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19. MAOMETTO E LA SUA DOTTRINA

Non sarà mai facile, per il sentimento di noi Europei, di dare un giusto giudizio del carattere del profeta. Questo giudizio non riuscirebbe incerto se noi conoscessimo solo il fanatico della Mecca con le sue incrollabili convinzioni e la sua profonda influenza sugli uomini del suo popolo, ovvero guardando solo l'esperto diplomatico di Medina, che tien fisso l'occhio alla sua alta mira, la signoria su tutta l'Arabia, e che per raggiungerla non indietreggia nemmeno dinanzi a passeggere umiliazioni o il ricorso alla violenza. Né gli si deve far troppo carico di aver talvolta offeso le idee morali del suo tempo per soddisfare queste mire o le sue inclinazioni. Egli stesso non nascose mai le sue debolezze umane: ne pretese mai di esser privo di peccati.
La religione di Maometto, naturalmente, deve solo giudicarsi in base al Corano. Di un suo sistema o dottrina religiosa non si può propriamente parlare: acutezza e conseguenza di pensiero non furono mai il suo forte. Il suo mondo ideale gli appartiene solo in piccolissima parte, derivato com'é dal cristianesimo e dal giudaismo, che egli però seppe abilmente adattare ai bisogni religiosi del suo popolo.
Chissà quale soluzione politica-religiosa avrebbe oggi, con il suo popolo che lotta per il possesso di ciò che già possiede, cioè l'80-90% di tutte le risorse energetiche del pianeta, così estremamente necessarie alla sopravvivenza del monopolio economico occidentale.

All'inizio quando si stabiliì a Medina, fra i tanti contrasti, di carattere religioso e politico, Maometto si rese conto che bisognava garantire una sicurezza pubblica, fornendo i principi di un codice giuridico e una serie di prescrizioni. Tutti i suoi insegnamenti verbali erano precedentemente rimasti racchiusi nella sfera della fede (fin dal 610) ma quando questa dovette darsi delle regole civili e sociali, non appena la sua religione a Medina divenne anche una entità politica che vedeva crescere nelle sue mani giorno dopo giorno - e dov'era stato nominato arbitro assoluto della città - sentì la necessita di creare non solo una dottrina, ma una religione di stampo giuridico, evitando di includere dogmi, sacramenti, clero, ma creare una legge canonica ("SHARI'AH") che doveva compenetrare e regolare la vita e i rapporti dei musulmani.
SHARI'AH" significa in arabo "via" o meglio "cammino verso la fonte.

La SHARI'AH inoltre si pone come una legge naturale, una giusta organizzazione della società anche al di là della fede religiosa e in questo senso anche come applicabile al di fuori della società religiosa da cui la pretesa che essa sia applicabile come legge dello stato anche a minoranze non islamiche. Vi è la fortissima persuasione che la SHARI'AH si affermerà anche nei paesi occidentali


Dunque una dottrina molto più vasta, a carattere statale, verso il mondo esterno, che promuoverà una forte politica espansiva che portò nel giro di pochi decenni - con i primi quattro califfi che raccolsero l'eredità del Profeta- alla costituzione di un vero e proprio potente impero.

E se in Europa nel medioevo e anche dopo, gli uomini furono guidati e ricavarono la loro forza dalla fede, ed ebbero piena validità le leggi, le massime di vita e di politica predicate dai pulpiti e dettate in latino dal cristianesimo "volontà di Dio rivelata a Cristo",  le stesse massime furono usate da questo impero religioso-politico in formazione. Così non dobbiamo meravigliarci se ritennero valido pure loro di seguire la "volontà di Allah rivelata al Profeta".
Entrambe le due fedi ribadiscono che per risolvere i tanti problemi che affliggono il mondo devono professare la fede nel Dio unico e onnipotente. Non attenersi a questi principi della fede si è preda del demonio.
Entrambe le due fedi i propri seguaci dichiarano di essere i prediletti, e tutti gli altri i condannati, perché hanno scelto la fede sbagliata.
E se da una parte la credulità e lo zelo religioso di una è considerato fanatismo, dall'altra non è che hanno una opinione molto diversa.

