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'800: NUOVE NAZIONALITA' - CRISI NEL PAPATO


207. 16) - LA NUOVA ERA IN PRUSSIA E IN AUSTRIA

Il moto nazionale durante la guerra del 1859 fece sorgere anche in Germania una lega patriottica, modellata sulla associazione torinese. I cittadini di Gotha chiesero al loro duca Ernesto di voler attuare la fondazione d'un partito nazionale, «il cui fine fosse uno Stato federale con una rappresentanza popolare, sotto l'egemonia militare e diplomatica della Prussia».
Anche a Francoforte, ad Annover e in altre città furono in assemblee cittadine votate deliberazioni, secondo le quali, per aiutare l'Austria, si sarebbe dovuta affidare alla Prussia la egemonia.
Per quanto il contegno della Prussia avesse fin allora poco corrisposto alle idee e ai desideri dei liberali, pure dei politici intelligenti non potevano disconoscere che «la forza della Germania senza la Prussia era debole e nulla, che la costituzione federale della Germania senza un organo della volontà nazionale rimaneva impacciata e impotente».

Il duca Ernesto, delle cui tendenze schiettamente nazionali non si suole dubitare, dette volentieri il suo assenso, mentre numerosi membri della seconda camera dell'Annover sotto la guida del Bennigsen vi aderirono.
In una adunanza di delegati a Francoforte il 17 settembre 1859 fu deciso, quantunque si manifestassero divergenze d'opinione difficilmente conciliabili, la fondazione di una lega nazionale tedesca.

Certo l'egemonia della Prussia, non però l'esclusione dell'Austria dalla Germania, era senz'altro una cosa decisa; soltanto l'atteggiamento ostile del ministero Rechberg aprì gli occhi ai capi principali. Il Rechberg rivolse, poiché il consenso del duca di Coburgo ad una propaganda contro l'autorità della dieta federale gli apparve «sulla bocca d'un principe sovrano biasimevolissimo», al Governo prussiano la sollecitazione di non tollerare così pericolosi intrighi nelle sue vicinanze. Ma la risposta della Prussia mostrò che a Berlino lo spirito di Olmütz non dominava più, poiché fu replicato che il duca non aveva detto altro che ciò su cui, da dieci anni, tutti i principi tedeschi erano concordi.

Dopo la disfatta dei rivoluzionari del 1848 anche in Prussia si era formata una condizione di cose, che offrì ai Berlinesi l'occasione di esprimere l'arguzia che "dei due gruppi di domatori di cavalli dinanzi al castello reale uno rappresentava il progresso frenato, l'altro la reazione stimolata".
Però proprio l'uomo, che nell'anno della rivoluzione era apparso come uno dei principali rappresentanti dell'antico sistema, il principe Guglielmo di Prussia, riconobbe che con le idee antiquate non si sarebbe potuto continuare a tirare avanti l'amministrazione pubblica.

Il volontario esilio in Inghilterra lo aveva liberato da qualche pregiudizio; sotto l'influsso del principe consorte Alberto (sposo della Regina Vittoria) si abituò nel complesso alla forma di Governo costituzionale, come pure conobbe meglio la missione tedesca della Prussia per opera dell'ambasciatore Bansen.

Ma il principe Guglielmo era soprattutto un soldato e perciò considerò, giacché egli ebbe assunto il Governo invece del fratello malato, suo primo dovere quello di rialzare l'organismo dell'esercito secondo vecchi principi bene sperimentati e di organizzare anche l'esercito federale tedesco conforme al modello prussiano.
Ma a ciò si opponeva non solo l'Austria, ma anche la maggioranza degli Stati secondari tedeschi; e allora più risolutamente egli cercò di eseguire la riforma militare almeno in Prussia.

Il lungo periodo di pace aveva operato sfavorevolmente sul sistema organizzativo militare; la profana esaltazione dei liberali per i vantaggi dell'esercito popolare aveva messo radice anche nei circoli progressisti della Prussia; inoltre non si era mantenuta con sufficiente energia la massima del servizio obbligatorio per tutti.
Il Boyen stesso, l'organizzatore della milizia territoriale, aveva a suo tempo domandato che dovesse esserci sempre un «esercito stanziale mobile, separato dalle rimanenti forze militari del paese» così forte da formare un saldo centro per la costituzione di tutta la milizia.
Invece negli ultimi decenni il numero delle truppe sotto le armi era stato sempre più limitato. L'esercito prussiano era indubbiamente per forza e disciplina ancora il primo fra i contingenti tedeschi, ma questo non significava gran cosa.

