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36. GEOGRAFIA E NAZIONALITA' DELL'INDIA

 

Il teatro della storia e della civiltà indiana, astraendo dalle influenze indiane nell'India trans-gange-tica, nell'arcipelago malese e nell'Asia orientale, non ha mai oltrepassato la penisola dell'India anteriore, con l'isola di Ceylon. Durante millenni, la vita storica é stata determinata fin nel più profondo dal rapporto tra la natura del paese e l'indole del popolo.
Ben di rado una civiltà evolutissima ed un peculiarissimo carattere di popolo sono stati dominati così fortemente come in India dalle condizioni naturali di vita.
L'India resta quasi fuori dal tipo di struttura del continente asiatico. Tutta l'orografia dell'Asia offre un sistema di monti a pieghe, che sembra connesso con quello delle alpi europee. Mentre la penisola transgangetica e l'arcipelago malese che ne dipende, legano al sistema orografico dell'Asia, il nucleo dell'India anteriore é formato da un altopiano liscio, i cui margini vengono a toccare il golfo persiano da un lato, il golfo del Bengala dall'altro.

Il tavoliere meridionale ha carattere del tutto africano. La formazione recente del piano alluviale dei fiumi dell'India settentrionale ha congiunto questo antico altopiano col continente asiatico. Anche per le sue condizioni di vita l'India anteriore forma il passaggio tra l'Africa tropicale e l'Arabia e la regione tropicale asiatica dell'arcipelago malese.
Dalla formazione geologica risulta la divisione naturale della penisola nel' bassopiano settentrionale del Hindustan e Bengala e tavoliere meridionale del Dekkan. Le due regioni si distinguono per una ragguardevole differenza di altezza.
Nel bassopiano settentrionale, la natura della regione occidentale dell'Indo e della orientale del Gange sono essenzialmente diverse. Disceso l'Indo dalle montagne nella pianura, riceve a destra il Kabul, storicamente importante quale accesso all'India da occidente. A sinistra riceve le cinque fiumane formanti il fertile bassopiano del Peng'ab. In questa regione, come pure nelle valli dei monti contigui, potremo cercare gli inizi della storia ariana nell'India.

In contrasto con l'occidente, il bassopiano orientale del Hindustan é ricchissimo di acque; non solo perché lo attraversano i numerosi e grandi fiumi scendenti dal Himâlaya e dal Tibet, ma anche perché riceve, soprattutto nell'Assam (a oriente di Calcutta), le piogge molto più abbondanti (i monsoni). Insieme al grado di umidità (siamo al 25° parallelo) l'alta temperatura del paese produce una vita rigogliosissima.

In questa regione gli Ari penetrarono molto presto; qui lo spirito indiano assunse il suo aspetto caratteristico e in queste condizioni naturali é radicata la civiltà indiana, che per molti lati rispecchia l'ambiente in cui si svolse. Fin dall'antichità sorsero qui grandi e fiorenti città; l'Hindustan fu sempre un paese di densa popolazione. Il Gange, ampio e maestoso, forma la principale via del commercio; lungo il Gange sono costruite le gran li città dell'India, spesso importanti per la storia politica o della cultura: Delhi, l'antica residenza del Gran- Mogol , Agra, Allahabed, celebre come meta di pellegrinaggi, Benares, la città santa degli Indiani e il centro della cultura brahmanica.

