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15. LA CULTURA EGIZIANA NEL REGNO MEDIO E NUOVO
PRIMORDI DELLA CULTURA CANANEA
LA COSIDETTA ETA' DI AMARNA


Isis, Osiris, Horus - tre divinità

 

Con i successivi contatti dell'Egitto con paesi stranieri nella prima metà del secondo millennio, culminanti nella signoria straniera degli Hyksos, e così pure col continuo estendersi della sfera dell'influenza babilonese verso occidente, si muta il quadro della civiltà dell'Oriente antico.
Alle linee parallele subentrano linee convergenti. Da tali spostamento graduale è sorto, durante quella diciottesima dinastia - così attraentemente studiata nella monografia di G. Steindorff, Die Blütezeit des Pharaonenreichs.
[Il regno dei Faraoni nel suo fiorire] (Bielefeld u. Leipzig, 1900) - l'impero mondiale dell'Egitto, la cui influenza su tutta l'Asia occidentale non sarà mai abbastanza valutata.

Ma anche la valle del Nilo ha ampiamente approfittato di questo stretto contatto con paesi e genti straniere.
Se cerchiamo di riassumere i singoli risultati dello sviluppo della cultura egiziana durante il regno medio e nuovo, ci colpirà prima di tutto la differenza fra i precedenti templi comuni in tutto l'Egitto e i templi del Sole della quinta dinastia.

Vediamo ora di regola una strada per cui le processioni giungevano al santuario, posto nel mezzo della città e circondato da alte mura, con due obelischi dinanzi al portale fiancheggiato da torri. Un porticato, in cui sorgeva la statua colossale del Faraone e per lo più anche l'altare, precedeva una sala pure ornata di colonne e per ogni lato di bassorilievi variopinti; di qui si penetrava nella «cappella» propriamente detta, nel «Santissimo» con l'immagini della divinità, circondato da locali accessori.

Una vera e propria pianta di città si può riconoscere anche oggi nella residenza di Aminophis IV, della quale diremo più avanti. Le sue graziose ville erano costruite in mattoni, alte spesso fino a tre piani, col piano inferiore abbellito da uno svelto porticato: solo di tanto in tanto si adoperava il granito come materiali di costruzione. Il proprietario, appassionato per i fiori, ne accresceva la comodità con giardini chiusi da muri, provvisti di alberi rigogliosi e di piante ornamentali importate dall'estero. Nelle case signorili più grandi, per lo più a un solo piano come nel regno antico o con una specie di balcone nella parte superiore, le stanze da pranzo e le camere nonché le cucine, dispense e ripostigli erano raggruppate intorno ad uno o più cortili.

Le pitture tombali ci fanno vedere benissimo l'arredamento di tali costruzioni. Oltre agli ornamenti di colonne, stuoie e tappeti, attestati già nel regno antico, vediamo mobili di ogni sorta: cavalletti a mo' di tavole, sedie e sgabelli in parte lavorate molto artisticamente in ebano e avorio e riccamente intagliate, arredi da bagno e da cucina, bacili, focolari di argilla e forni; accanto ai quali nei palazzi più grandi si trovano anche impianti speciali per lavare e imbiancare.

L'arte procedette soprattutto per la via naturalistica, seguita nel tempo di Amenophis IV persino per monumenti pubblici, con notevole progresso nella tecnica della composizione. La plastica, che lavorava la pietra e il legno, offre con le sue riproduzioni colossali di figure di dei e di sovrani, accanto a molti prodotti artigiani, opere di alto valore artistico e raggiunge inoltre nel manipolazione del materiale duro un'abilità e una finezza finora insuperate.
Non è ancora abbastanza chiarito quanto dell'arte straniera abbiano approfittato gli scultori della famosa Sfinge scoperta a Tanis, nell'estremo nord-est dell'Egitto. È notevole che alle scuole di pittori, con le quali ci capita di far conoscenza, appartenessero artisti reclutati fra i membri di famiglie cospicue.

Anche l'architettura si svolse con libertà e vivacità. I lavori in oro, le armi e i gioielli del regno medio e nuovo sono di mirabile bellezza. Fra i più bei ritrovamenti de genere, vanno ricordati: una barca dei morti, risalente all'età degli Hyksos, in oro, poggiante su di un carro in legno con ruote di bronzo, con remiganti in argento; un pugnale ornato di lapislazzuli, carniola e felspato, con lama tripartita lavorata in oro e bronzo gettato con intarsi d'argento; una scure con manico in legno di cedro intagliato e lama di bronzo dorato; e un amuleto d'oro in forma di tempietto, le cui figure (il Faraone e due dei) sono lavorate in smalto e pietra colorata e incorniciate d'oro.

Anche l'arte di soffiare il vetro comincia col regno medio; e gli abili doratori erano ricercati non meno degli artisti lavoranti l'oro massiccio. Degli altri mestieri ricorderemo solo la lavorazione del cuoio, rinnovata da quando si introdussero le calzature, sandali all'inizio e poi scarpe vere e proprie; l'uso a poco a poco affermatosi del telaio fisso e il traffico all'ingrosso del papiro, che fin nell'età più tarda formava uno dei più preziosi articoli d'esportazione.
Sono invece di importazioni straniera l'arte del carraio e quella di allevatore di cavalli .

Sappiamo anche che durante il regno nuovo si beveva birra forestiera, dell'Asia minore: sulle mense dei ricchi compariva pane di frumento importato dai Semiti, vini stranieri e fichi.
Solo nel regno nuovo cambiò notevolmente la foggia delle vesti, ad esclusione di quelle dei sacerdoti. Oltre alle già ricordate calzature, i due sessi presero a coprire anche la parte superiore del corpo. Per gli uomini bastava, a parte le uniformi di gala, oltre al grembiale doppio variamente modificato, una camicia corta fissata alla cintura, sulla quale talvolta si gettava un mantello. Le donne portavano una veste attillata e sopra ad essa un mantello dagli orli ricamati, l'una e l'altro di lino, e propriamente, in contrasto con la vecchia moda in nero, di lino bianco; biancheria intima, fra l'altro piuttosto ancora grossolana, si trovano solo verso la fine del XII secolo a.C..

Anche la moda delle parrucche subì durante il regno nuovo diverse aspetto, finché - almeno per le donne - durante la XX dinastie ritornò all'antica foggia. Quanto alla bellezza del corpo, le signore eleganti adoperavano unguenti preziosi e profumi preparati anche da piante forestiere.
Perfino ai vecchi strumenti musicali - flauto, arpa grande e liuto - se ne aggiunse uno straniero, evidentemente semitico, il cosiddetto trigonon, piccola arpa a tre corde, poi largamente diffusa nelle più svariati modelli.

Una figurazione tombale della XVIII dinastia ci presenta chiaramente la disposizione dell' harem. La poligamia, non rara già nel regno medio presso i sovrani e non vietata nemmeno ai privati e conservatasi sporadicamente fino ai giorni nostri, si spiega per lo più per motivi politici o per ragioni di sperate eredità. Anche il matrimonio tra fratello sorella era lecito nelle famiglie reali, che ne trovavano un esempio divino nel mito di Osiride (ricordato nel precedente capitolo).