Il fanatismo più o meno accentuato dipende inoltre prima di tutto dalla mentalità, dai luoghi, e dalle vicende economiche. Queste ultime, nelle fasi negative di alcuni popoli, hanno sempre scatenato un ricorso alle divinità per alleviare il male o per tentare di modificare la propria misera condizione. E quanto più è bassa questa condizione in cui si scende, tanto maggiore è il ricorso alla propria fede. Che a quanto pare sono tante! E il maggior successo di una o dell'altra è dovuto ai predicatori.
Nelle espressioni di molti padri della Chiesa occidentale era facile cogliere la soddisfazione che derivava dalla coscienza del proprio primato, quando lo stesso Occidente era prospero, popolato di eroi, di vincitori di battaglie e "guerre sante", ricco di messi e di insediamenti sparsi per il vecchio mondo e poi anche nel Nuovo Mondo. Veniva attribuito non al caso, ma alla grazia di Dio e alla preghiera rivolta a Dio. A Re Imperatore e Principi gli si ricordava spesso questa "grazia", fino al punto che gli si diceva che governavano "per grazia divina", che essi erano i soli "unti dal signore", anche se non erano ben accetti e spesso odiati dai loro sudditi.
Non dobbiamo oggi meravigliarci se nelle espressioni di molti pensatori islamici cogliamo la soddisfazione che deriva dalla coscienza del loro primato, grazie ad Allah e alla preghiera rivolta ad Allah, che ha fatto loro "per grazia divina" un grosso regalo:il petrolio!

Il Corano, il libro che è in possesso di Allah che è detto "Madre del Libro" (in Corano XLIII 4) appunto dà origine al Corano e l'ortodossia musulamana lo considera un miracolo, anzi l'unico vero miracolo che Maometto ha compiuto, e il suo testo del tutto inimitabile.
All'inizio il Corano era solo una raccolta verbale delle rivelazioni trasmesse da Allah a Maometto, nel periodo compreso tra il 610 e il 622 ("E dividemmo il Corano in parti affinchè tu (Maometto) lo potessi recitare agli uomini lentamente, lo rivelammo a brani" XVII 106)
Ma solo dopo l'arrivo a Medina e fino al 632 anno della sua morte, Maometto inizia a includervi una serie di prescrizioni di carattere politico, di organizzazione sociale, e non in un modo inizialmente sistematico; vi provvide quando le necessità si presentavano, senza preoccuparsi alle volte della coerenza teorica bensì modificando le disposizioni precedenti in base alle nuove situazioni che si venivano a creare. (Da Costantino in poi si fece uguale!).

Alla redazione definitiva della raccolta (la prima fu fatta da Abu Bakr, la seconda dal secondo califfo Omar) si giunse per tappe nelle generazioni successive, fatte dai molti teologi musulmani che "revocarono" o dichiararono "revocabili" alcune prescrizioni. Non senza polemiche fra le varie correnti che si vennero a creare, con un individualismo esasperato, che fu in seguito causa di tanti guai, una miscela esplosiva incontrollabile, dopo essere stata la culla di una nuova complessa civiltà nata dall'incontro della cultura dell'Islam delle origini con le più raffinate civiltà d'occidente e oriente.

Il Corano nel mondo islamico è ritenuto modello insuperabile di perfezione stilistica e linguistica e costituisce il fondamento della ritualità, della teologia e del diritto pubblico e privato. Si compone di 114 capitoli ("sure"), per un totale di 6236 versetti ("ayat") di lunghezza variabile. Una sequenza di indicazioni etiche che hanno contribuito a diffondere la civiltà islamica.

Il Corano (qu'ran: recitazione) non è un testo di storia come i Vangeli. Secondo la tradizione islamica esso riporta esattamente le parole che Dio ha affidato al Profeta che era perfino analfabeta e quindi Maometto ha "recitato" le parole divine che solo in seguito sono state trascritte. Non si tratta quindi di un testo ispirato, come nelle Scritture Cristiane, ma opera diretta, immediata di Dio.
Ciò comporta anche un problema linguistico. La lingua nella quale Allah si è espresso è l'arabo: anche se esistono naturalmente traduzioni in tutte le lingue il vero Corano è pertanto solo quello in arabo e in arabo esso deve essere recitato: per questo motivo il termine arabo che indica Dio, cioè Allah, non viene tradotto e anche il nome del profeta che generalmente noi indichiamo in italiano con Maometto viene dai fedeli conservato in Muhàmmad.

