50. LO STATO E IL CRISTIANESIMO


Al centro l'Imp. Giustiniano, ai lati il clero e i vescovi

 

Uno degli elementi di importanza fondamentale che concorrono a rendere civilmente elevata una religione é che essa possieda tanto spirito di liberalità e tanta energia morale da riconoscere il diritto di altri alla propria credenza.
Ed é una delle più grandi conquiste dell'antichità l'aver saputo, malgrado i molteplici ostacoli opposti anche allora dagli interessi politici e dal fanatismo religioso alla perfetta attuazione di questo grande principio di civiltà, giungere relativamente assai vicino alla meta.
La massima che il lucido spirito ellenico aveva da molto tempo proclamata per bocca di Erodoto, che cioè «tutti gli
uomini ne sanno altrettanto in fatto di cose divine», ha mantenuto il suo valore fino al cadere dell'antichità, e proprio l'epoca imperiale concesse ad innumerevoli culti una tolleranza di cui l'uguale non si vede se non dopo la graduale riconquista fattane dalla civiltà moderna.

Con le parole di Nicola di Damasco, l'ebreo Giuseppe vanta come uno dei massimi benefici della signoria mondiale di Roma la piena libertà di religione e di culto da essa concessa a tutti popoli.
Questa tolleranza cominciò ad esser messa in dubbio dal momento in cui entrò in campo una comunità religiosa che pretese di arrogarsi il monopolio della fede di una parte dell'umanità e negò per principio al resto degli uomini il diritto alle proprie convinzioni.
Non si può immaginare dichiarazione di guerra più formidabile contro chiunque nutrisse opinioni diverse di quel passo dell'epistola ai Galati, dove tutte le religioni del politeismo e tutte le dottrine cristiane divergenti capaci di condurre allo «scisma» ed all' «eresia», sono dichiarate «opera della carne» e dei suoi appetiti avversi allo spirito, e sono poste alla stessa stregua della «crapula, dell'adulterio e della scostumatezza, dell'odio, dell'invidia e dell'assassinio»; concetto questo che ritorna continuamente poi nella polemica cristiana, e non soltanto in fanatici esagerati come Tertulliano, per il quale il politeismo é «il più grande delitto del genere umano» ed il pagano merita la pena dovuta all'assassino; ma persino in uomini come Agostino, per il quale ogni opinione divergente dal dogma cristiano merita la stessa repressione violenta che esige l'assassinio e l'adulterio.

Non fa quindi meraviglia se per lo stesso Agostino l'idea che il cristiano possa nutrire sentimenti pacifici verso coloro che seguono una fede diversa riesca tanto inconcepibile da fargli ritenere mera ipocrisia ogni manifestazione di sentimenti simili. "Se nel seno del cristianesimo - egli dice - esistono delle minoranze «eretiche» professanti principi di tolleranza, ciò é dovuto al fatto che fa loro difetto la forza !"
Ma non si può chiamare mansueta una bestia feroce solo perché le mancano i denti e le unghie! Se i Cristiani avevano idee di questo genere nei riguardi delle divergenze di opinioni in seno alla loro stessa fede (*) , si può immaginare quali idee dovessero fin da principio nutrire contro i pagani.
(*) Cominciano a nascere quelle che in seguito saranno poi 5 correnti, 56 Chiese, 175 Istituzioni)
.

Come ci si può dunque meravigliare che già Tacito abbia presupposto nei Cristiani quegli istinti violenti che essi medesimi più tardi si attribuirono e che sfogarono senza riguardo gli uni contro gli altri; se egli, perfettamente come Agostino, non vide nella minoranza cristiana impotente se non la bestia feroce cui mancavano i denti e le unghie?

È manifesto come un fanatismo simile non potesse a meno di tradursi ben presto in atti violenti. Finché l'autorità dello Stato conservò la preponderanza di fronte alla nuova fede, fu in generale inevitabile un prudente riserbo; ma tuttavia non mancarono gli oltraggi e i dileggi contro i seguaci di altre religioni, gli attentati contro le immagini dei culti estranei, le perturbazioni della pace sociale e familiare provocate da agitatori incitanti i «fedeli » contro i «pagani»; provocazioni che per necessità psicologica non potevano non suscitare una reazione più o meno vivace. La psicologia delle folli insegna.

Già i passi accennati della letteratura cristiana, che si potrebbero moltiplicare a piacere, contengono tali estremi di vilipendio e di diffamazione della religione dello Stato e delle altre religioni riconosciute, che anche il diritto penale dello Stato moderno li punirebbe a dovere. Quei sentimenti invero sono in sostanza la fonte ultima di tutti gli orrori perpetrati in nome del Cristianesimo dalla così detta ortodossia contro gli eterodossi d'ogni genere, orrori che superarono di gran lunga quelli dell'arena. (basta ricordarne alcuni, come la Notte di San Bartolomeo).
Può dunque recar meraviglia se di fronte ad una attitudine così pericolosa e illegale i contemporanei non credenti abbiano imputato ai Cristiani d'allora uno spirito spiccatamente antisociale, un «odio contro il genere umano» ed abbiano loro attribuito i peggiori delitti, quei delitti che in seguito furono da essi veramente perpetrati contro l'umanità benché sotto altra forma, ed appunto in forza di quei sentimenti?
E infatti i non-cristiani subivano spesso l'impressione che nelle pieghe profonde della società si agitassero degli elementi politicamente e spiritualmente pericolosi ed avversi alle migliori conquiste della cultura e dell'intelletto, che nulla di meglio desideravano se non di abbattere tutto ciò che ostacolava la loro via con quello stes
so sistema radicale adottato un tempo dalle orde ebree nella terrà de Canaan. E ci riuscirono ! con i massacri, le torture, i roghi, le guerre sante. Il Medioevo e lì, a testimoniarci il periodo oscuro della storia, dove invece della cultura e dell'intelletto umano sugli uomini cadde una buia cappa di oscurantismo: via l'arte, la musica, lo sport, la letteratura, la filosofia, e brillò negli animi umani di circa quaranta generazioni, più solo la rassegnazione. Molti non seppero, non videro nè presero coscienza che vi erano stati periodi luminosi come invece noi oggi sappiamo e conosciamo, sfogliando una qualsiasi enciclopedia o visitando i ricchi musei archeologici.

Una politica di sterminio che nei fatti già Tertulliano addita e vanta come esempio ai Cristiani nel loro procedere contro i pagani !
Ben si vede come questo principio di assoluta intolleranza inconciliabile con la pace sociale e con ogni progresso civile, cui non poteva riuscire a togliere il carattere odioso la condotta esteriormente legale della grande maggioranza dei Cristiani, contenesse già di per sé solo abbastanza materia infiammabile per provocare lo scoppio di un conflitto con lo Stato e così far iniziare un lungo e tempestoso periodo della storia.

Ma vi é di più, perché vi si aggiunse la provocazione più o meno aperta da parte dello Stato medesimo che non poté essere evitata malgrado tutte le dichiarazioni di fedeltà e lealtà e le preci per l'imperatore. Era infatti noto che già il fondatore del Cristianesimo aveva ritenuto come cosa certa, infallibile, che il regno dei Cesare, che egli e il suo popolo non guardavano se non come il regno di Satana, sarebbe presto stato distrutto dall'avvento del regno de Dio.
E questi cuori cristiani devono essersi edificati davanti alle immagini della terribile catastrofe con cui la prima sacra scrittura del Cristianesimo, la «rivelazione di S. Giovanni» (Apocalisse) prediceva loro la distruzione di Roma, le cui desolate rovine sarebbero state scelte a sede degli impuri spiriti e demoni, mentre un grande giubilo avrebbe regnato in cielo !

