66. LO STATO GENTILIZIO - GLI UGI
COSTITUZIONE DEGLI " UGI - Lo Stato.
Abbiamo visto nel precedente capitolo come i primi cinque secoli della nostra era, la storia giapponese è fatta solo di ricordi orali trasmessi da generazioni a generazioni, e narrano solo miti e leggende antiche e forse anche primordiali.
Ma anche il cosiddetto primo periodo storico, che inizia sul limitare del secolo V della nostra era, non è affatto esente da tratti leggendari o presi arbitrariamente a prestito dalla storia cinese; tuttavia la tradizione, non più priva di documenti scritti, offre già dei punti d'appoggio alquanto più solidi.Come già nell'età semistorica, sono ancora in vigore le istituzioni fondate sulla comunanza di stirpe; il popolo giapponese è costituito da singoli «ugi», espressione che significa stirpe o casato o famiglia nel senso più ampio della parola.
Il vincolo umano più naturale, quello della consanguineità, formava la base dell'«ugi». Il discendere da un medesimo progenitore, e quindi il praticare un uguale culto degli antenati, era il carattere che univa le persone di un «ugi», soggette ad un capo ereditario e distingueva fra di loro i singoli «ugi», i quali non erano minimamente paragonabili fra loro per importanza e per partecipazione attiva alla vita pubblica.
Secondo che appartenevano ad una delle «kabane» o classi o ceti tradizionali simili a caste, che determinavano il titolo o la professione, gli «ugi» si ripartivano in cinque gruppi principali; con a parte gli schiavi, che naturalmente erano fuori di ogni classe.La casta più in basso era formato dai «Tomonot suko», che accudivano ad un mestiere e per lo più discendevano da immigrati coreani o cinesi, e da quelli istruiti. Costituivano la classe prossima e di poco superiore i «Kunitsuko» o «Miyakko», proprietari di terre, che esercitavano l'agricoltura.
A questi seguivano i «Muragi» e gli «Omi», che godevano di privilegi politici e sociali e possono quindi essere considerati come l'aristocrazia del vecchio Giappone; avevano grado uguale e si distinguevano per la loro origine.I «Muragi» passavano per discendenti in parte dai compagni di Gimmu, che da Kyushu avevano invaso lo Yamato quali conquistatori, e in parte da proprietari fondiari già immigrati anteriormente sull'isola grande di Hondo.
Gli «Omi» invece discendevano da quei compagni di Gimmu, che facevano risalire la loro origine alla dèa del sole ed erano perciò consanguinei della casa imperiale.Infine questa stessa, ossia il quinto gruppo abbracciava tutti i discendenti di Gimmu. Presso i Muragi come presso gli Omi un ugi ereditario stava sempre a capo di tutte le caste ad esso soggette, sia collaterali o minori (ko-ugi).
I capi di questa casta principale portavano il titolo di O-omi o di O muragi rispettivamente (o - grande).
Entro la cornice formata dalla «costituzione degli ugi», come si vuole designare questa unione politica, rappresentante la totalità degli ugi, più o meno strettamente congiunti sotto il «Sumera Mikoto» (imperatore), ossia sotto il capo del più potente degli Ugi, la situazione politica della casa imperiale e del sovrano, che stava a capo di essa, si può rappresentare nel modo seguente.Se in origine l'imperatore, al pari di ogni altro capo, possedeva una sovranità effettiva soltanto entro il suo proprio ugi, esercitava pure tre altre prerogative, le quali contengono il germe del potere assoluto, che ebbe più tardi.
Quale rappresentante dei diversi ugi, di fronte alla dea solare, sua progenitrice femminile, egli rivestiva la suprema dignità sacerdotale. È caratteristica - accennando a questa antica sovranità dell'imperatore - la parola giapponese «matsurigoto», che indica il governo in genere e significa alla lettera «affari del culto».Nelle relazioni cattive o buone con l'estero, quindi con la Corea e la Cina, concedeva inoltre all'imperatore la seconda prerogativa, ed era quella di decidere sulla guerra e sulla pace e poneva nelle sua mani il comando supremo dell'esercito in campo, anche se non era sempre da lui condotto di persona; parallela al comando gli era concesso il diritto di imporre alcune imposte appunto per scopi di guerra.
