CAPITOLO 3


DA DEPUTATO A MINISTRO

(da pag. 31 a pag. 59)

Il passaggio del Governo dalla Destra alla Sinistra - L'opera della Destra: i suoi meriti e i suoi difetti - Che cosa rappresentò la vittoria della Sinistra - La personalità di Depretis e il trasformismo - Le divisioni della Sinistra: la Pentarchia e i «dissidenti» - La lotta contro la finanza del Magliani e il mio primo discorso parlamentare - Come Crispi formò il suo primo Ministero - La mia entrata nel Ministero Crispi - Le difficoltà politiche e la mia prima politica sociale - Perchè mi dimisi - Il Ministero Rudinì, i suoi travaglie la sua caduta - Personalità del tempo: Crispi, Zanardelli, Nicotera, Magliani, Rudinì.

Quando entrai nella Camera, nel 1882, era al potere Depretis, che a quel tempo aveva già iniziata quella sua particolare azione politica, che ebbe il nome di trasformismo. Ma per farsi una chiara idea di tutta quella situazione, e degli uomini che operavano in essa e ne rappresentavano le varie facce, bisogna retrocedere alquanto, e vedere quale fosse stata l'opera della Destra e l'indole della politica da essa svolta per sedici anni, e le ragioni della sua decadenza e della sua caduta.

Gli uomini che avevano formata e dominata l'antica Destra erano stati indubbiamente uomini egregi, ed anche di grande valore; veri patrioti la cui condotta era dettata da austeri sentimenti civici e da motivi superiori. Erano anche gente seria, che possedeva notevole competenza per il governo della cosa pubblica nei suoi vari campi. Siccome, dopo compiuta l'unità della patria con Roma capitale, il problema più grave che si affacciò subito nel nuovo Stato era indubbiamente il problema, finanziario, essi si preoccuparono precipuamente di dare allo Stato una finanza solida e sincera, che sola poteva cementarlo ed assicurarne l'avvenire. Si trovarono in questa opera di fronte a difficoltà ed ostacoli di ogni sorta, ai quali ho già parzialmente fatto accenno; e ad ottenere il pareggio, che era la meta dei loro sforzi, aggravarono le imposte sino al limite consentito dalle condizioni del paese, riscuotendole con energia, e nello stesso tempo si sforzavano di fare argine alle spese. Ebbero però il torto di non preoccuparsi sufficientemente delle condizioni delle province più povere ed arretrate, e specie del Mezzogiorno. Già anzitutto avevano fra loro pochi meridionali, essendo quasi tutti piemontesi e lombardi con un po' di emiliani, come il Minghetti, e di toscani, quali il Ricasoli ed il Peruzzi; ed anche quei meridionali che erano con loro, non potevano portare le voci del loro paese, perchè erano stati o degli esiliati, che avevano vissuto a lungo in Piemonte, quali lo Scialoia, il Mancini, il De Sanctis, o come lo Spaventa erano stati racchiusi lunghi anni nelle carceri borboniche, perdendo il contatto con la realtà immediata. Erano poi tutti degli idealisti, le cui concezioni si fondavano su una cultura generale europea, lontana dalle miserie materiali e morali delle popolazioni da cui erano usciti.

Ho detto che la Destra, nella sua preoccupazione, del resto giustissima, del bilancio, metteva imposte dove poteva, curando una rigorosa riscossione; e, si sa, il mettere imposte e riscuoterle severamente non concilia la popolarità. Uno dei fatti che concorse in quel torno a indebolire la Destra, fu l'imposta sul macinato, odiatissima specie nelle campagne, tanto che vi suscitò tumulti; la quale era stata fatta approvare con legge da Cambrai Digny ed applicata poi molto energicamente da Sella e Minghetti. Altro coefficiente nella caduta della Destra era stato il trasporto della capitale da Firenze a Roma. Firenze, danneggiata, reclamava indennizzi, ed il governo, pure riconoscendo le ragioni della città, andava a rilento nel concederli, perchè appunto non voleva compromettere il pareggio, a cui si era sforzato per tanto tempo e con tanta industria, ed il cui raggiungimento appariva molto prossimo.
Allora i toscani, con alla testa il Peruzzi, fecero l'accordo con Nicotera per abbattere il governo. Raggiunto questo accordo, Nicotera e gli altri condussero subito alla Camera attacchi violenti. Ricordo che, quando la legge, di rigido carattere fiscale, proposta dal governo per la nullità degli atti non registrati fu respinta per un voto, Minghetti mi chiamò e mi condusse con se per andare a consultare il Ricasoli, che viveva fuori Porta San Pancrazio, e non prendeva più parte diretta alla politica, ma era sempre una specie di gran consulente della Destra....

In conclusione questo si può dire, che la Destra cadde parte per ragione delle sue stesse virtù, parte per certe sue deficienze. Essa aveva lavorato lungo tempo per dare al nuovo Stato un bilancio in pareggio e metterlo al sicuro dalla minaccia del fallimento; il raggiungimento stesso di questo scopo fu per un verso ragione della sua caduta; in quanto sorse allora il concetto che si potesse iniziare una politica economica nuova, cioè una politica di spese per le regioni che ne avevano più bisogno; concetto il quale entro certi limiti era pure giustificato. Come però avviene sempre, in tali rivolgimenti la tendenza dei nuovi venuti era di sorpassare questo limite; ma i più prudenti di essi si mostrarono subito preoccupati di mettere dei freni. Così il Depretis, formando nel marzo del '76 il primo Ministero di Sinistra, prese per sè il Dicastero delle Finanze, certo per vigilare efficacemente sulla situazione finanziaria.