Come devono essersi essi inebriati al canto trionfale degli angeli per la caduta della grande «Babilonia», per là morte vergognosa della «grande meretrice in veste di porpora» che «é inebriata del sangue dei santi», all'immagine "dell'orribile banchetto degli uccelli celesti che divorano la carne degli imperatore e dei re e dei loro eserciti abbattuti, atterrati dall'ira divina!"

«Il nostro regno é in cielo, dal quale attendiamo pure il salvatore» ; questo detto di Paolo contiene in un certo senso una professione di fede politica; esso significa che il Cristiano anche politicamente si sentiva membro di una nuova comunità, e siccome questa aveva assunto sin dall'inizio un principio un'attitudine ostile all'ordine politico esistente, egli si sentiva membro di un consorzio guerriero, di una « milizia » (militia) del vero Dio e di Cristo.

Cristo, da Tertulliano in poi, é addirittura designato come imperator dei Cristiani, il battesimo é caratterizzato sacramentum nel senso del giuramento militare. E come i principi ellenistici e i Cesari si erano attribuito il nome di re, imperatore, signore e salvatore (soter), così i Cristiani si arrogarono gli stessi titoli per il fondatore del «vero» Stato. E perciò modellarono pure in parte il racconto del suo ingresso nel mondo alla stesso modo che lo avevano costruito per sé i re-salvatori dell'ellenismo e l'imperatore Augusto: essi trasportarono nella storia della natività di Gesù il motivo che in queste favole della natività di principi ritorna costantemente da Cero ad Augusto, il proposito cioé da parte dell'autorità dominante di ucciderli, ed altri motivi stereotipi del genere, i Magi, l'oracolo, l'astro annunziatore.

Specialmente l'adorazione dei Magi ha da questo punto di vista la massima importanza, perché per i Cristiani essa formò l'antitesi alla storia dell'omaggio dei magi persiani e del loro grande sacerdote, a Nerone ed al culto degli imperatori in genere.
Né l'antitesi si ferma ad una semplice protesta letteraria. Il famoso racconto, per il quale Gesù ricorse a mezzi rivoluzionari cacciando con la forza i mercante dal tempio, esprimeva nella più chiara maniera possibile che il soldato di Dio era autorizzato a sovvertire ogni ordine giuridico esistente qualora questo gli sembrasse contraddire alla volontà divina.

Se quindi i Cristiani non distrussero ancor prima gli altari ed i templi pagani, ciò avvenne per la sola ragione che ne mancava loro la forza; tanto più fermamente però essi sostennero il loro principio esclusivo in una questione, nella quale non potevano sottomettersi allo Stato senza cadere in un conflitto insolubile con le loro convinzioni religiose, nella questione del culto dello Stato.
Se lo Stato romano esigeva dai suoi sudditi il culto degli imperatori, vale a dire l'adorazione delle statue imperiali, non voleva con questo imporre loro di credere alla verità della religione dello Stato, non voleva estorcere loro una professione di "fede" religiosa. Esso reclamava semplicemente una venerazione, un ossequio, consistente in semplici cerimonie esteriori, in quanto rappresentavano i simboli dell'onnipotenza dello Stato romano. (una reverenza (e non ci meravigliamo) che è presente ancora oggi quando la regina d'Inghilterra appare in pubblico con il suo scettro e il manto regale)

Il culto degli imperatori per esso dunque non voleva dire altro che un omaggio alla maestà dello Stato in cui l'imperatore non interveniva propriamente come persona, ma come il rappresentante di una istituzione «divina». Lo Stato perciò nel diniego per principio di adempire a questo culto vedeva più che un sacrilegio, un reato politico, un delitto di lesa maestà.

E gli stessi Cristiani, come ad es. persino Tertulliano, dovettero ammettere che con ogni verosimiglianza il Cristianesimo sarebbe stato lasciato in pace se si fosse limitato a fare l'opposizione agli dei dell'Olimpo e avesse trovato modo di scendere ad un compromesso con il culto degli imperatori.

Perciò la questione del culto degli imperatori non era neppure lontanamente tanto pericolosa per la causa della libertà religiosa quanto lo fu la politica religiosa degli imperatori cristiani posteriori e dei principi della Chiesa che loro succedettero nella signoria su Roma. Costoro portarono in tutt'altra maniera all'estremo l'antica divinizzazione della potestà terrena, ed in forza del loro diritto «divino», richiedente una assoluta sottomissione, si arrogarono un potere sulle coscienze, in confronto al quale il culto degli imperatori appare addirittura una cosa inoffensiva, un potere - come dice una moderna enciclica romana - «non solo sulla volontà, ma anche sulla ragione» dell'uomo!

Se pertanto una simile politica sistematica di bavaglio intellettuale e religioso, il cui risultato finale nei riguardi della vita intellettuale più elevata sarebbe stato la riduzione dell'uomo europeo al livello di una pecora, fu posta in opera non dai Cesari pagani, ma soltanto dai dominatori temporali e spirituali cristiani, non é dunque esatto sostenere che la lotta dei Cristiani contro lo Stato pagano fu dal loro punto di vista e per principio una lotta per la libertà della fede e della coscienza, una lotta contro la confusione della religione con la politica.
Al contrario!
Essi avrebbero acclamato i Cesari se avessero posto il potere dello Stato in servizio del Cristianesimo contro le altre religioni. Di fronte al principio della assoluta soppressione della personalità religiosa ed intellettuale dell'uomo che venne applicato dalla Chiesa vittoriosa, il punto di vista dello Stato pagano era da considerare molto più liberale! E per quel che concerne la società pagana, il culto dello Stato nelle classi intellettualmente più elevate era da tempo soltanto una semplice formalità. (nessuno in Inghilterra vede oggi la regina come un Dio!).

Queste classi infatti erano già abbastanza evolute per non vedere che la religione realmente sentita non può essere altro che questione di libera scelta e di determinazione individuale. Gli stessi apologeti cristiani fanno appello a questo liberalismo. Così ad es. Tertulliano, il quale enuncia la massima eretica che «non religionis est cogere religionem»; massima che suona piuttosto molto singolare in bocca ad un fanatico del suo genere ed involontariamente richiama alla mente il detto di quel sacerdote moderno: «Sinché siamo in minoranza, chiediamo la tolleranza basandoci sui vostri stessi principii, quando poi abbiamo la maggioranza ve la neghiamo in base ai nostri».