La riforma militare, i piani della quale facevano capolino fin dall'estate del 1858, fu proprio l'opera speciale di Guglielmo. Per attuarla egli nominò nel dicembre 1859 - al posto del Bonin, che in verità già aveva fatto qualcosa di essenziale, però in generale si era dimostrato troppo tiepido e timido - il Generale di Roon come ministro della guerra, un «servitore rigido, duro del suo comandante supremo, pieno d'idee prussiane grandiose e orgogliose» (Marcks).
«In una monarchia come la nostra - scrisse Guglielmo il 24 novembre 1859 al Bonin - il punto di vista militare non può esser sminuito da quello finanziario ed economico politico, poiché la situazione europea dello Stato, dalla quale tante altre cose, alla loro volta, dipendono, poggia su di esso».

La speciale condizione della Prussia poteva in realtà giustificare anche un più esigente militarismo. Fin dal tempo del dopo Federico il grande, i monarchi della Prussia non avevano approfittato, nonostante ribollimenti ambiziosi, delle occasioni presentatesi per accrescere la loro potenza; per ciò nell'opinione pubblica d'Europa era cresciuta la credenza che al popolo prussiano e ai suoi reggitori mancasse l'elasticità capace di grandi azioni. (già al tempo di Napoleone, il grande Corso nel vincerli era rimasto molto deluso).

Il Roon aveva ragione, quando diceva: «La riforma é una questione d'esistenza per la Prussia; bisogna attuarla!». Naturalmente quell'opera non poteva compiersi senza un notevole aumento delle tasse, e su questo punto scoppiò un serio conflitto fra il Governo e la Camera dei deputati. Il partito liberale si lasciò sfuggire l'opportunità di acquistarsi il favore del Reggente cooperando all'accrescimento della potenza militare; con la sua aspra opposizione ottenne soltanto che Guglielmo fosse ancor più seriamente risoluto a difendere i diritti della Corona contro la nuova istituzione e che a tal fine si stringesse sempre più saldamente con i conservatori.

La spiacevole contesa si aggravò, quando, dopo la morte del fratello, il 2 gennaio 1861 toccò il trono proprio a Guglielmo. Per far toccare con mano a tutti che anche la monarchia costituzionale era istituita per grazia di Dio, egli ordinò una maestosa solennità per la incoronazione in Kònigsberg e prese dalla tavola del Signore la sacra corona.
Quanto più il nuovo monarca con un simile arcaico simbolismo poneva sé stesso e il suo Governo in contrasto con le idee dei nuovi tempi, tanto più violenta fu l'opposizione che il partito democratico nella dieta sollevò contro qualsiasi vero o supposto tentativo di reazione assolutista.

Nel suo malumore per il disconoscimento del suo buon diritto e della sua volontà il Re si abituava all'idea dell'abdicazione, quando il Roon lo indusse, - nella sua battaglia contro i parolai - a chiamare un potente alleato.

Il 24 settembre 1862 l'appena 47enne Ottone di Bismarck fu nominato presidente del ministero.
Egli era quel «pazzo giovane gentiluomo campagnolo», che se nei suoi giovani anni si era acquistato una certa rinomanza spaventando i suoi ospiti con pistolettate tirate dal letto, e cacciando volpi nella stanza delle signore, però non solo aveva studiato lo Spinoza e il Machiavelli, ma aveva mostrato serie attitudini allo studio della lingua tedesca e della storia.

Come parlamentare, nel periodo della rivoluzione, aveva, fedele alle proprie convinzioni, difeso il motto: "A deo rex, de rege lex!". Fino al 1850 era stato di orientamenti favorevoli all'Austria, ma come collega e rivale del Rechberg alla dieta francofortese si era convertito alla opinione che "fare un accordo con l'Austria era impossibile una riforma, un'evoluzione nazionale della Germania".