Alla formazione della Sinistra trionfatrice avevano concorso in prima linea i meridionali, specie sotto l'impulso del Nicotera, che fu uno dei primi capitani nella grande battaglia; poi i toscani secessionisti dal loro vecchio partito, poi i garibaldini, gli zanardelliani ed in genere tutti gli elementi di temperamento e di tendenze culturali democratiche, sino ai radicali, che rappresentavano allora l'estremismo. Questo movimento della Sinistra, oltre che motivi di carattere personale e di rivalità di capi, aveva anch'esso le sue profonde ragioni politiche; mentre la Destra rappresentava una cultura astratta ed una competenza particolare più alta, il pregio della Sinistra e la sua forza stavano nel fatto di meglio rappresentare lo stato d'animo delle masse popolari, che cominciavano a risvegliarsi contro il dominio degli ottimati, sia pure degnissimi, e mostravano di volere prendere maggior parte nella cosa pubblica, adottando le dottrine e seguendo gli uomini ed i partiti che aprivano loro la strada.
Del resto si comprende che un partito il quale aveva governato per sedici anni in mezzo a gravissime difficoltà di ogni genere si fosse logorato e indebolito; fra l'altro gli riusciva difficile di raccogliere reclute nuove di valore; i giovani di ingegno più vivace essendo attratti, come accade sempre, verso i partiti di opposizione. Infine vi erano i dissensi interni, fra i conservatori rigorosi, di vecchia scuola, quali il Cantelli e il Cambrai-Digny, ed uomini di spirito più democratico e più aperti alle idee nuove, quali il Sella ed il Lanza. Ricordo anzi in proposito un episodio assai significativo. Quando, nel luglio del '73, cadde il Ministero Lanza-Sella, insidiato e minato dagli stessi conservatori, Costantino Perazzi, deputato del novarese e segretario generale di Sella, lo consigliava di passare a sinistra, fondando il suo concetto su questo: che egli aveva voluta la venuta a Roma d'accordo con la Sinistra; che egli rappresentava idee più avanzate del resto della Destra, e che il ministero a cui apparteneva era stato abbattuto col concorso aperto della parte più conservatrice della Destra.

Se il Sella avesse ascoltato quel parere, probabilmente sarebbe diventato il capo della Sinistra; il che avrebbe parzialmente modificato il corso degli eventi di poi. Ma mi risulta che gli uomini più autorevoli della, Destra avevano fatto ogni sforzo per dissuaderlo dall'accettare quel consiglio, e c'erano riusciti.


Quando io entrai nella Camera, la Sinistra aveva già cominciato a decadere. La sua popolarità nel periodo di opposizione, che l'aveva poi condotta al potere, era dovuta ad una ricetta infallibile: opporsi alle nuove imposte e chiedere nuove spese. Ma questi due termini sono inconciliabili: se essi possono servire nella polemica, falliscono quando si viene alla pratica politica. Servono insomma all'opposizione per attaccare il governo avversario; ma non per governare. Ho già detto che gli elementi più prudenti della Sinistra sentivano la necessità, pure consentendo nuove spese per le regioni bisognose, di non compromettere troppo la restaurazione finanziaria a cui il partito avverso era pure pervenuto. Queste ed altre ragioni di carattere politico, specie l'incompatibilità fra il suo temperamento pratico e positivo, e le ideologie sentimentali e fantasiose; il contrasto fra il suo sentimento dello Stato e il demagogismo di certi elementi della Sinistra, avevano portato il Depretis, attraverso quattro suoi ministeri, intramezzati da due brevi ministeri Cairoli, a cercare appoggi a Destra ed al Centro, e così era nato il trasformismo.

La parola ha avuto cattiva fama che si è ripercossa sull'uomo, che fu accusato di scetticismo e di cinismo. Ma nè al trasformismo mancarono profonde ragioni politiche, nè il Depretis meritava quei giudizii. Egli era un uomo in cui era assai sviluppata una delle principali doti dell'uomo di governo: il buon senso. Non possedeva forse altre qualità eccezionali; conosceva bene l'amministrazione; sapeva esaminare a fondo le questioni, ed era uomo fermo e deciso. Era grande lavoratore, e lo si trovava sempre in mezzo a fasci di carte, Quando c'erano delle cose che non voleva risolvere, le metteva a parte, e ne aveva fatta una pila che saliva sempre più alta, e con quel suo fine sorriso ironico vi accennava come al reparto delle cose che vanno studiate lungamente. Non era affatto uno scettico o un cinico; odiava le vane declamazioni, ma s'interessava profondamente alle cose dello Stato, a cui dedicava tutta la sua attività ed energia. Combatteva apertamente gli avversari, ma era bonario, senza ombra di astio verso nessuno.

Quando io cominciai a votargli contro, egli un giorno mi domandò perchè fossi passato all'opposizione. Gli risposi adducendo molti motivi, e poi aggiunsi che non mi persuadeva che il ministero si appoggiasse specialmente su alcuni tipi poco raccomandabili. Al che egli osservò: - Ma è sicuro che persone dello stesso tipo non ci siano anche fra i suoi amici dell'opposizione? - Probabilmente ci sono, - gli replicai; - ma all'opposizione noi siamo solo d'accordo per dire di no, non per governare il paese. - Quanto all'accusa che egli fosse un furbo, è proprio obbligatorio per un uomo di Stato di essere un ingenuo?