L'andamento della storia esterna ci mostra inevitabile una rilassatezza del governo centrale dei Faraoni, per la quale venne a spostarsi anche l'importanza delle singole classi della burocrazia. Col nuovo regno, uscito rafforzato dalle aspre lotte, ebbe fine la potenza effettiva dei monarchi; passando al primo posto, insieme ai funzionari regi ed al sacerdozio, quella dell'esercito mercenario, ora per buona parte reclutato nelle vicine regioni confinarie del regno: l'Egitto diventa uno Stato militare.
La posizione influentissima allora rivestita dagli alti ufficiali risulta nel modo più evidente dalle autobiografie di diversi generali, come un Amosis ed un Amenemhab, che si compiacciono nel vantare l'«oro» ad essi conferito dal re come ripetuto premio ad atti di valore.

Nella letteratura del regno medio e nuovo troviamo prima di tutto varie descrizioni di avventure di viaggio, in uno stile non senza poesia, specialmente nei discorsi dal colorito retorico che vi sono inseriti. Come modelli di tal genere letterario valgano le vicende dei naufraghi gettati sopra un'isola abitata da serpenti, o quelle del principe Sinuhe esiliato in Palestina, nonché la curiosa «storia del contadino eloquente».
Il regno nuovo ritorna poi alle semplici novelle popolari, quali trovammo già nel regno antico; muovendo di preferenza da antichi avvenimenti storici, come l'inizio delle lotte contro la signoria semitica o le contese per la successione al trono. Né si lascia intentata la combinazione e fusione di elementi in origine indipendenti, un processo generalmente noto anche più tardi nell'arabo Mille e una notte.
Come esempio classico di tali aggregati novellistici possiamo citare la celebre storia dei due fratelli Anubis e Bata, che in una parte é stata paragonata, con qualche fantasia, alla leggenda di Potiphar. Ci sono conservati anche prodotti del gusto letterario di allora, riboccanti di spirito prettamente egiziano, nei quali non di rado la forma domina sulla sostanza: un fiore di tale arte poetica é rappresentato dalla lunga epistola polemico-letteraria del cosiddetto primo papiro Anastasi. Numerosi testi scolastici con finto scambio di lettere fra maestro e scolaro hanno infine speciale interesse per riconoscere la sopravvivenza e lo svolgimento letterario dell'antica gnomica; mentre molte perle di vera poesia risplendono nelle grandi raccolte di canti, che abbiamo visto cominciare a formarsi durante il regno antico.

Un monumento unico di poesia narrativa di una certa estensione ci è conservato nel carme sulla battaglia di Qadesh fra Ramses II e gli Hittiti: notevole per abilità formale nell'uso artistico del parallelismo, del resto adoperato già in età molto antica.
Anche la letteratura religiosa é riccamente rappresentata: prima di tutto da una quantità di inni e canti, che nel regno nuovo - in contrasto con la poesia anteriore composta nell'antica lingua sacra - per la più vivace e fresca fantasia s'innalzano sul formalismo della dizione mitologica ed esprimono pensieri originali e popolari nella lingua comune del loro tempo. Ed inoltre specialmente dalla collezione di sentenze, di mole molto varia, che si ponevano nelle tombe, tra le fasce delle mummie e che oggi comprendiamo sotto il nome complessivo di Libro dei morti.

Queste sentenze, in cui concezioni mitologiche antichissime si confondono con altre di più tarda età e che hanno subìto profondamente l'influenza della sempre più diffusa leggenda di Osiride, servivano per lo più come formule magiche a pro dei morti, per i quali si recitavano. Erano considerati come testi sacri: il contesto misterioso e in parte inintelligibile alle età più tarde era interrotto da figurazioni mitologiche, che ne completavano nello stesso tempo la interpretazione. A questa letteratura religiosa appartengono anche le speculazioni di dotti preti sul viaggio del dio del sole durante le ore notturne, conservate da raccolte della XVIII dinastia sotto il titolo Amdual, ossia «Ciò che v'è nel mondo sotterraneo».

Lo sviluppo di questa letteratura stava in rapporto con quello della religione stessa. Al dio del sole Re, cospicuo fra i numerosissimi dei egiziani nel regno antico, specialmente sotto la V dinastia, subentra ora un rivale venuto in altissimo onore coll'affermarsi della politica di Tebe, metropoli del culto: il dio Amon [Ammone], cui già nel regno medio era stato innalzato un gran tempio a Faijûm; e accanto a lui la sua consorte Mut.
Rafforzatasi la signoria egiziana dopo la cacciata degli Hyksos, questo dio di stato detto ormai Amon-Re, cui si attribuiva la strepitosa vittoria su gli invasori stranieri, divenne la divinità più alta, di gran lunga superiore a tutti gli altri dei.

A lui una dinastia riconoscente e devota innalzò i giganteschi templi di Tebe, che per grandiosità architettonica e finezza ornamentale sorpassano tutto ciò che l'arte edificatrice egiziana aveva fino allora prodotto. Qui appunto si verifica il fatto di singoli tratti, distintivi e peculiarità, dapprima connessi con determinate personificazioni di forze divine, limitate nel tempo e nello spazio; poi a poco a poco staccati da esse, e congiunti con altre concezioni di divinità, di modo che è da riconoscere come fattore principale il crescere e il diffondersi di miti. Specialmente il mito di Osiris ci mette davanti agli occhi questo sviluppo.
Osiris stesso si confuse con Sokaris, l'antico dio dei morti a testa di sparviero, mentre la divinità locale di Koptos, l'antico dio dei deserti Min, veniva assorbito da Horus, figlio di Osiride. Assai più di quella di Min, si allargò la potenza di Amon, in origine figura a lui parallela, col quale può forse confrontarsi il dio babilonese Marduk nell'età di Chammurabi.

Amon congiunse in sé non solo le qualità e peculiarità di Min stesso, ma anche quelle dell'antico dio solare Re, che a sua volta fu riunito al dio acquatico Sobk ed al creatore Chnum. E nella stessa maniera il suo correlativo femminile, la dea. Mut originariamente a testa di avvoltoio, si confuse con la originaria dea-gatta Bastet o Bubastis e con la originaria dea-leonessa Sechmet.

Solo per breve tempo, alcuni decenni, il culto di Ammone ebbe a soffrire una violenta oppressione durante la XVIII dinastia ; ma risorse intatto, e più radioso ancora, dalle ceneri dell'incendio riformista acceso dal fanatico Amenophis IV (cfr. sotto). Dinanzi a lui impallidiscono tutti gli altri culti di divinità maggiori, di Ptah a Menfi o di Re sopravvivente nella sua antica forma.

Eppure la religione egiziana rimase, fin nella sua età più tarda, politeistica: nei bassi strati della popolazione continuò ad esserci un terreno propizio al germogliare di nuove concezioni e forme di forze divine, così nazionali, come importate dall'Asia; fino a che gli elementi greci distrussero per sempre ogni peculiarità egiziana.

Come fattori principali dell'importantissimo culto dei morti nel regno nuovo son da considerarsi: la identificazione, a poco a poco affermatasi, delle anime pie con Osiride e la fede nella loro resurrezione ad una reale nuova vita; la loro dimora nelle stelle, nel soggiorno dei beati nelle isole dell'oceano celeste, dove le conduce la barca di un nocchiero ovvero di uccelli divini; e finalmente il loro esame morale compiuto da 42 giudici divini prima che entrino nel regno di Osiris, posto nell'occidente.

Se tali concezioni non condussero ad un culto formale degli antenati, costituirono però le basi per cui si ponevano nelle tombe svariati oggetti per cibo e bevande, per il servizio e lo svago dei trapassati le basi delle figure delle Ushebti, che lavoravano per essi nel mondo di là: degli scarabei-cuori, da esaminarsi dai giudici al posto del loro vero cuore; dei differenti scongiuri, amuleti e segni sacri, che dovevano preservarli da ogni sciagura: dei complicati riti dei sacrifici e delle feste funebri regolari.
Ma soprattutto questa dottrina condusse alla notissima mummificazione delle salme, nella quale gli Egiziani, fino alla età tolemaica, riuscirono maestri insuperati.