Affinché questo diplomatico molto suscettibile e facile ad esplodere non mettesse più a lungo in pericolo a Francoforte l'interesse della pace, il principe reggente Guglielmo l'aveva freddamente spedito, nominandolo ambasciatore, alle rive della Neva.
Al gran pubblico era, in generale, poco noto che il "pazzo giovane gentiluomo" si era dimostrato a Pietroburgo (e in seguito a Parigi) non solo come maestro nell'arte del diplomatico, ma anche dello statista.
Quando egli, dopo una lunga conversazione sulle faccende prussiane, tedesche ed europee fu chiamato dal Re Guglielmo alla testa del ministero, fu accolto da una tempesta di indignazione in Prussia e nella rimanente Germania. Contro il panegirista del vecchio sistema i circoli liberali mostrarono aperta diffidenza, e contro il preteso reggistrascico di Napoleone anche i nazionali.

Ma né il rancore dei suoi compatrioti, né la diffidenza delle corte europee, né i minacciosi accenni della dieta prussiana alla responsabilità ministeriale, né il timore de compromettere il trono non valsero a distoglierlo dai suoi princìpi; neppure il più vivace fuoco incrociato parlamentare priuscì, sia pure per un istante, a fargli perdere la bussola.

Napoleone III, nell'udienza di commiato, l'aveva ammonito sulla sorte del Polignac. Ma il Bismarck non fu mai il ministro di un partito, mai il ceco rappresentante degli interessi conservatori, sebbene sempre soltanto, come egli stesso si chiamava, il « costituzionale-liberale » avvocato dei diritti della Corona, i nemici della quale, stessero essi a sinistra o a destra, combatteva senza riguardo alcuno.

Siccome al momento della sua salita al potere i liberali contrastavano violentemente la riforma dell'esercito e il diritto della Corona per quanto si atteneva al bilancio, il presidente dei ministri dichiarò, appoggiandosi sul consenso della Camera dei Signori, che il Governo aveva il dovere di procedere in avanti l'amministrazione delle finanze pubbliche, se era impossibile fare altrimenti, anche senza la cooperazione della rappresentanza popolare prescritta nella Costituzione.

Così veniva spezzato il legame fra il Governo e la Rappresentanza popolare. Il torto del Bismarck era evidente; però egli avrebbe trovato in Prussia principalmente nel vecchio partito liberale, qualche difensore, se gli fosse stato permesso di rivelare gli ultimi scopi della sua condotta.
Ciò che agli uomini dell'opposizione e anche agli spettatori imparziali appariva una contesa della borghesia col ceto dei gentiluomini campagnoli, aveva un'importanza di gran lunga più vasta: la posizione della Prussia in Germania e in Europa sarebbe stata perduta, se gli si negavano i mezzi positivi per la sua politica.

Il diplomatico lattante (aveva allora 35 anni) così deriso a Francoforte, aveva studiato diligentemente «con la calma d'un naturalista» i suoi colleghi e le loro massime politiche, e le aveva trovate tutte quante troppo facili; aveva imparato a detestare i disegni e i mezzi della politica austriaca e a disprezzare la meschinità della politica dei piccoli Stati. Egli si era persuaso che tutta la costituzione federale, come scrisse al Ministro von Schleenetz «era un'infermità che prima o poi avrebbe dovuto risanarsi "ferro et igni"».

Nel Bismarck scorgiamo d'ora in poi, come in uno specchio ustorio, compiersi l'importante processo storico del riordinamento della Germania. Egli pretese per lo Stato prussiano il compito di divenire il centro e il nocciolo della nazionalità tedesca, e che aspiri a questa meta non con la foga di un visionario, ma solo con la prudente valutazione dei bisogni e delle energie del momento. Egli solo era l'uomo adatto a plasmare nella realtà storica il concetto che la Prussia doveva adempiere alla missione incivilatrice di uno Stato nazionale tedesco.
Ma, nonostante tutta la sua conoscenza degli uomini e la sua destrezza, nonostante il coraggio e la mancanza di scrupoli, non sarebbe riuscito nel suo intento, se Re Guglielmo, nell'illimitata stima della geniale individualità del suo servitore non lo avesse assistito con un disinteresse, unico nella storia mondiale, più di amico servizievole che di Sovrano.
Anzi monarca e ministro perseguivano lo stesso fine. Già alla sua ascesa sul trono Guglielmo I aveva dichiarato: «I miei doveri verso la Prussia coincidono con i miei doveri verso la Germania; come principe tedesco spetta a me di rafforzare la Prussia in tale condizione che
permetta alla sua gloriosa storia, all'organizzazione ben sviluppato del suo esercito di rappresentare fra gli Stati tedeschi la salvezza di tutti ».

