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39. L'INDIA DA ALESSANDRO AL PERIODO ISLAMICO - L'INDUISMO


La storia del pensiero indiano, e soprattutto la formazione delle grandi sétte religiose, si svolse nella regione del Gange. Ad occidente, il Sindh e il Pengiab eran soggetti a numerosi principi indiani, che vi avevano stabilito il loro dominio dopo la cacciata dei Persiani. Essi resistettero valorosamente anche ad Alessandro.
La spedizione di Alessandro in India non fu in alcun modo intrapresa con la bramosia di conquiste. Dovunque egli apparve come il legittimo successore delle antiche dinastie nazionali, mostrando ai suoi barbari vicini la nuova potenza mediante abili puntate nei territori di confine dell'Iran, a oriente ed a settentrione. Alessandro invase solo il nord-ovest dell'India: muovendo da Nicea sotto il comando di Efestione (327), il grosso dell'esercito si avanzò attraverso la valle del Kabul, mentre Alessandro stesso marciava a nord per coprire il fianco dell'esercito. Gli eserciti congiuntisi passarono l'Indo presso Ohind (326).
Il re di Taxiles (Takshaçilâ) si sottomise. Ma sulla riva orientale del Hydaspes Alessandro trovò forte resistenza: il sovrano della regione tra l'Hydaspes e l'Akesines, della stirpe dei Puru, fu sconfitto e fatto prigioniero. Guadagnatosi però la stima di Alessandro gli fu concesso di conservare, come vassallo, il proprio regno da lui ampliato. Anche i Mâlava e i Candraka offrirono resistenza; durante l'assalto una fortezza dei Mâlava, Alessandro stesso corse pericolo di vita. Qui ebbe pure a sentire quanto valesse il regno dei Prasii e la signoria dei Nanda nel Magadha.

Ma sul Hyphasis per l'opposizione del suo stesso esercito fu costretto al ritorno. Sul Hydaspes fece preparare una flotta, con la quale ridiscese l'Indo fino a Patala. Dallo sbocco dell'Indo la flotta continuò il viaggio attraverso il golfo persiano sotto il comando di Nearco, mentre Alessandro, marciando per la Gedrosia, giungeva a Susa nel maggio del 324.

Per quanto la spedizione di Alessandro nell'India abbia colpita la fantasia dei Greci e di tutto l'Occidente, la sua personalità non lasciò alcuna traccia in quella degli Indiani. Per quanto finora ci consta, Alessandro non viene mai ricordato nella letteratura indiana. Sembra che né il sentimento popolare degli Indiani, né la loro leggenda e poesia lo abbiano mai compreso, mentre presso altri popoli orientali si formò una ricca letteratura di leggende intorno ad Alessandro.

La sua comparsa in India fu un avvenimento passeggero e di scarsa efficacia, forse perchè non era facile per gli Indiani sentire il valore della sua individualità.
Alessandro aveva conquistato solo il Pengiab; é probabile che avesse progettato di unire durevolmente la valle dell'Indo col suo regno. Le guarnigioni greche lasciate nel paese dovevano assicurargliene il possesso. Quando, morto Alessandro (329), il suo regno si sfasciò tra le lotte dei Diadochi, si svegliò il sentimento della indipendenza nazionale. A capo della riscossa indiana si mise Candragupta, uomo di modesta nascita, esiliato dal Magadha e fuggito nel Pengiab, dove aveva imparato la strategia greca. Dopo la ritirata di Alessandro egli passò a Pâtaliputra e qui, col l'aiuto dello statista brahmano Cânakya, più tardi suo ministro, abbatté la dinastia dei
Nanda.

In breve Candragupta si conquistò il dominio su tutto il nord-ovest dell'India, fino al Narbada (circa il 318 a.C.). Da lui comincia la dinastia dei Maurya, o discendenti da Murâ, la madre del fondatore.
Fin dal 312 Seleuco aveva stabilito il suo dominio in Persia e in Siria: ora tentò di riconquistare anche le province indiane. Qui si scontrò con Candragupta, che non solo lo costrinse a rinunciare a tutti i suoi possedimenti nell'India, ma anche a cedergli le province di Aria ed Arachosia, cosicché l'Hindukush divenne il confine fra il grande impero indiano e lo Stato dei Seleucidi. Il greco Megasthenes rimase cinque anni alla corte di Pâtaliputra come ambasciatore di Seleuco e quivi scrisse le pregevoli osservazioni sulle condizioni politiche e sulla civiltà dell'India.