La catena del Vindhya é il margine meridionale del bassopiano dell'India e il confine meridionale della popolazione ariana. Chiameremo India centrale l'altopiano a sud, fino alla Godavari, formato da un nudo piano roccioso, di rado coltivabile e solo adatto ai pascoli.
Il Dekkan propriamente detto consiste di un tavoliere alto circa 800 m. cinto da montagne elevate: i Ghat occidentali raggiungono 2700 m. ad Anamali, sulla costa del Malabar. Il tavoliere si abbassa verso oriente ed anche i Ghat orientali, sulla costa del Koromandel, sono molto più bassi; nel Devodi Munda non sorpassano i 1645 m.
Davanti ai Ghat orientali si stende una bassopiano largo 150 km. e ricca di acque. Questa costa é importante per l'antica cultura, qui vi si svolsero relazioni commerciali verso oriente. Nell'altopiano interno le piogge sono scarse, giacché i venti d'occidente spingono le nubi in massima parte lungo i Ghat occidentali. Ciò spiega il tipo stepposo della parte più interna dell'altopiano.
A sud lo chiudono i monti del Nilgiri: e al sud di questo si stende la profonda depressione del Gap. Il maggior fiume del Dekkan é la Godavarî, che forma un'ampia pianura nella steppa dell'altipiano. Dall'altopiano roccioso muove il corso della Krishna o Kistna, navigabile solo nel Delta. A sud, il fiume principale è la Kaveri.
Il paesaggio del Dekkan é uniforme nell'interno; domina la «savanne» con qualche albero e infinite pozzanghere; lungo i fiumi si formano giungle di canne. Il terreno è ondulato o sparso di colli; le palme prosperano ovunque.

Ceylon (oggi Sri Lanka) è strettamente connessa con l'India meridionale, pezzo staccato dall'altopiano come appare dal Ponte d'Adamo, banco di sabbia ricco di scogli. Il nucleo dell'isola é formato da una catena a terrazze, che raggiunge la massima altezza col Pidurutalagala (2524 m.). Per il clima e la vegetazione, Ceylon è una regione tipicamente tropicale (è quasi sull'equatore, all'8° parallelo).

L'etnografia dell'india offre un quadro variopinto; razze del tutto diverse vi figurano l'una accanto all'altra. L'elemento più antico é formato dai resti della popolazione aborigena, sulla quale si sono sovrapposti, in strati molteplici, popoli immigrati, di varia origine.
La popolazione dell'India anteriore, a parte Ceylon, può a tutta prima ordinarsi in quattro grandi gruppi. Al nord, sui declivi del Himâlaya, popoli di origina tibetana, penetrativi dall'altopiano asiatico. Parlano lingue monosillabiche, affini al tibetano. Dalla tradizione indiana sappiamo che gli Ari immigranti conquistarono il paese in lunghe lotte con una più antica popolazione di pelle scura.
I Munda o Kolari, (circa 14 milioni) residenti nel Vindhya, rappresentano i resti di questa popolazione primitiva. Sono tribù piccole a di scarsa civiltà: i Kolh, ad essi affini, abitano il territorio montuoso a sud-ovest di Calcutta. Quasi tutto il Dekkan é abitato dal numerosi popoli dravidici (Dravida); circa 200 milioni, molti dei quali si sono conquistati una civiltà dipendente da influenze indiana. L'aspetto fisico dei Dravida è per più lati simile a quello dei Munda: anch'essi hanno la pella scura, talvolta nera, e neri i capelli. Ma fra i Munda domina il tipo a naso largo, mentre fra i Dravida non manca un tipo più fine, a naso sottile.
La lingua dei Munda e dei Dravida sono pura del tutto diverse. È probabile che i Dravida siano una stirpe nata da diverse mescolanze. In antico possedettero essi pure un ampio territorio nell'India settentrionale, fin verso l'Iran: gli Ari li ricacciarono verso il sud e nel nord di Ceylon. Non é finora dimostrata alcuna parentela delle lingue dravidiche con un altro ceppo linguistico.

Un gruppo di queste lingue ha acquistato nobiltà letteraria. La principale é quella dei Tamil, che prende anche una parte di Ceylon; a occidente è diffuso il Malayalam, a nord il Telugu e ad ovest di questi il Canarese. Tàmil e Malayalam sono strettamente affini; la lingua letteraria offre un tipo più antico. La letteratura telugu, o telinga, risale all'XI secolo; i più antichi documenti canaresi appartengono almeno al X secolo. Accanto ai popoli civili dravidici stanno numerose tribù un po' arretrate, come i Toda. Pare certo che i Dravida siano immigrati in India, e spinti dagli Ari verso il sud, si siano fusi con la popolazione nera aborigena.