Ma il Bismarck non solo vedeva nettamente la meta, ma anche i mezzi e la via da seguire. Poco dopo la sua salita al potere disse con una schiettezza priva di qualsiasi riguardo: «Non con i discorsi e con le deliberazioni delle maggioranze si risolvono le grandi questioni dei nostri tempi - questo è stato l'errore del 1848 e del 1849 - ma col sangue e col ferro!».

Quella frase così importante sembrò ai rappresentanti autorevoli della pubblica opinione una ciarlatanesca minaccia, malamente messa avanti. Allora, già si viveva come se fosse giunta l'era della pace universale, come se tutti i negoziati e le agitazioni politiche non si dovessero più decidere con i cannoni, ma con ben rigirati discorsi.
Molti si burlavano della strampalata politica del ministro, il quale aveva sempre in bocca la sua parte di guida tedesca, e al tempo stesso, col suo atteggiamento brutale e avverso al popolo, perdeva molte simpatie.

L'avvenire tedesco - così pensava il patriotta tedesco illuminato - di qua e di là dal Meno, non apparteneva alla Prussia ricaduta nell'ancien régime, ma all'Austria ringiovanita, che si sarebbe trasformata in uno Stato veramente costituzionale. Nel 1860 era avvenuto a Vienna un fondamentale mutamento di sistema; sotto l'influsso di Antonio von Schmerling chiamato a far parte del ministero, era stata preparata una costituzione comune per tutti i paesi dello Stato austriaco e il 26 febbraio 1861 era stata pubblicata.

Per trarre profitto da questi umori favorevoli, a lui ben noti, e per acquistare alla monarchia absburghese un'efficacia in prima linea economica e quindi anche politicamente prevalente, il ministro degli esteri, conte Rechberg, presentò, il 16 luglio 1862, alla dieta federale progetti di trattati, per cui l'Austria, compresi i suoi paesi non tedeschi, e la lega doganale germanica, dovevano nell'avvenire, formare un territorio commercialmente chiuso con tariffe doganali unitarie.
Per l'accoglimento della proposta occorreva l'unanimità della dieta federale. La Prussia negò però il suo consenso tanto a questo trattato, quanto a una proposta del Rechberg riformare la dieta federale.

Nella dieta prussiana il Bismarck dichiarò che il misero corpo dello Stato prussiano non poteva più a lungo portare una armatura così pesante come quella a cui lo costringeva la rivalità dell'Austria.
In un colloquio con l'inviato austriaco Karolyi, Bismarck sollevò la pretesa che l'Austria dovesse, se voleva mantenere amichevoli relazioni con la Prussia, una buona volta rinunziare alla sua politica antiprussiana con l'appoggio di una coalizione degli Stati mezzani.
E quando Karolyi ribatté che l'Austria non poteva sacrificare la sua influenza sulle corti tedesche - influenza che si basava su ataviche tradizioni - perchè avrebbe significato allontanarsi dalla Germania, il Bismark esclamò: «Così sarebbe giusto! Voi dovete trasportare il vostro centro di gravità verso Buda!».

Si comprende che simili consigli producevano a Vienna una profonda eccitazione. Il contrasto fra le due principali Potenze tedesche si inaspriva sempre più. Frattanto però si erano svolti nell'oriente degli avvenimenti che parevano dimostrare esistere tuttora una comunanza d'interessi fra Prussia ed Austria.
Con l'appoggio segreto di Napoleone si erano fondati a Parigi e a Londra comitati rivoluzionari polacchi; lo scopo della vagheggiata insurrezione era per allora la restaurazione del regno di Polonia con i confini del 1771, mentre il ristabilimento della Grande Polonia, che nel periodo fiorente degli lagelloni si era estesa dall'Oder fino
ai Carpazi e al Dniepr doveva esser riservato all'avvenire.