Il punto essenziale inoltre è che i Vangeli danno principi generali e non norme di comportamento bel definite mentre il Corano oltre ai principi generali contiene precise prescrizioni che regolamentano chiaramente non solo il culto ma anche i rapporti sociali familiari e politici: da esso è possibile quindi estrarre una precisa "legge".


Al pari dell'ebraismo, l'Islam non ha sacerdoti nella "Umma" (comunità dei credenti), ma solo esperti nelle Scritture (gli "ulama"), guide alle preghiere (gli "imam"), e uomini pii ai quali ci si rivolge per consigli (i "muftì").


Il Dio di Maometto é prima di tutto il Signore. Già fin dall'età babilonese il semita vede nel suo dio un dominatore ostinato, capriccioso e crudele, la cui volontà é inesplorabile solo in quanto é volubile come quella di un despota. Anche il dio di Maometto castiga il miscredente con interna soddisfazione. Non emana i suoi decreti in quanto sono santi e giusti, ma perché così a Dio piace. Di una conseguenza qualsiasi non é da parlare. Ora Maometto fa sì che Dio stabilisca ab aeterno quali degli uomini arriveranno alla beatitudine per mezzo della fede, quali persisteranno nell'errore e saranno perciò eternamente dannati; ora non nega all'uomo il libero arbitrio. ("ognuno agisca a suo modo, ma il Signore vostro sa meglio di tutti chi si muove nella via giusta" - XVII 84).

Non deve destare meraviglia che proprio su questo punto si accendessero, nella dogmatica posteriore, le lotte più accanite. Si sa che finì per trionfare la dottrina assoluta della predestinazione, ossia quel fatalismo che da allora in poi forma uno dei tratti più essenziali della concezione mondiale islamitica.
Del resto il monoteismo astratto, al quale l'Islam deve in non piccola parte l'efficacia del suo proselitismo, si é svolto solo a poco a poco. Nel primo periodo della sua attività profetica, e sotto l'influenza dei suoi maestri cristiani, Maometto aveva ammesso due mediatori fra Dio e l'uomo, la parola (l'ordine) e lo spirito, con manifesta dipendenza dalla dottrina della trinità, da lui più tardi così aspramente combattuta. ("E sono empi coloro che dicono Dio è il terzo di tre. Non c'è altro Dio che un Dio solo..." - V 73).

Di pari passo coll'irrigidirsi del concetto di Dio si andò formando un singolare antropomorfismo, occasione in seguito a violente contese dogmatiche, terminate con la vittoria dell'ortodossia, che volle interpretati alla lettera tutti i relativi passi del Corano, evidentemente anche secondo lo spirito dei fondatore della religione.

Il secondo dogma fondamentale dell'Islam dice: Maometto è il messo di Dio. Il profeta aveva preso dall'Antico Testamento la dottrina del peccato originale. Per ammonire gli uomini delle conseguenze, in specie dell'idolatria, Iddio mandava - secondo quanto insegnava Maometto - di tempo in tempo a ciascun popolo dei profeti, manifestando loro la propria volontà tramite l'angelo Gabriele.
Queste rivelazioni si trovano, benché in altra forma, nelle sacre scritture degli Ebrei e dei Cristiani. Il penultimo profeta è Gesù: al pari de' suoi predecessori, egli ha predetto la venuta di Maometto, dopo il quale non apparirà alcun altro profeta. Maometto é stato inviato in specie agli Arabi; ma la sua religione, l'Islam o abbandono nella volontà di Dio, deve ristabilire su tutta la terra la pura dottrina di Abramo, falsificata dagli Ebrei e dai Cristiani.

La parola di Dio a Maometto è il Corano. Così si chiamò dapprima ogni singola rivelazione; più tardi il nome fu applicato alla raccolta di tutte le rivelazioni. Come norma e regola di vita il Corano trova il suo necessario complemento nelle parole e fatti del profeta, la Sunna, spetta il propagarli. Essendosi però formata in gran parte solo nei due primi secoli dell'Islam, essa non deve usarsi come fonte per la dottrina stessa del profeta, se non con grande cautela.

