ben preciso; e che cioè quando abbandonai il Ministero, oltre lasciare disponibili le rate mensili dei fondi non scaduti, ascendenti a 500 mila lire, lasciai in cassa. altre 123 mila lire, delle quali avevo la libera disposizione. Se dunque mi fossero occorse per un pubblico servizio quarantamila lire nel novembre del 1892, le avrei prese a prestito come le prime sessantamila e poi le avrei restituite.
Infine, per quanto concerne la nomina di Tanlongo a Senatore, per la quale insistevano particolarmente le accuse e che fu deplorata dal Comitato dei Sette, era assai facile, dopo la rivelazione degli scandali della Banca, affermare che la nomina non doveva farsi; ma per dare un equo giudizio bisognava riferirsi al momento in cui era avvenuta. Al Consiglio dei Ministri era stato presentato un lunghissimo elenco di candidati alla dignità senatoriale; e la nomina di Tanlongo fu come tutte le altre approvata all'unanimità, in quanto egli, governatore della Banca Romana, presidente della Camera di Commercio e della Commissione provinciale delle imposte, e ricco di censo, era uno dei personaggi più importanti di Roma, e la stima che in Roma si aveva di lui era tale, che Guido Baccelli, conoscitore esatto delle cose e delle persone della città, non aveva esitato, anche dopo le accuse mosse dal Colajanni, a dichiarare, nella seduta della Camera del 20 dicembre '92, che lo riteneva uomo operoso, benefico, e pieno di onore.
Che l'opera del Comitato dei Sette non fosse andata a fondo, e fosse monca e parziale, arrestandosi davanti a responsabilità di ben altra gravità, fu dimostrato dal fatto che l'opinione pubblica non se ne mostrò soddisfatta, e la campagna morale per gli scandali della Banca Romana e la complicità di uomini politici, continuò per lungo tempo ancora.FINE DEL QUARTO CAPITOLO