La rinascita del principio di nazionalità nella Polonia minacciava egualmente le tre Potenze smembratrici. Il Bismarck non lasciò alcun dubbio sulla condotta della Prussia. Che Prussia e Russia nella difesa sarebbero procedute di pieno accordo era naturale; e quando la rivoluzione nel gennaio 1863 scoppiò veramente in Varsavia e già ai primi urti si palesò il carattere sanguinoso della disperata lotta, il Governo prussiano prese immediatamente le necessarie precauzioni per appoggiare energicamente la Russia.

Invece il gabinetto viennese era così sdegnato del rifiuto prussiano d'accogliere il progetto della lega doganale e delle riforme federali - anche la comunanza della confessione religiosa in Polonia ed Austria favoriva propensioni più benevole per i Polacchi - che, nonostante il pericolo di perdere la Galizia, si accostò più da vicino alle Potenze occidentali.
Il comitato nazionale polacco aveva di nuovo nominato dittatore l'organizzatore dell' insurrezione del 1848, Mieroslawski, però anche questa volta egli non poté ottenere la necessaria unità nelle imprese militari. Già nel primo scontro a Raczyniewo non lontano dalla frontiera prussiana fu battuto, e poiché il partito della nobiltà venne a sapere che il Mieroslawski come repubblicano e mazziniano non possedeva il favore di Napoleone, la direzione militare fu affidata al posnanio Langiewicz. Il nuovo dittatore non fu però più fortunato; egli fu costretto dopo due sconfitte a Ehrobrze e a Bush a passare sul territorio austriaco.

Quantunque da allora i ribelli non potessero in nessun luogo schierare in campo aperto una forza militare più cospicua, pure i Russi non riuscirono a ristabilire completamente l'ordine nel paese, dato che la guerriglia proseguì; i Polacchi speravano tuttavia di ricevere, l'appoggio dell'estero. Ma né in Inghilterra, né in Francia non vollero per amore della liberazione della Polonia entrare in guerra con la Russia; le due Potenze si unirono solo per una rimostranza allo Zar perché venisse di nuovo concessa ai Polacchi la costituzione garantita dal Congresso viennese, e abolita nel 1831; con meraviglia generale anche l'Austria si associò a questo desiderio.

La risposta della Russia non lasciò nulla a desiderare per chiarezza. L'intromissione dell'estero fu respinta cortesemente, ma con grande risolutezza. Contemporaneamente il Gorciakoff ammonì che l'insurrezione doveva esser considerata soltanto come l'opera dei comitati rivoluzionari nati e accarezzati in Occidente; sarebbe meglio chiudere le sorgenti del male, anzichè fare responsabile delle conseguenze lo Zar accessibile ad ogni ragionevole riforma.
Lo Zar Alessandro era così stizzito specialmente contro il tradimento dell'Austria che diresse al prussiano Re Guglielmo un invito per un intervento comune contro Francia ed Austria. Il Bismarck tuttavia consigliò di rifiutare. In un memorandum indirizzato al Re avvertì che probabilmente la Prussia avrebbe dovuto sopportare il carico principale della guerra per accettare finalmente una pace combinata, a beneplacito del Gorciakoff, ma a danno della Prussia. La Russia, in tal caso, starebbe a sedere sempre «sul braccio più lungo della bilancia».
Il Re Guglielmo rigettò pertanto anche la proposta russa, indottovi segnatamente dal riguardo pietoso, sempre in lui vivace, verso un principe della federazione tedesca.
Dopo ciò anche lo Zar Alessandro, avente in orrore le decisioni violente, rinunziò a vibrare il colpo contro l'Austria.

Di tutta la faccenda, che si era svolta soltanto fra i due monarchi e i loro consiglieri, non trapelò nessuna notizia; quindi il Re Guglielmo non poteva contare sulla gratitudine dell'Austria; tuttavia dovette provare tanto maggiore pena appunto dopo gli ultimi casi, in quanto il gabinetto viennese, per sfruttare a proprio vantaggio la presente impopolarità del Governo prussiano, faceva nuovi sforzi per ricacciare indietro il più possibile l'influenza prussiana, mediante una riforma federale.