Se lo Stato pagano avesse agito conformemente a questa massima, le comunità cristiane ed il culto cristiano non si sarebbero potuti diffondere, così poco disturbati per due secoli in tutto l'impero, come avvenne appunto in grazia della larga tolleranza dello Stato.
Persino l'adempimento del culto degli imperatori non fu perseguito con quel rigore che si potrebbe credere. Dove la resistenza a piegarvisi non presentava pericoli politici e meritava riguardi l'esistenza di antichissime tradizioni religiose nazionali, come presso gli Ebrei, lo Stato vi rinunziò addirittura. Ed anche contro i Cristiani, la cui propaganda invece minacciava nelle sue fondamenta la religione dello Stato, non procedette a coercizioni se non con esitazione e saltuariamente. Se quindi gli «atti dei santi», vale a dire dei martiri, favoleggiano di persecuzioni che riempiono di sangue e di morte quasi tutta la storia dei primi tre secoli dell'impero, esse non sono in larga misura se non parti di una fantasia delirante che, si impegnò ad inventare nuovi martiri e miracoli e falsificò in modo veramente straordinario la tradizione a glorificazione della chiesa e dei suoi campioni; falsificazione che nel libello di Lattanzio sulla morte dei persecutori dei Cristiani intaccò anche la storia degli stessi Cesari.
Si pensi infatti che ancor nel terzo secolo un padre della chiesa, Origene, dice apertamente, che il numero dei Cristiani morti sino allora per la loro fede si poteva facilmente contare. E se anche questa asserzione é per avventura troppo ottimista, non vi può esser tuttavia dubbio che le persecuzioni dei Cristiani da parte dei Cesari pagani non possono neppure lontanamente reggere al confronto delle persecuzioni degli eretici da parte dei tribunali ecclesiastici in fatto di veri massacri di gran numero di vittime e di qualità dei tormenti ad esse inflitti.

In aperta antitesi a quella massima della chiesa che obbliga persino i figli ed i genitori, i fratelli ed i coniugi a denunziarsi reciprocamente, Traiano, ancora a suo tempo, nella famosa istruzione diretta al governatore di Bitinia, Plinio il Giovane, stabilisce il principio che i Cristiani non dovessero essere ricercati dalle autorità e che non si dovessero accogliere denunzie anonime contro di loro; né del resto le autorità locali si mostrarono in generale affatto disposti ad ascoltare le petizioni a loro indirizzate contro i Cristiani da assemblee territoriali esageratamente zelanti, ovvero le voci che correvano su pretesi delitti dei Cristiani.

Se alcuni degli imperatori usarono maggior rigore, come Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, furono sempre cose di importanza del tutto transitoria. Soltanto verso la metà del terzo secolo si ebbero due gravi e generali persecuzioni; sotto Decio e Valeriano; ma non durarono che un anno e le loro conseguenze rimasero cancellate dal lungo periodo di pace che seguì (259-303), nel quale le persecuzioni tacquero si può dire del tutto e la chiesa poté senza timore condurre la sua esistenza quasi come una comunità religiosa riconosciuta.
Il cristianesimo divenne allora pienamente una religione delle masse e la chiesa poté condurre a compimento la sua organizzazione universale fino al punto che sotto la forma di una potente confederazione di vescovi venne a costituire addirittura uno Stato nello Stato. Non é pertanto meraviglia che allora, la cristianità latina specialmente, sia stata invasa da uno spirito bellicoso che si rivela nella letteratura occidentale in modo assai caratteristica nel tono fanatico oltre misura che essa assume. «Il cristiano minacciò di trasformarsi in miles gloriosus» ; né mancarono discorsi addirittura rivoluzionari (e che in seguito vennero sotto il motto "Dio lo vuole!".)

In un'epoca come quella di Diocleziano, nella quale invece si andava sistematicamente costituendo l'onnipotenza dispotica dello Stato assoluto, tutto questo doveva necessariamente provocare un conflitto (303). Se non che le cose erano già arrivate a tal punto che Diocleziano avrebbe dovuto sacrificare una gran parte delle migliori energie popolari se avesse anche in questo campo voluto portare alle estreme conseguenze il suo sistema.

La pratica gli dimostrò come, malgrado le non poche defezioni, persino l'energia di un dispotismo brutale e la barbarie delle pene era impotente a vincere la tenace coesione di quella poderosa organizzazione ed il coraggio temerario dei suoi affiliati; a prescindere del resto dal fatto che anche la persecuzione dioclezianea non é per intensità e persistenza paragonabile agli orrori perpetrati da un Torquemada, da un Pietro Arbues e da un duca d'Alba.

Per conseguenza non ha che l'importanza di un riconoscimento del fatto compiuto l'editto di tolleranza di Milano con cui Costantino e Licinio concessero al cristianesimo l'equiparazione all'antica religione (313)
E' facile comprendere come la chiesa abbia celebrato quale un «secondo Mosé», l'uomo che decise definitivamente a suo favore la lotta tra la vecchia e la nuova fede, Costantino il «grande», e come la chiesa anatolica, armena e russa ne abbia fatto un «santo». In realtà nessuno ha meritato meno di lui questa stilizzazione ieratica, egli, l'uomo violento e senza scrupoli, il cui egoismo sanguinario non conobbe altro fine più nobile al di fuori della potenza, che nel perseguirlo inesorabilmente versò fiumi di sangue e si fece persino carnefice dei suoi più prossimi parenti, di suo figlio Crispo, di sua moglie Fausta e malgrado il solenne giuramento - di suo cognato Licinio, come pure di suo nipote, un ragazzo undicenne!

Il suo é un indifferentismo morale cui in fondo mancava il senso del bene e del male e che quindi lo rendeva a priori incapace di vero sentimento religioso. La tanto vantata religiosità di Costantino non é ohe l'adorazione del successo, che vede in esso l'opera di una forza soprannaturale, la credenza volgare in sogni e nei presagi e specialmente anche nelle immagini e nei distintivi della divinità. Egli era convinto che il dio dei Cristiani era il più potente, e glielo confermò la sconfitta del pagano Massenzio. E perciò fece affiggere il monogramma di Cristo sugli scudi dei suoi soldati, sulle bandiere e sul suo elmo e adornare di chiodi della croce di Cristo il suo diadema e le redini del suo cavallo; egli li considerava segni ed oggetti di efficacia magica al cui potere miracoloso credeva insieme con i suoi soldati.

E come era convinto di incatenare così al suo carro trionfale un dio potente, così fu ín sostanza pure la potenza che la chiesa di Cristo rappresentava quella che lo indusse a porsi (opportunisticamente) egli stesso alla testa di questo Stato nello Stato per sfruttare le poderose risorse intellettuali e morali di esso agli scopi della sua politica di accentramento dispotico.
Tanto più poi la chiesa gli sembrò strumento idoneo di dispotismo, in quanto essa col sistema episcopale si era data una costituzione e organizzazione che era perfettamente conforme alle tendenze accentratrici ed assolutiste dello Stato. Salvo il diritto di eleggere e confermare i loro sacerdoti, le comunità cristiane avevano da tenpo perduta la loro originaria impronta democratica. I loro capi si erano trasformati da sostegni in padroni e - come la burocrazia dello Stato - si erano organizzati in una casta a parte, in «clero», che si era attribuito un potere soprannaturale ed in forza di questo suo preteso più intimo rapporto con la divinità si era completamente isolato dai cosiddetti laici.

Ma si era anche verificato a spese della religione popolare uno schietto regresso nel senso delle religioni dei misteri del tipo di quella di Mitra con le sue mistiche consacrazioni e i suoi gradi gerarchici.
Nel tempo stesso poi questa casta, anche qui come la burocrazia, si era organizzata in vari strati di rango progressivo con a capo una potente e numerosa oligarchia di vescovi e di «metropolitani», di fronte ai quali la massa dei «laici» nel campo religioso ed in parte anche in quello mondano costituiva una massa assolutamente soggetta, un «gregge», qual'era del resto anche prima di fronte all'imperatore nello Stato assoluto.