A Candragupta (morto nel 297 a.C.) successe il figlio Bindusâra (fino al 272). Per mezzo dei suoi tre figli, ASOKA era già entrato a Taxila, in rapporto coi Greci, con i quali mantenne sempre relazioni amichevoli.
ASOKA (circa 272-232 a.C.) é la prima grande figura della storia indiana che si presenti con spiccata individualità. Egli ha esposto le idee fondamentali della sua politica e i precetti morali e religiosi per la vita sociale in numerosi editti, sparsi per tutta l'India in forma di epigrafi su colonne o su rupi.
Asoca fu innanzi tutto il patrono del buddismo; egli stesso diede la spinta alla riforma dell'Ordine monacale, mediante il concilio di Pâtaliputra, nonché alla grande missione buddistica i cui messaggeri si spinsero fino alla Siria, all'Egitto, alla Macedonia.
Per tutta l'India e in Ceylon, nel Tibet e nella Birmania i monaci buddistici diffusero, sotto il regno di Asoca, la mite dottrina del loro Maestro.

Quando salì al trono, Asoca non aveva per nulla subito l'influenza del buddismo; a tutta prima apparve come conquistatore, assoggettandosi con tre anni di guerra il regno dei Kalinga (261), popolo già civilizzato e i cui re favorivano il buddismo.

Il regno di Asoca si stendeva ad occidente fino al Hindukush, abbracciando così l'odierno Belucistan e parte dell'Afghanistan. A settentrione giungeva fino al Himâlaya, comprendendo anche i territori di Crinagar nel Kashmir e di Lalita Patan nel Nepal.
Il Dekkan era stato già sottomesso da Candragupta e da Bindusâra ; ad ogni modo Asoca regnava già fin dai primi anni sulla maggior parte di esso. Il regno degli Andhra, popolo dravidico, che al tempo di Candragupta aveva occupato la regione tra la Godavari e la Krsnâ, era governato da re propri, per quanto - come pare - dipendenti da Asoca.
Solo nell'estremo mezzogiorno si mantenevano indipendenti gli stati dravidici dei Cola, Pândya e Cera; e così pure, fino a un certo punto, le tribù non civilizzate delle montagne dei Vindhya e di altri luoghi.

La grandezza di Asoca si rivela della costituzione del suo stato. Già Candragupta aveva provvisto all'amministrazione mediante una elaborata burocrazia; Asoca mantenne e sviluppò tale organizzazione. A funzionari speciali spettava la custodia dei confini, l'amministrazione delle finanze e della corte, la cura degli interessi del re in questioni giuridiche e politiche. Le grandi province dell'impero erano amministrate da parenti della casa reale. Asoca stesso aveva amministrato, da principe, Ujjain (Ujjaini) e Taxila; ora affidò ai suoi figli uffici consimili. Degna di particolare menzione é la premura di Asoca per la prosperità degli Ordini religiosi e per il miglioramento delle condizioni morali del popolo.
Vi era un'autorità suprema per la sorveglianza delle numerose sétte religiose, tutte trattate da Asoca, benché buddista, con eguale benevolenza. Fu inoltre costituita un'autorità che doveva riferire per iscritto intorno alle condizioni religiose e sociali. Ogni cinque anni si tenevano a Pâtaliputra grandi assemblee, nelle quali si emanavano disposizioni di legge o si distribuivano onorificenze per meriti scientifici, artistici ed economici.

Sotto il regno di Asoca le relazioni col mondo greco si fanno più vivaci; nel 13° editto su rupi si menzionano i re degli Yavana (cioé dei Greci): Antiyoka, Tulamaya, Amtekina, Maka e Alikasadala o Alikasandara; nomi che si possono identificare con Autioco II, Theos di Siria (260-247), Tolomeo Filadelfo (285-247), Makas di Cirene (morto nel 258), Alessandro di Epiro (morto circa 258).
Anche la tradizione buddistica ha conservato ricordo di questo sovrano. Nella cronaca singalese Dîpavamsa (« Storia dell'isola », cioè di Ceylon), «rozzo tentativo di poesia epica», si parla di un re chiamato ora Piyadassi, ora Piyadassana, ora Asoca.