Così la cultura ha un robusto svolgimento nel suolo egiziano, dalle linee semplici della civiltà primitiva fino al quadro dai colori smaglianti dello Stato con i suoi ordinamenti, con le sue pompe, con la raffinatezza della vita e dei costumi.
Nell'insieme la civiltà si svolge in linea retta. Certamente l'invasione degli Hyksos e varie debolezze interne che dovette superare nel corso dei secoli, non potevano non ostacolare la generale prosperità del paese; pure la signoria straniera non valse a frenare quel potente flutto di cultura, che al pari della sua fertile vena d'acqua, inondava la valle del Nilo.

All'incontro le poche notizie conservateci di questo tempo mostrano che i cupidi barbari asiatici, dopo le prime violenze e saccheggi, seppero adattarsi fino a un certo punto alla cultura preesistente. Non solo si appropriarono dei titoli dal lato politico, dei re egiziani; ma anche le forme di culto, in quanto parevano conciliabili con le loro, trovarono nei conquistatori protettori volenterosi. Un'iscrizione ci parla persino della costruzione d'un tempio per opera d'un principe hyksos, sicché anche l'arte antica continuò a vivere sotto la nuova signoria.

Dovremo pertanto senz'altro ammettere che l'Asia occidentale abbia approfittato dei benefici della cultura egiziana, e neppure questa é stata guastata da questi primi invasori stranieri.
È però anche vero che le colonie sulle coste del Mediterraneo che troviamo verso la metà del secondo millennio accennano ad una non disprezzabile civiltà, oggi compresa sotto il nome complessivo di cultura «cananea» od anche «fenicia».