È chiaro l'immenso incremento di potenza che sarebbe derivato a Costantino ed alla sua dinastia se egli riusciva a legare strettamente a sé questo colossale esercito sacerdotale ed i milioni di anime su cui esso imperava, e ad essere riconosciuto da loro come il proprio capo gerarchico, il loro «comun vescovo», come egli stesso si designa nei suoi rescritti.

Espressione di questa politica è la liberalità con cui ora egli concesse ai sacerdoti cristiani le immunità e privilegi dei sacerdoti pagani, e la maniera con la quale nelle sue leggi e rescritti riconobbe l'origine divina della nuova fede e accarezzò le idee cristiane. I Cristiani ebbero inoltre la soddisfazione di veder represso con inesorabile rigore quanto poteva nel culto pagano essere attaccato come atto a suscitare «scandalo» o come "moralmente riprovevole", e di vedere sotto questi ed altri pretesti chiusi numerosi templi pagani e incamerati con i loro beni dallo Stato, atto di secolarizzazione provocato non meno da interessi fiscali, come si vede dal fatto che alle enormi spese della fondazione di Costantinopoli si sopperì in parte proprio con i beni confiscati dei templi (ma solo a Roma e non nella stessa Costantinopoli).

Molti di questi vennero spogliati dei loro preziosi ornamenti metallici e di una gran quantità di statue per mandare i primi alle fonderie fiscali o alla zecca e per adornare con le seconde la nuova capitale.
I fedeli della vecchia religione dovettero, con il cuore pieno di ira repressa, vedere le venerabili statue trascinate con funi fuori dei templi e vedere passare in definitiva nelle mani dei Cristiani una quantità di templi e le ricchezze che questi contenevano.

Se non che Costantino, per quanto abbia sempre più identificato in realtà l'interesse della corona con quello della chiesa e sia arrivato con la fusione del sacerdotium e dell'imperium sino al punto da accogliere da ultimo nello stile ufficiale le peggiori mostruosità del gergo ecclesiastico, designando ad es. come «culti bugiardi» tutti gli altri culti e le altre religioni, pure non poté dall'altro lato fare a meno, di fronte al numero ancora rilevante dei seguaci della vecchia fede che si trovavano nell'amministrazione, nell'esercito e nel popolo, serbare al possibile l'apparenza della tolleranza, tanto più che la corona si era messa rispetto ai partiti religiosi in condizione di utilizzarli tutti senza gettarsi completamente nelle braccia di uno solo di essi.

Così Costantino venne a capo di questo, di presiedere contemporaneamente dei sinodi cristiani quale primo fra i vescovi e nominare quale pontefice massimo dei sacerdoti pagani! E persino allorché sul finire della vita si decise ad entrare battezzandosi nella comunità della chiesa, non chiese per questo che si rinunziasse alla sua consacrazione pagana, alla sua collocazione fra gli dei ! Questo imperatore, morto da cristiano battezzato fu sotto il regno dei suoi figli allevati nella fede cristiana dichiarato divus dal senato romano ed ebbe un culto come gli altri imperatori; e ciò appunto perché non potendo il paganesimo dirsi ancora vinto, l'apoteosi era per Costantino e per la sua dinastia altrettanto importante quanto il battesimo.

Per ingraziarsi i Cristiani e per procurare alla sua anima carica di peccati, il «suggello salvatore» egli in punto di morte si fece battezzare (ma a raccontarcelo è il solo Eusebio, suo panegirista), e per riguardo ai pagani si lasciò divinizzare. Perciò pure nelle cerimonie della fondazione della sua nuova capitale non mancarono il ierofante pagano ed il sacerdote che la consacrasse; e come rimasero in piedi i templi pagani della vecchia Bisanzio, così la città nuova ebbe al pari di ogni altra città ellenica la sua dea protettrice o il suo Zeus.

Moneta di bronzo dell'Imperatore Costantino
Ai suoi piedi la pantera dionisea, il simbolo del paganesimo

La si vede anche sulle monete, come del resto anche altre monete di Costantino continuano a portare emblemi pagani accanto ad emblemi cristiani ovvero neutrali. Del resto è significativo il linguaggio piuttosto equivoco, col quale cercò di dare ai suoi rescritti una tinta che non urtasse nè l'una nè l'altra parte, un linguaggio cioè che non è nè nettamente cristiano nè nettamente pagano !

E come Costantino si manifesta a tale riguardo un freddo calcolatore politico, tale si dimostra pure di fronte alle varie dottrine che erano spuntate in seno alla stessa chiesa cristiana. Nel suo intimo le sottigliezze delle dispute teologiche lo lasciarono del tutto indifferente, anche perchè non le capiva. Lui le guardava come «una oziosa contesa su cose imperscrutabili»; ma questo indifferentismo non lo portò fino a fargli dimenticare il suo interesse politico cui non conveniva che la chiesa si dissolvesse in una serie di sètte. E a dire vero queste controversie dogmatiche degli ecclesiastici e delle fazioni che le seguivano si erano così acuite nel popolo per l'ostinatezza degli orientali e la dialettica sofistica dei Greci, dando già luogo in parte a conflitti sanguinosi, da provocare il dileggio dei pagani e da far sì che - come ci dice Eusebio - «i sacri misteri del domma divino vennero dagli infedeli coperti di scherno persino dalla scena».

Non a torto Costantino vide in ciò una causa di debolezza ed un pericolo per l'unità dell'impero. E perciò non esitò un momento ad intervenire nella vita interna della chiesa agli intenti della sua politica unitaria, anche a rischio di cadere in contraddizione con le sue solenni dichiarazioni di tolleranza, nelle quali aveva infatti riconosciuto a chicchessia il diritto di acquistarsi a suo modo la beatitudine nel mondo di là.
Ma la verità è, che per lui la tolleranza o l'intolleranza dipendevano semplicemente da considerazioni politiche.

Lo dimostra già il suo contegno nella questione del conferimento del seggio vescovile di Cartagine, che a causa del fanatismo passionale delle parti contendenti ed in particolare del vescovo Donato e dei suoi fautori era arrivata ad un estremo tale che gli stessi contendenti disperarono di trovarne una soluzione e si appellarono all'imperatore (313). Egli decise contro i Donatisti, e non avendo questi voluto ubbidire, fece usare la forza. Ma quando vide nascere una vera e propria ribellione e vide che essa, per l'estendersi dei movimento al proletariato rurale gravemente oppresso ed istigato da fanatici sfrenati, i così detti Circumcellioni, assumeva il carattere di una lotta fanatica di classe, virò subito di bordo e con ambigui proclami raccomandò ed ammonì nuovamente di essere tolleranti. E di fatto almeno ai Donatisti fu concessa libertà di religione.