Nella maggiore cronaca buddistica di Ceylon, il Mahâvamsa , lo stesso Asoca vien ricordato come nipote del sovrano maurya, Candragupta. Il contenuto delle iscrizioni di Asoca ci fa comprendere la sua sopravvivenza nella tradizione buddistica: infatti il regno di Asoca segna il fiorire del buddismo nell'India e nei suoi editti si sente il mite e pietoso spirito della dottrina dell'«Eccelso».
Il regno di Asoca si sfasciò poco dopo la sua morte; i successori si mantennero solo nel Magadha; la potenza regale cadde nelle mani dei ministri; uno dei quali, Pushpamitra, assassinò l'ultimo re maurya, Brhadratha e fondò la dinastia dei Cunga (182-66 a. C.). Conservando per sé il comando dell'esercito, pose sul trono il figlio Agnimitra ed estese il suo dominio fino al territorio dei Mâlava. L'ultimo sovrano di questa dinastia, abbandonatosi ad una vita di lussuria, fu ucciso dal ministro Vasudeva, che faceva risalire la propria discendenza all'antico vate Kanva; la dinastia da lui fondata si chiamò pertanto dei Kânva. Il loro regno fu breve; gli Sciti li tolsero di mezzo.

Dopo la morte di Asoca anche i Kalinga e gli Andhra riacquistarono la loro indipendenza. Circa il 70 a. C. gli Andhra fondarono una monarchia molto cospicua, dopo aver distrutto il regno settentrionale dei Çunga. Fino al 218 d. C. durò il regno degli Andhra, con la capitale Paithan sulla Godavarî; per un certo tempo comprese quasi tutta l'India settentrionale. Il buddismo godé qui del favore dei re; gli edifici buddistici del Dekkan risalgono in gran parte al periodo degli Andhra.

Intanto potenze straniere si erano affacciate nel nord-ovest dell'India. Circa la metà del III secolo Diodoto aveva fondato il regno greco-battriano. Grazie alle conquiste di Eutidemo era penetrato nell'India, non avendo qui trovato resistenza dopo la caduta del regno di Asoka.
Circa il 175 a.C. Demetrio, figlio di Eutidemo, cacciato dalla Battriana dall'invasione di barbari dell'Asia centrale, gli Yue-ci turchi, cercò rifugio nel Pengiab, trasferendo la sua residenza a Sâkala (o Sâgala, dei Greci).


La storia del regno greco-indiano dev'essere stata molto agitata. In un periodo di appena cento anni le monete successive alla morte di Eutidemo ci mostrano 23 sovrani greci nella Battriana e nell'India. Secondo le notizie indiane il regno greco in India durò 82 anni, con otto re. Tra questi c'interessa specialmente Menandro, detto dagli Indiani Milinda; regnò circa 30 anni (140-110 a.C.).
Nel II secolo d. C. si conservava tuttora in India la sua memoria; è l'eroe di un celebre romanzo didattico di origine buddistica, il Milinda-panho, che possediamo nella redazione pâlica. Il nocciolo dell'opera é costituito dalle «Domande di Milinda» al saggio buddista Nâgasena, intorno a problemi filosofici, morali e religiosi. Si dice che in seguito a questi colloqui il re si convertisse al buddismo.
Rovinato per lotte interne, verso il 93 a. C., il regno greco-indiano ebbe, nonostante la rapida decadenza, grande importanza per la civiltà. In esso vennero a contatto il mondo greco e indiano: influssi greci penetrarono l'arte degli Indiani. Sorse l'arte greco-buddistica del Gandhâra, arte provinciale ellenistica, piena di motivi indiani. Il dramma, nelle sue origini di certo di fattura schiettamente indiana, assume tratti del dramma greco e sembra che la tecnica scenica greca non sia rimasta senza influenza sull'indiana (Non occorre ricordare come tale tesi, nonostante la dotta dimostrazione che ne tentò il Windisch (Atti dei Congr. Orient. di Berlino, 1881) e le più recenti ricerche del REICH (Der Mimus) sia ormai confutata e respinta dalla grande maggioranza degli indianisti).