Lo strato più recente della popolazione indiana é formato dagli Ari, che procedendo da nord-ovest si distesero sul paese come conquistatori. È difficile stabilire in che tempo avvenne quest loro immigrazione; quando nacquero gli inni del Rgveda, essi lottavano ancora contro gli aborigeni, ma dominavano già il paese.
Gli Ari indiani non erano un popolo tutto unito, ma diviso in numerose tribù con a capo dei re. Gli immigranti ariani dovevano pertanto parlare una lingua già divisa in dialetti, dalla quale non solo si svolsero le differenti fasi della formazione linguistica storica, ma sorse anche la grande varietà dei dialetti ariani, che assunsero fisionomia sempre più distinta.

Gli inni del Rgveda ci offrono la forma più antica dell'indiano; con essi si é già creata una lingua letteraria, coltivata nell'ambiente sacerdotale e che conserva tratti molto antichi. Il dialetto popolare, che sta a base di essa, era parlato nel nord-ovest dell'India non si discostava molto dalla lingua degli Irani. Nella ricchezza delle forme si rivela l'antichità della lingua dei Veda.

La lingua degli inni più giovani del Rgveda e dell'Atharvaveda forma già il passaggio alla lingua letteraria classica, al sanscrito. Le opere in prosa del periodo postvedico, i Brâhmana a le Upanishad, mostrano la forma più antica del sanscrito. Il grammatico Pânini (circa 350 a. C.) lo riduce a regole fisse. Il nome di questa lingua accenna già al suo carattere: il participio sams-kr-ta [cfr. lat. con-fec-tu=, confetto] significa "elaborato, regolato, perfetto, sacro" . Designa esso la nobile lingua letteraria, in contrapposizione al pracrito, da prâ-kr-ta «originario, naturale, comune, volgare», con cui si indicano i dialetti popolari.
Ma il sanscrito, sebbene fissato con norme grammaticali quale lingua letteraria, non era per nulla una lingua morta. Il grammatico Patanjali (II sec. a. C.) attesta cha era parlato non solo dai dotti brahmani, ma da tutte la persone colte. Nel dramma indiano, che rispecchia molto la vita reale, parlano in sanscrito il re, i nobili e i brahmani, mentre i personaggi del popolo e le donne parlano dialetti popolari (pracrito). Soltanto le etère e le monache si esprimono anche in sanscrito, come quelle che possiedono un'educazione più elevata. Il sanscrito non era lingua popolare, come non lo era il greco omerico: era, ed è tuttora, la lingua scelta di tutte le persone colte. Ed è tuttora il sanscrito una degli idiomi costituzionali del Paese.

Ma la vita naturale della lingua si svolse nei dialetti popolari ariani. Col nome di «medio-indiano» si indicano le numerose lingue popolari usate nelle iscrizioni e nella letteratura dialettale. Non derivano dal sanscrito, ma rappresentano le fasi ulteriori di antiche lingue popolari, esistenti accanto alla lingua sacra e letteraria. Alcuni di questi dialetti sono diventati di grande importanza letteraria per il fatto che in essi sono redatti gli scritti di sètte religiose: in primo luogo il pâli, la lingua del Canone buddistico e la lingua ecclesiastica dei Buddisti. Pâli significa «ordine, regola», e quindi «testo sacro».