Assai significativa pure a dimostrare come egli si lasciasse guidare da un criterio essenzialmente politico è la maniera come si comportò nella lunga contesa provocata dal prete alessandrino Savio sul rapporto intercedente tra il padre e il figlio in seno alla trinità, e che in seguito all'agitazione fanatica condotta dal suo avversario, il diacono alessandrino Atanasio, suscitò nella chiesa una commozione acutissima.
Con fine ironia, in cui si manifesta la superiorità dell'uomo di Stato spassionato a confronto di quei fanatici sofisti, egli richiama l'attenzione sulla "poca o nessuna importanza che per la vita ha l'entrare in lizza per simili controversie. Che i teologi prendessero ad esempio la filosofia pagana, nella quale avevano coesistito pur con indirizzi diversi".

Rimasto naturalmante inascoltato questo appello, egli pensò di ripristinare la pace, radunando un'assemblea di vescovi, e la convocò a Nicea nella Bitinia (325). Una votazione in altri termini avrebbe dovuto decidere una questione di quelle che sappiamo bene che non possono mai decidersi a colpi di maggioranza.
E si fosse almeno lasciata libertà di voto! Tutt'altro, perchè, presa una volta la determinazione di ricorrere al rimedio meccanico della maggioranza, non si rifuggì dall'adottare altri rimedi esteriori. Intrighi, adulazioni, promesse e minacce non vennero risparmiate per arrivare alla desiderata deliberazione a maggioranza.

Fu un trionfo della politica e della violenza l'aver ottenuto che alla fine una schiacciante maggioranza del concilio votasse contro la propria convinzione una formula «ortodossa», per la quale l'imperatore, dopo aver fin dall'inizio molto esitato, aveva poi usato tutta la sua autorità in un solo senso.
Il timore dell'ira imperiale e la minaccia di deposizione dalla carica fece tacere quasi ogni opposizione. Il solo Ario e due vescovi egiziani rimasero irremovibili. E vennero senz'altro deposti e banditi e gli scritti di Ario furono condannati alla distruzione. Si arrivò nel violentare le coscienze sino al punto di costringere coloro che avevano rinnegato la loro fede a sottoscrivere una dichiarazione in cui condannavano solennemente la propria opinione! - una degradazione contro la quale soltanto due vescovi osarono protestare, cosa che naturalmente li portò a doversene andare in esilio.

In bocca a Costantino dopo aver proclamato questo "suo" e solo "suo", trionfo della violenza c'è una frase quasi blasfema: «Ciò che è piaciuto a trecento vescovi non può essere altro che la volontà di Dio !».

Egli ebbe tanto poco rispetto di questa volontà, che in realtà era la volontà sua, e appena pochi anni dopo, di fronte all'opposizione sempre più divenuta generale contro la violenza di Nicea, compì una decisa diversione a favore di quei vescovi che si mostravano avversi - compreso ora anche Ario - a consentire in una formula tenuta in termini più generali e che conciliasse le varie opinioni. Egli richiamò Ario e gli altri esiliati e reclamò la reintegrazione del primo nella sua carica sacerdotale !

Vero è che con questa pretesa scatenò fra gli ortodossi una tempesta, di fronte alla quale non trovò prudente di attuare con la forza il suo volere. Atanasio, divenuto ora vescovo di Alessandria, osò opporsi apertamente all'imperatore. E solo allorquando il sinodo di Tiro, in cui gli Ariani ebbero la maggioranza, fulminò contro di lui la deposizione e riaccolse in seno alla chiesa il «birbante matricolato», come il vescovo ortodosso di Costantinopoli chiamava Ario, l'imperatore si decise a mandare in esilio a Treveri il bellicoso principe della chiesa, il che nondimeno ebbe questo solo effetto, che in grazia delle altissime qualità personali di Atanasio, l'Occidente entrò più decisamente di prima in lizza per lui e per l'« ortodossia », e dopo la morte di Costantino il maggiore dei suoi figliuoli, l'ortodosso Costanzo che regnava in Occidente, obbligò il fratello minore Costanzio regnante in Oriente e di fede ariana, a concedere ad Atanasio di ritornare alla sua sede vescovile. Soluzione questa che però naturalmente fu soltanto transitoria, perchè Atanasio fu ritenuto eretico dalla maggioranza della chiesa orientale, cosicchè l'indirizzo prevalente in Oriente - considerato «ortodosso» - con la riunione dell'impero, nelle mani di Costanzo prese anche politicamente il sopravvento.

Singolare ironia della storia! Gli ortodossi, i quali avevano salutato con giubilo a Nicea la violenza compiuta da Costantino sugli Ariani, ora che le sorti si erano ribaltate reclamarono la neutralità dello Stato e la tolleranza.

Finchè avevano avuto l'imperatore ligio ai proprii voleri, egli era stato per loro il successore di Davide e di Salomone. Essi non avevano trovato nulla di strano ad ammettere un papismo cesareo che aveva fatto di lui addirittura il supremo sacerdote della chiesa; infatti, essi dicevano, "è la chiesa che è nello Stato e non lo Stato nella chiesa".

Ma al momento in cui lo Stato prese una via diversa dall'ortodossia, predicarono il principio diametralmente opposto. Avvenne a loro quel che avevano fatto prima agli altri. Ario non avrebbe potuto desiderare una punizione più drastica della lacrimevole catastrofe subita dagli ortodossi nel sinodo di Milano (355) che fu quasi in tutto l'opposto di quello di Nicea. Invece della formula ortodossa, l'imperatore propose ora una formula prevalentemente ariana, invece della condanna di Ario fu reclamata quella del suo più avverso nemico, Atanasio, contro il quale l'imperatore avendo incontrato opposizione, pronunziò di suo arbitrio la sentenza di condanna.

Del pari l'opposizione contro la formula proposta venne vinta dall'imperatore col minacciare di gravissime pene chiunque osasse resistere; egli dichiarò ai padri adunati al concilio che la propria volontà era "legge per la chiesa altrettanto quanto per lo Stato!" Come a Nicea, anche ora la grande maggioranza sottoscrisse una formula che secondo la sua convinzione era eretica.
I pochi che rimasero saldi incorsero nella stessa sorte degli Ariani che non vollero piegarsi a Nicea, furono messi al bando.

È chiara l'enorme contraddizione che a questo modo venne insinuata nella vita della chiesa. Se il simbolo estorto dall'imperatore a Nicea era per gli Atanasiani il verbo dello spirito santo, perchè gli avversari non dovevano ritener lo stesso per quello di Milano? E con qual diritto poteva ora Atanasio insorgere contro lo Stato dopo che nelle stesse condizioni aveva reclamato da Ario incondizionata sottomissione ? Ma che importava la logica a costoro?

Le truppe che dovevano arrestare il vescovo Atanasio, trovarono ad Alessandria viva resistenza nelle masse fanatizzate dal clero, dai monaci e dalle monache. Il vescovo non scese dal suo seggio nella cattedrale se non quando la chiesa fu occupata dalle truppe. E si sottrasse al braccio temporale fuggendo presso gli anacoreti dell'alta Tebaide.