NOTA: ( Canaan - ebr. K'na'an, lat. Chanaan). - Nella Genesi (X, 16-19) Canaan è detto figlio primogenito di Cam e padre di numerosi figli, i quali alla loro volta sono progenitori di popolazioni abitanti il territorio che fu più tardi chiamato Palestina e, di là dai confini di questa, quello della costa fenicia: Sidonî, Hittiti, lebusei, Amorrei, Evei, Arcei, Sinei, Aradî, Samarei, Amatei. I loro confini si estendevano « da Sidone verso Gerara fino a Gaza, verso Sodoma, Gomorra, Adama, Seboim fino a Lesa». L'esegesi così geografica come etnografica e storica di questo passo della « Tavola dei popoli » presenta non poche difficoltà, sia perché taluni dei popoli e delle località che vi sono menzionati non sono pienamente identificabili, sia, soprattutto, perché in esso popolazioni sicuramente non semitiche, come gli Hittiti, sono accomunate nella discendenza da Canaan con altre, come i Fenici (di cui Sidonî è qui, come spesso e come anche in Omero, sinonimo), le quali sembrano appartenere alla stirpe semitica ed essere strettamente congiunte con gli Ebrei.
Altrove, nella Bibbia, il termine Canaan ha valore geografico e designa all'incirca il territorio che divenne più tardi la sede nazionale degli Ebrei e fu detto da essi Terra d'Israele, ossia la Palestina, rimanendo tuttavia esclusi da Canaan i distretti palestinesi transgiordanici (v. specialmente Numeri, XXV, io, 14, Giosuè, XXII, 9-II, 32). Tale esso compare nelle storie dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, che vi pongono le loro sedi di pastori nomadi; tale nel racconto dell'esodo degli Ebrei dall'Egitto e dei loro ingresso nella Terra promessa, la quale coincide appunto così Canaan. E tale accezione geografica trova conferma nelle trascrizioni egiziana (K'-n'-n') e cuneiforme (Kinahni, Kinahna, Kinahhi: nei documenti di Tell el-'Amârnah) che si riferiscono esclusivamente al territorio palestinese. Sicché, secondo alcuni, dovrebbe ammettersi che la genealogia della «Tavola dei popoli» non rappresenti se non il raggruppamento, sotto un antenato fittizio, dei vari popoli, diversi di origine e provenienza, che si stanziarono successivamente in Palestina prima degli Ebrei; e Cancan, qualunque possa essere l'etimologia del vocabolo (quella dalla radice ebraica kn' « esser basso », prima comunemente ammessa, oggi è abbandonata, e si pensa piuttosto a un'origine presemitica), avrebbe solo significato territoriale.
Ma, d'altra parte. la stessa Bibbia contiene numerosi passi nei quali i Cananei compaiono soltanto come uno dei molti popoli della Palestina preisraelitica e sono posti sullo stesso piano di questi; mentre in altri passi l'intera popolazione preisraelitica è designata col termine generico Amorrei. E infine risulta, non solo dalla
Bibbia (v. specialmente Giudici, I, 32; Isaia, XXIII, 6; Ezechiele, XVII, 4; Osea. XII, 8; Sofonia, I, II; Zaccaria, XIV, 21; Abdia, 20; Proverbi, XXXI, 24; Giobbe, XL, 30), ma anche da fonti indigene, che i Fenici davano a sé stessi il nome di Cananei: così in iscrizioni di monete di Laodicea dell'età ellenistica; nella notizia di Filone di Biblo (presso Eusebio, Praep. Ev., I, 10, 39), secondo cui Xvà sarebbe l'eroe eponimo dei Fenici; in quella risalente a Ecateo di Mileto (presso Stefano di Bisanzio ed Erodiano), secondo cui Xva sarebbe il nome antico della Fenicia; in quella di Suida, che dà Xavavaiot come sinonimo di Fenici; finalmente un famoso passo di S. Agostino (Espos. epist. ad Rom., 13) attesta che ancora nel sec. IV d. C. la popolazione punica dell'Africa romana s'intitolava Chanani. Da ciò si è indotti a credere che i Cananei rappresentino uno dei numerosi elementi etnici penetrati in epoca preistorica nella Palestina, regione di millenarie migrazioni, il quale, sia per la sua maggiore importanza rispetto agli altri, sia per contatti più stretti da esso avuti con gli Ebrei, avrebbe finito col designare a potiori la popolazione non ebraica della Palestina stessa; e anzi alcuni studiosi, osservando come nel Pentateuco l'alternarsi del termine Cananei con quello di Amorrei corrisponda alla divisione delle fonti jahvista ed elohista, quale è ammessa dalla teoria documentaria, e come questa teoria assegni alla fonte jahvista un'origine meridionale e a quella elohista un'origine settentrionale, hanno supposto che i Cananei abbiano costituito una migrazione semitica che, provenendo dal Sud, avrebbe occupato la parte meridionale della Palestina (press'a poco il territorio della Giudea), mentre gli Amorrei (sicuramente identificabili con gli Amurru della storia babilonese; AMORITI), sarebbero penetrati dalle regioni desertiche dell'Est, stanziandosi nella parte settentrionale (essi sono infatti attestati anche nella Transgiordania). I Cananei, la cui penetrazione in Palestina avrebbe preceduto di alcuni secoli quella degli Amorrei (sicuramente databile, in base a sincronismi babilonesi, dal principio del z° millennio a. C.), rappresenterebbero la prima migrazione semitica in Palestina e si sarebbero spinti fino alla costa, comprendendo quindi anche i Fenici, i quali ne costituirebbero l'elemento meno alterato da migrazioni posteriori. Non manca tuttavia chi nega il semitismo dei Cananei e ravvisa in essi l'avanzo di popolazioni che abitarono la Palestina fin dall'età paleolitica, riservando il carattere di Semiti ai soli Amorrei.
Da quanto precede risulta che il problema della pertinenza etnica dei Cananei è ancora lontano dalla soluzione. Tuttavia nell'uso degli studiosi delle antichità palestinesi si suole designare genericamente col nome di Cananei tutto l'insieme dei popoli che hanno abitato la Palestina prima che questa fosse conquistata dagli Israeliti nomadi provenienti dal deserto, e che hanno lasciato copiosi avanzi della loro civiltà, messi in luce dagli scavi praticati da circa un cinquantennio. Da tali scavi si desume che la Palestina, già abitata, come si è visto, fin dalle prime età preistoriche, ebbe un notevole sviluppo di monumenti megalitici (dolmen, menhir, recinti circolari) tra la fine del 4° e il principio del 3° millennio a. C.
A questa antichissima civiltà ne succede una seconda, nella quale i più ravvisano il primo strato di popolazione semitica, e sulla quale comincia assai per tempo a farsi sentire l'influsso egiziano. Fin dalla IV dinastia si ha notizia di spedizioni egiziane nel territorio cananeo, e le relazioni fra le due regioni raggiungono una particolare intensità sotto la XII dinastia. Al tempo stesso, il formarsi del grande impero babilonese sotto la dinastia di Hammurabi favorisce l'espansione della civiltà accadica anche in direzione della Palestina, sicché questo paese presenta, fin da tempi remoti, quel l'aspetto di civiltà composita che gli rimane caratteristico durante tutto lo sviluppo ulteriore della sua storia. Interrotte dall'invasione degli Hittiti (c. 1800 a. C.), i quali rimasero in Palestina parecchi secoli dopo la conquista israelitica, e da quella degli Hyksos in Egitto (questa stirpe di nomadi quasi certamente semitici dominò anche parte della Palestina), le relazioni della civiltà cananea con l'Egitto e con la Mesopotamia ripresero nel sec. XVI, a partire dalla quale epoca si riscontrano in Palestina notevoli aggregati cittadini (i più importanti tra quelli noti finora sono Lakish, Gezer, Ta'annak, Gerico, Megiddo, Beth Shan) con solide cinte fortificare e munite di torri, con acropoli su cui sono costruite residenze regali e santuari, con cospicui avanzi di glittica e di ceramica. E caratteristico il fatto che, benché la supremazia politica appartenga all'Egitto (Tuthmosi III riconquista Canaan verso il 1470), gl'influssi culturali babilonesi si alternano con quelli egiziani.
Ma l'epoca in cui la civiltà cananea è meglio nota è quella cosiddetta di Tell el-'Amàrnah (sec. XIV): dai documenti cuneiformi rinvenuti in quella località egiziana si è in grado di conoscere con precisione lo stato politico del paese, diviso in piccoli principati indigeni sottomessi alla sovranità del faraone, col quale essi corrispondono in accadico, la lingua diplomatica del tempo. Tra i molteplici dati forniti dalle lettere di Tell el-'Amàrnah sono specialmente notevoli quelli che si riferiscono alle condizioni di sicurezza del paese, minacciato dalle incursioni degli Hittiti e dei nomadi semitici provenienti dal deserto orientale, tra i quali devono porsi senza dubbio gli Ebrei (secondo alcuni da ravvisarsi nei Khabiru di cui è spesso fatta menzione nelle lettere), che appunto in quel tempo si accingevano alla conquista della Terra promessa. Le lettere di Tell el-'Amàrnah contengono anche preziose informazioni sulla lingua del paese attraverso un certo numero di glosse apposte, in caratteri cuneiformi, a vocaboli accadici: da esse risulta che il cananeo del sec. XIV a. C. era estremamente vicino all'ebraico e al fenicio, il che spiega l'espressione « lingua di Canaan » in Isaia, XIX, 18, per indicare l'ebraico.
In quest'epoca all'influsso egiziano e a quello babilonese si accompagna, specialmente nella ceramica, quello della civiltà egea, che si esercita, oltre che con l'importazione dei prodotti di quella civiltà, attraverso l'occupazione della costa cananea da parte dei Filistei (siano essi di origine cretese oppure asianica), i quali certamente, indebolendo la compagine degli stati cananei, facilitarono la penetrazione degli Ebrei da oriente. La conquista operata da questi (narrata nel libro di Giosuè e nel primo capitolo di quello dei Giudici) non avviene se non gradualmente, e, se ridusse i Cananei nello stato di soggezione politica ed economica che i testi biblici descrivono, non li sterminò né distrusse la loro civiltà; anzi dall'assorbimento di essa da parte dei conquistatori risultò, in seguito, il carattere specifico della nazione ebraica nell'epoca del suo pieno sviluppo politico e culturale. Dalla Bibbia sappiamo che comunità cananee persistettero fino all'età della monarchia (v. II Re [Samuele]. XIV, 7; III [I] Re, IX, 16, e specialmente II Re [Samuele], XXI. benché vi sia usato il termine Amorrei): esse furono considerate negli ambienti religiosi puramente ebraici quali focolari d'idolatria e di costumi contrari alla legge divina, donde ;la prescrizione del Levitico, XVIII, 6: "non fate come si fa nella terra di Cancan"; e analogamente si spiega l'insistenza con cui nella Genesi è ricordato che i patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe non vollero sposare le figlie dei Cananei. E, in realtà, tutto o quasi tutto ciò che nella Bibbia è vietato e condannato come usanza idolatrica (e perciò appunto dovette essere largamente praticato dal popolo) è da riportarsi all'adozione di credenze e di pratiche cananee da parte degli Ebrei: il culto dei luoghi alti; l'adorazione del vitello, di Astarte, delle asherôth; i sacrifici umani. Di tutte queste pratiche i ritrovamenti archeologici hanno fornito abbondante documentazione. (così alla voce Canaan nell'Enciclopedia Italiana Treccani ).

Dove siano da ricercarne le radici di questi "cupidi barbari asiatici" non è chiaro finora. Certe antichità di Micene, farebbero pensare ad una connessione con la cultura egea: ipotesi che ci permetterebbe di spiegare anche la civiltà dei Filistei, i quali - con i popoli affini - sembrano dipendere dalla cultura cretese.
La civiltà cosiddetta «cananea» dovrebbe allora guardarsi come una combinazione di elementi indigeni ed egeo-fenici. Ma intanto questa civiltà non si può nettamente staccare da quella della vicina regione montuosa siriaca, che si prolunga verso Oriente con la grande steppa toccante le rive dell' Eufrate e che, stando alle notizie storiche più antiche, era abitata da stirpi aramee.

Che l'antica cultura babilonese abbia esercitato un'influenza diretta su tutta questa regione appare probabilissimo già dalla posizione geografica ed è a sufficienza attestato dalle iscrizioni cuneiformi, nelle quali tutto il «paese d'occidente» è chiamato col nome di "Amurru". Pare quasi certo che già Gudea traesse i cedri dalle montagne d'occidente (Libano) e se dobbiamo credere alle iscrizioni di Chammurabi, già ai suoi tempi una parte di questa regione aveva riconosciuto la signoria babilonese e forse era stata amministrata per qualche tempo da un governatore babilonese.

Tanto più ovvia é l'azione reciproca fra la cultura cananea ed aramea, in quanto i dialetti finora noti dei due popoli erano in stretta parentela linguistica e la comunità di razza doveva favorire la fusione politica. In ogni caso la terra degli Amurru doveva costituire, non solo geograficamente ma anche riguardo alla cultura, il tratto d'unione fra la Babilonia e l'Egitto.

