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133. LA GUERRA FRANCO-SVEDESE

Se qualcuno pensava che con la morte di Welleinstein e la pace di Praga, la guerra era finita, si sbagliava di grosso. Anzi ne iniziava un'altra ancora più cruenta, e questa volta coinvolgendo il resto d'Europa: Spagna, Francia e Italia, e che durerà 13 anni.
Partiamo dalle prime battute: la guerra Franco-Svedese.

Con la morte di Wallenstein la guerra dei trent'anni - almeno nelle sue prime tre fasi - non presenta più l'interesse di prima. Gli attori che restano sulla scena sono figure sbiadite, comuni, e, - se si lascia da parte Richelieu - sono dominati dagli eventi e quasi mai offrono tratti di originalità. Allo spettatore sembra perciò inesplicabile che dopo la sparizione degli uomini più eminenti dalla scena della storia si sia dovuto percorrere ancora altrettanto cammino prima di veder la fine di questo triste periodo di guerra.

E' che la guerra dei trent'anni é uno di quegli avvenimenti in cui la forza della situazione é superiore alla volontà dei re e dei generali e condanna i popoli a sacrifici sproporzionati al valore dei beni contesi. I tedeschi non riuscirono a mettersi d'accordo fra loro nelle questioni religiose e nelle connesse questioni territoriali e ciò continuò a provocare, come prima, le ingerenze straniere.

Sia il partito protestante come il cattolico difettavano di un uomo che fosse abbastanza forte per imporre ad entrambi la formula risolutiva. Wallenstein aveva creduto di aver questa forza e vi aveva rimesso la vita. I tentativi di risolvere la situazione furono peraltro proseguiti e i consiglieri dell'imperatore convennero con quelli del principe di Sassonia a Eritzrneritz per riprendere l'opera di transazione e conciliazione al punto dove il duca di Friedland l'aveva dovuta abbandonare.

I delegati sassoni dichiararono immediatamente che il principe negoziava per conto proprio ed in nome proprio e non si sarebbe prestato ad imporre nulla ai suoi correligionari. Le loro proposte tuttavia furono eque ed accettabili, tanto è vero che salvo pochi punti finirono poi per essere accolte nel trattato di pace concluso 14 anni dopo in Vestfalia.

I protestanti avrebbero dovuto riavere tutti i beni ecclesiastici che possedevano al 1° gennaio 1612. La confessione evangelica doveva essere riconosciuta anche dai principi territoriali cattolici, permetterne il culto, consentito il ritorno delle persone espulse a causa della loro fede protestante.

Si sarebbe a suo tempo regolata anche la questione della restituzione dei beni a questi rimpatriati. Il tribunale camerale di Speyer e il consiglio di corte di Vienna dovevano diventare collegi paritetici, vale a dire composti di un numero uguale di consiglieri protestanti e di consiglieri cattolici. I figli del defunto conte paladino dovevano subito essere reintegrati nell'alto e basso Palatinato e, dopo la morte di Massimiliano di Baviera, nella dignità di elettori.
L'indennizzo agli Svedesi doveva essere prestato dai soli cattolici. Per sé e a tacitazione dei suoi crediti il principe di Sassonia chiedeva l'alto e basso Lausitz e i vescovadi di Magdeburgo ed Halbersdadd ovvero il territorio di Eger.

Va da sè che queste proposte non potevano essere accettate dall'imperatore nei precisi termini in cui erano fatte, e che in ogni caso occorreva d'ambo le parti molta arrendevolezza e capacità di distinguere ciò che era possibile da ciò che era impossibile.
Anche Oxenstierna non era minimamente soddisfatto dell'andamento delle trattative di Leitmeritz, che dopo la battaglia di Nürdlingen vennero proseguite a Pirna e poi a Praga. Egli aveva nel dicembre 1632, con l'appoggio dell'ambasciatore francese Feuquiéres, costituito la lega di Heilbronn che gli aveva affidato il direttorio della Germania settentrionale e dei due distretti renani; ma dopo il fallimento dell'avanzata di Banér in Boemia il cancelliere svedese non poté esercitare alcuna influenza sulle trattative correnti fra la Sassonia e l'imperatore. Si studiarono invece di influire più che poterono i principi cattolici ed i consiglieri laici ed ecclesiastici dell'imperatore.