Sono scene che già arieggiano in più parti e sono molto simili alle lotte medioevali tra il potere spirituale ed il potere temporale, al conflitto fra il papato e l'impero. E queste scene di violenza coll'acuirsi sempre di più delle controversie dommatiche divennero sempre più frequenti. Ogni partito nella sua sconfinata smania combattiva ed avidità di prepotere cercò di soffocare ad ogni costo quelli che la pensavano diversamente.
I numerosi medesimi concili, che erano destinati a tentare di mantenere almeno esteriormente una certa unità offrono un brutto spettacolo, di degenerazione di ogni sano criterio e di ogni sentimento morale. Si pensi che i vescovi nei concili vennero addirittura alle mani fra loro! Non è che la pura verità quella detta dallo storico Ammiano, che "le bestie feroci non erano così nemiche fra loro come i Cristiani".
Possono servire di commento abbastanza drastico a questo giudizio i conflitti scoppiati in Africa, dove la setta dei Donatisti fu spinta nuovamente alla ribellione dai violenti tentativi unionisti, accompagnati da confische, torture e flagellazioni, fatti dagli imperatori Costante e Costanzo II, e nuovamente. scatenò una formidabile lotta di classe, giacchè lo Stato fu così poco prudente da affidare la persecuzione degli eretici ai latifondisti cattolici.

Ogni padrone era incaricato di cacciare a forza in chiesa, i propri contadini a colpi di verghe e con altre pene corporali, e la chiesa naturalmente copriva questi atti con la propria benedizione. Tanto e vero che Agostino trovò perfettamente naturale che lo Stato si fosse assunta la funzione del «pastore », che «con la frusta risospinge all'ovile le pecore smarrite », e che lo Stato medesimo metteva fuori combattimento i «ladri » che «avevano adescato fuori di strada le pecore!». Alle pecorelle smarrite poi egli spiega come non si possano lagnare delle frustate, perchè «se sono flagellate è per amore e non per odio ! ».

Niente potrebbe essere più significativo, quale indice della immensa decadenza dello spirito antico, del fatto sinora non abbastanza apprezzato che persino un uomo come Agostino sia potuto scendere a un livello così basso di pensiero e di linguaggio. É addirittura nel rozzo naturalismo del semi-incivilimento che ricade questa drastica polemica contro le opinioni diverse dalla propria con le sue immagini tratte dal mondo animale.
Ed in realtà essa prende con piena coscienza le mosse dalla barbarie del semi-incivilimento, giacchè giustifica senz'altro la brutale sopraffazione della fede degli altri dai "pretesi esempi dell'Oriente giudaico".

E già in Agostino troviamo pure quella logica tristamente famosa, che ritorna in seguito nel trattamento dei pagani da parte del vescovo di Roma, che esorta le persone maltrattate a causa della loro « incredulità », spogliate dei loro averi, cacciate dai loro campi, a vedere in questi turpi maltrattamenti un invito a «riflettere».
Ma persino la rigorosa reazione dei tempi di Graziano potè così poco vincere la resistenza dell'eresia africana, che essa ancora verso la fine del IV secolo era rappresentata da una chiesa potente.

Più fortunata che in Africa fu la politica dei Cesari ortodossi diretta a estirpare l'eresia nel resto dell'impero. Questa politica cercò di imporre ad ogni costo ai sudditi ciò che essa chiamava la «santità cattolica». Con vari editti di Graziano (dal 376 in poi) furono vietati - evidentemente per influenza di Ambrogio - «tutti i conciliaboli della presunzione eretica». Furono tolte con la violenza agli «eretici» le loro chiese e date alle comunità «cattoliche». E quando quelli per non trovarsi nella condizione di dover rinunziare ad ogni atto di esercizio del loro culto si adunarono di nascosto, anche questo culto privato fu vietato sotto minaccie delle più dure pene.

Più rigoroso ancora si mostrò in Oriente Teodosio, nella cui persona si presenta per la prima volta la figura del cattolicesimo spagnolo in tutta la sua ferocia. Benchè allora in Oriente la maggioranza dei Cristiani fosse tuttavia ariana, questo spagnolo cui la chiesa ha dato il nome di «Grande», dichiarò con l'editto del 380 che la dottrina del Concilio di Nicea doveva considerarsi «cattolica» e che quindi tutta la cristianità vi si doveva sottomettere senz'altro. Questo monarca assoluto «ortodosso» decreta così il suo dominio dispotico non solo sulle persone e sui beni, ma anche sulle anime e sulle coscienze dei sudditi - e la chiesa gli fa plauso.

Nell'editto tutti gli acattolici sono designati come «eretici pazzi e deliranti» che professano un dogma « infame ! ». Costantinopoli, in grande prevalenza ariana, dovette in un batter d'occhio diventare «cattolica» ed il vescovo ariano fu costretto ad abbandonare la città, dopo di che un concilio fulminò di solenne anatema gli Ariani e tutti gli altri eretici, ai quali ora, non diversamente che in Occidente, furono tolte tutte le chiese e reso impossibile mediante la comminazione di gravi pene, quali l'esilio e la confisca dei beni, ogni esercizio del culto in comune.

L' « unità », vale a dire la quiete sepolcrale, che l'assolutismo aveva perseguito nel campo temporale era ottenuta in larga misura anche nel campo spirituale-religioso. Non vi fu che una forza in Europa, dinanzi alla quale la politica dispotica della chiesa fu costretta a cedere: i Germani.
Gli ecclesiastici ariani esiliati trovarono asilo fra i Goti, che sotto gli antecedenti imperatori ariani si erano in parte convertiti all'arianesimo, ed in conseguenza di ciò l'arianesimo si diffuse ancor di più fra i Goti e attraverso questi ultimi fra la maggior parte delle popolazioni germaniche: condizione di cose che spesso aggravò l'inimicizia fra i Romani cattolici ed i Germani.

Naturalmente era inevitabile che la politica ecclesiastica di violenza adottata dagli imperatori in seno al cristianesimo si rivolgesse ben presto anche contro i culti non cristiani. E già sotto i figli di Costantino vediamo proclamata contro le antiche religioni una vera e propria guerra di sterminio. Si vuole che cessi la «superstizione», che si estirpi «la follia dei sacrifici», e si tolga così «ai perduti (!) la possibilità di peccare (!)».
Fu pertanto vietato il culto pagano e ordinata la chiusura dei templi. Chi avesse osato sacrificare ovvero adorare le statue degli dei sarebbe stato colpito dalla «spada vendicatrice» e il suo patrimonio confiscato. L'idea della tolleranza è designata da Costanzo addirittura come una «nefaria licentia».

Come si vede ci troviamo già pienamente di fronte al gergo ecclesiastico medioevale, che ci si presenta anche altrove, in maniera particolarmente drastica ad es. in un opuscolo cristiano relativo agli «errori delle religioni profane» in cui si istigano i Cesari al rigore contro gli « increduli » ricordando un passo del Deuteronomio (13, 6) dove si ordina ai « pii » di vendere il proprio fratello e l'amico, anzi il figlio proprio e la moglie, qualora essi tentassero di adescarli ad una fede straniera! E meglio, si dice, "salvare gli infedeli contro la loro volontà piuttosto che lasciarli andar perduti colla loro volontà!

Certo questa nauseante sofistica pretestuosa non potè allora essere realizzata così radicalmente e terribilmente come più tardi nell'Europa completamente cristianizzata. La moderazione dei funzionari esecutivi e la celata o aperta resistenza dei seguaci, tuttora numerosi, dell'antico fecero si che di fatto le persone specialmente fossero risparmiate, per quanto abbia fatto grandi progressi la guerra di distruzione contro i simboli esteriori della vecchia fede, la distruzione e profanazione dei templi, la demolizione delle statue degli dei.

