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172. IL CONSOLATO - POLITICA INTERNA


Napoleone irrompe nella sala dei 500 - Colpo di Stato

Le vicende con i particolari che portarono al colpo di Stato del 18-19 brumaio (7 nov 1799) le abbiamo già anticipate nel precedente capitolo 167.
Le motivazioni che spinsero Napoleone a farlo le vogliamo invece riportare qui, prese da una singolare autobiografia ("Vie de Napoleon ècrite par lui-mème") che in effetti non era sua, ma di una sua acerrina avversaria, fatta cacciare da Parigi da lui e mandata perfino in esilio; ma dopo che era finito seppellito vivo a Sant'Elena si era convertita al bonapartismo, come del resto fecero molti altri scrittori francesi, chi subito chi in seguito. Napoleone lesse il libretto che girava per l'Europa a centinaia di migliaia di copie stampato o manoscritto e salvo qualche nota aggiunta, Bonaparte non solo approvò il contenuto come se l'avesse scritto lui medesimo, ma riconobbe nello stile anche la sua ex avversaria che era nientemeno che MADAME DE STAEL.
Il libretto era uscito e fu clandestinamente fatto giungere a Napoleone nel 1817, ma la scrittrice non potè nè smentire nè confermare perchè era morta poche settimane prima dell'uscita del volumetto.
La Stael (la fondatrice del Romanticismo) fece del libretto (e nessuno mette più in dubbio che sia stata lei l'autrice) un piccolo capolavoro; immedesimandosi in lui, in una prosa nervosa e asciutta (dal sapore e stile proprio napoleonico) vi troviamo un contributo di eccezionale interesse agli studi su Bonaparte e sulla potenza rivoluzionaria e creativa del Grande Corso.
qui ne riportiamo il passo che ora ci interessa.

"Lasciato l'Egitto, ricevetti dei giornali già al porto di Tunisi. Conobbi così il deplorevole stato della Francia: la decadenza del Direttorio, e il successo della coalizione. Credetti di poter servire per una seconda volta il mio Paese. Nessuna ragione mi tratteneva in Egitto: era quella un'impresa finita. Qualsiasi generale poteva firmare una capitolazione che il tempo avrebbe resa inevitabile, ed io partii senz'altro disegno che quello di riapparire alla testa delle armate per ricondurle alla vittoria.

"Sbarcato a Frejus, la mia presenza entusiasmò il popolo. La mia gloria militare rassicurava tutti quelli che avevano paura d'essere battuti. Era un continuo affollarsi sul mio passaggio: il mio viaggio ebbe l'aria di un trionfo, e compresi, arrivando a Parigi, che potevo tutto in Francia.
La debolezza del governo l'aveva messa ad un passo dal baratro: vi trovai l'anarchia. Tutti volevano salvare la Patria, e proponevano i piani relativi: mi si venivano a fare delle confidenze; ero il centro delle cospirazioni; ma non v'era uno solo, alla testa di tutti questi progetti, capace di portarli a termine. Tutti contavano su di me, perché avevano bisogno di una spada. Io non contavo su nessuno, e fui libero di scegliere il piano che più mi conveniva.

"La fortuna mi metteva alla testa dello Stato. Mi trovai padrone della Rivoluzione giacché non volevo esserne il capo: quel ruolo non mi conveniva. Ero dunque chiamato a preparare le sorti future della Francia, e forse quelle del mondo.
Ma bisognava innanzi tutto fare la guerra; fare la pace; acquietare le fazioni; fondare la, mia autorità. Bisognava muovere questa grossa macchina che si chiama governo. Conoscevo il peso di queste resistenze, ed avrei preferito il semplice mestiere della guerra in fondo, io non amavo che il comando del quartier generale e l'emozione del campo di battaglia. Mi sentivo, infine, in quel momento, più disposto a sollevare l'ascendente militare della Francia, che a governarla.

" Ma non avevo scelta per il mio posto. M'era facile, infatti, vedere che il regno del Direttorio volgeva alla fine, che bisognava mettere al suo posto un'autorità che s'imponesse per salvare lo Stato, e che non v'era niente di veramente potente come la gloria militare. Il Direttorio non poteva dunque essere sostituito che da me o dall'anarchia. Non v'era alcun dubbio per la Francia su tale dilemma. L'opinione pubblica aveva si questo il mio stesso modo di vedere.
"Proposi di sostituire il Direttorio con un Consolalo, tanto ero allora lontano dal concepire l'idea di un potere sovrano. I Repubblicani, a loro volta, proposero di eleggere due Consoli; io ne domandai tre, perché non volevo essere accoppiato. Il primo rango mi apparteneva di diritto in questa trinità : era tutto quello che desideravo.
I Repubblicani non si fidarono della mia proposta intravidero un principio di dittatura in questo triumvirato, e si unirono contro di me. La presenza stessa di Sieyès non poteva tranquillizzarli. Egli s'era incaricato di fare una costituzione; ma i Giacobini preferivano la mia spada, perché non si fidavano della penna del loro vecchio abate.