Il 30 maggio 1634 fu redatto il testo del trattato che non soltanto regolava i rapporti tra Sassonia ed imperatore, ma provvedeva al ripristino della pace. In ordine ai beni ecclesiastici era stabilito un regime provvisorio per lo spazio di 40 anni, sulla base dello stato di fatto esistente nel 1627. Trascorsi i 40 anni le controversie che eventualmente sorgessero, dovevano essere risolte per la via di pacifici accordi. L'editto di restituzione del 1629 doveva pertanto considerarsi abrogato. Per quando concerne i compensi alla Sassonia, il vescovado di Magdeburgo era assegnato al figlio del principe, il duca Augusto, salvo una porzione da conferirsi al margravio Cristiano Guglielmo di Brandenburgo, precedente amministratore di quel territorio.

Invece di una indennità di guerra in contanti il principe di Sassonia acquistava il basso ed alto Lausitz. Nella questione del Paladinato il principe dovette per non mandare a monte ogni prospettiva di pace adattarsi ad accettare la proposta dell'imperatore, secondo la quale Massimiliano di Baviera avrebbe conservato quanto aveva ormai in suo possesso, salvo a provvedere ai figli del conte palatino con un compenso adeguato.
Così la Sassonia come gli altri territori che aderivano al trattato prendevano impegno di aiutare con le loro truppe l'imperatore a costringere gli svedesi e i francesi a restituire i territori dell'impero che avevano occupati.

Dall'amnistia vennero eccettuati, oltre al conte palatino, anche i ribelli boemi condannati nel 1620 ed altri piccoli feudatari. Le truppe dell'imperatore, quelle del principe di Sassonia e degli altri territori che avrebbero aderito al trattato dovevano d'ora in poi formare un solo esercito dell'impero, al cui mantenimento dovevano concorrere tutti i firmatari.
Il 15 giugno 1635 lo strumento del trattato di pace fu ratificato dall'imperatore. Ferdinando II, che sentiva vicina la morte, fu estremamente felice di poter vedere ancora vivo quella che egli si illudeva fosse la fine di una guerra che aveva minacciato di far cadere dal suo capo tutte le sue corone.
Nella piena dell'esultanza, egli, le cui casse erano sempre vuote, elargì cospicui donativi di denaro ai consiglieri sassoni che avevano partecipato alla conclusione del trattato di Praga.
Il suo amico Eggenberg non poté gioire dell'avvenimento perché era morto nell'ottobre dell'anno precedente. Dopo l'assassinio di Wallenstein egli non era più stato a Vienna, perché il figlio dell'imperatore sembra gli abbia fatto sentire la prudenza di evidare la capitale. La sua famiglia dovette attendere molto tempo e fare notevoli sacrifici di denaro per poter dopo la sua morte riprendere influenza a corte.

L'imperatore si impegnò subito affinché il trattato fosse accettato dai cattolici, ed il principe di Sassonia da parte sua lavorò nello stesso senso presso i protestanti. Il primo ad aderirvi fu il Brandenburgo, la cui dieta nel 1635 dichiarò che i grandi servigi resi da Gustavo Adolfo ai suoi correligionari tedeschi non dovevano essere pagati con la completa oppressione della Germania. Giorgio Guglielmo colse con grande soddisfazione l'occasione per separarsi dagli svedesi che volevano tenersi a compensazione delle spese di guerra il ducato di Pomerania che spettava a lui.
Oxensdierna, il quale per il ravvicinamento all'imperatore dei due principi elettori protestanti vedeva in estremo pericolo gli interessi del suo paese, sarebbe stato contento se gli si fosse concessa Sdralsunda ed una porzione della Pomerania. Egli chiese un compenso in denaro per i suoi servizi, il rimborso delle spese di guerra incontrate dalla Svezia e il possesso di alcune città a titolo di garanzia dell'adempimento di tali impegni. Se da parte tedesca si fosse fatto presto a decidersi e si fossero inoltre accattivati i più influenti generali ed ufficiali superiori svedesi con cospicui donativi in denaro, forse la guerra fratricida sarebbe davvero terminata prima che la Germania giacesse al suolo vinta e dilaniata sotto il tallone dello straniero.