E' vero che l'antica fede era ancora troppo saldamente radicata in innumerevoli cuori e proprio allora aveva acquistato alla sua causa la persona che si trovava più vicina al tronco: l'ultimo rampollo della casa di Costantino, Giuliano, acclamato Augusto a Parigi nel 360 dalle truppe e coperto di gloria per le sue fortunate guerre contro i Franchi e per la grande vittoria riportata sugli Alemanni (a Strasburgo); a lui dopo la morte di Costanzo toccò in sorte la signoria su tutto l'impero (361).

Conquistato sin da giovane dai grandi ideali dell'ellenismo, Giuliano si era da tempo nel suo intimo ribellato alla gretta dommatica ecclesiastica che gli era stata imposta.
Ma si era piegato esteriormente all'odioso giogo, perchè - come dice egli stesso, e non a torto - una aperta professione delle sue idee, dato il fanatismo dell'imperatore regnante e l'onnipotenza dei preti, gli sarebbe costata immediatamente la testa, e sarebbe andata frustrata la sacra missione, cui egli si credeva chiamato dagli dei, la restaurazione dell'antica religione.

Che quella stessa chiesa, il cui sistema aveva reso possibile una simile sopraffazione di elevati intelletti come il suo, si sia creduta autorizzata a marchiarlo del nome di «apostata» semplicemente perchè rivendicò il suo diritto di sostituire da uomo la propria convinzione alla fede impostagli da bambino, è un triste sintomo dello sconvolgimento di idee morali che in questa chiesa aveva insinuato e nutrito il dommatismo fanatico, e dimostra nel tempo stesso quanta precauzione occorra usare verso le testimonianze che riguardo all'odiato Giuliano si trovano nella tendenziosa tradizione ecclesiastica.

Ciò che alienò Giuliano dal Cristianesimo dominante fu la convinzione della sua inconciliabilità con l'ideale dell'antica cultura ellenica. La vittoria della chiesa era stata a suo vedere una vittoria di «barbari» orientali sull'incivilimento ellenico, e perciò egli amava chiamare se stesso ed i suoi seguaci «elleni », i Cristiani "Galilei", e Cristo il «morto Giudeo». Cosa del tutto antiellenica sembrava in lui l'avvilimento e la rinunzia dell'uomo alla propria personalità, che si accordavano con le tendenze passive del semi-incivilimento orientale, mentre stavano in aperto contrasto con le idee dell'antichità classica ellenica in fatto di autonomia della ragione e del sentimento etico.

Egli riteneva che, muovendo da quel principio passivo, era impossibile ogni elevatezza di senso morale nel senso ellenico e ogni conservazione dell'antica virilità romana. Una chiesa che si arrogava una autorità dispotica sulla ragione e sulla volontà dell'uomo gli sembrò idonea ad allevare solamente degli «schiavi».
Sopratutto poi gli ripugnava l'intolleranza della chiesa, frutto veramente della barbarie del semi-incivilimento orientale, e di cui egli conosceva abbastanza gli effetti deleterii per la vita dello spirito.
A questa barbarie Giuliano contrappose il principio della «filantropia», dell'umanità, che ripudiava la sopraffazione della personalità intellettuale e religiosa dell'uomo praticata dalla chiesa, come indegna dell'uomo civile. Anche in ciò egli si manifesta fedele discepolo dell'ellenismo, i cui più eminenti rappresentanti, Libanio e Temistio, propugnarono appunto allora risolutamente la causa della libertà religiosa, facendo osservare - specialmente l'ultimo - con un ordine di idee molto moderne, che in questo campo ogni «autorità» è impotente perchè "la fede non si può imporre, l'unità di religione ottenuta con la forza significa la morte di ogni vera religione, e un progressivo sviluppo della vita religiosa, non diversamente che per l'arte e per la scienza, non è possibile se non nella libera lotta delle varie opinioni e tendenze".

Coll'aver così sostenuto il principio della più nobile umanità in opposizione al barbarico principio dispostico incarnato dalla chiesa, Giuliano in un problema, come questo, fondamentale per l'incivilimento si presenta quale il campione di un elevato ordine di idee morali contro l'avvilimento morale voluto e confessato. Anche quando fosse vero che la sua tolleranza fu più dovuta a freddo calcolo politico che alla sua filosofia, avrebbe sempre un altissimo valore il fatto che un imperatore antico abbia saputo professare con tanta risolutezza un così grande principio di civiltà.

Ed al pari di questo problema fondamentale dell'etica, anche nel campo politico la sua lotta contro la chiesa fu una schietta lotta per la cultura. Egli previde chiaramente che dal momento in cui la chiesa fosse divenuta il massimo elemento di forza nell'organismo dello Stato, essa avrebbe preteso in virtù del suo diritto «divino» di essere superiore allo Stato.

Egli vide nettamente l'inconciliabilità intima dello Stato e della chiesa, ed agendo in conformità della coscienza di tale principio, fu il primo ad intraprendere quella storica lotta che l'umanità ha poi dovuto a lungo sostenere se ha voluto uscire dalla cupa atmosfera dello Stato schiavo del despotismo gerarchico e conquistarsi la luce e la libertà. Da questo punto di vista erra quindi l'Harnack dicendo che la storia deve rinunziare a celebrare in Giuliano il precursore di una nuova era.

Anche nel campo letterario Giuliano entrò in lizza contro la chiesa col suo libro contro i Cristiani - composto durante l'ultima sua campagna - nel quale, seguendo in parte la grande opera polemica di Porfirio, cerca di dimostrare le contraddizioni interne della tradizione giudaico-cristiana, criticandone inoltre il contenuto dal punto di vista della morale e della ragione.

Egli ripudia sopratutto la legittimazione storica del Cristianesimo e dichiara contrario ad ogni canone critico riferire a Cristo le profezie del Vecchio Testamento, come ad esempio quella di Isaia, 14, 7. Tra Mosè e Cristo, egli dice, intercede un abisso insuperabile, perchè Mosè dichiarò eterna la sua legge, mentre i Cristiani si sono allontanati dalla legge e Cristo è chiamato da Paolo «la fine della legge».
Contro la divinizzazione di Gesù egli obietta che i sinottici non chiamano mai dio il Cristo e che Giovanni per primo ha artificiosamente insinuato nella tradizione la parificazione di Cristo col logos. Anche la genealogia di Giuseppe è falsa, perchè in questo argomento già Matteo e Luca si contraddicono. I racconti miracolosi dell'antico e del nuovo Testamento non sono che semplici miti, ad es. la storia della creazione, cui egli contrappone la grandiosa cosmogonia del platonico Timeo, la storia del serpente parlante e della seduzione di Adamo ad opera di Eva nel paradiso, nella quale non gli sembra che il contegno di Dio sia conveniente alla dignità di una divinità, il mito della separazione delle razze e della torre di Babilonia, cui contrappone l'importanza delle cause geografiche nella differenziazione etnografica dei popoli; gli episodi del poco divino spirito vendicativo del Jeova giudaico, ad es. la storia di Pinca, che coll'orribile assassinio di due coniugi adoratori di Baal allontana da Israele l'ira di quel dio; al qual proposito Giuliano osserva che contraddice ad ogni principio razionale vendicare su tutto un popolo le colpe di pochi; irrazionalità che del resto ha fatto esitare anche dei teologi cristiani e ad es. già nel II secolo aveva indotto un riformatore come Marcione a ritenere impossibile che il dio dell'antico testamento fosse il padre di Gesù!