Attraverso il regno greco-battriano passarono senza dubbio nel nord-ovest dell'India forti influssi ellenici; ma non pare che l'oriente ne fosse toccato. L'animo indiano rimase chiuso alla cultura ellenica; troppo profondamente chiuso in sé stesso e nel suo tenore di vita, per risentirne effetti durevoli.
Il colpo finale al regno greco-battriano fu dato dalla invasione degli Yue-ci, fondatori del potente regno degli « Indo-Sciti ». Convertiti al buddismo già forse nell'Asia centrale, assunsero nell'India la civiltà mista greco-iranica. Il più potente dei loro re, Kanishka (dal 78 d. C.), dominava una grande regione, comprendente il Pengiab, Kashmir, Gandhâra e Kabul, nonché parte delle province del nord-ovest, con Kashgar e Chotan. La sua corte di Peshayar divenne un importante centro di cultura: vi soggiornarono il medico Caraka, al quale molto dobbiamo per la conoscenza della medicina antica, ed Asvaghosha, autore del Buddhacarita. Kanishka ebbe anche parte nella organizzazione della chiesa buddista, mediante il concilio di Jâlandhara, donde prese le mosse la redazione del Canone settentrionale, in lingua sanscrita.

Il resto dell'India era frazionato in piccoli principati. Nelle lotte del III e IV secolo contro gli Yue-ci riprese il primo posto un'altra dinastia nazionale, quella dei GUPTA.
Il buddismo, diviso in numerose sètte che lottavano con schermaglie dialettiche, perdette ogni importanza per la vita popolare, risvegliatasi in un vivace sentimento nazionale. Il brahmanesimo riprese il predominio. I Gupta si erano innalzati nelle guerre contro gli Indosciti; uno dei loro primi sovrani, Candragupta, fondò una nuova era, cominciante con l'anno 319. Essi toccarono il colmo della potenza con Samudragupta; il suo regno comprendeva tutta l'India settentrionale fino al Narbada.
Nel delta del Gange dipendeva da lui Samatata, nell'oriente Kâmarûpa. Inoltre Samudragupta assalì gli stati del Dekkan, conquistando Orissa, i Kosalla del sud, i Pallava e i Vengi. Nel Dekkan occidentale espugnò Devarâshtra e Erandapalla. Con queste ed altre conquiste Samudragupta creò un regno potente quanto quello di Asoca.
L'importanza che il regno dei Gupta ha per la cultura si manifesta nel generale risveglio della vita nazionale, nel rinvigorimento della religione po
polare nonché nel fiorire della letteratura sanscrita. I Gupta stessi seguirono un culto popolare, quello di Vishnu. Sulle loro monete figura la dea Lakshmi.

Insieme al risorgimento nazionale si eleva l'induismo popolare. Col regno dei Gupta si ebbe un lungo periodo di pace durante il quale fiorirono le arti e la scienza, le industrie e il commercio. Da iscrizioni veniamo a sapere che una corporazione di operai, i setaiuoli di Dasapur (nel Mâlava), costruirono e mantennero a proprie spese un gran tempio. Le cose non mutarono sotto Candragupta II.

A sua servizio Candragupta aveva un ministro semileggendario: Kautyla, anche detto Canakya, autore di un grande trattato formato da 15 libri, di scienza politica che anticipa di oltre 1200 anni il "Principe" di Machiavelli.