Richelieu aveva assistito non senza viva preoccupazione allo svilupparsi delle tendenze pacifiste in Germania ed alla conclusione del trattato di Praga che ne era stata conseguenza. Egli sapeva che la guerra con la Spagna in cui si trovava implicata la Francia tanto più a lungo si sarebbe protratta, quanto più a lungo durava la potenza preponderante dei cattolici in Germania.
Perciò ritenne arrivato il momento di intervenire energicamente in Germania e soprattutto impedire che la pace vi si realizzasse. Per arrivare al suo scopo Richelieu trovò i suoi migliori strumenti nei generali svedesi per i quali la cessazione della guerra costituiva un serio pericolo, giacché si trovavano tutti in possesso di più o meno importanti contee e feudi in Pomerania e nel Mecklenburgo, e comprendevano che sarebbero rimasti esposti se avessero perso tali possedimenti qualora in Germania veniva a macare un esercito svedese a proteggerli.

Il principe di Sassonia offerse a questi ufficiali degli indennizzi in denaro in sostituzione dei beni; ma essi non furono ritenuti un compenso sufficiente. Il principe, quando vide che le trattative con la Svezia erano incagliate, si lasciò trascinare a dichiararle rotte ed a ricominciare le ostilità senza ponderare abbastanza che così facendo esponeva nuovamente le sorti della causa protestante al rischio di una guerra, mentre le forze cattoliche erano indubbiamente superiori.
Richelieu si era preparato alla guerra con la Spagna stringendo una nuova alleanza con gli stati generali (8 febbraio 1635), a senso della quale ciascuna delle parti si impegnava ad approntare un esercito di 30.000 uomini per cacciare completamente gli spagnuoli dai Paesi Bassi, i quali avrebbero poi dovuto andare suddivisi fra gli alleati. Anche per la conquista del ducato di Milano egli aveva provveduto a procurarsi l'aiuto della Savoja e di Mantova. Gli rimase a rinforzare in Germania con del denaro la posizione degli Svedesi. Banér non era in grado di tener fronte alle truppe che il principe di Sassonia aveva ora adunate (circa 40.000 uomini) e dovette perciò gradatamente ritirarsi in territorio brandenburghese. Qui si unì col generale Knyphausen che aveva mantenuto assieme in Vestfalia un certo numero di reggimenti tedeschi. Dalla Francia gli vennero abbondanti sussidi in denaro che gli permisero di ingrossare considerevolmente il suo esercito, di modo che poté calcolare che gli sarebbe riuscito di conservare le posizioni della Svezia nella Germania settentrionale, se non anche di avanzare.

Gli giovò allo scopo che l'ambasciatore francese conte d'Avaux ottenne dalla Polonia la proroga dell'armistizio concluso ancora da Gustavo Adolfo, giacché altrimenti la Svezia avrebbe dovuto distrarre la migliori truppa par provvedere alla difesa della Livonia.
Per la guerra sul Reno e per la difesa della Francia, i cui confini erano stati già più volte violati dalla cavalleria imperiale, il re francese concluse nell'ottobre 1635 il trattato di Saint Germain en Laye con Bernardo di Weimar. Questi doveva portare il suo esercito alla forza di 12.000 fanti e 6.000 cavalieri; al quale scopo la Francia gli corrispose un cospicuo sussidio in denaro. La Francia poi gli garantiva il ducato di Franconia e la contea di Alsazia. L'esercito del Waimar, che ebbe il titolo di maresciallo di Francia, doveva rimanere agli ordini esclusivi della Francia; il duca non doveva accettare ordini da nessun altro.