Dalle scarse notizie disponibili dalle antiche fonti egiziane intorno a questa contrada, veniamo solo a sapere che fra le schiave dei Faraoni si trovavano ragazze sirie, che l'apprezzatissimo legname da costruzione della Siria si introduceva sulle rive del Nilo per la via della Fenicia e che in Egitto si importavano pure alcuni prodotti naturali, come il vino, celebrato fin nell'antichità classica, e il pane della Siria.
Anche la moda siriaca ci é conservata nei monumenti egiziani. Gli Asiatici vi si raffigurano chiomati e barbuti, in lunghe attillate vesti scure, con ampie maniche, con ricami variopinti. Ma forse la cosa più importante introdotta dai Siri in Egitto, oltre all'argento stimato il più prezioso dei metalli, fu l'uso del cocchio e del cavallo.

La lunga influenza delle fortificazioni asiatiche é pure testimoniata da numerose figurazioni, del regno nuovo, di grandi castelli merlati, la cui espugnazione i vincitori egiziani perpetuarono sui loro monumenti.
Il quadro viene inoltre in qualche modo completato dalla su ricordata storia di Sinuhe, della XII dinastia, la quale, pur badando agli ornamenti poetici ed alle aggiunte, dà tuttavia una descrizione fedele del «Retenu alto», che con ogni probabilità può essere identificato con la parte montuosa della Palestina. Il principe di questa contrada accolse amichevolmente Sinuhe fuggito dalla corte egiziana, mettendolo a capo di una tribù e concedendogli il possesso di terre.

In quella parte del suo paese che gli fece scegliere - dice il racconto di Sinuhe - «... ci sono fichi e viti, e più vino che acqua; abbonda di miele e di olio, e gli alberi portano ogni sorta di frutti. C'è là frumento ed orzo e greggi senza numero... Come cibo quotidiano avevo pane e vino, carne bollita e arrosto d'oca, oltre alla selvaggina del deserto cacciata e presa per me e a quella che mi portavano i miei cani».

Da quel racconto risulta anche che in quel tempo si erano stabilite regolari relazioni commerciali fra la Palestina e l'Egitto.
Scavi sistematici nell'«Amurru» furono intrapresi, nell'estate del 1903 e a cura della Deutsche Orient-Gesellschaft, un viaggio scientifico di ricognizione.
Dalle costruzioni sepolcrali e dai prodotti della ceramica finora scoperti in singoli luoghi non si possono, se non con estrema cautela, trarre conclusioni scientifiche; tanto più che riesce spesso impossibile distinguere i singoli strati, ricoperti come sono più volte da sovrapposizioni greco-romane, cristiano-bizantine e musulmane.

Dalla ispezione dei luoghi non appare nemmeno a quale età risalgano le relazioni dell'Egitto con l'antico porto di Byblos, che figura nel mito di Osiride, patria del culto di Adone e ricordata nel regno nuovo come emporio di legname da costruzione. Dagli antichi edifici fenici di Sidone si sono ritrovati finora solo avanzi delle fortificazioni del porto, e tali sono probabilmente anche le poche rovine presso Tiro.
Dell'antica Gerico sono state messe allo scoperto, a inizio secolo, solo le ottime fortificazioni ed una parte delle case. Si spera ai ricchi reperti delle rovine di Chirbet-harra, forse il Hazor della Bibbia e citata nei cuneiformi; e si spera pure in Tell el-Qâdi presso le sorgenti del Giordano e specialmente Tell ed-g'esari, il Geser della Bibbia, esplorato a inizio secolo XX, nel quale si trovarono oltre a cocci, anfore e vasi anche armi, gioielli e statue di dei.

Come più importante miniera di resti dell'antica civiltà cananea é manifestamente da ritenersi nteressante la pianura di Jesreel fra la Samaria e la Galilea, già in antico attraversata da varie strade maestre e interrotta, del pari che la pianura del Giordano, da numerose colline artificiali.
Senza contare la capitale Thaanach (vedi sotto), dagli scavi del «Deutscher Palàstina-Verein» in Tell el-Mutesellim, il Megiddo della Bibbia, presso il confine meridionale di questa pianura, si sono scoperte, oltre ad antiche fortezze ed a varie necropoli, una quantità di pregevoli ritrovamenti, come pietre da macina (massebòth), un idolo in pietra calcarea, diversi cilindri a sigillo, in parte con curiosi disegni, e brocche nelle quali si conservavano scheletri di bambini.

Ma tali zelanti ricerche intorno all'antica civiltà cananea non avrebbero offerto solide basi cronologiche se un caso fortunato, presentatosi due decenni prima, non avesse d'un tratto rischiarato le tenebre, fino allora impenetrabili, gravanti sulla antichissima storia cananea: la scoperta delle tavolette di argilla di Tell-el-Amarna (Et-Till), campo di rovine a mezza strada fra Menfi e Tebe, a circa due ore dalla odierna linea ferroviaria.
La storia di questa meravigliosa scoperta ci conduce di nuovo, e per l'ultima volta, all' Egitto. Amenophis IV, nell'assumere il governo del regno reso potenza universale dal suo predecessore, aveva stimato dannosa e rovinosa la esagerata preferenza accordata al dio nazionale Ammone in confronto a tutti gli altri dei. Gli sembrava specialmente ingiusto che non avesse più che un'importanza secondaria il culto dell'antico dio solare Re-Har-achte; questi doveva ormai essere venerato come unica onnipotente divinità; non solo come reggitore divino delle sorti di Egitto, ma come signore di tutti i paesi soggetti al Faraone, così degli Asiatici come degli abitanti della Nubia e del deserto libico.

Così egli impose il nuovo culto con ogni animosità contro quello di Ammone, col fanatismo del riformatore. Nuovi templi sorsero in Heliopolis, a Tebe e a Menfi e persino nel sud, nel territorio dell'antica Gem-Aton. La figura del dio a testa di sparviero fu sostituita dalla immagine del disco solare, i cui raggi divini finivano nelle mani di ognuno. Si proibì di nominare l'odiato Ammone e si cancellarono dappertutto, nei templi e sulle tombe, i geroglifici del suo nome. Amenophis stesso, nel cui nome (= «Amon e soddisfatto») era contenuto quello del dio, volle esser chiamato «Splendore del disco solare» (Ech-en-Aton); e siccome Tebe gli avrebbe continuamente ricordato l'antico culto, trasportò la sua residenza nella nuova capitale, da lui costruita e consacrata al dio del sole, le rovine della quale ora si mettono allo scoperto a Tell-el-Amarna.

Là sorse un magnifico tempio del sole: l'arte, col favore del sovrano, si sviluppò in un modo nuovo e libero; si introdussero cerimonie per la nuova fede, e si innalzarono inni al sole. Il più famoso di questi dà una chiara idea del culto riformato e comincia così, secondo la traduzione più recente:
« Bello tu appari sull'orizzonte del cielo, o vivente disco solare, tu che primo vivesti. Tu sorgi sull'orizzonte orientale e riempi ogni terra della tua bellezza. Tu sei bello e grande e scintillante e t'innalzi sopra ogni terra. I tuoi raggi abbracciano tutte le contrade che tu hai creato. Tu sei Re..., tu le assoggetti col tuo amore. Tu sei lontano, ma i tuoi raggi sono sulla terra... ».