Il "KAUTILÎYA-ARTHAÇASTRA"
Si tratta di un manuale del perfetto re congiunto con un Principe in senso machiavelliano. Nel primo libro son date prescrizioni circa l'educazione e l'istruzione del futuro re, circa la scelta di ministri o dipendenti fra cui spioni e sicarii, tutto un «intelligence service» su cui l'autore si sofferma a lungo, circa i consigli, circa la sorveglianza dei principi perché non costituiscano un pericolo per il re loro padre, circa i doveri giornalieri, circa la costruzione e l'ordinamento del gineceo, circa le misure di polizia atte a proteggere la vita del sovrano. Il secondo libro si occupa soprattutto degli ispettori, i quali debbono sorvegliare il funzionamento delle istituzioni statali. Nel terzo sono trattati il diritto e la procedura giudiziaria. Il quarto ha per argomento la eliminazione delle «spine», cioè di tutti gli elementi nocivi allo stato e alla società, per mezzo della polizia e dei procedimenti penali. Il quinto libro entra nel vero e proprio «machiavellismo»; vengono suggeriti mezzi subdoli per la soppressione di traditori e nemici contro cui il re non può procedere direttamente, come p. es. l'assassinio di un rivale, un'azione bellica o la montatura d'una congiura; come procacciare ricchezze alle casse statali (c'è anche il dio dei ladri che protegge), come confische, la istituzione di santuari col pretesto di miracoli verificatisi e cosí via; infine vengon dati consigli a cortigiani e ministri sul modo di superare i propri rivali.
La politica in senso occidentale si inizia nel libro sesto colla trattazione degli elementi costituenti lo stato, cui segue quella dei modi di condurlo, dei mali che possono affliggerlo, dell'arte della guerra: che sono gli argomenti dei vari libri fino al decimo. Coll'undicesimo rientriamo nel machiavellismo, con sottili consigli sul modo di barcamenarsi con una aristocrazia militare, suscitando discordie fra i suoi membri e al caso sopprimendoli nascostamente; e nel duodecimo è insegnato l'uso di spie, agenti segreti, sicari e donne per venire a capo di nemici interni od esteri, troppo forti per il re. Mezzi simili vengono consigliati nel tredicesimo libro che parla della conquista delle fortezze; mentre nel decimoquarto sono suggeriti i vari espedienti magici con cui il re può trionfare dei suoi avversari. Il quindicesimo libro è una specie di sommario e conclusione dell'opera, la quale è importantissima per la conoscenza della vita sociale e statale dell'India nei primi secoli avanti e dopo Cristo.
All'Arthaçâsta appartengono anche trattati di arti speciali, come la guerra, l'equitazione, l'architettura e così di seguito: perfino per l'arte di rubare esiste un manuale, lo Sanmukhakalpa, "l'arte del dio dalle sei teste", e cioè di Kârttikeya che, oltre ad essere dio della guerra, è tale anche dei ladri. Per il benessere dello Stato si fa questo e altro.

IL KAMASUTRA.
Dello stesso periodo non fa meraviglia, per quanto riguarda il Kâmaçâstra, che anche sull'amore o diciamo meglio sui rapporti sessuali esista un trattato molto minuzioso e pedantesco, il Kamasûtra di Mallanâga Vâtsy âyana, probabilmente anch'esso del IV secolo d. C., il quale non rifugge dai particolari piú crudi, esponendo l'amore colla stessa freddezza e amoralità (da non confondere coll'immoralità) dei corrispondenti trattati dell'Arthaçâstra.

Verso la fine del IV secolo il regno dei Gupta si ingrandì con l'annessione del regno dei Çâka a occidente, tanto da stendersi dalla foce del Gange al mare Arabico. Però sotto suo nipote Skandagupta si ebbe un'altra invasione di barbari nell'India.

Nei IV secolo gli Unni dalle steppe mongoliche si erano spinti verso occidente. Uno dei rami, passato il Volga, portò la devastazione in Europa, producendovi la « emigrazione dei popoli », movimento che culmina nel regno di Attila.
Un altro ramo, «gli Unni bianchi» o Eftaliti, marciò lungo l'Oxus, minacciando il regno iranico dei Sassanidi; distrusse quello dei Kushan presso il Kabul ed invase l'India. Circa nel 500 conquistarono il Gandhâra; anche il regno dei Gupta si sfasciò nel terribile assalto barbarico.

Gli Unni si stabilirono nel Pengiab, donde conquistarono tutta l'India centrale. Al principio del VI secolo regnava sull'India il re unno Mihirakula, con Sakala nel Pengiab per capitale. Il Mâlava era governato da un principe unno, Valabhi soggetto a tributo.
L'India formava solo una parte del grande impero asiatico degli Unni, abbracciante un ampio territorio tra la Persia e la Cina. Herat e Balch erano i centri della potenza unna. La dinastia dei Gupta era ridotta al Magadha; Buddhagupta, che tentò di sollevarsi contro gli Unni, fu sconfitto dal generale unno Toraman, e il Malava occidentale venne conquistato. L'ultimo dei Gupta, Bhânugupta, morì nel 510.