Col trattato di Saint Germain comincia quel periodo della guerra dei trent'anni che possiamo caratterizzare come il periodo franco-svedese; la guerra si svolse su due a talora su tre teatri differenti. Nel nord il principe di Sassonia fronteggiava gli Svedesi al comando di Banér, il quale aveva già riportato il suo quartier generale a Magdaburgo. Malgrado però la superiorità numerica delle sue truppe, il principe non riuscì a dare alla campagna una piega favorevole alla proprie armi. Egli aveva occupato presso Wittstock delle ottime posizioni; ma Banér con abile manovra lo costrinse a lasciarle e ad accettare una battaglia campale che finì par lui con una terribile disfatta (4 ottobre 1636).

I sassoni e gli imperiali perdettero 11.000 uomini, un terzo circa delle loro forze, e gli imperiali inoltre lasciarono nelle mani del nemico parecchie migliaia di prigionieri. Nella Germania meridionale gli imperiali e i bavaresi agli ordini di Gallas e Gótz combatterono senza risultati apprezzabili, ad onta che il pio Ferdinando non avesse esitato a far giungere 8.000 cosacchi. Costoro si limitarono a devastare e prendere tutto ciò che ancora vi era da prendere, superando ogni resistenza con la più bestiale crudeltà.

Siccome poi, oltre tutto, accamparono esorbitanti pretese quanto al soldo che dovevano incassare, l'imperatore cercò di liberarsene al più presto possibile. Una parte di essi riuscì a tornarsene in patria, ma la maggior parte finirono sotto la furia vendicatrice dei contadini - esasperati dalle loro ruberie e vevastazioni - che li attaccarono e massacrarono durante la marcia di ritorno.

Nel suo ultimo anno di vita Ferdinando ebbe almeno la soddisfazione di vedere finalmente eletto dalla dieta di Ratisbona a re di Roma suo figlio (22 dicembre 1636). Poco dopo il suo ritorno a Vienna egli morì (15 febbraio 1637). Con lui scese nella tomba uno dei membri intellettualmente più insignificanti della casa d'Absburgo. Eppure gli Absburgo debbono a lui la salvezza della monarchia. Il tratto principale del suo carattere fu la tranquillità d'animo che non l'abbandonò mai nei momenti più difficili. Pervaso come era da un sentimento religioso di una profondità e sincerità rara, egli si considerava un semplice esecutore della volontà di Dio, dietro la quale svaniva ogni sua preoccupazione di responsabilità.

Se era incerto quale fosse la volontà divina Ferdinando si sottoponeva alla più dure penitenze e pregava, pregava fervidamente finché non vedeva arrivare l'"illuminazione" divina. Difficilmente egli si sarebbe con tanta energia opposto ad ogni tentativo di introdurre nei territori absburgici la desiderata organizzazione federativa con le sole considerazioni d'indole politica; per il fatto che dall'autonomia politica non si sarebbe potuta distaccare l'autonomia confessionale, mentre egli mirava all'esclusivismo cattolico.
Con ciò, sia pure con non piena consapevolezza, egli divenne l'instauratore dell'indirizzo centralizzatore del governo austriaco e il primo assertore del principio gesuitico che le sorti della chiesa cattolica in Germania dovevano considerarsi legate alle fortune della casa d'Absburgo, anche quando a Roma si pensasse diversamente.

L'azione governativa di Ferdinando fu indubbiamente intensa nel campo della politica estera, ma debole nella politica interna. Egli non seppe utilizzare le condizioni favorevoli che nel primo periodo della guerra gli offerse il fallimento delle insurrezioni nei paesi austriaci per accrescere con opportune riforme costituzionali i poteri della corona. A sua scusa si può peraltro addurre che per le continue esigenze finanziarie create dalla guerra l'attività intera dei suoi funzionari fu assorbita dall'unico compito di provvedere a procurar denaro.

Quanto poi alla gestione della finanza, quella di Ferdinando II fu la negazione d'ogni criterio economico; la sua stolta, quasi pazzesca prodigalità lo rese oggetto di sfruttamento da parte delle famiglie nobili che si erano accaparrate tutte le più influenti cariche a corte e che si arricchirono enormemente a spese dello Stato sempre più immiserito.
Ferdinando III si era più d'una volta proposto di mettere un termine a questo sconcio; ma per la grandissima devozione che nutriva verso suo padre non aveva mai osato intervenire energicamente.