Anche la sétta religiosa dei Jaina ha redatto i suoi testi sacri in dialetti del medioindiano. Le parti più antiche del Canone sono composte nel cosiddetto pracrito giainico (jaina-prâkrta), i commenti, più recenti, e la poesia, in mâhârâshtri. Quest'ultimo, la lingua del paese dei Mahratti, é divenuto il pracrito letterario modello. Veniva usato soprattutto nella poesia lirica, nonché per i passi lirici del dramma.
La fase più recente delle lingue indiane comincia col X secolo d. C. Dal XII in poi, i dialetti neo-indiani hanno creato una loro propria letteratura. Grande è l'abbondanza di essi; ne ricorderemo solo i più importanti. Ad occidente si parlano il Sindhi, Gujarati, Panjabi e l'Hindi occidentale; a nord, le lingue del Kashmir e del Nepal. A oriente, le lingue principali sono il Biliari, Bengali, Uriya (Orissa) ed Asami; nel sud domina il Marathi. La «lingua franca» dell'India moderna è lo Hindustani, sorto nel XII sec., durante la signoria islamita, nella regione di Delhi, centro del dominio mongolo. È un Hindi, misto di elementi arabi e persiani. È detto anche Urdu, cioè «(lingua del) campo», perché nata negli accampamenti (in turco, urda) delle truppe.
Da un dialetto medio-indiano si é diramato, con sviluppo suo proprio, il singa
lese, sorto in Ceylon da quando vi penetrò il buddismo. Ha una particolare letteratura, in parte teologico-buddistica, in parte poetica, ma dipendente dalla letteratura sanscrita.

Se a formare l'immagine spirituale di una singola individualità, soprattutto se insigne, concorrono molti e svariati motivi, sarà senza confronto più difficile rappresentare interi popoli, o stirpi, nei loro tratti essenziali e determinanti. Corriamo pericolo di dare troppo risalto a singole caratteristiche, specialmente quando ci troviamo a dipendere da una tradizione che mette in rilievo solo certi lati di tutta a vita del popolo.
La unilateralità dello spirito indiano, di frequente rilevata, ci appare forse accresciuta dal fatto che nella letteratura viene prevalentemente descritta a vita di determinate classi sociali, quella cioè dei brahmani e dei nobili, presso i quali le questioni filosofiche e religiose tengono il primo posto.

La letteratura sanscrita classica é poi soprattutto, nel suo fiorire, poesia artistica raffinata, messa al servizio della vita di corte. Le sue figure sono disegnate secondo norme fisse, all'incirca come quelle degli eroi del poema cavalleresco germanico. Il quadro della cultura indiana, quale appare nella letteratura, non ci dà tutta la realtà della vita indiana, ma ne ritrae in molta parte gli ideali.
Non vi è dubbio che la natura dell'India abbia contribuito ad improntare il carattere degli Ari ed a segnare i tratti essenziali della loro civiltà. Lo smisurato rigoglio della natura tropicale, sia che agisca come spinta o come rémora, trova riscontro nella vita e nell'attività creatrice degli Indiani. Il sentimento dei limiti del reale, e soprattutto l'abbandonarsi alla vita operosa, cedono il passo alle creazioni di una fantasia strapotente, che ricopre di un velo fastoso ogni realtà, alla tendenza a sprofondarsi negli abissi della speculazione.
Si aggiunga che, ad onta di varie reazioni oltre i suoi confini, l'India ha vissuto per lunghi periodi di tempo una vita storica isolata, chiusa com'era dalle più immense muraglie montuose della terra ad ogni stretto contatto col mondo dei popoli asiatici.

Essa non ha mai sentito in sé alcuno di quei grandiosi movimenti, nei quali i popoli mediterranei spiegavano le loro forze e si educavano ad una più elevata esistenza storica. Le è mancata l'azione rinvigoritrice ed eccitante delle grandi lotte per la patria, per lo Stato, per la giustizia, la fruttuosa spinta di un continuo commercio. L'India se ne stava solitaria nella sua ricchezza.

Il mondo incommensurabile dell'essere interno divenne il suo dominio; e il suo popolo intelligentissimo lo allargò e lo approfondì sino all'infinito. Il pensiero indiano non sente lo spazio ristretto di un'esistenza condizionata in cui gli oggetti si urtano; esso s'innalza facilmente verso l'illimitato. Niente è forse più significativo per tutta quanta la cultura indiana in tutte le sue manifestazioni, della mancanza di senso per la misura e l'armonia e della tendenza allo sconfinato.