Poco dopo che io ero entrato nella Camera, questa dissoluzione della Sinistra come partito unito di governo fece un altro passo, col ritiro, nel maggio 1883, di Zanardelli e di Baccarini dal Ministero, e la costituzione della famosa Pentarchia, che aveva a capo Cairoli, Crispi, Nicotera, Baccarini e Zanardelli, e che riuniva in un fascio di opposizione buona parte degli uomini di Sinistra. Pure contro il Ministero, ma separato dalla Pentarchia, vi era il gruppo detto dei «dissidenti», che combattevano il Ministero soprattutto per la finanza del Magliani, ma si tenevano distaccati dalla Pentarchia per varie ragioni, ma soprattutto perchè temevano quella politica estera, così detta delle «mani nette» con la quale il Cairoli, capo riconosciuto della Pentarchia, ci aveva condotti al grave scacco di Tunisi. A questo gruppo, a cui io mi ascrissi quando passai all'opposizione, appartenevano quasi tutti gli uomini che poi diventarono Presidenti del Consiglio, cioè Rudinì, Sonnino, Pelloux ed io, oltre Berti, Villa, Chimirri, Lacava, ecc. Eravamo quarantacinque; facevamo parte di quasi tutte le Commissioni e costituivamo così una forza parlamentare importante.

I miei due primi anni di quella legislatura, durata circa tre anni e mezzo, dal 22 novembre 1882 al 27 aprile 1886, furono per me d'affiatamento e di noviziato. Fui eletto in molte Commissioni, in specie in quella del Bilancio, nelle quali portavo le competenze acquisite nell'amministrazione. La mia azione più veramente politica comincio solo nel terzo anno, con l'opposizione ai metodi finanziari del Magliani, che teneva e tenne ancora per qualche anno il Ministero del Tesoro e reggeva quello delle Finanze; e il cui nome è rimasto famoso, come del rappresentante tipico di una finanza insinceramente ottimista e di una quasi prestigitazione finanziaria. Il Magliani veniva dalla burocrazia borbonica; era intelligentissimo, pronto ed abile e parlatore facondo e persuasivo; ma poco consistente nella sostanza e soprattutto debole, incapace di rispondere con quel monosillabo che dovrebbe essere la divisa di ogni ministro del Tesoro, col no a qualunque domanda di cosa dannosa alla finanza.

Il Depretis per parte sua. non lo frenava, preso com'era dalla passione di rimanere al governo ad ogni costo; passione che fu il fattore personale di quel trasformismo di cui sopra ho detto le ragioni politiche. Questa ottimistica finanza del Magliani riusciva tanto più pericolosa per l'abilità con cui vi si dissimulava il disavanzo allo scopo di giustificare aumenti di spese. Si ricorreva, a questo fine, a vari trucchi e ripieghi; si era inventata la categoria delle spese ultra straordinarie, che non dovevano contare per la loro eccezionalità, vera o pretesa; e si era escogitata la dottrina delle «trasformazioni di capitale», per cui una spesa che creava una cosa reale, non doveva. contare come spesa, essendosi convertita in capitale. Una volta messisi per questa via insidiosa, la necessità dei ripieghi e dei trucchi si moltiplicava, si arrivò al punto di fare figurare all'attivo del bilancio, non solo le cosiddette «trasformazioni di capitale», ma a calcolare come aumento di valore qualunque spesa fatta intorno ad un oggetto.

Il discorso contro questi metodi di finanza che io pronunciai alla Camera nell'88, fece un gran rumore, anche per la specie di scandalo che proprio un nuovo arrivato venisse a proclamare il fatto di un grave disavanzo, e perchè io m'ero sforzato di semplificare i termini del problema, e di renderlo chiaro a tutti. E pare che ci fossi riuscito, perchè dopo il discorso venne a me il deputato Medoro Savini, il romanziere, uno degli uomini più semplici e ingenui che io abbia conosciuto, il quale mi disse: - Ti faccio la migliore di tutte le congratulazioni, e cioè che ho capito anch'io! - Il governo, che si era accorto dell'impressione fatta, voleva che qualche risposta al mio discorso, in attesa di quella più solenne del Ministro competente, venisse da qualche altro deputato, e ne incaricò il Toscanelli.

Le cose si facevano allora molto bonariamente, e il Toscanelli venne da me ad avvertirmi e a chiedermi anche degli argomenti contro il mio discorso, perchè egli di finanza non se ne intendeva. Io glie li diedi volontieri, mostrandogli ciò che poteva rispondere, ed egli ne cavò un discreto discorso. Dopo il quale ritornò da me a chiedermi come mai fosse avvenuto che gli argomenti che io gli aveva dati fossero migliori e più efficaci di quelli che gli avevano fornito al Ministero delle Finanze. - Si capisce - gli risposi io - perchè io, e il Ministero avevamo interessi diversi. Al Ministero gli argomenti migliori volevano riservarli per il Ministro, che doveva parlare dopo di te; mentre a me conveniva di fare apparire che il Magliani di finanze non ne sapeva più di te ; e ci sono riuscito.


Così si venne alle elezioni del 1886, tenute sempre a scrutinio di lista, il 10 giugno. Depretis avrebbe voluto farle nell'autunno, ma siccome ciò sarebbe stato molto pericoloso per l'opposizione, questa gli creava ormai tali impicci nella Giunta del bilancio, e tali imbarazzi alla Camera con qualche episodio di ostruzionismo, che egli fu costretto a farle subito, quantunque il momento non fosse propizio per il Ministero. Ricordo che egli in quei giorni mi chiamò e mi disse: - Ma perchè mi volete obbligare a fare le elezioni subito? - Ed io gli risposi: Ma per non darle tempo di prepararsi a combatterci! - Ricordo, in quelle elezioni, un curioso episodio, che mostra come certe questioni, prolungatesi per tanti lustri nella politica italiana, nel Piemonte erano già praticamente risolte.
Andai ad un banchetto a San Damiano, nel quale, oltre tutti i sindaci della valle intervennero parecchi parroci, nonostante che in quel tempo la Curia romana avesse ribadito energicamente il principio del non expedit. Anzi il parroco più anziano volle fare un discorso, che si riassume tutto in
queste parole: - Andate tutti a votare, perchè «nè eletti nè elettori» sono tutte balle!