" Tutti i partiti si unirono allora sotto due bandiere: da una parte i Repubblicani che si opponevano a che io fossi innalzato al Consolato, e dall'altra tutta la Francia che lo chiedeva. Il mio avvento era dunque inevitabile perché la maggioranza finisce sempre per vincere. I Repubblicani avevano stabilito il loro quartier generale nel Consiglio dei Cinquecento: si difesero veramente bene e bisognò vincere la battaglia di St. Cloud per farla finita. Io per un momento avevo creduto che l'elezione si facesse per acclamazione.
Il voto pubblico mi dava il primo posto nello Stato: la resistenza che s'era fatta non mi preoccupava, perché non veniva che da gente di dubbia opinione. I realisti non si erano visti: erano stati colti dal panico. La maggioranza della Nazione aveva fiducia in me, sapendo bene che la Rivoluzione non poteva avere una garanzia migliore della mia. A mia volta, non avrei trovato la mia forza che mettendomi alla testa degli interessi creati dalla Rivoluzione: facendola retrocedere, mi sarei ritrovato sul terreno dei Borboni.

" Bisognava che tutto fosse nuovo nel mio potere, e tutte le ambizioni vi trovassero da vivere. Ma non v'era niente di definito nella sua natura, e questo era il suo difetto.
lo non ero, per la Costituzione, che il primo magistrato della Repubblica; ma avevo una spada per bastone di comando. Vi era incompatibilità tra i miei diritti costituzionali e l'ascendente che derivavo dal mio carattere e dalle mie azioni. Il pubblico lo sentiva come me; la cosa non poteva durare a lungo, ed ognuno in conseguenza si accingeva a prendere il suo atteggiamento.
Trovavo più cortigiani di quanti me ne bisognassero. Si faceva la coda. Così non ero preoccupato del progresso che faceva la mia autorità; ma lo ero invece, e molto, per la situazione materiale della Francia.

" Ci eravamo lasciati battere : gli Austriaci avevano riconquistato i' Italia e distrutto la mia opera. Non avevamo più delle armate per riprendere l'offensiva.
Non vi era un soldo nelle casse, e nessun mezzo per riempirle. La coscrizione non si faceva che sotto il beneplacito dei sindaci. Sieyès ci aveva preparata una costituzione fiacca e parolaia, che inceppava ogni cosa. Tutto quel che costituisce la forza di uno Stato era distrutto: non esisteva che quello che ne crea la debolezza".


La medaglia commemorativa dei tre Consoli.

All'indomani del colpo di stato, il governo provvisorio derivato dalle leggi del 19 brumaio era costituito da tre consoli con un ministero, dal consiglio dei cinquecento e da quello degli anziani; era quindi una continuazione del Direttorio, solo che il posto dei cinque direttori era stato preso dai tre consoli, uguali e con l diritto di presiedere alternativamente al pari di quelli.
Vi era però una differenza sostanziale; il Direttorio aveva contraria l'opinione della nazione, il Consolato l'aveva invece favorevole. Quindi i consoli potevano d'allora in poi procedere energicamente per ristabilire la quiete e l'ordine.

Ispirarono timore agli ostinati, abolirono la legge barbara degli ostaggi, allontanarono i funzionari inabili e cercarono di ovviare alle terribili ristrettezze finanziarie. Il tesoro dello Stato era infatti vuoto. Alcuni banchieri parigini misero a disposizione del governo denari contanti, in sostanza sul nome di Bonaparte; si spremette del denaro da Genova, da Amburgo e dalla Repubblica Batava; si tralasciò, quand'era possibile, ogni pagamento che non fosse per l'esercito, e si cominciò ad esigere le imposte per mezzo di funzionari dello Stato, invece di lasciarle riscuotere come prima da impiegati dei dipartimenti.

Ad elaborare la nuova costituzione fu destinato il Sieyès, che della democrazia brutale era ormai sazio. Egli prese per massima fondamentale: fiducia dal basso, esercizio approvato del potere dall'alto. A capo dello Stato pose un grande elettore, essenzialmente per la rappresentanza. Questi doveva designare due consoli, uno per gli affari interni, uno per quelli esteri e per la guerra.
Il potere legislativo si divideva in tre gruppi 1° in un senato proveniente da elezione popolare per la preparazione tecnica delle leggi e la nomina dei membri dei due altri gruppi; 2° in un tribunato, al quale spettava la discussione delle leggi presentate dal senato e 3° in un'assemblea legislativa, che doveva semplicemente approvare o respingere queste leggi.

Si vuole che allora Bonaparte abbia detto sdegnosamente che una costituzione deve essere breve e poco chiara. Egli si tenne all'inizio indietro, ma poi intervenne con sentimenti improntati alla realtà e con irresistibile energia nel comando, così che si dovettero eleggere come autorità supreme tre consoli per dieci anni, dei quali il primo aveva presso a poco pieni poteri, una dittatura appena accennata. Questo posto lo aveva riservato per sé stesso.
Il primo console pubblicava ordinanze, nominava e licenziava funzionari, ufficiali e giudici. I consoli erano irresponsabili; erano però responsabili i ministri di fronte ai consoli e di fronte ai corpi inferiori. Si volle inoltre che vi fosse un consiglio di stato, la cui competenza si lasciò indeterminata in modo che potesse divenire uno strumento nelle mani del capo del governo, come difatti avvenne.