Il pensiero indiano ha compiuto opere veramente grandi con sapienti come Kapia e Kanada; ma non si accontenta di interpretare il mondo in maniera accessibile all'esperienza: per spiegare il nostro mondo, costruisce mondi sempre nuovi in periodi incalcolabili dell'universo. Nella sua esistenza morale l'Indiano si muove più facilmente di altri popoli fra gli estremi di una sfrenata sensualità e di una durissima ascesi.
In mezzo ad una natura prodiga all'uomo della pienezza de' suoi doni - e l'Indiano ama oltremodo di goderne - sorge la negazione della vita come ultima conseguenza dell'astensione dalla feconda attività. Dalla vita piena di contrasti interni sorgono anche le figure della fede religiosa. Perdono esse il carattere elementare di antiche forze naturali, ne sono simboli di una umanità idealizzata; sono immerse anch'esse nell'atmosfera indiana, tutta fantasia e sensualità.

Accanto a tutto ciò domina la tendenza alla individualizzazione, insieme ad una smania, che spesso ci appare pedantesca, di ridurre tutto a sistema. Le più futili distinzioni conducono a creare scuole filosofiche e sette religiose. Tutta quanta la vita scientifica dell'India e ricolma di lavoro minuto, finissimo e spesso acutissimo, che tende senza posa a rinchiudersi in unità di sistemi.

Non meno caratteristica e l'arte indiana, che con le sue fantasticherie e sovrabbondanze potremmo davvero chiamare arte tropicale: senza misura, ma ricca di ben meditate particolarità.
La poesia ridonda di sottile osservazione della vita psichica, di descrizioni splendide; ma le mancano limiti di misura e chiarezza di forme. L'onda della fantasia si riversa in epopee gigantesche, impossibili ad abbracciarsi con un solo sguardo. Accanto a questa mancanza di forma troviamo nella poesia artistica più tarda un'arte incredibile della tecnica metrica e retorica, che ha prodotto opere impareggiabili dal lato dell'artificio linguistico.
La tendenza all'infinito ed all'ignoto, impulso di ogni umano pensiero, si é sviluppata in India fuor ogni misura, sottomettendo a sé stessa l'uomo, non frenato qui, mediante il lavoro, dalla natura povera e dura, né trattenuto nel mondo della realtà circostante.

Ma tutto questo quadro non vale che per certe classi del popolo, la cui vita é rappresentata nella letteratura. All'età vedica non si conviene affatto; nell'età più antica gli Indiani appaiono invece come un popolo bellicoso e conquistatore, che vive lottando, lavorando e godendo. Anche nelle parti più antiche del Mahâbhârata gli Indiani appaiono come valorosi guerrieri; più tardi, gli innovatori hanno sovrapposto all'antica vita eroica uno strato di pensieri speculativi.
Né il popolo, nel suo insieme, fu molto toccato da quello spirito di rinuncia che trova la sua espressione nelle religioni filosofiche ed é radicato nella vita delle classi superiori. I cortigiani e la nobiltà guerriera hanno sempre condotto una vita di godimenti: mentre il ceto borghese non ha mai cessato dall'operosità e dal lavoro. L'industria e l'arte indiana hanno prodotto opere insigni e l'artigianato é stato coltivata con ardore e successo.

Ciononostante l'interesse religioso ha nello spirito indiano il maggior peso. Le antiche credenze popolari si restringevano al mondo della natura ed alla vita reale. La speculazione, che tende senza posa al transcendente, è ciò che caratterizza l'evoluzione religiosa dell'India.
Le idee fondamentali consistono nella concezione dell'infinito come unità spirituale, nell'identità del mondo fenomenico, i cui singoli oggetti sono apparenza senza sostanza, con lo spirito pensante. Il pensiero cerca di penetrare nell'essenza delle cose. Il modo di considerare il mondo conduce al panteismo, mediante l'ipotesi di uno spirito universale e immanente. Tutto questo indirizzo di pensiero doveva distogliere dal mondo reale, anzi, con l'ascesi, spingere ad uscirne.
Da ciò può dipendere in parte lo scarso sviluppo del senso storico e politico, sebbene la storia dell'India sia ricca di avvenimenti e di agitazioni. Gli Indiani non hanno mai creato, nel loro proprio paese, uno stato nazionale. La loro cultura e la loro religione si sono diffuse su ampie regioni dell'Asia; ma gli Indiani non hanno fondato in nessun luogo né colonie né Stati
Ad onta di eroiche difese non hanno mai potuto proteggersi, alla lunga, da nemici stranieri. La dispersione politica e l'individualismo, non permettendo alcun vivace contatto tra la persona e lo Stato, furono i punti deboli dell'India.