Ma, assunto il 15 febbraio 1637 il governo, ritenne suo primo dovere ridurre le spese della sua casa; ciò che fece falcidiandole di quasi due terzi. Sotto di lui la guerra fu proseguita allo stesso modo di prima e non senza fortuna. Il generale bavarese Giovanni von Werth, che era giunto a tal grado da semplice corazziere in grazia della sua audacia e del suo valore, seppe compiere alla testa di un modesto corpo di cavalleria, scorrerie e sorprese che, allorquando egli dal Belgio passò in Francia, causarono non poco terrore a Parigi. Il duca Bernardo riuscì con fatica a mantenersi in Lorena di fronte al maresciallo imperiale Merci.
L'imperatore pose alla testa dell'esercito del Reno quale comandante supremo il principe Piccolomini. Ma Bernardo passò con 12.000 uomini il Reno, e, benché non abbia potuto reggere a lungo sulla riva destra, pure tenne in rispetto il nemico. Banér difese con straordinaria abilità le posizioni svedesi nella Germania settentrionale. Ma quel che sarebbe stato essenziale, una cooperazione tra i due generali, mancò. L'anno 1637 fu apportatore di una grave perdita ai protestanti tedeschi perché in esso venne a morte prematura il langravio Giorgio d'Assia-Cassel. Per quanto egli non abbia mai esercitato una influenza essenziale sull'andamento delle cose, tuttavia non era poco l'ascendente morale della sua personalità, in virtù della fermezza del suo carattere che non lo fece mai deviare da una linea dalla condotta conforme alla sua convinzione. protestante.

Il 18 luglio 1639 Bernardo di Weimar cadde nelle eroiche lotte per il possesso di Breisach, e Richelieu nominò a comandare il suo esercito il generale svizzero Franz von Erlach. Questi riuscì a tenere insieme tale esercito non senza andare oltre il lecito, in quanto mise arbitrariamente le mani sul patrimonio personale del duca defunto; ma gli ufficiali pretesero che il corpo di truppe dovesse considerarsi autonomo di fronte al governo francese e non entrare al suo servizio se non in base a convenzione analoga a quella conclusa dal duca di Weimar.
Vi fu una specie di gara ad accaparrarsi queste truppe tra la Francia, la Svezia, l'imperatore e il figlio del conte palatino che poteva contare sull'appoggio del re Carlo di Inghilterra. Ma, siccome per averle occorreva denaro e il contante difettava fra tutti i concorrenti, vinse la Francia che poté allentare i cordoni della borsa. Le truppe proprie del re di Francia, che avevano già combattuto accanto all'esercito del duca di Weimar in Alsazia e Lorena, rimasero all'inizio al comando del conte Guébriant, e dopo la costui morte, passarono a formare l'esercito del maresciallo Turenne che tanta importanza ebbe all'inizio della Fronda.

Si combatté sul Reno e in Boemia senza riuscire a modificare sostanzialmente la situazione. Anche sull'Elba e sulla Sprea la guerra conservò lo stesso carattere che aveva avuto sinora.

Data questa situazione militare permanentemente indecisa che si risolveva in un continuo dispendio di denaro per mantenere gli eserciti ed in uno sfruttamento da parte degli ufficiali, non poteva mancare che in Germania si iniziassero serie trattative di pace, giacché alla lunga l'imperatore e i principi avevano finito per accorgersi che tutti i sacrifici che essi facevano andavano a profitto degli stranieri. Si rivelò peraltro che perduravano le vecchie cause di discordia e di antagonismo, specie il conflitto tra calvinisti e luterani e tra protestanti in genere e cattolici; questioni difficilissime, la cui discussione e soluzione richiedeva degli anni.

La langravia d'Assia si ravvicinò dapprima all'imperatore, ma poco dopo se ne allontanò nuovamente per allearsi con la Francia cui si impegnò di fornire contro il re di Ungheria 10.000 uomini che furono posti al comando del valente generale Melander (Schwarz). A cominciare dall'estate del 1641 e sino all'ottobre dell'anno seguente si discusse alla dieta dell'impero dei reclami dei singoli territori.