Il governo naturalmente combatteva la nostra lista per quel che poteva, e aveva messo in campo un suo unico candidato il quale, sapendo che la mia posizione non poteva essere toccata, cercava di persuadere a sostituire il nome suo a quello di uno dei miei due compagni di lista, che erano il Roux ed il Turbiglio. A parare, questa insidia io dichiarai agli elettori della valle Macra, del collegio di Dronero, che la lista doveva essere votata integralmente, perchè se votavano solo per me avrebbero bensì espressa una simpatia personale, ma avrebbero condannata la mia politica, che era una con quella dei miei colleghi. E la lista intera fu votata nei quindici comuni di quella valle così largamente che il candidato ministeriale vi ebbe due soli voti nel comune di Stroppo. Ricordo che qualche tempo dopo il sindaco di quel comune, incontrandomi, si scusò che non mi si fosse data l'unanimità dei voti e mi aggiunse: - Ma non accadrà una seconda volta. In paese si è saputo di chi erano quei due voti, e quei due elettori sono stati trattati in modo tale che si sono decisi ad emigrare e andarsene in Francia! -
Gli risposi che ciò era veramente troppo.


La tattica usata dall'opposizione, di forzare il governo a fare le elezioni in maggio, e non dargli tempo ad una preparazione, fu giustificata dai risultati. Con la nuova Camera la posizione del governo apparve subito assai indebolita; e noi ripigliammo immediatamente la nostra campagna contro la finanza del Magliani, la quale nelle conseguenze accumulate dei suoi errori era andata sempre peggiorando. In un dibattito tenuto al principio dell'87, il Ministero non ebbe che quindici voti di maggioranza. Era dunque ormai giunto il momento di stringere; e il nostro gruppo dei dissidenti aperse trattative con la Pentarchia. Io, Rudini e Lacava avemmo l'incarico di condurre quelle trattative, le quali del resto non toccavano che un punto: che la Pentarchia prendesse a suo capo Crispi al posto di Cairoli, del quale diffidavamo per l'ingenuità della sua politica estera; con questo mutamento i dissidenti s'impegnavano a votare con loro.
Andammo da Crispi io e Lacava, perchè fra Crispi e Rudini vi era una ruggine personale che non fu mai tolta. La Pentarchia accettò la nostra proposta, e Crispi fu incaricato di parlare, e parlò a nome di tutte le opposizioni, con la conseguenza che al voto il Ministero ottenne una esigua maggioranza. La sera stessa della votazione, per invito di Codronchi fu tenuto un convegno di parecchi deputati di Destra, che deliberarono di passare all'opposizione essi pure. Così il Ministero sarebbe caduto; e si seppe che in una conversazione che il giorno dopo Depretis ebbe col Re, Sua Maestà accennò all'eventualità di incaricare Crispi della formazione di un nuovo Ministero; ma Depretis gli rispose che credeva di potere avere
Crispi con sè.
Aprì infatti trattative a questo scopo, e Crispi si lasciò persuadere. Invece di tentare la formazione di un Ministero proprio, secondo avrebbe voluto il logico svolgimento dell'azione delle opposizioni riunite, egli accettò di entrare nel ministero Depretis (4 aprile 1887) quale ministro degli Interni, mantenendo anche al Tesoro ed alle Finanze il Magliani, contro cui la battaglia dell'opposizione era stata particolarmente e lungamente condotta. Con questo suo passo anche il Crispi abbandonava effettivamente la Sinistra, ed entrava nel processo del trasformismo del Depretis, che più tardi, coi vari suoi Ministeri si risolse nel governo del Centro.

La condotta del Crispi ebbe per effetto, di scompaginare la situazione, dividendo nuovamente le opposizioni. Ma pochi mesi dopo, nel luglio, Depretis morì, e Crispi ebbe l'incarico di formare il nuovo Ministero. Lo fece con elementi vari mantenendo però sempre con se il Magliani il quale, non ostante l'evidenza della rovina della sua finanza che conduceva ad uno spareggio pauroso, pareva irremovibile. Noi riprendemmo però la lotta, che l'anno dopo portò alla sua caduta, che fu definitiva.

L'occasione fu data dal progetto di aumento del prezzo del sale e di decimi della imposta fondiaria, progetto insufficiente e non accompagnato, come avrebbe dovuto essere, da economie. Fummo nominati nove commissari per riferire sul progetto, e ci trovammo subito tutti d'accordo nel respingerlo. Io fui nominato relatore e mi impegnai di portare la relazione l'indomani mattina alle undici. Vi lavorai la notte; la portai alla tipografia della Camera alle otto del mattino, ed alle undici la presentai in bozze ai miei colleghi commissari che l'approvarono ad unanimità, così che alle due fu distribuita stampata alla Camera. Credo che sia il record di una opposizione efficace e rapida. Si era prossimi alle feste di Natale e il disegno di legge non si discusse; ma durante le vacanze Crispi fece una crisi parziale. Magliani si dimise; e siccome egli teneva le Finanze e l'interim del Tesoro, Crispi lo sostituì con due nuovi ministri, nominando alle Finanze il Grimaldi, e chiamando al Tesoro il senatore Perazzi, che era già stato segretario generale con Sella, e che prese con se come sottosegretario l'onorevole Sonnino. Durante quel primo suo ministero, Crispi incaricò me, insieme con Lacava e Della Rocca, suo segretario generale, di compilare il progetto per la riforma della Legge provinciale e comunale, che noi conducemmo in porto, ed è quella che vige tuttora.