Ma nello stesso tempo questo spirito indiano, pur mobilissimo, mostra in tutti i suoi tratti una smisurata forza di inerzia. Certi fenomeni a noi noti dall'antica vita degli Indiani, sono stati ritrovati tali e quali, fin ne' più minuti dettagli, da osservatori odierni. Nonostante tutti i moti, rovinosi e perturbatori, passati sul suo paese, l'Indiano non ha mutato la sua vita, da tempo antichissimo. Non vi é forse altro popolo la cui vita interna sia rimasta altrettanto inalterata.

Non di rado e non senza motivo si e posta la questione se l'India possegga o no una storia, nel senso della nostra tradizione storica. Realmente, a chi studia l'India, e in particolare l'India più antica, sembra di entrare nel «continente dei brahmani, privo di storia».
Eppure un grande popolo civile, il cui dominio si estende per un ampio numero di secoli, non può essere senza storia: quell'impressione si spiega con la mancanza di senso storico, caratteristico per l'Indiano. Come popolo civile, gli Indiani hanno una grande storia. Non solo hanno eretto un monumento di cospicua cultura, ma la loro vita politica fu ricca di fortunose vicende e ne vediamo ancora gli effetti nel modo con cui il mondo indiano si e andato formando.

Ma questa sequela di cause ed effetti è, per lo più, sfuggita alla coscienza storica dell'Indiano, il cui spirito è poco suscettibile alle grandi esperienze della vita storica e politica. Di tanto in tanto sentiamo parlare, nei Veda, di guerre degli Ari contro popoli non Ari, di pelle scura. E nella grande epopea degli Indiani risuona come un'eco lontana di un tempo di lotte poderose, con le quali la nobiltà guerriera fondava la multiforme quantità di Stati grandi e piccoli. Vi scorgiamo le reciproche lotte tra stirpi ariane; ma ogni determinatezza di luogo e di tempo è scomparsa da questi ricordi; gli avvenimenti storici dileguano nelle nebbie della leggenda.

Gli Indiani hanno dunque una storia, ma nessuna storiografia vera e propria, sebbene la loro letteratura possegga opere di contenuto, in parte, storico.
Tale tratto essenziale fu acutamente rilevato già dal geografo arabo AI-Biruni (circa 1030): «Purtroppo gli Indiani tengono poco conto dell'ordine storico dei fatti; sono molto negligenti nell'enumerazione cronologica dei loro re, e quando si insiste per avere una spiegazione essi non sanno che dire, e sono subito pronti a narrare favole ».

II piacere di raccontare ha sopraffatto nell'India ogni tradizione storica. L'età antichissima vien divisa nei periodi della creazione del mondo, poi riempita con le gesta degli déi e delle dinastie leggendarie, senza che mai la tradizione faccia capo alla realtà del presente o ad un passato raggiungibile con qualcosa di concreto in mano; testimonianze simili a quelle mesopotamiche o egizie mancano del tutto.

Una tradizione senza confronto migliore é stata invece coltivata e mantenuta nelle sette religiose. Sopratutto i Buddisti e la setta dei Jaina possiedono nelle loro letterature un patrimonio non spregevole di buoni dati storici. Ma nemmeno qui si abbraccia la vita del popolo nel suo insieme; si conserva solo la memoria di grandi individualità, senza però che sia messa in rapporto con la biografia esteriore e tanto pieno con l'evoluzione interna degli eroi; venerazione e amore ritraggono il Maestro solo mediante numerosi e singoli tratti. Eppure una figura così notevole come quella del Buddha ha dato un punto d'appoggio al debole senso storico degli Indiani.