Quando l'Imperatore Francesco Giuseppe visitò, il 2 agosto 1863, il Re di Prussia che soggiornava a Gastein per i bagni, gli dette la prima partecipazione della sua intenzione d'invitare tutti i prìncipi tedeschi per il 16 agosto in un congresso a Francoforte; dai prìncipi - disse - doveva anche esser deliberata una necessaria trasformazione della costituzione federale per creare un più saldo potere centrale.
L'idea d'una dieta dei prìncipi era già venuta fuori in un opuscolo, comparso nel 1862, di un pubblicista al servizio dell'Austria, il conte Blome. L'imperatore Francesco Giuseppe si era riscaldato per il progetto leggendo un memoriale di Giulio Fróbels e le esortazioni di suo cognato, il principe ereditario di Thurn e Taxis.
Il Re Guglielmo a Gastein rigettò subito con risolutezza l'invito, che aveva troppo evidente il carattere di una sorpresa. Pur non
dimeno il gabinetto viennese persistette nel suo progetto; anzi, alle rimanenti corti tedesche l'invito era già partito, senza aspettare l'accettazione della Prussia.

Gli schemi della riforma federale furono comunicati ai prìncipi poco prima del congresso, cosicché essi appena poterono sentire i loro consiglieri e tanto meno discutere del caso fra loro. Lo schema della costituzione era stato preparato secondo le indicazioni dello Schmerling da un barone di Biegeleben. La direzione delle faccende federali doveva essere affidata a un direttorio di cinque prìncipi, assistito da un consiglio federale di 21 persone scelte dai Governi; la presidenza del Direttorio e del consiglio federale sarebbe spettata all'Austria e in caso di impedimento di essa, alla Prussia.
Ogni tre anni doveva radunarsi a Francoforte un'assemblea di trecento delegati delle rappresentanze nazionali tedesche; e nella medesima città doveva risiedere stabilmente un tribunale federale.

Così la vecchia città sul Meno, dove si incoronavano i Re tedeschi, diventava di nuovo teatro di un'azione politica, a cui i circoli del partito dei «grandi tedeschi» si attendevano felici aspettative. Difatti l'andamento delle giornate francofortesi fu anche esteriormente magnifico; non mancò lo sfoggio di bandiere nere-rosse-gialle oro, né mancarono le scarrozzate pompose allo storico palazzo comunale e le solennità di tipo "archeologiche" .

Fra gli ospiti invitati parve anche dominare una piacevole armonia. Ma le cose mutarono, quando il Re Guglielmo respinse anche l'invito portatogli personalmente dal Re Giovanni di Sassonia. Allora fioccarono le obiezioni, le riserve e le tante proposte di modifiche, finché, alla fine, fu fatta la proposta di accogliere l'atto di riforma «con la riserva del consenso di tutti gli Stati federali», ma solo ventiquattro principi si sottoscrissero; Baden, Weimar, Mecklenburg-Schwerin e Waldeck rifiutarono di aderire.

Per quanto i pubblicisti del partito della grande Germania si affannassero a spiegare che progresso significava il fatto che l'Imperatore Francesco Giuseppe avesse spiegato la bandiera tedesca, non si poteva nutrire dubbio alcuno che il tentativo austriaco era andato a vuoto del tutto.

Certo la corte imperiale viennese si mostrava disposta a proseguire il suo progetto anche senza la Prussia, ma per un comune procedimento contro la Prussia non c'era da contare sugli Stati mediani.
Il Bismarck lasciò apertamente capire che ogni tentativo di abbassare la potenza prussiana in Germania si sarebbe urtato in una energica resistenza.

L'ostile contrasto sembrava escludere ogni conciliazione, e rendere inevitabile per un prossimo futuro una decisione guerresca, quando, come tanto spesso nella storia mondiale l'inaspettato è divenuto realtà, un incidente produsse la sorprendente mutazione che Austriaci e Prussiani scesero in campo gli uni accanto agli altri per salvare il suolo tedesco messo in pericolo per la Germania.

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208. 17) - LA GUERRA PER LO SCHLESWIG-HOLSTEIN DEL 1864 > >

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