Pochi decenni soltanto fu seguìta e durò questa nuova dottrina. Già poco dopo la morte di Amenophis i principi, succedutisi sul trono a non lunghi intervalli, non poterono mantenere la nuova fede contro la potente opposizione dei precedenti sacerdoti: la capitale fu abbandonata, la corte ritrasferita a Tebe, e il culto di Amon-Re tornò a risplendere più del sole, con ancor maggior luce, mentre quello di Aton decadeva rapidamente, per scomparire, di lì a poco, del tutto.

Anche a voler considerare questo monoteismo egiziano, divampato come una meteora, come un notevole culmine di antiche concezioni religiose dell'Oriente, resta sempre di grandissima importanza per lo studio dell'antichità il fortunato fatto concomitante di questa riforma: che cioè Echenaton facesse conservare nella sua reggia anche la preziosa corrispondenza con i principi asiatici, assoggettati da lui e dai suoi antenati e che esprimevano per iscritto i loro sentimenti di lealtà verso i nuovi signori, i loro propositi e desideri, le gioie e i dolori.
Quando Tell-el-Amarna fu abbandonata dalla corte egiziana, questo epistolario rimase, inosservato, negli edifici della capitale di Amenophis, e una buona sorte lo conservò per 33 secoli ai posteri riconoscenti. Pareva una favola la notizia sparsasi in Europa nel 1880: si erano scoperte in Egitto tavolette in cuneiformi di re kassiti di Babilonia, i cui nomi e genealogie si conoscevano fin allora soltanto da pochi mattoni cotti: dalle iscrizioni decifrate di quei cocci d'argilla furono rischiarate le tenebre che fino allora si addensavano sulle origini di città quali Gerusalemme.

Ma non solo alla storia egiziana ne venne nuova luce; quelle lettere ci mostrano chiaro quale posizione occupasse, rispetto alla cultura, la regione degli Amurru. Inoltre l'uso della scrittura cuneiforme in tutta l'Asia occidentale verso la metà del secondo millennio dimostra che la civiltà ha agito sui paesi vicini occidentali più, e in ogni caso prima, della egiziana. La maggior parte delle lettere é scritta non solo in cuneiformi, ma anche in lingua assiro-babilonese; questa era dunque la lingua diplomatica di tutta l'Asia civile di allora. In scrittura ieratica e in lingua egiziana sono annotati solo gli arrivi delle lettere alla corte del Faraone.

E non solo lettere giungevano, durante la XVIII dinastia, dall'Asia occidentale alla valle del Nilo: un paio di tavolette contengono anche leggende babilonesi, da servire certamente di studio ai sacerdoti della corte egiziana. Sopra uno di questi manoscritti si sono trovati perfino circoletti in rosso, appostivi da un dotto egiziano con lo scopo evidente di segnare la divisione delle singole parole; e lo scopo didattico risulta pure evidente dalla minutissima e indubbia annotazione nei segni sillabici più facili.
Anche le lettere di risposta spedite in Asia dai sovrani d'Egitto erano di tanto in tanto redatte in lingua e scrittura babilonese: ce ne dà un esempio la lettera scritta su limo del Nilo impastato, del re Amenophis III al re kassita Kadashmancharbi I.

Ma queste epistole ci hanno conservato un'altra curiosità linguistica. Come si sapeva da documenti più tardi di fonte cananea, la lingua di quell'antica popolazione ha stretta parentela, come lingua semitica, col babilonese, pur differendone all'incirca nella misura dell'italiano dal francese.
Ora, per evitare che nelle importanti comunicazioni contenute nelle missive ai re egiziani il pensiero dei principi non riuscisse alterato nella lingua straniera o altri errori vi si insinuassero, gli scrivani apponevano di tanto in tanto alle parole babilonesi delle glosse, scritte in cuneiformi e traducenti quelle stesse parole nella loro lingua materna (come del resto facciamo noi oggi, col latino, il greco, l'inglese, il francese o tedesco)

Noi conosciamo ora circa molte dozzine di tali glosse, i più antichi resti linguistici del popolo cananeo; che, completate da altre forme e parole sparse nelle epistole, ci permettono per la prima volta conclusioni sicure intorno al vocalismo originario di questa lingua.

Il tenore di queste lettere non lascia il minimo dubbio che esse (ad eccezione di quell'unica di Amenophis III) fossero scritte nella lingua Cananea e di là inviate in Egitto. È poi naturale che si desiderasse di trovare anche sul suolo stesso dell'antica Canaan tali documenti: desiderio compiutosi allorquando l'americano Bliss scoprì a Tell Hesy, probabilmente dov'era la città di Lachis nota dal secondo libro dei Re e dalle epigrafi di Sanherib, una iscrizione babilonese del tutto simile alle tavole di Amarna.

Ancor più fecondi riuscirono a questo riguardo gli scavi intrapresi dal prof. Sellin a Tell Taannek, il Thaanach della Bibbia, nella pianura di Jesreel. Essi portarono al ritrovamento di colonne sacrificali, di immagini di Astarte in argilla o in bronzo, di un antico cilindro a sigillo con iscrizioni cuneiformi insieme ad annotazioni in geroglifici, di una lapide e di un'altare portatile di argilla, ornato di bassorilievi.
Più importante ancora di questi ritrovamenti singoli fu la scoperta di un antico archivio, quattro lettere del quale spedite da tre persone differenti ad un principe cananeo ed elenchi di nomi mostrano ancora una volta lo stile del celebre epistolario scambiato con l'Egitto.

Senza dubbio dunque le persone colte si servivano anche in Canaan, per la corrispondenza ufficiale, della scrittura e della lingua straniera babilonese, all'incirca come i Giapponesi dal VII secolo in poi redigevano gli atti ufficiali e documenti legali in cinese, o in Germania i Carolingi adopravano il latino. Quanto l'Egitto assecondasse in tale pratica gli Asiatici, appare nel modo migliore dalla lettera già più volte citata, di Amenophis III al re babilonese Kadashmancharbi, che offre nello stesso tempo un saggio delle usanze della corte faraonica e dell'invio di principesse asiatiche al harem dell'onnipotente sovrano di Egitto. La lettera comincia così:
« A Kadashmancharbi re di Karduniash [nome di una provincia babilonese], mio fratello, (scrive) Nibburia [grafia babilonese per Amenophis IIII il gran re, il re di Egitto, tuo fratello. lo sto bene; possa tu pure star bene; e così la tua casa, il tuo harem, i tuoi figli, i tuoi dignitari, i tuoi cavalli, i tuoi carri di guerra, i tuoi paesi. Io sto bene; e stanno bene la mia casa, il mio harem, i miei figli, i miei dignitari, i miei cavalli, i miei carri da guerra, il mio esercito ed i miei paesi. - Io ho ben compreso il messaggio che tu mi hai inviato; diceva così : " Tu chiedi la mia figliola per il tuo harem; però la mia sorella, che mio padre ti ha data, é già laggiù da te, ma nessuno ora la ha più veduta (e può dire) se sia ancora viva ovvero già morta. Queste sono le parole che mi hai scritto nella tua lettera. Ma tu non hai mandato mai un messo che conoscesse la tua sorella per la relazione precedente e che potesse intrattenersi con lei ».

Più avanti Amenophis fa notare di aver presentato tutte le sue donne all'inviato del re babilonese, secondo il desiderio espresso da costui ; ma che la «sorella» in questione non era stata riconosciuta fra quelle. Non vi era bisogno del resto che la principessa desse espressamente un segno di vita, poiché la morte di lei non sarebbe stata certo tenuta nascosta, ecc. - Discussioni simili, dei reggenti babilonesi con i re egiziani intorno all'invio di fanciulle di sangue reale alla corte del Faraone formano spesso l'argomento principale delle lettere in cuneiformi e nello stesso tempo veniamo a sapere che, viceversa, principesse egiziane erano inviate a Babilonia.