La terza prerogativa infine, era la facoltà di fare il "giudice" e di comporre i dissidi reciproci fra gli ugi, per es. nel conferimento della dignità di capo, l'imperatore era autorizzato a sciogliere e a degradare gli ugi stessi e a crearne degli altri di suo gradimento.L'aumento del numero degli ugi, così direttamente sottoposti al dominio imperiale, fu la prima causa di un aumento della sua potenza e dei suoi possessi territoriali . Il privilegio di creare nuovi ugi condusse anche all'istituzione dei «be», cioè creazioni di associazioni ereditarie, fatte per uno scopo determinato, e costituite unicamente da schiavi e da «tomonotsuko», per le quali, al contrario degli ugi (nobili), il legame di consanguineità non era una prerogativa necessaria.
Queste "caste basse" divennero una parte importante ed utile del seguito imperiale, che poi fu accresciuta con altri nuovi ugi di «tomonotsuko», costituiti da immigrati dalla Corea e dalla Cina, molto apprezzati per il loro sapere e per le loro attività professionali; ed infine da schiavi, ceduti all'imperatore in riscatto di ugi fatti prigionieri nelle guerre, o perchè ridotti schiavi perchè colpevoli di qualche mancanza.Queste soggetti, contribuirono anche all'aumento dei possedimenti fondiari imperiali, al pari della conquista di territori stranieri, sia degli Ainu sia in Corea. Ma il fatto più importante per questo aspetto fu l'istituzione di «miyake», parola che significa tanto i granai imperiali per la conservazione del riso, quanto anche gli stessi territori, dove questi si trovano, e divenne il nome dato ai possedimenti territoriali dell'imperatore, disseminati nelle varie province.
Nello stesso tempo aumentò anche la potenza e i possedimenti delle singole casate nobili, specialmente degli O-omi e degli O-muragi, in un modo non privo di pericoli anche per l'esistenza della stessa dinastia (situazione molto simile con i "maggiordomi" in Francia, appena distante poco più di un secolo come periodo).
Certo quelle casate dipendevano dal sovrano in quanto erano solite ricevere da ogni nuovo imperatore la conferma della loro dignità; nel fatto però si trattava solo di una pura formalità, abbastanza indipendente dal volere del sovrano.
Quale fosse realmente il potere delle influenze politiche dei grandi dignitari si sentiva soprattutto quando un imperatore moriva senza aver prima designato un successore; non vi era infatti alcuna norma precisa che regolasse la successione, all'infuori del requisito di appartenere alla casa imperiale.
Erano allora addirittura l' O-omi e l' O-muragi con qualche altro gran personaggio («Daibu») e non i membri della stessa famiglia imperiale, che dovevano fare opportunamente la nuova scelta tra i principi e rispettivamente tra le principesse imperiali.
Non c'è quindi da meravigliarsi che non siano mancati da parte di questi grandi dignitari dei tentativi di usurpare il potere supremo; tuttavia simili tentativi finirono sempre col fallire e condussero alla distruzione le case più ambiziose, che li fecero.
Così nell'anno 587 va in rovina la casata dei Mononobe, che aveva il possesso della dignità di O-muragi, e con essa si estingue anche questa dignità. Diviene allora ancora più potente la casata dei Soga, che stava a capo degli O-omi e che sembra stendesse infine la mano non senza buon successo sul potere imperiale, ma finì col trovare anch'essa la rovina, in seguito a una contro-congiura, a capo della quale vi era il figlio dell'imperatrice regnante e il capo supremo dei Nakatomi, della più prestigiosa famiglia sacerdotale (645).
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Introduzione della scrittura e del buddismo
Agli avvenimenti più rilevanti del periodo storico degli Ugi appartengono due innovazioni nel campo spirituale, che ebbero conseguenze notevoli per tutto il mondo giapponese: l'introduzione della scrittura e del buddismo.