In quest'epoca apparve un notevolissimo libro, il quale diede la prova ancora una volta che ogni discussione diplomatica ha bisogno di essere preparata da preventivi studi e discussioni nel campo della scienza che rischiarino le questioni e le situazioni. Nel corso della guerra infatti l'ordine costituzionale dell'impero tedesco aveva subìto alterazioni tali da non potersi più dire con precisione a che tipo di stato questo impero appartenesse. Ora uno dei membri della colta famiglia dei Chemnitz, che assunse il nome di Hippolitus a Lapide, probabilmente Bogislaus, pubblicò una Dissertatio de ratione status in imperio romano, nella quale dichiarò usurpazioni illegittime e la maggior parte dei diritti che l'imperatore esercitava, deducendone che i principi tedeschi non avevano alcuna ragione per continuarli a tollerare. Questo scritto diede poi inizio ad una copiosa e varia letteratura pubblicistica tutta intesa a mettere in evidenza la «mostuosità» dell'impero tedesco, al che offerse una buona occasione per lo stato di cose che si era creato col trattato di pace.

La guerra era divenuta una abitudine in una società che aveva assunto un atteggiamento quasi esclusivamente militare. Le classi superiori vi conducevano vita splendida perché nessuno osava opporsi alle loro estorsioni necessari per mantenere i propri lussi. Se si prescinde dalle ardite manovre di Banér che testimoniano il suo indubbio talento strategico, le operazioni militari negli ultimi anni della guerra sono prive di qualsiasi interesse. Dopo la morte di Banér (20 maggio 1641) che lasciò un patrimonio d'oltre 1 milione di talleri, il così detto esercito svedese, che viceversa era per la massima parte composto di tedeschi, fu sul punto di dissolversi, perché ognuno dei signori generali e capi di reggimento mirò a fare i propri interessi; ma alla fine fu scelto il generale Torstenson a successore di Banér.

Sotto il comando di lui, di Wrangel e di Kônigsmarck gli svedesi portarono a termine le loro ultime gloriose campagne in Germania. Più o meno influenzate da loro furono le trattative di pace che si svolsero a cominciare dal 1642. La iniziativa in proposito fu presa ancora dalla dieta dell'impero che convocò una apposita conferenza a Francoforte per discutere le questioni che più stavano a cuore ai poteri territoriali. Ma venne in contrasto immediatamente e di nuovo contro l'ostacolo dei vecchi dissensi che non si potevano eludere con formule diplomatiche ma dovevano una buona volta risolversi nella loro sostanza.
Le potenze straniere implicate nella guerra non avevano naturalmente alcun interesse a prendere iniziative per farla cessare, perché la situazione dell'imperatore andava continuamente peggiorando e ciò tornava loro utile.

Tuttavia Richelieu, nella convinzione che la Francia avrebbe potuto conservare permanentemente l'Alsazia che attualmente aveva completamente in suo potere, consigliò al suo re di accettare la proposta fattagli dall'imperatore di fissare un termine per l'inizio di trattative di pace. Re Luigi aderì, benché le offerte dell'imperatore non gli sembrassero neppur discutibili, e fu convenuto il 25 marzo 1642 come data d'apertura della conferenza della pace; a sedi del convegno dei delegati vennero scelte d'accordo le città di Munster e di Osnabruck in Vestfalia. La stessa proposta ricevettero ed accolsero gli Svedesi. Essi però s'intesero dietro le quinte con la Francia, stabilendo di ritardare l'effettivo inizio delle trattative di pace finché l'imperatore non fosse stato reso più arrendevole con una recente sconfitta, e quindi disposto a porre i negoziati su una base più accettabile.