Dal Magadha mosse la liberazione dell'India per mezzo dell'operoso re Yasodharma sotto il cui comando si raccolsero diversi principi indiani. Gli Unni difesero con furia selvaggia i loro possedimenti indiani, ma furono sconfitti e annientati presso Kohrur nel Multan (533).
Poco più tardi, nel 560, i Persiani alleati con i Turchi confinanti distrussero la potenza degli Unni nell'Asia centrale. Circa il 570 fu abbattuto il dominio degli Unni bianchi, i cui territori furono occupati da tribù turche. Il regno di Yasodharma tornò ad abbracciare la maggior parte dell'India. Non solo egli ne fu il liberatore, ma anche uno dei suoi più grandi sovrani. Seguace del culto di Çiva, era però tollerante verso tutte le sètte. La figura di questo re resta isolata; poco si sa dei suoi predecessori e dei suoi seguaci.

Dopo la sua morte la storia del Mâlava ricade nell'oscurità. Sembra però certo che il regno venisse a frazionarsi negli stessi Stati minori che si erano raggruppati intorno ad esso nella necessità della lotta. Solo al principio del VII secolo riappaiono due grandi Stati: a nord si forma il regno di HARSHA (606-648), nel sud la dinastia dei Calukya si acquista sotto Pulikesin II il predominio sul Dekkan. La lotta fra i due Stati (circa il 620) portò solo a riconoscere il Narbada come confine. Così il regno di Harsha comprendeva tutta quanta la regione del Gange; il Nepal, Kâmarûpa e Valabhi gli erano tributari. A occidente un monarca çûdra regnava nel Sindh e piccoli reami si erano formati nel Multan e Pengiab.

Dall'antico regno dei Gupta si distaccarono dinastie minori. Circa il 495 Bhalârka fondò nel Gujarat la dinastia Valabhi, durata fino al 744, non senza una certa importanza per la cultura, grazie al favore accordato al brahmanesimo ed alla setta dei Jaina. Nel Magadha occidentale sorse il regno dei Maukhari.
Frattanto, e sin dal VI secolo, si svolgeva nel sud la potenza dei Calukya. E' probabile che il regno dei Calukya sia stato fondato da nobili indiani fra i Dravidi, dopo che i Pallava furono ricacciati. Verso il 730 questo regno si sfasciò. La parte orientale, il regno dei Vengi, soggiacque dopo lunghe lotte ai Cola (circa il 1060). Il regno occidentale s'indeboli nelle lunghe lotte contro i Râslztrakûfa nel Gugiarat.
Verso il 970 il re Tailapa sconfisse i Mâlava e i Cola. Solo verso la fine del XII secolo questo ramo della dinastia Calukyìa si estinse. Da allora non si formarono più grandi regni indiani; la conquista islamita s'intromise nello sviluppo dell'India, introducendo nella sua storia nuovi popoli e nuove forze politiche.

Coll'esodo del buddismo dall'India e col fiorire dell'induismo, anche la storia politica dell'India, fino allora mai dominata da forze estranee al popolo (non ostante isolate influenze babilonesi, persiane e greche) vien completamente trasformata da conquistatori stranieri.
Il grande sultano Mahmud di Ghasna già nel 1001 aveva intrapreso una spedizione in India, con la quale comincia il dominio di dinastie turche (1001-1526).
Vi pose fine il regno mongolico dei Gran-Mogul, fondato da Baber nipote di Timur, nominalmente durato fino al 1857.

La conquista turca introdusse nell'XI secolo l'Islam in India. Quale potenza di fanatismo religioso, poggiante sulla forza guerresca degli eserciti turchi, l'Islam ha esercitato in India, come in tutti i paesi di civiltà elevata, un'influenza deleteria. Nell'India settentrionale esso distrusse tutti gli Stati e interruppe anche lo svolgimento della cultura indiana. La sparizione del buddismo può essere stata una fortuna per l'affermazione del carattere indiano; gli era subentrato, sorto dall'unione delle dottrine brahmaniche con le credenze religiose popolari, l'INDUISMO, con forza di resistenza senza paragone maggiore (circa dal IX secolo in poi).