I primordi dell'arte della scrittura sono associati all'opera di un dotto coreano, di nome Uani (Uanghin), chiamato nell'anno 405, quale maestro del principe ereditario, da Pekce, dove appena un secolo prima soltanto era penetrata la conoscenza dei segni della scrittura cinese. Se l'attività didattica di Uani, che naturalmente non è rimasta limitata al solo principe ereditario, ha dato l'impulso alla diffusione della scrittura cinese, della quale soltanto allora si ebbe conoscenza, ciò non esclude ben inteso che singoli giapponesi anche prima di allora, forse in seguito a relazioni autonome e non ufficiali con la Corea o la Cina, possano avere acquisito una certa cognizione di essa.Da come abbiamo già appreso dalle pagine della Cina, qui vi era stata una lenta evoluzione nel segno della scrittura, e non sempre uguale da provincia a provincia; solo con la dinastia Han (orientale), con l'unificazione del Paese, si era raggiunta una certa uniformità anche nella scrittura. E il segno che arriva in Giappone è già quello che era stato imposto in Cina dal ministro Li Ssu quali che fossero i dialetti parlati nelle varie province cinesi: questa universalità della lingua scritta, imposta con la forza (ma che fu uno dei principali fattori di unione della Cina attraverso i secoli fino ad oggi) indubbiamente giunse nel confinante e vicino regno coreano di Pekce, e poi di qui in Giappone, e vi giunge con il dotto Uani, già nella sua forma definitiva e perfino letteraria.
Si deve dunque cercare nell'opera di quel dotto, molto apprezzato anche in patria, il punto di partenza per l'effettiva diffusione nel Giappone dell' arte della scrittura e con essa della conoscenza dell'intera civiltà cinese in genere, che per dei secoli doveva poi divenire ben presto su tutti i campi il modello decisivo per tutto lo sviluppo del popolo giapponese.
I «Fumi no Obito» giapponesi, i capi esperti della scrittura che costituivano una classe di ugi molto stimata, davano vanto a Uani come il progenitore della loro singolare "scienza" e "arte"..
E forse, proprio per questa egocentrica esclusività, per molto tempo la nuova arte, trovò il suo sviluppo soltanto in circoli molto ristretti e privilegiati.
Nella Cina non si scriveva più come nella remota antichità con matite su tavolette di legno o di bambù, e anche la seta era già stata sostituita la carta e si era inventato il pennello e l'inchiostro per scrivere.Ma nel Giappone pare che la diffusione della carta (in luogo della quale si usava stoffe di seta o di canapa) sia cominciata per opera di un sacerdote, di un tal Tamaci, di vasta dottrina, inviato nell'anno 610 dal re di Kokurio, del quale sacerdote si vanta non solo la conoscenza dei classici cinesi, ma tra le altre ha con se' i segreti e l'abilità nella fabbricazione della carta e dell'inchiostro.
Dopo la diffusione della scrittura l'avvenimento più importante nel vecchio Giappone e il più ricco di conseguenze, oltre i confini della pura vita religiosa e spirituale, è senza dubbio l'introduzione della dottrina di Budda.
Nel suo corso vittorioso attraverso il continente asiatico, dalle spiagge tropicali del Mare Indiano fino alla costa a nord-ovest del Grande Oceano, questa dottrina non senza aver subito svariate trasformazioni e adattamenti, nel secolo IV d. C. dalla Cina era penetrata anche in Corea, ma con un atteggiamento molto esteriore anche se un tempo essa era così aliena da ogni pensiero terreno.Diede l'impulso alla sua introduzione nel Giappone un'ambasciata del re amico di Pekce, qui giunta nell'anno 552, la quale recava quali doni all'imperatore giapponese idoli, scritti ed altri oggetti pertinenti a quel culto straniero tanto stimato e pieno di fascino. La nuova dottrina chiamata « Butsu-to », cioè «la via di Budda», in antitesi alla quale il culto indigeno e nazionale della natura e degli antenati ricevette allora il nome di «Scinto», cioè «la via degli dei» o dei «kami», trovò alla Corte accoglienza molto varia; e non senza lotta e senza guerra civile poté mettere radice nel Giappone, poiché si trovò coinvolta nei conflitti politici dei due partiti dell'aristocrazia, che si contendevano il predominio.
La vittoria dell'O-omi della casa Soga sopra l'O-muragi della stirpe dei Mononobe (587) significa anche la vittoria del buddismo, promosso appassionatamente dai Soga fin dall'inizio; il buddismo del resto, ben lungi da qualsiasi attacco contro il culto nazionale dello Scinto, d'allora in poi seppe adattarsi piuttosto in modo egregio all'adorazione dei kami.