Questa sconfitta venne poco tempo prima della morte di Richelieu (4 dicembre 1642). Alla distanza di undici anni giusti dalla data in cui Tilly aveva per la prima volta provato il peso della spada di Gustavo Adolfo, nello stesso luogo, cioè a Breitenfeld presso Lipsia, Torstenson inflisse un formidabile disastro all'esercito imperiale al comando dell'arciduca Leopoldo Guglielmo e del principe Piccolomini.
Nulla giovò che il fratello dell'imperatore esponesse la propria persona con atti temerari; la fuga della sua cavalleria lasciò scoperto il fianco sinistro dell'esercito e ne provocò la confusione e la rotta generale. Se i francesi di Guébriant invece di tornare a voler agire per conto proprio, avessero marciato unitamente a Torstenson da Breitenfeld attraverso la Boemia su Vienna, l'imperatore avrebbe probabilmente dovuto lasciarsi dettare le più severe condizioni di pace dai suoi avversari.

Questa volta fu la Danimarca a salvarlo dall'estrema rovina. Re Cristiano era già da un po' di tempo in trattative con i Polacchi e con l'imperatore per combinare un'azione comune diretta a scacciare gli Svedesi dal Baltico (non certo per una questione religiosa, ma di enorme interesse commerciale) . Questi ultimi ne furono informati prima che la Danimarca avesse fatto gli armamenti necessari e concordato un piano di campagna comune. D'intesa con la Francia Torstenson, dopo aver concluso un armistizio con Gallas, invase l'Holstein. Gallas non arrivò in aiuto dell'alleato che nell'estate e si unì a Kiel con un corpo danese.
I preparativi di guerra fatti dai suoi nuovi alleati, che recavano ancora i segni dei colpi presi a Breitenfeld, non sembrarono dar garanzia di sorta della buona riuscita di un attacco contro Trostenson che si trovava in condizioni di gran lunga migliori.

Gallas perciò intraprese la via della ritirata verso i paesi della corona austriaca, e lungo il tragitto, malgrado non si sia mai trovato impegnato in seri combattimenti, perdette quasi tutto il suo esercito.
Era partito con 22.000 uomini e ne erano rimasti più o meno 2.000. Causa non ultima di questo bel risultato fu il suo vizio di ubriacarsi. Fra i gradassi che la lunga guerra riuscì a generare, Gallas è forse la figura più esilarante. La leggenda militare narra che prima della catastrofe di Wallenstein egli sia rimasto a tavola con Piccolomini in un villaggio boemo per 2 giorni e una notte consecutivamente; ogni mezz'ora veniva recata loro una brocca di vino fortemente aromatizzato, e i due eroi si invitavano a bere con l'amichevole reciproca esortazione: «Bibe Gallas» - «Bibe Piccolomini», ma non si fermavano qui, ma continuavano a trincare fino a non più pronunziare una parola.

Un vecchio e ben noto nemico, che peraltro negli ultimi anni era rimasto quieto, Giorgio Rakoczy, credette giunto il momento di farsi vivo e mettersi in relazione con le potenze che avrebbero avuto maggior voce nelle trattative di pace che si prospettavano prossime. O almeno così si credeva.

Nel giugno 1642, mentre Torstenson si trovava di passaggio in Moravia, gli inviò una missione per offrirgli il suo concorso nella guerra, a patto che gli fornisse armi e denaro. La Francia si sforzò di ottenergli dal sultano il permesso di far la guerra progettata, e dopo che l'ebbe ottenuto (dicembre 1643) Rakoczy bandì fra i Magiari la guerra nazionale contro l'imperatore, accusandolo di aver violato la costituzione. Ebbe molto seguito, cosicché l'esercito del potente re Rakoczy che non poteva far guerra se non col consenso del sultano, salì a 70.000 uomini.

Siccome Gallas si trovava nell'Holstein, l'imperatore non poté disporre contro di lui che delle truppe esistenti nella Slesia, 20.000 uomini al comando di Gótz, più 8.000 ungheresi agli ordini di Eszterhazy. Ma la loro avanzata bastò per far retrocedere Rakoczy sino alla Tisza. Poco dopo i Magiari tentarono un attacco, ma finì con la loro completa sconfìtta.

Si lavorava comunque per la pace,
ma per raggiungere un accordo ci vollero 16 mesi.

LA PACE DI VESTFALIA > > > >

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