Nel secondo periodo della sua attività meccana le idee escatologiche stanno in prima linea. Il nocciolo delle sue concezioni dell'al di là risale a fonti giudaiche, e quindi indirettamente nell'antica Babilonia e della Persia. All'inizio credeva che il giorno del giudizio fosse imminente: poi si vide costretto a rimandarne il termine a una data sempre più remota, di cui Dio si è riservata la scelta.
Il principio ne sarà annunziato da un potente colpo o suono, a cui sottentrerà un fragore di trombe o il grido di un angelo. Subito la terra prende a scuotersi, i monti tremano come un miraggio o volan via come nubi e son ridotti in polvere, il mare trabocca dalle rive, il sole comincia a girare sul suo asse, la luna si oscura e si spezza, le stelle precipitano, il cielo verrà scoperchiato, schiudendo alla vista degli uomini il mondo futuro. (LXXXI 1-14)

Secondo le sûre più antiche, nel giudizio universale sarà aperto solo il libro celeste in cui tutte le azioni degli uomini son registrate; e conforme ad esso sarà pronunziata la sentenza. A ciascuno é data la lista delle sue azioni, perché la legga; a chi é data nella mano destra, capisce che lo attende il premio; a chi é data nella sinistra, riconosce che lo aspetta la dannazione. I beati vanno a destra di Dio, i dannati a sinistra, ed i più pii si schierano in tre gruppi accanto al trono celeste. (LVI 1-50)

Nelle descrizioni posteriori questa semplice scena vien dipinta con sempre più vivaci colori: Dio pesa le buone e le cattive azioni in una bilancia. I dannati cercano di scusare le loro colpe, ma i profeti del loro tempo testimoniano contro di essi. Alla sentenza tien dietro immediatamente il premio o il castigo. I giusti son trasportati nel giardino dell'Eden e nel paradiso, che Maometto, il cittadino arabo cresciuto nel clima torrido della valle, immagina posto sulla fresca vetta d'un monte. Zampilla lassù una vivace fontana; molli seggi su variopinti tappeti la circondano. Vi siedono i beati, raggianti di gioia, vestiti di raso verde con fibbie d'argento: bevono chi l'acqua della sorgente mescolata ad essenze preziose, chi vino squisito versato da anfore turate col muschio. Tutto intorno alberi, che dànno ombra nonché frutta e grappoli d'uva. Godono inoltre della compagnia di fanciulle dagli occhi neri (Hûr), alle quali Dio ha concesso perpetua giovinezza. Come si vede, queste gioie del paradiso sono calcolate esclusivamente per la fantasia di uomini.
Alle donne, cui é pure promesso il soggiorno in quei giardini, il profeta promette assenza di odio e invidia e le gioie che vengono dai pii discorsi e dal saluto di Dio.

Mentre ai beati si schiude il paradiso, i dannati piombano nel gahannam [la geenna], nell'abisso pieno di vampe infuocate. Oltre ai tormenti delle fiamme, altri ne minaccia Maometto agli scellerati, però senza la gradazione sistematica delle pene, quale la fantasia degli Ebrei e dei Cristiani vede nell'inferno. Alla fontana del paradiso corrisponde una sorgente calda e fetente, il cui liquido strazia le viscere degli assetati. Invece delle frutta, si porge loro un'erba puzzolente, che non calma gli stimoli della fame. Più tardi ne prende il posto l'albero Sakkûm, « che sorge dal fondo della vampa e reca come frutti teste di satana ». Altrove l'inferno é dipinto come una stanza della tortura, con anelli di ferro e catene, maneggiate da diciannove sgherri al comando di un capo.

Alle torture del corpo si aggiungono i tormenti dell'anima; i dannati rimproverano sé stessi, scagliano maledizioni, supplicano invano la liberazione. Le pene dell'inferno sono eterne non meno delle gioie del paradiso; e Maometto respinse aspramente a Medina la speranza degli Ebrei, che ai peccatori del popolo d'Israele toccasse solo una punizione temporanea.