Fu all'inizio formato da 40 poi da 50 uomini esperti negli affari, e diventò un'autorità amministrativa, che comprendeva i capi delle principali divisioni dell'amministrazione pubblica, ed esercitava una funzione per metà legislativa e per metà giuridica. Era nello stesso tempo tribunale, camera e consiglio ministeriale, responsabile soltanto di fronte al primo console.
Del resto, secondo le proposte del Sieyès, rimasero un tribunato, un senato e un corpo legislativo, i cui membri riscuotevano grossi stipendi, ma avevano poco da dire. Il potere legislativo fu ripartito fra due camere, senza diritto di proporre leggi, chiuso tra stretti limiti dal consiglio di stato dipendente dal governo e dal senato e senza essere sostenuto dall'elezione popolare.

Il senato prese la forma di un ricovero per celebrità invecchiate. Talora scoppiò nel tribunato una certa opposizione contro il consiglio di stato e contro i funzionari dipendenti dai consoli. Il preteso capolavoro repubblicano del Sieyès si mutò in uno strumento di dispotismo nel pugno di ferro di Bonaparte. L'«abbé» Sieyès (ma era stato lui l'ispiratore della svolta autoritaria) non osò opporre alcuna resistenza; in compenso di ciò ottenne un grosso possesso fondiario e la presidenza del senato. Dette meno peso alla sua carriera politica, poiché aveva trovato il suo padrone.

La costituzione confermò i diritti dei proprietari dei beni nazionali e aderì alle leggi contro gli emigrati, evitando però le questioni di principio. Al posto dei partiti si mise solo più la patria e questa si personificò in un Titano, che prometteva quiete, pace, gloria, benessere e giorni sereni.
Si era da lui amche brutalmente calpestati, ma lo si accoglieva tuttavia con acclamazioni. La votazione popolare del 7 febbraio 1800 sulla costituzione ebbe per risultato un'approvazione pressoché unanime. Col secolo che terminava ebbe fine anche la Rivoluzione, che si era finalmente calmata come un uragano devastatore.

Alla dignità di secondo console fu innalzato Cambacérès, a quella di terzo Lebrun, ambedue abilmente scelti. Cambacérés era un buon giureconsulto, già membro della Convenzione, non proprio un terrorista, ma tranquillo e chiaro, vanitoso e avido di godimenti, uomo di astuti ripieghi. Lebrun, pure uomo di legge, si dimostrò utile amministratore senza speciale energia propria e senza un grande ingegno. Nessuno dei due poteva riuscire pericoloso al vero padrone, ma ognuno di loro poteva soltanto sostenerlo docilmente.

Lo stesso si dica dei dieci ministri, fra i quali si segnalavano Luciano Bonaparte per la giustizia, Fouché per la polizia e Talleyrand per gli affari esteri. Perché nessun ministro potesse ingrandirsi troppo, i principali uffici furono in certo modo ripartiti ciascuno tra due ministeri e corpi speciali; non si nominò un presidente dei ministri e non si convocarono a consiglio, ma Bonaparte lavorava separatamente con ciascuno di loro. Lo splendido palazzo reale di Parigi, le Tuileries; accolse nuovamente un sovrano, che però portava per il momento il titolo di primo console.

Durante l'inverno vi fu tregua nelle ostilità. Bonaparte se ne avvalse per ordinare l'amministrazione interna, e lo fece con la legge del 28 piovoso dell'anno VII (17 novembre 1800). Questa conservò i dipartimenti e i comuni, intercalando fra quelli i circondari, scomparsi durante la rivoluzione. Nel complesso veniva ad essere ristabilito l'ordinamento del Richelieu. Nel luogo degli intendenti furono posti i prefetti, quali capi dei dipartimenti, poi seguivano i sottoprefetti (un tempo i sottodelegati) per i circondari e finalmente i «maires» (una specie di sindaco) per i comuni.
I primi avevano un'amplissima libertà di governare; erano, secondo un'espressione del Bonaparte, dei primi consoli in piccolo, e questo carattere si estendeva con dei gradi ai due ordini inferiori di funzionari. Gl'impiegati erano nominati dal console o dai prefetti, e scelti tra i notabili; erano obbligati ad obbedire ai loro superiori e potevano essere destituiti senza diritto a pensione; con questo l'amministrazione dello Stato si mutò in una macchina guidata da Parigi, che agiva rapidamente e in modo sicuro e regolare. Così scomparve ogni amministrazione autonoma e ogni elezione popolare.

Il dominio di Bonaparte riposava prima di tutto sui moderati, ma ciò non bastava; doveva trovare il suo sostegno sopra una larga base, ed ottenere questa era possibile soltanto con una politica di benessere generale. Non si poteva a questo fine risalire all'antico regime, né al periodo meno vicino della rivoluzione, ma si doveva governare con uno spirito di ordine.
Poiché questo pareva minacciato prima di tutto da quelli, che rimanevano ancor fedeli al re, il console decise di farla finita con i realisti. Il generale Brune con un forte esercito e con amplissime facoltà si mosse verso le province occidentali e infranse la resistenza degli «chouans», obbligandoli a scegliere fra la loro distruzione o il chieder grazia.