Venuti alle Finanze ed al Tesoro Grimaldi e Perazzi, questi fece alla Camera una esposizione finanziaria la quale confermava pienamente le nostre critiche, dimostrando che la situazione del bilancio non era quale l'aveva descritta il Magliani. Quella esposizione toccava molte responsabilità, e diede quindi luogo ad una discussione tempestosa assai per parte di tutti quelli che avevano appoggiata la finanza del Magliani. Io fui fra i pochi che difesero quella esposizione, ma in, complesso la Camera si mostrò ostile, ciò che portò ad una nuova crisi. Crispi cambiò i due ministri, chiamando me al Tesoro e Sesmit Doda alle Finanze, e sostituendo pure ai Lavori Pubblici Saracco con Finali, e creando ad un tempo il Ministero delle Poste e Telegrafi, a cui chiamò il Lacava.

Io rimasi con Crispi, in quel Ministero, dal 9 marzo del 1889 al principio di novembre dell'anno seguente, e potei raccoglierne, nel lavoro comune che si svolse nel migliore accordo, una impressione abbastanza compiuta, e che non mi si è nel complesso modificata per gli eventi intervenuti di poi. Egli era indiscutibilmente un fervido patriota, che sentiva altamente dell'Italia, ed avrebbe voluto condurla a sempre più alti destini. Era uomo di grande energia, di mente larga e pronta, ed aveva idee molto chiare nel suo programma generale; a cui non corrispondeva però una eguale attitudine a curare i particolari e l'esecuzione. il disastro d'Adua, a mio avviso, fu appunto una conseguenza di questa manchevolezza; egli aveva tracciato un largo ed audace programma di espansione, sproporzionato però alla potenzialità del paese; non ne seppe curare le esecuzioni ed adeguare i mezzi allo scopo, avventurandosi con mezzi insufficienti, che furono la ragione principale della disfatta. Possedeva un senso d'amministrazione severo, proprio dell'uomo di governo; ricordo che quando ero con lui Ministro al Tesoro, avendo dovuto procedere contro un suo amico, non ebbi da lui ostacoli, e nemmeno raccomandazioni. Ma la scarsa attitudine ed abitudine all'esame ponderato delle cose, lo portava alle volte addirittura al fantastico.

Ricordo in proposito un episodio ben strano. Io mi trovavo, d'estate, in campagna a Cavour, quando egli mi telegrafò di venire senza indugio a Roma. Arrivato, quando fui nel suo Gabinetto, egli mi disse senz'altro ex abrupto, che dovevamo aspettarci un colpo di mano della Francia sulla Spezia. - Come, - esclamai io, - siamo in guerra con la :Francia? Abbiamo dichiarato la guerra alla Francia? - No, - mi rispose egli, - è la Francia che si prepara ad attaccarci d'improvviso, con un colpo di mano, che è imminente. - Io gli replicai che non credevo assolutamente alla cosa, e gli detti buone ragioni del mio scetticismo; fra l'altro era incomprensibile che la Francia, che possedeva allora una flotta tre volte superiore alla nostra, si prendesse l'odio di una così enorme violazione del diritto, per fare un colpo di assai dubbia convenienza. Ma egli rimaneva fermo nella sua convinzione, come non avesse alcun dubbio della cosa, e mi chiese di dare il mio aiuto; ciò che feci per lealtà verso di lui come capo del governo a cui partecipavo, e per quel tanto che potevo come ministro del Tesoro.

Crispi aveva avvertito l'Inghilterra, che mandò a Genova un ammiraglio con l'incarico di parlare pubblicamente della comunanza di interessi fra l'Inghilterra ed Italia nel Mediterraneo, ciò che egli fece.
Quando poi fui Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni, scopersi che quella sorprendente informazione Crispi l'aveva avuta da un agente che teneva presso il Vaticano, e l'aveva accettata senz'altro come vera senza curarsi di appurarla.

Pure di quel tempo, e cioè durante la mia permanenza al suo ministero, furono i primi accenni di Crispi ai suoi progetti di espansione coloniale nell'Abissinia. Quando nell'estate del 1890 la Camera era chiusa, egli mi chiese un prelevamento di seicentomila lire per una spedizione scientifica in Abissinia. Dovetti rifiutare; in primo luogo perchè il fondo di riserva era ridotto a piccole proporzioni; e poi perchè si trattava, con quella richiesta, non di completare uno stanziamento di bilancio insufficiente, ma di aprire una spesa nuova, la quale doveva essere consentita dal Parlamento con legge speciale.
Poco dopo Crispi progettò di inviare a Massaua seimila uomini; e ne fece richiesta al Ministro della guerra, Bertolè-Viale, e all'obiezione del Ministro che per fare ciò occorreva un anticipo di sei milioni, Crispi gli disse di chiedermeli. Bertolè-Viale rispose: - Chi deve chiederli è lei, che come Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri ritiene quella spedizione necessaria; non io che non ci ho mai pensato. - Crispi replicò che a me, dopo il rifiuto avuto, non intendeva di chiedere più nulla. Bertolè-Viale me ne parlò poi; ma io non consentii, anche perchè, pure parlandomene, Bertolè-Viale mi fece capire che non era lui che desiderasse quella spedizione.