I doveri religiosi non stanno nel Corano in intimo rapporto con la dottrina propriamente detta; hanno piuttosto, come nel tardo giudaismo, il carattere di legalità esteriore. Comandamenti di alto valore morale, come quello della probità, son messi alla pari con prescrizioni puramente rituali, come l'abluzione prima della preghiera. Questo anzi é il primo dovere canonico dei fedeli. Se l'acqua manca, si può sostituirla con una frizione con la sabbia.
Secondo dovere é la preghiera. Consiste in una serie di formule e luoghi del Corano del tutto fissi, da recitarsi in atteggiamenti pure rigorosamente stabiliti e alternantisi regolarmente. L'insieme di queste formule e posizioni del corpo si chiama Reka, da ripetersi almeno due volte per ciascuna preghiera. Ciascun credente ha l'obbligo di pregare cinque volte al giorno: prima del levar del sole, a mezzogiorno, nel pomeriggio, poco prima del tramonto, a sera e al principio della notte.

Le ore della preghiera sono annunziate da un araldo, muezzin, dalla torre della moschea. Il venerdì la preghiera del mezzogiorno vien recitata in comune durante un ufficio divino pubblico. Segue la Chutba, allocuzione tenuta dal pulpito dall'officiante; dopo una tacita preghiera termina essa con la confessione di fede, col suffragio per Maometto e la sua famiglia, nonché per i primi convertiti specialmente benemeriti dell' Islam e per tutti i credenti in genere; per la vittoria delle armi islamitiche, più tardi anche per il regnante, che con questo suffragio veniva ad essere riconosciuto come tale dalla comunità. Il riposo dal lavoro non era prescritto per il venerdì.

Il terzo dei principali doveri religiosi é il digiuno, l'astensione dal cibo e dalle bevande e da ogni altro godimento, per es. dei profumi, dall'alba al tramonto, per tutto il mese di Ramadan. Come sacra é specialmente tenuta la notte precedente il 27 Ramadân, la cosiddetta Lailat alkadr o «notte della missione», nella quale il profeta fu chiamato al suo ufficio mediante la rivelazione della XXXVI sûra. Dal dovere del digiuno sono esenti solo gli ammalati, i viaggiatori e i soldati in marcia, che però devono riguadagnare i giorni perduti.

Il quarto dovere canonico, da compiersi almeno una volta nella vita da ogni credente, è il pellegrinaggio; l'inadempimento é perdonato solo ai privi di mezzi, agli ammalati, ai non liberi. Giunto al confine del territorio sacro, il pellegrino deve lasciare le proprie vesti e indossare l'abito da pellegrino; consistente in due pezzi di stoffa qualsiasi, uno dei quali gli ricopre le spalle, l'altro si avvolge attorno ai fianchi. Solo i sandali sono permessi; il capo deve restare scoperto anche nell'estate più ardente.
É questa la foggia di un periodo di civiltà da molto tempo scomparsa che sopravvive nel culto, come avviene anche in varie altre religioni. Alla Mecca, si deve prima di tutto visitare la Kaaba : un dado di pietra non del tutto regolare, lungo circa 40 piedi, largo 30 ed alto circa 40, ricoperto di stoffa ai quattro lati. La Kaaba occupa all'incirca il centro di una piazza aperta, lunga circa 200 e larga 150 passi, sulla quale oggi si trovano soltanto un paio di piccoli fabbricati laterali e che è contornata da una doppia fila di colonne.

Nell'interno della Kaaba, prima della riforma di Maometto, stavano degli idoli; poi sembra che non vi rimanessero che i candelabri e le granate. Gli angoli sono all'incirca orientati ai punti cardinali: nell'angolo orientale, circa 4 o 5 piedi da terra, é murata la famosa pietra nera, sasso ovale di circa 7 pollici di diametro, con superficie ondulata. Essa è oggetto di venerazione religiosa nella Mecca pagana, come anche altrove presso i Semiti troviamo assai spesso pietre sacre; Maometto accolse nel rituale del pellegrinaggio l'abitudine di baciarla, senza darne una motivazione.
Nei primi tempi dell'Islâm questo culto della pietra, che sembrava piuttosto pagano, trovò opposizione.
Accanto alla Kaaba zampilla la fonte
Zemzem, che anticamente salvò dal morir di sete nel deserto il progenitore degli arabi settentrionali, Ismaele, insieme ad Agar sua madre. I fedeli ne bevono l'acqua devotamente, dopo aver girato per sette volte attorno alla Kaaba.