Al contrario la coscienza storica degli Indiani non ha, si può dire, ricevuto alcun impulso dalla storia politica. Ed è singolare che solo la poesia artistica cortigiana in lode dei re sviluppa una storiografia profana. Purtroppo perchè tale, ovviamente fa difetto il senso della realtà storica e della concatenazione dei fatti. Questa poesia si limita all'ambiente che la nutre e non va più in là.

Fin dal secondo secolo d. C. si hanno iscrizioni poetiche che rappresentano i più antichi monumenti di tal genere letterario. Accenni e tentativi di una storiografia vera e propria non mancano però del tutto. Si riattaccano essi alle due correnti esistenti, la tradizione monacale e l'arte cortigiana. Le due più antiche opere storiche indiane da noi conosciute si fondano sul buddismo singalese.
Pare che il Dîpavamsa («Cronaca dell'isola»), tentativo ancora goffo di racconto storico, sia stato composto verso il 30 d. C. da un monaco buddista. Circa il 500 d. C. il monaco Mahânâma scrisse in pâli e in versi il Mahâvamsa («la grande cronaca»). Lo dicono scevro dei difetti del suo predecessore; in realtà contiene un pregevole materiale storico. Però Mahânâma non ha alcuna idea del valore storico delle sue notizie; si sente in lui solo lo spirito monacale buddistico, tutto preso dalle stravaganze di storie di miracoli.

Anche la storiografia profana non si scosta che ben poco dalle vie dell'epica. Ne abbiamo un esempio nella cronaca del Kashmir, la Râjataranginî di Kalhana. L'autore, figlio di un uomo di Stato della casta brahmanica, prese parte alla vita politica servendo il re Harsha. Kalhana non vuol essere altro che un poeta epico il quale prende la materia che gli serve dalla storia, quasi a caso, prende ciò che gli piace. Non si preoccupa per l'ordine cronologico e il distacco dei vari tempi.

Ad ogni modo - pur fatta così - (megli tanti pezzettini piuttosto che nulla) l'opera di Kalhana e la più importante esposizione storica dell'India. Essa dimostra che gli Indiani sono arrivati a tramandare singoli avvenimenti, ma senza afferrarne la concatenazione storica. Ogni tradizione indiana e lacunosa e confusa: innanzi tutto é soffocata dalla fantasia; ne poteva pervenire alla vera storia un popolo la cui illimitata credulità faceva dipendere ogni fatto dall'incomprensibile governo di potenze religiose, demoniache o metafisiche. Per gli Indiani, la storia non divenne mai oggetto di indagine scientifica.

I periodi di tempo, per i quali la storia dell'India deve appoggiarsi solo a fonti di carattere letterario, non possono esser contenuti in limiti precisi, mancando quasi dal tutto punti cronologici di riferimento; né e possibile di esporre la storia dell'India antica badando alla connessione dagli avvenimenti, per lacunosi che ne siano i ricordi. Manca soprattutto ogni dato sicuro sull'età delle antiche opere letterarie, il che dipende dalla sorte particolare di esse, prodottesi spesso in seguito a lunga elaborazione.

Le raccolte di inni, i poemi epici, le opere narrativa, i codici e i testi religiosi sono il frutto di secoli di elaborazione e rifacimenti. L'età della maggior parte di queste opere si può stabilire solo approssimativamente. Soltanto la lingua ci permette di dividerle in più e meno antiche. Nulla sappiamo della individualità degli autori: figure leggendarie del tempo antichissimo o gruppi di vati sono indicati come tali.