Riguardo a quella che fu battezzata dal Cavallotti la «questione morale» la mia impressione fu allora, nel momento in cui tali questioni si agitavano, che il Crispi personalmente fosse onesto e disinteressato. Ritengo si debba escludere che egli abbia mai pensato di avvantaggiarsi della sua posizione per sete di guadagni. Era onesto, ma disordinato, o forse meglio, su lui ricadeva la soma e la responsabilità di disordini famigliari, e più tardi anche di persone da cui si era lasciato circondare; tanto più che a codesto genere di disordini egli non dava importanza, tutto preso dal pensiero della sua opera politica. Le relazioni personali fra me e lui furono allora buone, e devo dire che durante la mia partecipazione al suo ministero io non ebbi che a lodarmi di lui pel suo contegno e per il cordiale e sincero appoggio che egli dava alla mia politica finanziaria. Eravamo molto affiatati in tutto, ed egli mi chiamava spesso a consulto.
Un certo straniamento cominciò quando io mi dimisi; egli se la prese a male, specie perchè io avevo motivate le dimissioni in forma troppo sincera, dichiarando che non mi sentivo di ripresentarmi alla Camera con programma diverso da quello con cui ci eravamo presentati agli elettori. Vedendo però che io non gli creavo difficoltà e non lo combattevo, la sua animosità del primo momento si placò; e durante poi il ministero Rudinì, che segui al suo dopo il gennaio 1891, non ebbi occasione di dubitare che ci fosse da parte sua ostilità alcuna verso di me.
Anzi, parlando coi suoi amici e seguaci della lotta da condurre contro Rudinì, egli diceva apertamente essere venuto il momento mio, e doversi seguire la mia guida.

Fra gli altri uomini politici più in vista del tempo, nel Ministero Crispi trovai lo Zanardelli, che era uomo di grande onestà e dirittura, e di valore nel suo ramo speciale della legge. Aveva molta cultura, però alquanto antiquata; la cultura propria del periodo di Luigi Filippo, da lui assorbita nella sua giovinezza di studente; e ne aveva derivata una mentalità dottrinaria, che si rivela principalmente nella parte giuridica della sua opera principale, cioè il Codice Penale. Possedeva grande eloquenza, di carattere letterario; i suoi discorsi erano composti con grande cura, poi imparati a memoria e detti a perfezione. Le sue convinzioni politiche erano passionatamente democratiche, però della particolare democrazia borghese del suo tempo, mista ad un sincero lealismo per la monarchia costituzionale.
Come molti altri, anzi quasi tutti gli uomini venuti su con quella cultura ed educazione, non comprendeva ed avversava il socialismo. Godeva di molte simpatie ed amicizie, ed era alla sua volta fervidissimo nelle amicizie e negli odii, che però mutavano. C'era sempre qualcuno che per lui era, secondo una sua frase abituale, « il peggiore di tutti » ; ma poi l'oggetto di questa sua antipatia cambiava, tanto che fra noi si domandava scherzosamente: - Chi è adesso il « peggiore di tutti » ? - Appassionatissimo della politica, delle sue lotte, delle sue polemiche, egli impersonava proprio l'anima della Sinistra nella sua implacabilità contro l'antica Destra.

Altro uomo che allora occupava l'attenzione pubblica era il Nicotera, al quale non mancavano qualità native ragguardevoli. Era dotato di ingegno naturale; aveva molta energia; era pieno di coraggio. Ma era pure violento e impulsivo; mancava di cultura; non conosceva la legislazione nè aveva pratica dei congegni amministrativi dello Stato. Egli è rimasto per me un esempio che le qualità naturali non sono sufficienti a creare l'uomo politico, se non sono disciplinate. Anche l'energia non basta se non si sa poi come adoperarla a proposito e con senso di misura.


Assumendo il dicastero dei Tesoro nei Gabinetto Crispi, io aderivo pienamente alla concezione democratica della Sinistra, cercando anzi di estenderla dal puro campo politico, a cui si arrestavano i criteri di Crispi, Zanardelli, Depretis ed altri, al campo economico per quanto me lo consentivano le mie particolari funzioni. Così la prima cosa che feci come Ministro del Tesoro, fu di mutare la legge generale di contabilità dello Stato per consentire la concessione di opere pubbliche entro un dato limite alle cooperative operaie, che erano cominciate a sorgere in quel tempo. Ero entrato nel Ministero in febbraio e la legge fu approvata e promulgata il 4 aprile. Nello stesso tempo però io mi scostavo da quella tendenza della Sinistra, che aveva prevalso negli ultimi ministeri Depretis per opera di Magliani, in quanto mettevo in prima linea il pareggio del Bilancio.
Bisogna in proposito ricordare che, mentre Minghetti era riuscito a raggiungere dopo tanti anni di sacrifici e di sforzi la meta del pareggio, la finanza del Magliani lasciava un disavanzo che si avvicinava ai trecento milioni su un bilancia di circa un miliardo e mezzo. La situazione finanziaria era tanto più grave per la lunga crisi economica che travagliava il paese, e che non consentiva, la speranza di potere colmare, o diminuire largamente quel disavanzo con nuove entrate; e per le ripercussioni della situazione finanziaria internazionale che creavano grandi ansie per i nostri pagamenti all'estero, che allora ascendevano a circa trecentocinquanta milioni all'anno.
In seguito infatti ad una crisi gravissima scoppiata nell'Argentina, ed al conseguente disastro della famosa Banca inglese Bahring, che si era impegnata a fondo in quel paese, il cambio era salito fino al sedici per cento, inasprendo ancora le difficoltà dei nostri pagamenti all'estero. Per quei diciotto mesi che io rimasi al Tesoro, si rimediò al disavanzo con l'emissione di Obbligazioni ferroviarie al tre per cento, titolo creato ai tempi del Magliani; e con la vendita di centoventi milioni della Cassa Pensioni, che era stata malcreata, senza dare seguito alla legge, e non funzionava; cosicchè erano rimasti nelle sue casse, a disposizione del Tesoro, quei centoventi milioni già dati come sua prima dotazione.