In modo simile gli avversari repubblicani di Bonaparte sentirono quanto fosse pesante la sua mano. Sorta una certa opposizione nel tribunato e nella stampa, Napoleone di 73 giornali politici ne soppresse non meno di 60 e vietando la pubblicazione di nuovi giornali nuovi. Finamente ne rimasero 11, oltre al «Moniteur». Questo divenne il giornale del governo, in modo che il console potesse agire direttamente sull'animo dei lettori.

La vittoria di Marengo (che narriamo in altre pagine) consolidò la posizione di Bonaparte, che procedette a perfezionare i tre grandi risultati della Rivoluzione, cioè l'onnipotenza dello Stato, l'uguaglianza civile e le mutate condizioni della proprietà.
In linea di diritto si aveva libertà di culto, però ad onta di tanti disordini l'antica confessione si mostrava tuttora prevalente. Bonaparte era un non credente, ma tuttavia apprezzava il cattolicesimo, come rappresentante di un potere e come istituzione.
Quindi si comportò in modo molto conciliante verso la corrente religiosa, che guardava con apprensione a lui; avviò quindi negoziati con Pio VII. A causa di molti contrasti e delle pretese del primo console, le trattative si dimostrarono piuttosto difficili e lunghe. Il papa vedeva minacciato il potere temporale e sperava che avrebbe avuto un grande effetto e un invito alla moderazione il ritorno legale del cattolicesimo nel paese della rivoluzione.

Napoleone con il suo realismo politico seppe valutare l'ascendente della religione sulle masse e il suo valore come garanzia di ordine sociale, strumento per conciliare gli uomini all'idea dell'ineguaglianza e per renderli disposti ad obbedire all'autorità terrena. L'opera di pacificazione e di riconciliazione intrapresa da Napoleone esigeva quindi la pace religiosa, indispensabile per sanare le aspre divisioni interne che si erano venute a creare con la nuova religione, che anziché unire, dividevano. Insomma la "religione del culto della ragione" dopo dieci anni era fallita, scarsa l'influenza sul popolo e grande il danno in molti apparati della vita civile, prima in mano alla chiesa. 

Vi era allora Chiaramonti uscito eletto come Papa Pio VII il 14 marzo del 1800 in un conclave tenutosi a Venezia. Il cardinale Chiaramonti salì così sul soglio vacante di Pio VI, il papa arrestato a Roma, tradotto in Francia, morto il 22 agosto a Valence.
Tutti ricordavano Chiaramonti per un suo famoso sermone "giacobimo" alla messa di Natale del 1797 a Venezia dopo l'entrata dei Francesi. Dimostrandosi disposto a collaborare con la repubblica cisalpina, aveva esortato il suo gregge con queste parole "siate dei buoni cristiani e sarete dei buoni democratici".

Se il pontificato del primo (dal 1775 al 1799) coincise con uno dei periodi più difficili della chiesa in lotta con le nuove tendenze filosofiche e rivoluzionarie, mantenendo un atteggiamento incerto e spesso arrendevole, Pio VII invece fin dal primo istante divenne il mito della "eroica resistenza". Purtroppo per lui trovò fino il fondo il suo cammino (morirà nel 1823) un uomo come Napoleone. Con difficili discussioni - per non compromettere ulteriormente i rapporti- dovette piegarsi a lui e riconoscere la nuova realtà politica-ecclesiastica. Poi forse per forme indirette di pressione -o perchè i due possedevano entrambi un carattere forte- sorsero i primi insanabili contrasti ("Lei faccia il papa, a me lasci fare l'Imperatore") fino al punto da essere imprigionato. Ma senza curarsi di questi e altri incresciosi episodi, Pio VII nella Restaurazione, nel suo Stato (affiancato dal Bravo Consalvi tornato al suo fianco) pose le basi di una unificazione amministrativa sul modello centralistico di Napoleone, abolendo i diritti feudali, riorganizzando i tribunali, e fu anche il primo papa ad iniziare una politica interna sostanzialmente liberale.

Per le ragioni dette più sopra i due si sentivano attirati l'uno all'altro e il 15 luglio 1801 fu concluso un concordato, sebbene questo significasse propriamente un colpo di Stato senza paragone.
Napoleone commise l'errore, anche se strategicamente era valido (era un generale!), di trattare il papa come un semplice capo di uno Stato (il pontificio) che doveva assoggettare come tutti gli altri, che aveva contro. Il papa era in Italia, la influenzava politicamente, e per Napoleone possedere l'Italia voleva dire poter controllare il Mediterraneo inglese e l'Alto e Medio Adriatico austriaco e  pontificio, cioè i suoi nemici. 
Il travaglio per modificare il suo atteggiamento fu lungo, le trattative difficili, e molte le crisi diplomatiche. Non facile riassumerle qui in poche pagine, sia prima che dopo il concordato.