Vien poi la corsa fra Safa e Marwa. Son questi due punti elevati; il primo, distante circa 50 passi dal lato di sud-est della moschea, é segnato da tre piccoli archi aperti, ai quali si sale per tre gradini di pietra; il secondo ne dista circa 600 piedi, segnato solo da una piattaforma cui si accede egualmente per una gradinata. La distanza fra questi due punti deve essere coperta sette volte a passo di corsa, in modo da terminare a Marwa. Mentre con ciò sono compiute le cerimonie di rito per la piccola visita, o Umra, nel grande pellegrinaggio annuale i pellegrini, dopo il primo giro intorno alla Kaaba, si recano in massa, passando per la valle della Mina, nella vasta pianura alle falde dell'Arafat collina di granito alta 200 piedi, posta a circa tre miglia ad ovest della Mecca.

Si dice che sulla vetta di essa Gabriele insegnasse per la prima volta la preghiera ad Adamo: in ricordo di quell'evento, i pellegrini vi compiono le loro devozioni. Quindi nel pomeriggio, a mezzo monte, vi si tiene una predica che dura, spesso interrotta da devote esclamazioni dei fedeli, precisamente fino al tramonto. La stessa sera tornano indietro, pernottando però a Musdalifa nella valle del Mina. Il giorno seguente prima dell'alba, ascoltano un'altra predica e quindi continuano ad avanzarsi fino alla valle del Minâ. Dopo breve sosta i pellegrini si raccolgono dinanzi a una colonna bassa, sulla quale ciascuno deve gettare sette pietruzze. Lo stesso fanno a due altre pietre nel mezzo e all'uscita della valle: si dice a ricordo di Abramo, che in tale maniera cacciò via il diavolo che voleva impedirgli il passo.

La festa termina qui con un sacrificio solenne; i Beduini spingono avanti grandi greggi di pecore, e ciascun pellegrino, rivolto verso la Mecca, taglia il collo ad una pecora, dicendo: «In nome di Dio pietoso e misericordioso, Dio é grande ».

Dopo di che depongono l'abito da pellegrino e si fanno tagliare i capelli, che nessun ferro deve toccare nel periodo consacrato. Per lo più si resta ancora due giorni a Mina, per ripetere al mattino la cerimonia delle pietruzze. Il dodicesimo giorno del mese delle feste si ritorna a Mecca, si fa un altro giro attorno alla Kaaba, e a passo di corsa il tratto fra Safa e Marwa; quindi si riprende la via della patria.
Anche per i musulmani che non partecipano al pellegrinaggio, i tre giorni dal 10 al 13 Dhu'l-Hig'g'a sono sacri. È la grande «festa del sacrificio», per la quale in ogni casa si sgozza una pecora.

Il quinto dovere canonico, la tassa per i poveri, ha preso sempre più, con lo svolgersi della comunità musulmana, il carattere di una tassa governativa, come accenneremo in seguito.

Oltre a questi cinque doveri canonici, considerati inviolabili, vi è ancora una lunga catena di prescrizioni, che la religione impone di osservare, e che tiene legata a sè tutta quanta la vita pubblica e privata dei Musulmani.
Qui non possiamo accennare che alle più importanti.

Contro gli infedeli il Musulmano deve mostrarsi ostile; il combatterli é dovere religioso. Gli idolatri si devono assalire senz'altro; gli Ebrei e i Cristiani solo quando non abbiano tenuto in conto l'invito, ripetuto tre volte, di convertirsi all'Islam. Dopo la vittoria gli uomini siano uccisi, le donne e i bambini ridotti in schiavitù. Chi cade nella guerra santa, è sicuro del paradiso, come martire della fede. Secondo l'esempio del profeta, è permesso di stipulare trattati con Ebrei e Cristiani.
Con ciò il dovere della guerra santa é solo differito, non soppresso.
Nella vita quotidiana cibo e bevande in specie sono in parte regolate conforme a prescrizioni dell'Antico Testamento. Sono impuri, e quindi da non mangiarsi, tutti gli animali non scannati o non uccisi a caccia, inoltre il sangue e la carne toccata da creature impure, per es. da un infedele.