Accanto all'indigena e disadorna «Miya», reliquari dello Scinto, cominciano ora ad innalzarsi nel Giappone numerosi e magnifici templi del buddismo («tera»), ricolmi di quelle opere d'arte, dovute a maestri coreani che stavano dominando (con opere dai lineamenti greco indiani) proprie allora su quasi tutto il dominio della civiltà cinese fino al Turkestan.
Il risultato di un censimento dell'anno 623, a noi tramandato nel Nihonghi, mostra già una immagine fedele dello slancio preso dal buddismo, che contava nel Giappone non meno di 46 tera, 816 sacerdoti e 569 monache.
Relazioni con altri popoli
In modo sempre più intenso si vanno svolgendo i rapporti con gli Stati della vicina penisola. Prevalgono conflitti ostili col Kokurio a nord ovest e con Silla a oriente, a vantaggio del quale regno finisce con l'esser perduto il territorio di Mimama a sud (562), che fino allora era stato sotto l'alta sovranità giapponese.
Mentre continuano con atteggiamenti molto più amichevole le relazioni con Pekce. A questo il Giappone è debitore non solo dell'arte di scrivere e del buddismo, ma in genere della maggior parte di tutte le conoscenze introdotte nei secoli V e VI in fatto di mestieri, arti e scienze, che poco per volta sollevano il Giappone da un grado di semicultura barbarica e unicamente guerriera a quello di un Paese civilizzato.
Tessitori di broccati, ceramisti, sellai, falegnami, metallurgisti, pittori, scultori, architetti, musici, come pure maestri di letteratura classica cinese, di botanica, di medicina, del calendario e dell'astronomia, tali erano coloro che l'impero insulare attirava a se in quel tempo da Pekce nei suoi sforzi per progredire.Relazioni amichevoli si hanno pure con la Cina. Soprattutto dall'inizio del secolo VII, prima sotto il breve dominio della dinastia dei Sui (581-618), poi sotto quella degli splendidi Tang (618-907) , che ben presto sbalzarono i primi dal trono, i Giapponesi non si appagarono più dei soli maestri coreani, vollero i maestri dei loro maestri.
In seguito allo scambio amichevole di ambascerie diplomatiche, otto giovinetti giapponesi aprono nell'anno 608 (e d'allora in poi) in Cina la lunga schiera dei pionieri del sapere inviati dal governo giapponese all'estero a scopo di studi.In questo tempo, per influssi stranieri e in relazione al cinese «Impero del Mezzo», ha origine il nome di «Nihon» (o « Nippon »), "Impero del sol levante", quale denominazione politica per le isole dei Kami, e che fino allora non avevano un nome comune a tutte.
Tentativo di riforma di Shotoku
Gli influssi svariati dei paesi esterni e il loro esempio, inoltre la violazione del principio fondamentale fino allora vigente dell'ereditarietà nelle famiglie, delle dignità e delle professioni, violazione compiuta dal buddismo, che non riconosceva un sacerdozio ereditario, finalmente il predominio, che prima toccava all' O-muragi e più tardi all' O-omi, tutte queste cause ed altre ancora cooperarono ad allentare in modo pericoloso il legame tradizionale di consanguineità degli ugi.
Nell'anno 604 un editto ispirato a buone intenzioni, fondato sulle massime confuciane di saggezza, emanato dal principe Shotoku, designato quale successore al trono e già alla direzione degli affari dello Stato, promotore entusiasta e buon conoscitore del buddismo, delle scienze e dell'arte cinese, tentò di dare nuove norme alla vita dello Stato e, in aperta contradizione con gli ordinamenti vigenti sugli ugi, di concedere, come nella Cina, al sovrano una illimitata potestà su tutti i connazionali e sull'intero paese.Ma i celebrati 11 articoli del principe Shotoku non ottennero all'inizio un buon successo nella realtà; si continuò ad ereditare uffici e professioni, esattamente come prima, e il capo ebbe un dominio immutato sul proprio ugi. Tuttavia la pubblicazione di questo editto rimane storicamente un atto assai significativo, come prodromo sia pure passeggero ed anche andato a vuoto del gran sovvertimento, che iniziò mezzo secolo più tardi e che riuscì vittorioso soltanto attraverso una via violentissima, drammatica e con spargimento di sangue.
Dopo vari disordini durati quattro decenni, venne infine lo sconvolgimento, quasi necessario per la diffusa rilassatezza della società gentilizia.
Ciò che occorreva era un sovrano che avesse poteri sovrani.
E questo avvenne.