Un'altra difficoltà della nostra finanza d'allora, era creata dalla ostilità della finanza francese, che obbedendo alla parola d'ordine del suo governo, irritato dalla politica di Crispi, ostacolava in tutti i modi quel collocamento di nostri titoli che doveva servirci per i nostri pagamenti all'estero. In quelle difficili congiunture venne a Roma, emissario della Deutsche Bank, il signor Siemens, per la costituzione, da me promossa, del Credito Fondiario. Io colsi l'occasione per trattare con lui il collocamento all'estero di quei centoventi milioni di rendita, e potemmo venire ad un accordo per noi conveniente. La sola condizione che egli pose fu che non fosse resa nota l'esistenza di quel contratto per un po' di tempo, appunto perchè la finanza francese ostile non creasse ostacoli al collocamento. Ricordo che l'accordo era stato raggiunto alla sera, e che il Siemens doveva venire il giorno dopo per la firmai'; e che la sera stessa il telegrafo segnalò un ribasso di sessanta centesimi della nostra rendita sulla Borsa di Parigi.
Ma il Siemens firmò lo stesso, pure lamentando di avere concluso un cattivo affare. Bisogna riconoscere che in quel momento, e per parecchio tempo dopo, la nostra finanza fu molto e cordialmente sostenuta dalla Banca. tedesca. Le condizioni del nostro bilancio allora erano tali che, specie per i pagamenti all'estero bisognava ricorrere a crediti esteri, perchè in Italia avevamo il corso forzoso. Ma il campo per quei crediti era ristretto assai; la Francia ce li rifiutava assolutamente, per controbattere la politica di Crispi ad essa ostile; ed anche sull'Inghilterra c'era poco da contare, perchè i finanzieri inglesi facevano scarsi affari in Europa, preferendo le imprese e le speculazioni coloniali, nelle quali guadagnavano molto di più, anche se erano esposti a catastrofi come quella che travolse la Banca Bahring.

Mentre provvedevo nel miglior modo possibile a questi bisogni immediati, procuravo di restringere le spese; ed a questa mia opera di economia Crispi non si oppose nullamente sino alle elezioni del '90, ed anzi l'appoggiò, consentendo con me che il Governo si presentasse a quelle lezioni con un programma di economie. Tale programma io l'avevo formulato ai primi di settembre come programma per le elezioni stesse, chiedendo in un Consiglio dei ministri una diminuzione delle spese per venti milioni nell'esercito e per dodici nella marina, e che nessun aumento fosse consentito per alcun altro bilancio. E poichè come il Ministro più giovane fungevo da segretario nel Consiglio, ne approfittai per metterlo a verbale, aggiungendo che senza queste concessioni io non avrei presentati i bilanci alla Camera.
Dopo lunghe discussioni il Ministro delta Guerra, Bertolè Viale, e quello della Marina, Brin, dettero il loro assenso; ma Finali, ministro dei Lavori Pubblici, insistette per avere un aumento di dodici milioni nel suo bilancio. Io rifiutai, perchè a mio avviso quei dodici milioni non erano necessari, ed anche perchè il Ministro della Guerra, prima di cedere alla mia richiesta di diminuzione del suo bilancio, aveva ottenuta da me la promessa, che non avrei ceduto con nessun altro dei ministri. Finali continuando ad insistere, io dichiarai in Consiglio, e ripetei personalmente a Crispi, che se Finali non rinunciava, e non si modificava il bilancio dei Lavori Pubblici nel senso da me indicato, avrei date le dimissioni. Crispi cercò di rimandare la questione per quanto potè; ma siccome Finali non cedeva, e Crispi forse non si aspettava che io tenessi fermo al proposito manifestato, le dimissioni diventarono inevitabili.

Mancando tre o quattro giorni all'apertura della Camera, io feci a Crispi un'ultima dichiarazione, avvertendolo che se il giorno dopo, a mezzogiorno, non avessi il consenso del Finali, gli avrei mandate le dimissioni e le avrei ad un tempo pubblicate. Non avendo, a mezzogiorno ricevuta alcuna risposta, dieci minuti dopo mandai la mia lettera di dimissioni e le comunicai alla stampa. Un quarto d'ora dopo si dimise pure il mio sottosegretario, Lazzaro Gagliardo; già garibaldino, ferito al Volturno e nel Tirolo, e che ricordo sempre come uno dei maggiori galantuomini e degli uomini di maggior buon senso che io abbia incontrati.
Non volli però creare altre difficoltà al Ministero, e seguitai a votare in suo favore sino alla sua caduta, che avvenne improvvisamente il 31 gennaio 1891, in una seduta alla quale non mi trovavo presente.
Fu la seduta delle famose «sante memorie». In uno dei suoi scatti impulsivi, Crispi aveva detto che la politica estera della Destra era vile. Avvenne un pandemonio; Rudinì e gli altri uomini del suo partito balzarono in piedi apostrofandolo, ed il Ministero, nella votazione avvenuta subito dopo, fu battuto e rassegnò le dimissioni. Ma l'episodio di quella caduta era stato preparato senza volerlo dal Crispi stesso, il quale, staccandosi sempre più dalla Sinistra, aveva favorito inconsciamente un tentativo di ripresa della Destra, che s'impersonò appunto nel Ministero costituito da Rudinì in seguito a quella crisi.