Ma oltre all' elezione di un uomo come il Chiaramonti, molto intelligente, abile e ostinato assertore e profondamente convinto che il capo di una chiesa era investita di una missione sovrannazionale, la provvidenza gli mandò a Napoleone un'altrettanto intelligente cardinale come segretario di stato della Chiesa, ERCOLE CONSALVI un abile politico.
Fu infatti lui in questo 1801 con il suo "Concordato" a normalizzare i rapporti della Santa Sede con Napoleone. Non senza problemi con i vecchi cardinali conservatori. 
Riapertosi poi il conflitto fra la Santa Sede e Napoleone, Consalvi fu poi costretto ad abbandonare la segreteria di stato nel 1806 e recarsi in esilio in Francia, dove però si adoperò per indurre il papa a sconfessare il concordato di Fontaineblue.
CONSALVI alla caduta di Napoleone, come già detto sopra, ritornò ad essere il protagonista al congresso di Vienna con la ricostituzione integrale dello Stato della Chiesa. Riottenuta la carica di segretario di stato, diede ai domini pontifici una struttura politico-amministrativa moderna accentrata e uniforme, ma sempre tenendo conto dei mutamenti introdotti da Napoleone, conservando perfino molte sue leggi (come il codice di commercio). Struttura che rappresentò un grande progresso rispetto a quella prima esistente nei domini papali. Uomo nuovo, risoluto, capace, moderno, e proprio per questo fu sempre combattuto dai cardinali più conservatori. Appena morì PIO VII, il 20 agosto 1823, i retrivi tirarono un profondo sospiro di sollievo e riuscirono a fare allontanare pure lui, così non avrebbe più "nuociuto". L'anno Consalvi dopo morì. La Chiesa ritornò in mano ai conservatori, all'ostinazione dei tradizionalisti, con le conseguenze di creare enormi fratture in un mondo che stava mutando profondamente. Una frattura che lo tenne diviso per altri 150 anni.

Torniamo ai fatti . Nel "Concordato Consalvi" il papa fu riconosciuto come capo supremo del clero francese, spettandogli l'investitura canonica dell'alto clero. In compenso di ciò consentì all'incameramento dei beni ecclesiastici e a considerare il matrimonio come un patto civile. Tutti gli ecclesiastici dovevano essere stipendiati come funzionari, e i vescovi nominati come questi dal governo. Nel tempo stesso si diminuì il numero delle diocesi e i parroci non furono eletti dai comuni, ma istituiti dai vescovi col consenso dello Stato.
Bonaparte aumentò in modo unilaterale queste disposizioni con una legge di compimento, gli «articoli organici», nei quali formulò la supremazia dello Stato sulla Chiesa. La curia era indignata, ma essendo debole, cambiò tono, così che il 18 aprile 1802 il concordato poté esser pubblicato.

C'era tuttavia qualcosa ancora di impreciso e non ancora "concordato" che però Napoleone pubblicò ugualmente prima ancora della firma definitiva, e che subito dopo il Chiaramonti inutilmente ritrattò. Abbiamo oggi questo documento inviatomi gentilmente da G. Ottaviano Chiaramonti :

"""Napoleone si appropri� del testo, steso da Pio VII in forma di bozza, una semplice base, comprendenti 12 articoli organici che, tuttavia, erano ancora materia di discussione e sui quali non vi era stato ancora nessun accordo. Il Papa, allora, accortosi di essere stato giocato, ritratt� il tutto con una lettera, che...la Francia ha tenuto nascosta, per oltre un secolo, e che e' stata ritrovata solo nel 1962.(Finora si conosceva solo la ritrattazione). E' un testo coraggioso che lascia ben comprendere la pressione psicologica cui il Pontefice era stato sottoposto: "...Apres maints assauts endures pendant plusieurs jours, auxquels nous avons oppose' une resistance farouche, sans ceder aux requetes de l'Empereur, effraye' par les maux tragiques que notre tenacite' aurait fini par causer, nous avons eu peur pour la religion et l'Eglise, et non pas pour notre propre personne pour laquelle, Dieu en est temoin, nous n'avons jamais e! prouve' la moindre crainte et, ignorant encore le veritable etat des choses, nous avons signe'...douze articles destines a servir de base a un reglement definitif des litiges suscites depuis quelques annees par les matieres ecclesiastiques. Nous avons malheuresement realise' presque immediatement notre surprise et notre erreur, et le ciel nous en est temoin qu'a compter de ce moment, nous n'avons plus connu ni paix ni repos et qu'en proie aux remords et au repentir, nous melons constamment, comme le royal prophete, notre boissons a nos pleurs car nous jugeons trop grave le dommage que nous avons cause' a l'Eglise et au Saint-Siege par les dispositions et le concessions contenues dans les articles sus-dits; nous sommes conscient de les avoir utilises non pas pour l'edifications, mais pour la destruction du pouvoir que Dieu nous a confere' dans la conduite de son Eglise".
(IN ITALIANO - "...Dopo infiniti attacchi durati per diversi giorni, ai quali abbiamo opposto una resistenza feroce, senza cedere alle richieste dell'Imperatore, spaventati dai tragici mali che la nostra tenacia avrebbe finito per causare, abbiamo temuto per la religione e per la Chiesa, e non per la nostra propria persona per la quale, Dio ne e' testimone, non abbiamo mai provato il benche' minimo timore e, ignorando ancora il reale stato delle cose, abbiamo firmato...dodici articoli destinati a servire di base ad una regolamentazione definitiva delle controversie suscitate da qualche anno in materia ecclesiastica. Abbiamo purtroppo realizzato quasi immediatamente la nostra sorpresa ed il nostro errore, e il cielo ci e' testimone che a partire da quel momento, non abbiamo piu' conosciuto pace ne' riposo e che in preda ai rimorsi e al pentimento, mescoliamo costantemente, come il real profeta, la nostra bevanda al nostro pianto giacche' giudichiamo troppo grave il danno che abbiamo causato alla Chiesa e alla Santa Sede attraverso le disposizioni e le concessioni contenute negli articoli sopradetti; siamo coscienti di averli utilizzati non per l'edificazione, ma per la distruzione del potere che Dio ci ha conferito nella condotta della sua Chiesa". 
Fatto cio' Pio VII si senti' subito meglio e il suo seguito noto' la subitanea allegria e l'innato buonumore riprender possesso della sua persona. Se pensava che questa sarebbe rimasta a futura memoria, eccolo accontentato)
Questo documento e' stato intenzionalmente tenuto nascosto da Napoleone, che continuava a sostenere che l'accordo (quello suo portato a conoscenza) era "Ispirazione dello Spirito Santo".  
Testo tratto da un articolo di Padre Alessandro Galuzzi, Superiore Generale dei Frati Minimi, titolare della Cattedra di Storia della Chiesa Moderna alla Pontificia Universita' del Laterano in TRESORS DU VATICAN/La Papaute' a Paris - Centre Culturel du Pantheon, Paris 1990.  (Inviatami da:  G. d'Ottaviano Chiaramonti)