Ci é conservata perfino una missiva spedita da una di queste signore altolocate alla corte egiziana, verosimilmente al Faraone suo padre, se pure il testo mutilo é interpretato a dovere. Del resto questi matrimoni fra le case regnanti dei due paesi non avvenivano quasi mai senza uno scambio di preziosi doni, i quali da parte della reggia egiziana consistevano di regola in oro. Di questo prezioso metallo esprimono più d'una volta vivo desiderio i re babilonesi Kadashmancharbi e Burnaburiash; e dello stesso argomento si occupa l'unica lettera di un re assiro, di quel Ashshuruballis già più volte ricordato.

Necessità di costruzioni e di lavori nei templi offrono spesso il pretesto di pregare il Faraone perché affretti l'invio dell'oro; né mancano ingenui e importuni lamenti sul valore basso o la scarsa quantità del metallo ricevuto. In una lettera Burnaburiash sollecita anche l'invio di animali imbalsamati. Veniamo a sapere che i Babilonesi donavano in cambio pezzi di lapislazzuli, letti, troni e predelle di legno prezioso, intarsiate d'avorio e d'oro, talvolta anche una collana di pietre preziose destinata alla nuora del re babilonese, e soprattutto carri da guerra e cavalli, specialmente pregiati dagli Egiziani che dovevano importarli dall'estero.

Due volte ci si presenta in queste lettere la terra di Canaan, sotto il nome di Kinachchu: in una Burnaburiash si lamenta che i suoi mercanti vengano angariati e derubati nel paese soggetto al dominio egiziano e chiede la punizione dei colpevoli; in un'altra ricorda al Faraone la lealtà del proprio padre, il re babilonese Kurigalzu, che aveva rifiutato di allearsi con i Cananei.

Ma la parte più interessante dell'epistolario può dirsi formata dalle sette lettere di Abdichida, governatore di Gerusalemme, al re d'Egitto, con la eloquente descrizione dei progressi dei Chabiri, cioè di quelle stirpi nomadi o seminomadi, nelle quali abbiamo ragione di riconoscere gli Ebrei o più tardi Israeliti. Una di queste lettere, ora conservate nel Museo di Berlino, comincia così:
«Al re, mio signore, Abdichiba tuo servo. Ai piedi del mio re mi prostro sette volte e (ancora) sette volte. Che cosa ho io fatto contro il mio signore? Mi hanno calunniato appo il mio signore : " Abdichiba ha tradito il re, il suo signore. Ma guarda: né mio padre né mia madre mi hanno messo in questo posto, ma il forte braccio del re mi ha fatto entrare nella mia casa paterna. Perché dovrei io farmi traditore contro al mio signore? Finché il mio re vivrà, dirò ai funzionari del mio re: "Perché favorite voi le genti dei Chabiri e danneggiate i prefetti ?„ ».

Il grave pericolo, contro il quale Abdichiba, come fedele e zelante vassallo, mette in guardia il Faraone, risulta chiaro alla chiusura della lettera:
«Tutti i prefetti son rovinati, e il mio signore non avrà più alcun prefetto. Volga pertanto il re il suo sguardo ai principi, e spedisca delle truppe! Il dominio del re non è più suo: i Chabiri devastano tutto il dominio del re. Solo se dentro quest'anno disporremo di truppe, il dominio del mio signore potrà essergli conservato: se non disponiamo di truppe, il mio signore perde il suo dominio. Così (scrive) Abdichiba, tuo servo, allo scriba del re mio signore: annunzia al mio signore il chiaro messaggio: tutto il dominio del mio signore va perduto ! ».

Importanza politica di pari interesse linguistico hanno finalmente anche le lettere di Tushratta, re dei Mitanni, dirette in parte ad Amenophis III, in parte alla consorte di lui Ti e in parte ad Amenophis IV, in scrittura cuneiforme babilonese. Nove di queste lettere sono in lingua babilonese; nella decima tavola invece solo l'introduzione, di sette righe, é scritta in questa lingua: tutto il resto, più di 500 righe, nella lingua indigena di Mitanni. Da quando vennero fuori altri documenti in questa stessa lingua, il filologo poté gettare un primo sguardo in un nuovo mondo.

Dunque anche la cultura dei Mitanni era in tale dipendenza da quella di Babilonia, che quei letterati adottarono la scrittura babilonese giovandosene ad esprimere la loro propria lingua, ma servendosi anche, come i Semiti di Amurru, della lingua diplomatica di Babilonia. Ma non basta. Un'altra lingua ci si presenta nelle epistole cuneiformi, pure trovate a Tell-el-Amarna, spedite ad Amenophis III da un certo Tarchundara, re di Arsava: e neanche questo curioso documento è rimasto isolato. Possiamo appena immaginare, per il momento, quali prospettive dischiudano tali scoperte.
Nessuna delle lingue nuovamente ritrovate é finora intelligibile. Dinanzi a questi segni cuneiformi di facile lettura ci troviamo un po' come avanti alle iscrizioni licie scritte in chiari caratteri greci. Si rivelerà la lingua di Arsava come indogermanica, come fu ripetutamente asserito? risulterà essa parente, come dovremmo pensare, dell'idioma dei Mitanni ? tutte queste sono questioni finora insolute.

Intanto la serie dei ritrovamenti si é accresciuta di nuovi mumeri. Nelle fortificazioni, già da tempo note, di un'antica fortezza presso l'odierno villaggio di Boghazkoi nell'Asia minore, da quattro a cinque giornate di cammino ad oriente di Angora, dove già qualche decennio prima si erano scoperti alcuni dei curiosi monumenti Hittiti con scrittura ideografica, il dotto berlinese H. Winkler poté, nell'estate del 1906, rintracciare la capitale dell'antico regno di Cheta; e qui, nello stesso anno e nel successivo, si scoprirono due voluminosi archivi di tavolette in cuneiformi, parte in lingua babilonese, parte in lingua Hittita.

Con ciò si é aperta una via, presumibilmente praticabile, ad intendere l'ancora enigmatica scrittura ideografica dei monumenti Hittiti, probabilmente scritti nella stessa lingua; e nello stesso tempo anche ad interpretare le iscrizioni nella lingua Mitanni, che sembra stretta parente di quella degli Hittiti.
Fra i documenti più importanti dell'archivio della metropoli Hittita, il cui contenuto si é finora decifrato, va messo il testo cuneiforme del celebre trattato concluso fra Ramses II e il re Hittita Chattushil (Chetasar nelle iscrizioni egiziane): inviato da quest'ultimo sopra una tavola d'argento, e fatto trascrivere da Ramses in geroglifici egiziani sopra una parete del tempio di Karnak.