Del tutto vietati sono gli animali da rapina, i cani, i gatti e i porci. Son pure proibite tutte le bevande inebrianti: benché il Corano ricordi solo il vino, la teologia posteriore, secondo il senso della proibizione, la ha estesa all'alcool in qualsiasi forma, senza però riuscire a farla sempre rispettare. Insieme al vino il Corano condanna il gioco d'azzardo, in gran voga nell'antica Arabia in specie sotto forma di sorteggio di carne di cammello, ma anche rovina di molti patrimoni.

La proibizione delle immagini, a cui sostegno solo una tradizione poteva invocarsi, risale ad una superstizione diffusa tra molti popoli; e per quanto trasgredita durante il fiorire della civiltà islamitica, non poté non inceppare e ritardare il libero svolgimento dell'arte.

La legislazione matrimoniale dell'Islam pose fine alla licenza dominante in questo campo nell'antica Arabia, ma non tolse di mezzo la poligamia. Ma poiché la legge prescrive espressamente di mantenere ciascuna moglie in modo conforme alla propria condizione, così già per motivi economici la grande massa del popolo deve accontentarsi della monogamia. Tuttavia il divorzio invero é reso assai facile, ma ciò é la conseguenza necessaria della separazione di sessi voluta dai costumi, e che esclude quasi del tutto altri tipo di matrimoni.

Essendo poi ogni musulmano libero di prendersi, oltre alle quattro legittime mogli, quante schiave desidera in qualità di concubine, molto grande é la tentazione, per le classi benestanti, di non darsi pensiero di una bene ordinata vita di famiglia. La legittimità di un figliolo non dipende dalla posizione della madre, ma solo dal riconoscimento da parte del padre; riconoscimento che però anche nei rapporti patrimoniali dà ai figli delle schiave gli stessi diritti come quelli delle mogli legittime.

Ad ogni modo nei primi secoli dell'Islam, almeno fra la nobiltà araba, si dava molto peso alla discendenza pura da parte di madre, e soltanto la degenerazione della famiglia nell'harem avvenuta sotto gli Abbassidi portò ad applicare fino alle ultime conseguenze le disposizioni del diritto matrimoniale ed ereditario.
Maometto non tolse di mezzo la schiavitù, come non la tolse l'antica chiesa cristiana, ma ne attenuò per molti aspetti la durezza. Senza dubbio lo schiavo, o fatto prigioniero in guerra o comprato, é dal punto di vista giuridico un oggetto, e come tale può essere ereditato e donato. Il possessore dispone liberamente della persona e del lavoro della schiavo, ma è tenuto a trattarlo bene. La prole partorita da una schiava al suo padrone, deve restare in casa, e solo dopo la morte di lui diviene libera. Liberare uno schiavo é del resto tenuta come una opera pia; lo schiavo può anche riscattarsi da sé, se gli riesce di raccogliere con i propri guadagni la somma necessaria. Però lo schiavo liberato resta, come comunque in una certa dipendenza dal suo antico padrone.

Il diritto penale islamitico é rimasto in uno stadio abbastanza primitivo, non avendo svolto che rudimentalmente l'antico pensiero dell'ambiente.
Sorge nell'ambiente arabo in cui non esistevano che consuetudini tribali rozze e incerte, niente di lontanamente paragonabile alla sapienza giuridica romana: nessuna meraviglia quindi che la nuova religione prevedesse anche delle norme di carattere giuridico vere e proprie che dessero ordine alla nascente società islamica.
Chiariamo con un esempio Le scritture cristiane santificano il matrimonio, esaltano la famiglia ma non accennano minimamente a norme di diritto successorio e familiare. Anzi, per quanto possa sembrare strano in nessun luogo dei Vangeli si accenna alla monogamia che pur tuttavia è una caratteristica peculiare del Cristianesimo. Il sistema parentale e il diritto successorio tuttora vigente in Occidente sono sostanzialmente quelli romani. Negli anni 2000 non si è ancora trovata una via d'uscita ai cosiddetti Pacs
Nel Corano invece vi sono precise norme per quanto riguarda l'eredità, il matrimonio, il divorzio, i figli fuori dal matrimonio, dalle quali è possibile ricavare un preciso e circostanziato diritto familiare e successorio.