Come ultima espressione originale della civiltà indiana, esso ha condotto con la massima energia la lotta contro l'Islam. Quest'ultimo, penetrato in India grazie alla signoria straniera del periodo turco-mongolo, non ha mai potuto annientare la coltura indiana. Essa rimase, appunto come la persiana, a capo del movimento intellettuale. L'evoluzione religiosa dell'India ha il merito storico di aver salvato la cultura e le caratteristiche intellettuali di questo popolo intelligente e ingegnoso.

E proprio di questa forza dell'Induismo senza paragone
ora parliamo

BRAHMANESIMO E INDUISMO


Durante il fiorire del buddismo, nel III e IV secolo a. C., ci sembra che il brahmanesimo perda d'importanza: però non scomparve mai interamente. Le condizioni giuridiche e sociali in esso fondate, soprattutto le caste, non avevano alcun valore per il ceto monastico; né il Buddha cercò mai di trasformarle.
Brahmanesimo e buddismo, nella loro coesistenza, informano la vita indiana di questa età.
È vero che nella letteratura il brahmanesimo e la sua lingua, il sanscrito, perdono d'importanza, tanto da sembrare che fosse quasi estinto. Solo nel IV secolo d. C. il sanscrito riprende vita nelle iscrizioni e nella rifiorente letteratura classica con la restaurazione nazionale dei Gupta.

Però la coltura brahmanica non era mai scomparsa dalla precedente India buddistica. Opere buddistiche, come il Lalitavistara, sono composte in sanscrito. Già circa il 70 d. C. un'opera consimile fu tradotta dal sanscrito in cinese. Da una celebre epigrafe di Juganadh nel Gugiarat appare che qui il sanscrito viveva tuttora circa il 150 d. C. All'età dei re Kanishka (II secolo d. C.) risale il Buddhacarita di Acvaghosha, dotto brahimano di Benares.
Finalmente Buddhaghosa, il commentatore del canone pâli, prima di convertirsi al buddismo era anch'egli un dotto brahmano e conoscitore del Veda.

La tradizione che si riallaccia al periodo vedico non si é mai interrotta nemmeno nell'India buddistica. Anche il rituale vedico del sacrificio, in particolare del sacrificio del cavallo (Acamedha), era noto nell'età buddistica; il giure brahmanico si conservò poi in ogni tempo, poiché i buddisti non toccarono mai il diritto secolare. È soprattutto significativo l'affermarsi nella letteratura filosofica, verso il 500 d. C., di una forte reazione del brahmanesimo contro il buddismo.

Dalle lingue usate nella letteratura si può fino a un certo punto determinare quale fosse la corrente dominante. Così troviamo un fatto decisivo: nel periodo antico ci sono soltanto poche opere che non siano composte in sanscrito: non ve n'é nessuna, diffusa in tutta l'India e di argomento comune alla nazione, che sia composta in una delle lingue pracritiche.
La cultura nazionale dell'India fu sempre la brahmanica e la sua lingua il sanscrito. La superiorità dello spirito brahmanico si dimostra appunto in ciò, che il sanscrito letterario non era lingua comune dell'India, né sopravviveva nel parlare del popolo.
Non v'è dubbio che il sanscrito dovesse tale superiorità all'essere la lingua del brahmanesimo, cioè della forza dirigente dell'India. La penetrazione di elementi sanscritici nel pâli e la sua definitiva vittoria sul pâli stesso riflettono, nella storia della lingua, la continuata o rinnovata potenza del brahmanesimo. Il buddismo stesso se ne rese conto quando, forse dal I secolo d. C. in poi, cominciò a servirsi del sanscrito.

Anche tutte le personalità intellettualmente superiori si reclutano nelle file del brahmanesimo; all'insigne dotto e teologo Cankara (788-820) si deve il rinnovamento del brahmanesimo ortodosso, mediante il suo commento ai testi dottrinali del Vedânta. E il brahmanesimo così rinnovato sta a fondamento della vita intellettuale indiana, della società civile, della scienza, letteratura ed arte.