Bonaparte aveva tuttavia così riportato una grande vittoria; i generali giacobini dovettero frequentare la chiesa, gli ecclesiastici erano divenuti servitori subordinati dello Stato, il papa aveva riconosciuto la repubblica e si era alleato con essa.

Anche l'ordinamento scolastico, piuttosto trascurato, fu messo a profitto per l'onnipotenza del governo. Alla sua vigilanza erano sottoposti tutti gli organismi addetti all'istruzione di ogni tipo, obbligati a seguire un metodo possibilmente uniforme, con esclusione pronunciata di ogni idealismo. L'istruzione delle fanciulle fu data alla Chiesa. Bonaparte non voleva donne troppo illuminate, ma solo madri di coscritti, pie e limitate di mente.

Non si potevano trascurare le questioni riflettenti la cittadinanza. Gli emigrati ottennero l'amnistia, ma non la restituzione dei loro beni, se questi erano già passati in altre mani. Inoltre a lato dell'antica nobiltà se ne pose una nuova, che ebbe origine dalla croce della legione d'onore. Poiché il suo conferimento spettava al primo console, questi acquistò un'influenza personale estesissima. La legion d'onore formava un ordine distinto esattamente in gradi.

Un'altra creazione necessaria ed urgente era quella di formulare il diritto civile. La Rivoluzione aveva rovesciato la complicazione e le disuguaglianze dell'antico diritto, ma aveva più distrutto che non edificato. Aveva promesso un codice civile, senza esserne venuta a capo.
Bonaparte si mise all'opera per condurre a compimento questo compito in modo geniale e comprensivo. Si nominò un comitato di giureconsulti ragguardevoli, la cui mente direttiva era il console Cambacérés. Ma anche Bonaparte vi prese una parte attiva, perché la sua intelligenza penetrante e pratica riconobbe l'azione, che avrebbe esercitato il diritto civile sulla vita pubblica.

Le sue idee erano giuste, le sue illazioni incalzanti. Sotto una così volontà ferrea, un simile instancabile impulso, la legge fu redatta in quattro mesi. Si tratta del «Code civil» che fa parte del «Code Napoleon».
E' questa l'opera più duratura di Napoleone. Non la scolpì nella pietra, ma fece molto di più, la scolpì nell'anima di ogni cittadino del mondo. Tutti gli Stati liberi e democratici se vogliono sopravvivere nella comunità umana non devono prendere solo qualcosa dai Codici Napoleonici, ma quasi tutto. Molte norme giuridiche in seguito furono cancellate, poi ritornarono prepotentemente alla ribalta nelle vie e nelle piazze e poi nei Parlamenti di tutto il mondo, reclamandole col ferro e col fuoco. Le acque chiare del fiume napoleonico seguitarono (e seguiteranno ancora) a spazzare via le ingiustizie dentro quei popoli in cui ogni singolo individuo ambisce alla libertà, desidera tolleranza, ama la pacifica convivenza.

Dopo Salomone, dopo Cicerone, dopo Giustiniano, Napoleone occupa il quarto posto nella storia umana degli uomini che hanno fatto il diritto. Certo il diritto - visto sociologicamente - non è opera di un singolo, é espressione di quella stessa società che esso regola e come tale é frutto di un travaglio collettivo; manifestazioni di esigenze che con delle norme devono essere soddisfatte e armonizzate fra loro; tutti gli uomini vi concorrono. Tuttavia nelle sue concrete formulazioni, il diritto é opera di singoli uomini. Si tratta di quei Grandi che hanno saputo dare alle esigenze di giustizia della società del loro tempo una risposta concreta. Grandi uomini che hanno intuito tali esigenze perchè avevano una visione unitaria dei problemi, spesso preannunciandole. Ma come abbiamo visto sono pochi, e Napoleone é quello del Nostro Tempo, della Nostra Società Moderna. Cronologicamente , dopo una società guerriera, dopo quella religiosa, dopo quella feudale aristocratica, compare con Napoleone la società democratica. E guardando indietro nella storia, indubitabilmente fino ad oggi é la migliore di tutti i tempi; e siamo un po' tutti debitori a Napoleone.