Come dicemmo, l'assassino é condannato a morte; l'omicidio involontario si espia mediante un indennizzo ai superstiti. Le lesioni corporali possono compensarsi secondo la legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente; ma il colpevole può anche liberarsi mediante un'ammenda pecuniaria.
Il furto é punito col taglio della mano destra, in casi di recidiva con altre mutilazioni. L'adultero riceve cento colpi di frusta; ma se un infedele ha sedotto una musulmana è condannato a morte.
Così pure chi bestemmia Dio, il profeta e i suoi predecessori, nonché l'apostata dell'Islam, quando perseveri nella miscredenza.

Molte di queste prescrizioni, leggi, castighi, hanno nel tempo avuto delle modifiche, si sono attenuati, spesso adeguandosi ai Paesi conquistati, tuttavia alcune indicazioni etiche del Corano in linea generale sono rimaste immutate, e alcune hanno reso perfino invidiabile nel mondo la cultura e la civiltà islamica.

La SHARI'AH ha avuto delle distorsioni, personali intepretazioni fatte da qualche fanatico santone di turno, ha dato origine a legittime ortodossie, a ciechi fondamentalismi che preoccupano l'occidente, ma fenomeni simili esistono anche nel mondo cristiano, soprattutto negli Usa: proliferano sette che proclamano di attenersi strettamente alle Sacre Scritture: cosi c'è chi pensa che anche la poligamia sia lecita, il matrimonio dei preti pure, chi rifiuta le trasfusioni di sangue, chi pensa che sia essenziale santificare il sabato e non la domenica, chi sostituisce alla medicina la preghiera, chi vuole il ritorno integrale alla natura, chi fa processioni cortei raduni per invocare Dio i santi e i beati, altri invece hanno solo fede nella loro bomba atomica. Molti sono in buona fede, alcuni lucrano sulla buona fede dei molti. E' dalla caduta dell'impero romano che l'occidente lucra sulla buona fede, sul terrore e si regge in piedi appunto con le favole, il terrore, e i più abili, oggi con i giochi di prestigio di Wall Street. E' verso questa sola direzione che molti capitalisti monopolisti pregano.

Spesso sui giornali e anche in Tv riceviamo notizie e assistiamo a fenomeni, a idolatrie di massa, che non sono proprio per nulla espressioni di civiltà, ma sembrano usciti pari pari dal medioevo. E se sono moderne è solo perchè operano con interventi dove l'arte del convincimento è solo la forza e tanta tanta ipocrisia.

In alcuni paesi dell'Islam alcuni governanti hanno esposto una pregnante formulazione con il seguente concetto "Non esiste un'ideologia più progressista dell'Islam. Il profeta Maometto è più progressista dell'ebreo Carlo Marx".
Alcuni esponenti hanno la convinzione che il capitalismo crollerà per una serie di crisi che scuoteranno l'Europa nei prossimi decenni. E poichè il capitalismo è strettamente unito al cristianesimo, il crollo dell'uno causerà anche l'inevitabile fine dell'altro.
Nell'esprimere queste convinzioni è facile se non addirittura inevitabile, cogliere la soddisfazione che deriva dalla coscienza del loro primato, e dalla certezza che Allah, - dicono - non certo a caso, ha fatto dono del petrolio proprio al mondo arabo (che possiede l'80-90% di tutte le risorse energetiche necessarie alla permanenza in vita dell'economia occidentale. Alla vecchia Europa perfino estremamente vitale !!).

Un oculato impiego del petrolio come arma, infatti, sarebbe in grado di accelerare il crollo del capitalismo, di indebolire il cristianesimo, e di restituire all'Islam i suoi perduti diritti. Non per nulla i vari pretesti dell'Occidente per scatenare una guerra mondiale ci portano sempre nei territori arabi.
Sarà in questi territori che si giocherà nei prossimi decenni la decisiva partita di una nuova Olimpiade della morte. Con le fasi preliminari, le semifinali e la finale.
Il paradossale è che ogni fiaccola di questa olimpiade che l'occidente accenderà, avrà bisogno di petrolio arabo.

Andiamo ora alla difficile eredità lasciata da Maometto
senza però dimenticare - appunto - il nostro Medioevo


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