Quando formò il suo primo Ministero, il Marchese Di Rudinì era considerato come il capo della Destra; essendo pervenuto a quella situazione con la scomparsa degli altri uomini più insigni del partito e per il prestigio del suo passato. Era infatti entrato nella vita politica giovanissimo, e in un episodio drammatico, nel 1866, quando a Palermo, in seguito al malcontento causato dalla guerra, era stata tentata una vera e propria insurrezione. Era stata una insurrezione prettamente borbonica, preparata con gli elementi della malavita palermitana; la quale per tre giorni aveva assediato il Di Rudinì, allora sindaco della città, nel palazzo municipale. Il giovane sindaco si era difeso con grande coraggio ed energia, dando tempo alle truppe dell'esercito regolare di sbarcare, reprimere i rivoltosi e rimettere l'ordine nella città perturbata. Questo episodio gli aveva creata una grande popolarità fra gli uomini della sua parte, a cui era parso di avere trovato finalmente in questo giovane un vero uomo di azione, che sarebbe stato il loro capo per l'avvenire. E si cercò di affrettarne la carriera; fu nominato Prefetto di Napoli, e fu poi chiamato al dicastero dell'Interno nell'ultimo Ministero Minghetti, quando non aveva ancora compiuti i trenta anni.

Come avviene per le aspettative troppo vive, seguì una certa delusione, anche nella fila del suo partito. Ricordo in proposito una frase del De Sanctis, alquanto maligna, e che allora fece il giro degli ambienti politici : - Venne alla Camera come il fanciullo miracolo; il fanciullo rimase, ma il miracolo scomparve. - Le mie impressioni di lui sono che egli fosse un perfetto galantuomo ed uomo di garbo e finezza; dotato di una cultura non ricca ma certo superiore alla media. Non aveva e non acquistò mai una completa esperienza e non sapeva dominare le assemblee. Il più grande difetto del suo carattere quale uomo politico, era l'indecisione.
Questa perplessità della sua indole si manifestò anche quella volta, nella formazione del suo Ministero. Come ho accennato, il modo con cui avvenne la crisi indicava il proposito di sperimentare un ritorno alla Destra; ma quando fu a scegliersi i suoi collaboratori il Di Rudinì finì per seguire l'esempio di Depretis al rovescio, cercando cioè di formare un Gabinetto il quale, movendo dalla Destra assorbisse uomini di Sinistra. Egli prese con se, al Ministero degli Interni il Nicotera, cioè l'uomo che aveva condotta la rivolta parlamentare del '76, insieme a uomini di pura Destra.

Prima di offrire gli Interni al Nicotera, il Di Rudinì li aveva offerti a me; ma io non potei accettare, dando ragione del mio rifiuto col fatto che il nuovo Ministero si era formato sopra una base politica diversa da quella su cui poggiava il Ministero di cui ero stato parte sino a pochi mesi prima.
Le difficoltà inerenti ad una situazione quale quella in cui il Ministero si era formato, non tardarono a manifestarsi, aggravate da un dissidio, invano dissimulato, fra i suoi due uomini principali, il Di Rudinì ed il Nicotera. Questi, che forse nutriva maggiori ambizioni, si giovava della sua posizione per scalzare il suo capo, al quale mancava l'energia e la decisione per disfarsene. Un giorno, avendomi chiamato, il Di Rudini si sfogò con me, e dichiarandomi di non potere andare avanti col Nicotera agli Interni, concluse coll'offrirmi nuovamente quel posto. Gli risposi reiterando ciò che gli avevo già risposto alla sua prima offerta; e cioè che io non potevo entrarvi se il colore del Ministero non venisse cambiato, nel senso di appoggiarlo maggiormente perso Sinistra. Egli mi chiese in che modo, a mio avviso, questo mutamento potesse attuarsi, ed io suggerii di chiamare insieme a me Bonacci alla Grazia e Giustizia. Egli accettò il suggerimento, ed anzi dette a me l'incarico di fare l'offerta formale al Bonacci. Io adempiei a quel mandato; ma poi non ne seppi più niente perchè Di Rudinì non si decise a fare la crisi, quantunque più volte ancora ritornasse a parlarmi dei suoi screzi col Nicotera.

Poco dopo, durante la chiusura della Camera per le feste di Pasqua del 1892, essendosi dimesso il Ministro delle Finanze, Colombo, egli mi telegrafò a Cavour dove mi trovavo, pregandomi di venire a Roma. Venni, ed egli mi offerse di fare un nuovo Ministero d'accordo con me, tutto con uomini nuovi, tenendo fermi solo il nome suo e quello di Nicotera. Gli risposi che non mi pareva opportuno; che io con Nicotera non mi sarei trovato. - Ma lo sopporto io - mi disse Rudinì. Ed io gli replicai: - Per questo posso compiangerla, ma non mi sento di imitarla. -
Egli offerse allora il Ministero del Tesoro al Genala, che non accettò; e non riuscendo ad accaparrarsi altro nome che portasse ad un rafforzamento della compagine ministeriale, il Ministero si presentò alla Camera incompleto. Nel dibattito parlamentare che seguì ai primi di maggio, io parlai contro, osservando che il Ministero non poteva andare avanti perchè non riusciva nemmeno a ricomporsi; ed il Ministero essendo caduto col voto provocato dal mio discorso, fui indicato per la soluzione della crisi ed ebbi l'incarico di formare il nuovo Ministero.

FINE DEL TERZO CAPITOLO

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