Solo a partire dal 500 a. C. circa, la successione storica si fa più chiara; e questo il tempo dell'attività del Buddha (morto circa il 480 a.C.) e del suo rivale Vardhamâna, il fondatore della sétta giainica. Questo movimento presuppone il termine di tutta quanta la letteratura vedica, nonchè il pieno sviluppo del pensiero filosofico, quale ci é offerto dalle Upanishad.
Inoltre debbono essersi già formata parti cospicue della poesia epica e della letteratura popolare narrativa. Si erano pure sviluppate le scienze indiane, non solo quelle dell'esegasi vedica a delle discipline ausiliari del rituale del sacrificio, come la grammatica, la matematica e l'astronomia, ma anche la medicina, la logica, la psicologia.
In particolare la filosofia scientifica degli Indiani aveva prodotto un'opera ragguardevole col sistema Sâmkhya. Ma sulla soglia di tutta questa antica letteratura indiana stanno le formule magiche, la preghiere, gli inni e i versi sacrificali, raccolti nei Veda. Anche per la loro formazione fu senza dubbio necessario un periodo assai lungo, il cui apprezzamento é soggetto a grandi oscillazioni.

La prima data sicura nella storia indiana si ha solamente con l'invasione di Alessandro il Grande (326 a. C.). Da rapporti della storia indiana con quella greca, specialmente del regno dei Salaucidi, risultano altre date certe. Fin dal IV sec. a. C. mediante il buddismo si erano stretti rapporti tra l'India e la Cina. La prima notizia sicura pone nel 67 d. C. un'ambasciata dell'imperatore Ming-ti: essa riportò dall'India libri e immagini. Da allora, pellegrini cinesi vennero di frequente in India per visitare i luoghi santi del buddismo e compiervi studi.

Le notizie cinesi ci accostano al tempo in cui cominciano quelle, molto importanti, arabe e più tardi europee. Una delle opere più notevoli della letteratura geografica degli Arabi è la descrizione dell'India di un profondo conoscitore, al-Biruni, chiaro astronomo, matematico e cronologo. Da uomo maturo, egli passò diversi anni in India, circa il 1030.

Le più antiche notizie europee su regioni asiatiche si ebbero per effetto della signoria mongola. Tornando per mare dalla Cina, Marco Polo toccò, almeno, Ceylon e l'India (1293). Nello stesso anno il francescano Giovanni da Montecorvino recandosi in Cina come missionario si fermò in India, seguito da Odorico di Pordenone (1316-18), che visitò Kalikut, Ceylon e Madras. Il primo europeo che attraversò l'interno dell'India e navigò il Gange fu il veneziano Nicolò de' Conti (circa il 1430).
Più a lungo di tutti, e cioè quattro anni, si trattenne nell'India meridionale il negoziante russo Atanasio Nikitin di Twer (1467-1472).
Trent'anni dopo Vasco de Gama raggiunse le coste indiane. Comincia allora il periodo delle relazioni tra l'India e l'Europa, culminanti nella fondazione dell'impero coloniale inglese.
Se cerchiamo, appoggiandoci alle date certe della storia indiana, dividerla in periodi...

* chiameremo antichità indiana l'età precedente la comparsa del Buddha. Essa abbraccia all'incirca il periodo dal 2000 al 600 a. C.
* porremo il medio-evo indiano dall'inizio dell'attività del Buddha ai principi della colonizzazione europea cioè dal 600 a.C. al 1500).

Questo periodo è da suddividere in una età di carattere essenzialmente indiano:
* l'età del buddismo e del rinnovamento del brahmanesimo (dal 500 a. C. -al 1000 d. C.) e
* in un'età islamica, quella del sultanato (a partire da circa il 1000 d. C.).
* Il periodo moderno comincia con il secolo delle scoperte: durante il quale il Gran-Mogol (ca. 1600) perde il suo dominio e la penetrazione europea fa sentire i suoi effetti materiali e spirituali in crescendo fino all'inizio del XX secolo.

Fino a questa data, i periodi li tratteremo uno alla volta,
iniziando ora dal primo

L'ANTICHITÀ INDIANA - I VEDA > >

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