Qui possiamo solo accennare alle nuove vie aperte all'indagine scientifica da un altro documento di Boghazkoi, in cui si fa menzione di diversi nomi di note divinità indoiraniche.
I benefizi ricavati tanto dalla Babilonia quanto dall'Egitto con lo scambio dei loro prodotti può forse nel modo più appropriato apparire da due grandi elenchi, trovati insieme alle lettere di Amarna e contenenti nulla di meno che la lista della ricca dote assegnata dal re Mitanni Tushratta alla figlia Taduchipa, quando fu inviata all'harem di Amenophis III.
Ciascuno di questi elenchi contiene, in circa 300 righe, la precisa enumerazione degli oggetti del cui possesso la principessa andava superba. Ci sfilano davanti oggetti d'oro, d'argento e di rame ed utensili d'ogni sorta, abiti preziosi, fra i quali alcuni in broccato e «una veste lunga per il letto» (pigiama?), orecchini d'oro con pietre preziose, braccialetti e fermagli intarsiati, ornamenti di pietre fini, patere, vasi e scatole, anfore con vari oli preziosi, stoviglie di rame per cibi e bevande e gingilli come figure di cani in argento e oro.
Ma si fa pur accenno a cocchi guarniti d'argento, con il loro attacco, di ricchi finimenti, di armature e di elmi di rame martellato e adorni di smalto (?), oro e pietre preziose, archi intarsiati ed armi. Già da questo tesoro, scoperto per caso, di una sola dama di sangue reale appare la quantità delle idee artistiche, la finezza e perfezione tecnica, la praticità - frutto di lunga esperienza - degli oggetti che in quel tempo avevan trovato la via dall'Asia verso le rive del Nilo.

É probabile che tale via abbian pure seguito le conquiste scientifiche e i principi amministrativi e soprattutto idee religiose. Saremo di certo nel vero riportando a queste ultime le forme di culto che durante il regno nuovo s'incontrano sporadicamente nei bassi strati della popolazione egiziana e che rivelano l'influenza straniera.
Il culto di Baal e di Astarte é attestato per l'Egitto; e in un passo, purtroppo di non facile comprensione, di una delle lettere di Tushratta ad Amenophis III sembra si dica che già sotto il predecessore di questo re Ishtar era discesa da Ninive al Nilo, dove le eran state rese onoranze divine; voglia ora Amenophis farle impartire onori dieci volte più grandi e quindi riaccompagnarla in pace in Asia !

«Possa Ishtar, la signora del cielo, proteggerci per mille anni e possa la signora del fuoco concederci grande letizia e prosperità ».

Però queste ultime parole mostrano anche che la religione egiziana aveva esercitato, almeno nelle forme esterne, una qualche influenza sui sudditi asiatici dell'impero. S'intende che questi vassalli dei Faraoni stavano bene attenti a scegliere, nelle loro epistole, per il re e per gli dei solo quei titoli che avevano valore ed erano intesi in Egitto. Non come dea babilonese, ma riaccostata alla nota divinità egiziana, Ishtar di Ninive fu chiamata «signora del cielo» e così pure «signora del fuoco» deve forse spiegarsi con la dea Bastet «signora delle fiamme». Il re, che anche nel culto riformato di Amenophis IV, proprio come nell'antica religione egiziana, passava per rappresentante della divinità e per figlio carnale del dio, nelle tavole di Amarna viene generalmente designato come «dio del sole», «sole delle regioni», «spirito vitale» dei suoi sudditi, concezione questa straniera ai Semiti; e Abimilki, governatore di Tiro, dichiara in una sua lettera: « Il mio signore é il sole, che di giorno in giorno si alza sulle regioni conforme all'ordine del suo benigno padre, del dio del sole che nella sua grazia propiziatrice concede la vita..., che alza la voce nel cielo, pari al dio della tempesta, sì che la terra trema dinanzi alla sua voce ».

Le notizie sull'importanza politica dell'Egitto in Asia durante il fiorire dei Faraoni sono inoltre confermate dagli idoli egiziani sparsi un po' dappertutto fra gli oggetti scavati, dalla statua di Iside trovata presso Geser, dai celebri santuari di Hauran rappresentanti veramente stele reali egiziane, dal fatto che in certe parti della Fenicia e della Palestina perfino le tombe si dipingevano alla maniera egiziana e che una città come Byblos praticava il culto egiziano fin da tempo antichissimo.
Ma per ora non si può determinare in quanto le figure, originariamente cananee, di un Baal o di una Astarte o del dio delle tempeste Adad abbiano subito l'influenza di queste idee egiziane. Tale influenza, insieme a quella babilonese, appare specialmente accentuata nella regione degli Amurru, che dimostra il culto del dio lunare Sin nel Harran, di cui ci dà notizia, oltre a varie iscrizioni babilonesi, un bassorilievo trovato a Seng'irli.

Chiudiamo questo capitolo con un'altra singolare interpretazione:
"Col nome di « semiti» vengono attualmente indicate un certo numero di popolazioni, distribuite dalla Mesopotamia all'Etiopia, il cui denominatore comune è costituito dall'affinità con l'ebraico delle loro lingue.
Ma qual era la lingua materna di Abramo?
Quello che oggi chiamiamo ebraico era una lingua diffusa in Palestina assai prima che vi giungesse Abramo; più precisamente era la lingua parlata dai Cananei. Gli Ebrei, semplicemente, si limitarono ad adottarla dopo la conquista della Palestina da parte di Giosuè; da allora il cananeo si chiamò ebraico e fu definito la lingua semita per eccellenza, sulla base delle genealogie bibliche. Si tratta, però, di un grossolano errore, perché è la stessa Genesi, che, in 10,15, dichiara che i Cananei, e con essi i Gebusei, Amorrei, Gergesei, Evei eccetera, ossia tutti i popoli che abitavano la Palestina prima dell'arrivo di Abramo, discendevano da Cam. Pertanto, se vogliamo utilizzare in modo preciso le indicazioni della Bibbia, dobbiamo concludere che l'ebraico attuale è una lingua camita, e non semita.
La lingua materna di Abramo doveva essere quella del suo paese d'origine, Ur dei Caldei. Di che lingua si trattasse non ha importanza al momento; la sua conoscenza non ci aiuterebbe molto a stabilire il ceppo razziale cui apparteneva il patriarca. Questo lo possiamo stabilire soltanto sulla base del suo aspetto fisico. Era alto, basso, bruno, biondo, rosso, barbuto, peloso, glabro? La Bibbia non lo dice.
Se di Abramo non abbiamo una descrizione fisica, ne abbiamo però di quelli a lui strettamente consanguinei, il cui aspetto fisico dovrebbe essere molto simile a quello di Abramo. Possediamo la descrizione di un nipote, di pura razza, perché non "inquinato" da elementi estranei alla famiglia: Esaù era figlio di Isacco e Rebecca; il primo figlio di Abramo e di sua moglie Sara, la seconda figlia di Betuel e Milcà, entrambi nipoti primi di Abramo. E' Abramo pertanto un prodotto "genuino" che possiamo ritenere rappresentativo della razza di famiglia. ("Questi furono i figli di Cam secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori e nei loro popoli" - Genesi Cap. 10 )
Anche il successo strepitoso di Sara presso Abimelech è un indizio non trascurabile: lascia presupporre che fosse una ragazza di aspetto ben diverso dalle solite ragazze locali, piccole e scure. (Che ai tempi della dinastia XVIII circolassero da quelle parti individui dalle caratteristiche ariane, provenienti evidentemente dalle regioni mesopotamiche, è provato dalle pitture egizie in varie tombe dell'epoca).
Se dobbiamo quindi giudicare sulla base delle indicazioni contenute nella Bibbia, dobbiamo ammettere senza esitazione che Abramo aveva l'aspetto fisico di un ariano; il che concorda con la conclusione che egli fosse figlio del grande sovrano mitanni Saushsha-Tar.
Abramo, capostipite del popolo ebreo, era in definitiva un principe di "pura razza ariana". Quanto suoni ironica questa conclusione ognuno può giudicare da se stesso". (da La Bibbia senza segreti, di F. Barbiero, Rusconi 1988).

Abbiamo sopra accennato agli Assiri
e quindi passiamo ai loro miti, alla loro cultura

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