Ma appunto nella religione nuove forze escono dalle profondità della vita popolare. A questa vita non soddisfece il buddismo, per grande che ne sia stata la diffusione. Il popolo aveva bisogno di una fede rappresentata da déi personali e potenti. Dalle profondità della vita popolare sorsero numerose sétte e culti, che si vogliono comprendere sotto la denominazione di INDUISMO.

Non é più la religione degli Indiani del periodo vedico; l'induismo ha le proprie radici nelle antichissime credenze popolari, le cui figure demoniache s'innalzano a grandi divinità. Gli dèi Hindu sono parto di una fantasia selvaggia, svoltisi dal primitivo sentimento di un culto antichissimo. É probabile che vi agiscano ancora elementi delle credenze degli aborigeni; ma accanto ad essi, idee indiane penetrano in questa religione.
Ci appaiono qui esseri divini in tutto il vigore della creazione popolare. Dal loro culto selvaggio, orgiastico e spesso disumano gli déi vengono posti in un'atmosfera piena di crudeltà e di sensualità. Si sono formate numerose sétte, per buona parte certo risalenti, come culti popolari, all'età brahmanica; da religioni naturali selvagge s'innalzano tutte a dottrine e culti, mediatori di salvezza anche alle classi inferiori. Le due figure principali dell'induismo sono i grandi déi Vishnu e Çiva.

Vishnu appare in numerose incarnazioni (avatâra), soprattutto in quella di Crisna (Krshna): il suo culto segna la massima elevazione spirituale dell'induismo. Terribile figura é quella di Çiva, il demone distruttore troneggiante nei monti; si avvolge in serpenti e dal collo gli pende una ghirlanda di teschi. Gli sta accanto la consorte Kâli, «la Nera» o Durgâ, «l'Inaccessibile». Çiva é il demone distruttore, in cui sono fusi elementi del Rudra vedico: con lui venne a connettersi il culto del Linga (membro virile), certamente derivato da una religione popolare primitiva non ariana.
Çiva é immaginato quale asceta che pratica le più terribili penitenze, per esaltarne la potenza dovuta alla forza dell'ascesi. Accanto a Vishnu e Çiva, Brahma è ricordato come terza divinità; però non appartiene alla fede popolare, sorto com'è dalla speculazione brahmanica. Il brahman (neutro) significò originariamente «formula magica» o «preghiera» ed acquistò nel linguaggio filosofico il valore di «anima del mondo», di «assoluto».
Questo altissimo concetto fu personificato in un dio Brahman (maschile, nominativo « Brahmâ »).

Immenso é il numero delle divinità dell'induismo, dei miti e dei culti praticati in sétte innumerevoli: fra le più note nella religione del popolo indiano ricorderemo quelle di Yama dio della morte, di Varuna dio delle acque, di Kubera dio delle ricchezze, di Ganeça dalla testa di elefante, protettore delle scienze ; inoltre gli infiniti geni, demoni e spiriti maligni, i Gandharva (musici celesti) e le Apsaras (danzatrici celesti), ecc.

L' induismo comprende tutti i gradi del sentimento religioso la superstizione più fosca e il feticismo, culti crudeli e dissolutezze selvagge vi trovano posto accanto ai pensieri filosofici della religione di Krshna sul mistero dell'uomo-dio e della natura divina. Il misticismo dell'amor divino si accompagna alle chiassose e sensuali feste popolari nei grandi santuari, dove accorrono grandi masse di pellegrini. A Benares, la città sacra a Çiva, si cercava aiuto nelle angustie della vita e una tomba nel sacro Gange.
Tutti i possibili contrasti e contradizioni della vita umana, i sentimenti più sublimi e le idee di un misticismo panteista, insieme alle brame più rozze e sensuali di orgie selvagge si combinano insieme nell'induismo, che ha dominato la vita del popolo indiano.

Ma l'induismo è un fenomeno schiettamente indiano nella selvaggia fantasia delle sue figure, nella potenza di eccitazione psichica dei suoi culti e soprattutto nell'idea che gli dèi sono manifestazioni di un'unica grande forza universale, la cui venerazione ha per scopo la soppressione del dolore dell'esistenza.

Per capire però questo periodo
noi dobbiamo tornare al Medioevo del brahmanismo

LA CULTURA DEL MEDIOEVO INDIANO > >

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