 

Uno dei lati più deboli della Rivoluzione era stato quello della sua amministrazione delle finanze, che andò a finire in un gran fallimento dello Stato. Anche qui arrecò un gran cambiamento la volontà di Bonaparte e la prudenza del ministro delle finanze Gaudin. La carta moneta ormai priva di valore fu a poco a poco tolta di mezzo, la ripartizione delle imposte, le dogane, i proventi forestali ed altre entrate dello Stato furono regolate, quel che ancora sussisteva dei beni nazionali fu adoperato per il bene comune, fu istituita col nome di «Banca di Francia» una banca produttiva e si dette anche in altri modi incremento al commercio e all'industria, all'agricoltura e all'amministrazione delle foreste.
Il primo console fece accuratamente riparare e integrare con altri nuovi i canali e le strade lasciate da anni in abbandono, in breve fece tutto il possibile per accrescere il benessere materiale, la ricchezza della nazione e con ciò le entrate dello Stato e la soddisfazione pubblica. Tornarono la fiducia e lo spirito d'impresa; ben presto si poterono pagare in contanti i debiti dello Stato, l'anno finanziario 1802 si chiuse anzi con un avanzo.

Il rivolgimento si mostrò a Parigi più chiaramente che altrove. Impoverita e trascurata dalla Rivoluzione, Parigi crebbe allora fino a divenire la sede del lusso e dei godimenti, la più grande piazza commerciale e industriale del continente. Ricomparvero gli abbigliamenti brillanti dell'antico regime e i lacché gallonati; non si parlò più di «cittadini», ma di «signori», le vie deposero i loro nomi repubblicani, riprese a vivere a fine settimana l'antica domenica, e il mansueto Chateaubriand e altri simili spiriti romantici soppiantarono la letteratura illuminatrice.
Nell'insieme si trattava di una grandiosa risurrezione dalle grandi rovine del passato, di una riunione di tutte le energie a favore dello Stato. Il genio del primo console si mostrò appunto nel superare le difficoltà, nell'orientarsi in mezzo a quella confusione. Sotto l'aspetto civile ed economico egli compì l'opera della Rivoluzione; ma bisogna anche dire che sotto quello politico si attenne alle tradizioni delle vecchie monarchie, rialzò l'edificio dell'assolutismo ed infranse la democrazia effettiva per mezzo di una democrazia apparente. Garentì l'ordine e il benessere, però a prezzo della libertà e dell'autonomia.
E in questo tutto fu così ben congegnato che nella massima parte si é mantenuto fino ai nostri giorni. La democrazia è rimasta apparente, certo non esiste più un sovrano assoluto, non c'è un dittatore, ma ci sono le lobby, i monopoli di un gruppetto (e spesso anche uno solo) che non nascono di sicuro dalla volontà dei cittadini detti "democratici". Sono quelli ad esercitare il potere assoluto, condizionando prima la politica parolaia e questa con la demagogia i cittadini (sempre stati e sempre saranno) ingenui e creduloni.

Ad ogni modo quel popolo ancora poco prima così ricalcitrante aveva di nuovo un padrone. Non vi é da meravigliarsi che gli sorgessero contro degli avversari! A questi Bonaparte si oppose con una polizia onnipossente, che sotto Fouché raggiunse uno sviluppo e un'importanza fin allora sconosciuta. Poiché cessava ogni resistenza legale, rimasero soltanto le congiure. Una congiura giacobina, in cui evidentemente aveva avuto mano la polizia, fu scoperta e sfruttata. Più pericolosa apparve una trama realista, che condusse il 24 dicembre 1800 a un attentato, la «macchina infernale», da cui Bonaparte uscì illeso. Si incolparono del fatto i giacobini e si condannarono 130 di loro alla deportazione, per cui questo gruppo pericoloso fu del tutto soppresso.

Per un certo tempo si stette tranquilli, poi lo spirito della resistenza si trasferì all'esercito, che in gran parte nutriva ancora sentimenti rivoluzionari. Molti generali erano poco propensi a quell'uomo nuovo, principalmente Massena, Bernadotte e Moreau. Questi trovarono consenso di opinioni in Sieyés, nella Signora di Staël e in altri. Ma Bonaparte li prevenne; gli ufficiali sospetti furono allontanati e la signora di Stael, così piena d'ingegno ma importuna con i suoi attacchi sulla stampa, fu mandata in esilio.

Soltanto Moreau non fu ancora toccato. Anche il tribunato si arrischiò ad esprimere un volere proprio e respinse alcune parti del codice civile; tuttavia si vide presto abbattuto da un mutamento della costituzione. All'inizio il senato allontanò i suoi membri più renitenti, poi prolungò il consolato per altri dieci anni. Tuttavia questo non bastava più a quell'uomo. Egli fece interrogare la nazione, così improvvisamente cambiata, se Bonaparte dovesse esser console a vita. La votazione del 2 agosto 1802 gli dette una splendida maggioranza. Con questo «plebiscito» la Francia si era data in mano al cesarismo.

Adoperando i suoi granatieri, Bonaparte riuscì ad ottenere dal senato altre estensioni del suo potere, per cui al primo console era concesso di designare il suo successore, di stipulare trattati di pace e di alleanza, di nominare giudici di alto grado, di graziare condannati e di nominare i senatori. Nello stesso tempo fu diminuita l'importanza del tribunato e del consiglio di Stato, accresciuta quella del senato aumentando il numero dei senatori a 120. In realtà questa era soltanto una mossa, perché il senato poteva trattare solamente su proposta del governo e quindi era uno strumento in mano al primo console.

Così il domatore della rivoluzione si andava trasformando in principe regnante, circondato da una splendida corte e separato dal popolo da una rigorosa etichetta. Anzi egli tento perfino d'indurre Luigi XVIII a rinunziare ai suoi diritti al trono.
Un simile innalzamento condusse a dei contraccolpi. Vi erano ancora due gruppi nemici; i veri repubblicani con Moreau, e i realisti che, dimorando tutti oltre la Manica, avevano dei partigiani audaci in Pichegru, scampato da Cayenna, in Giorgio Cadoudal e in altri. Questi volevano intendersi con Moreau, impadronirsi di Bonaparte mentre rientrava nella sua villa della Malmaison e con l'aiuto inglese provocare un rivolgimento armato.
Ma l'attento Fouché aveva avuto sentore della congiura; quando Moreau parve abbastanza sospetto fu arrestato con Pichegru, Cadoudal ed altri; l'ultimo fu giustiziato, Pichegru fu trovato strangolato nel carcere e Moreau fu esiliato in America.

Cadoudal aveva asserito che un principe reale era consapevole della cospirazione; evidentemente era questi il conte di Artois; ma poiché Bonaparte non lo poteva raggiungere, fece prendere il duca di Enghien, che dimorava in una piccola cittadina badese, e lo fece fucilare a Vincennes. Ai Borboni fece capire, doveva passar la voglia di fare altre congiure.
Ma questo misfatto compiuto sopra un innocente e solo a titolo dimostrativo, fece orrore. D'allora in poi Bonaparte apparve come un uomo violento, che cupamente e freddamente procedeva sopra dei cadaveri. Eppure egli stesso non aveva fatto abbastanza in proprio favore. Artificiosamente fece esagerare il pericolo corso dallo Stato e dal suo capo supremo. Il senato servile chiese al primo console un nuovo mutamento della costituzione. Un membro venduto del tribunato fece il 23 aprile la proposta di investire Bonaparte della dignità imperiale, dichiarandola ereditaria nella sua famiglia.

Uno solo oso opporsi e fu Carnot. Il corpo legislativo decise come il tribunato, e il senato seguì gli altri. Il console in seguito a ciò presento al senato un «senatus-consulto organico» al quale questi diede il suo assenso il 18 maggio 1804 in seduta solenne.
Napoleone Bonaparte era così «imperatore ereditario dei Francesi». Presto il senato si recò a Saint-Cloud per fargli omaggio, e all'incontro Cambacérés saluto l'uomo onnipotente come «Maestà imperiale». Un plebiscito dette, a quanto dicono, 3 milioni e mezzo di sì e 2569 no.

Un contemporaneo bene informato riassumeva la situazione con le parole: «L'innalzamento di Napoleone non ha favorito la propensione della nazione verso di lui, al contrario non fu in alcun altro tempo meno amato, ma il bisogno di quiete e di stabilità all'interno era così urgente, il futuro così pieno d'inquietudini, così grande il timore che si rinnovasse il terrore, così minaccioso il ritorno dei Borboni, i quali avevano da vendicare tante cose, che la nazione si appiglio volenterosa a tutto quello che poteva eliminare simili pericoli».

Napoleone era imperatore, ma pur sempre figlio della Rivoluzione, della fortuna. Conveniva a lui circondare la corona con una consacrazione inviolabile e questo lo poteva fare soltanto il papa. A dire il vero, la cosa era un po' forte. Nondimeno Napoleone seppe con tutte le arti possibili vincere la contrarietà del capo supremo della Chiesa ed attirare il papa a Parigi. Appena questi si trovo nell'àmbito del Corso e in suo potere non provo che umiliazioni, si sentì un semplice cappellano dell'uomo potente. Il 2 dicembre ebbe luogo nella cattedrale di Nôtre-Dame la splendida incoronazione della coppia imperiale; Napoleone si pose da sé stesso la sua corona sulla testa, e un'altra su quella della moglie, lasciando al papa soltanto la consacrazione.

Durante il breve tempo del consolato Napoleone é divenuto il creatore della Francia moderna. Aveva domato la Rivoluzione e rialzato l'edificio dello Stato, ma acceso allo stesso tempo una guerra nuova e pericolosa con l'Inghilterra, che poneva in questione molte conquiste; egli forse aveva ritagliato troppo sul modello della sua sovrana persona.
L'impero significava assolutismo e questo era l'erede della Rivoluzione.

Dobbiamo ora tornare all'inizio dell'anno 1800
e alla grande impresa di Marengo


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