Se si tien presente che cosa era divenuta la chiesa sotto Costantino e Costanzo si può immaginare successivamente l'acuta irritazione che suscitò l'«apostata», quando riaprì i templi, reintegrò nella propria dignità i sacerdoti pagani, fece restituire i beni tolti ai templi e costrinse i Cristiani che avevano distrutti i santuarii degli dei, privati o di comunità, a ricostruirli o a risarcire il danno, mentre dall'altro lato aboliva i privilegi del clero cristiano, la sua esenzione dalle imposte e dal decurionato, il diritto di render giustizia, di erigere i testamenti, di accettare eredità, e sopprimeva i sussidii che gli erano stati sinora elargiti dalle casse dello Stato.

In seguito a tali atti scoppiarono in vari luoghi sanguinose rivolte delle masse cristiane istigate da preti e monaci, rivolte che posero fuori di dubbio che una attuazione generale e profonda della politica di restaurazione religiosa iniziata dall'imperatore avrebbe portato ad una lotta all'ultimo sangue, all'anarchia ed alla guerra civile. Fin da ora la collera si sfogò in violenti oltraggi e dileggi, provocati però spesso dallo stesso Giuliano con la mordace ironia ch'egli amava rivolgere contro i «Galilei».

Non desta pertanto meraviglia se queste inevitabili prove abbiano ben presto scosso l'« equanimità filosofica » ch'egli si era proposto di conservare verso i Cristiani qual principio di governo. Egli dovette ben presto convincersi quanto fosse infinitamente difficile avere tolleranza verso chi professava l'opposto principio dell'intolleranza ed era pronto ad ogni istante a distruggere con la violenza quanto egli nel suo sacro entusiasmo edificava nel campo religioso.

Di fronte a questa intolleranza sistematica è più che naturale che egli vedesse nei «nemici di Giove» dei nemici suoi personali e che nel perseguire l'intento di procurare ai suoi correligionarii un posto vicino al sole, loro rifiutato per sistema dall'odio cristiano, non abbia conservato sempre i limiti che avrebbe richiesto la schietta applicazione del principio di tolleranza. Si pensi che vigeva uno stato di guerra, del quale quelli che avevano meno il diritto di lagnarsi erano coloro che mai avevano voluto saperne di condurre la lotta con le sole armi spirituali.
Perciò Giuliano considerò suo principale compito di allontare il più possibile i Cristiani dalla vita pubblica e dall'insegnamento. Nella carriera dei pubblici uffici la professione dell'antica fede era una raccomandazione, il pagano venne preferito al cristiano. Giuliano dichiarò cosa stolta far spiegare da persone che spregiavano il culto degli dei, gli scritti dei classici, il cui contenuto era per lui in parte argomento di fede e non voleva quindi esporlo alla derisione degli avversari.
Che costoro andassero se credevano nelle chiese a spiegare Matteo e Luca!

Detto questo, il tono caratterizza la sua crescente irritazione provocata dalle difficoltà della situazione. E questa irritazione d'animo unita alla sua naturale impulsività gli fece talora dimenticare la dignità imperiale sino al punto di impegnarsi in polemiche letterarie con i propri sudditi, come ad es. nella satira intitolata «il nemico della barba » diretta contro gli Antiocheni.
Non è meraviglia che i sudditi cristiani provassero la sensazione che a loro riguardo si usassero due pesi e due misure. Essi si lagnavano che i funzionari, in caso di eccessi della plebe pagana, la quale naturalmente credeva giunto ora il momento di vendicarsi di tutte le ingiustizie patite per opera dei Cristiani, non mostravano la necessaria energia.
Ed allo stesso imperatore fu rimproverato di dimenticare spesso nelle sue decisioni giudiziali la giustizia nei riguardi delle parti contendenti cristiane, e che l'appoggio prestato ai vescovi perseguitati dalla chiesa ariana dominante, ad es. richiamando Atanasio, era semplicemente una odiosa misura adottata per indebolire il cristianesimo, e così via.

Nè vi può esser dubbio che in realtà molte delle lagnanze cristiane erano giustificate. Si pensi ad es. all'editto di Giuliano agli Alessandrini dopo l'uccisione del vescovo Georgio. Ma è altrettanto certo che molto è dovuto a travisamenti ed invenzioni tendenziose. Infatti lo stesso Giuliano deplorò espressamente le trasgressioni dei suoi ordini da parte di funzionari servili o nemici dei Cristiani, e ripetutamente richiamò le autorità a «non fare dei martiri».
Ed egli stesso dimostrò una straordinaria magnanimità in casi di gravissime provocazioni, ad es. di fronte alle impertinenze della popolazione cristiana di Antiochia quando ebbe occasione di passare per quella città.
Non mancano perciò neppure voci cristiane che riconoscono il suo contegno tollerante; e se non lo considerano che come semplice ipocrisia, questo si spiega per il fatto che esse ripudiavano come immorale l'idea della tolleranza.

Logica singolare, che marchia di immoralità in un imperatore pagano l'intolleranza che ritiene invece lodevole in un sovrano cristiano ed esige dal primo come qualcosa di naturale la tolleranza che ritiene riprovevole nel secondo! Altro sintomo questo dello sconvolgimento delle idee morali, che già osserviamo nei giudizi cristiani su Giuliano.

Il non essere Giuliano riuscito ad attuare la sua politica di restaurazione senza cadere talora in contraddizione con i suoi principii di libertà religiosa dipende da quella stessa tragica fatalità che incombe su tutta l'opera della sua vita. E a dire il vero allo stato delle cose il problema che si era proposto era per sua natura insolubile. Fu grave errore il suo di credere di poter rievocare a nuova vita il culto degli antichi dei.
Tutto un mondo separava gli dei della Grecia da quell'edificio di dottrine filosofico-religiose che era la fede di Giuliano, da quel cielo del neoplatonismo e della mistica religiosa nel quale, come in un grande crepuscolo degli dei, le luminose figure degli abitatori dell'Olimpo erano ridotte a sbiaditi schemi astratti. Giove, Apollo, Dionisio, Ares, Ermes, Afrodite, Atene, in breve tutte quelle figure apparse un tempo così distinte al limpido occhio dei poeti, vengono nella speculazione metafisica del neoplatonismo giulianeo spogliate di ogni plastica evidenza e di ogni vita.

Secondo questa speculazione - uno spiritualismo che batte una via perfettamente analoga a quella della teologia cristiana con la sua trinità - essi rappresenterebbero una « pluralità indivisa ed una unità senza mescolanza » ! E nel tempo stesso essi vengono più o meno assorbiti in quel generale monoteismo solare cui Giuliano propendeva altrettanto quanto in generale la sua epoca; essi cioè si fondono per così dire tutti a mo' di potenze parziali in Elios, il prototipo del sole visibile. E d'altro lato questo Elios medesimo non è menomamente l'antico dio ellenico; è il Mitra del gran culto dei misteri, al quale lo stesso Giuliano secondo ogni apparenza era iniziato, come era seguace di altre religioni dello stesso genere, ad es. quella della gran madre degli dei.

Egli, che voleva essere uno schietto elleno, celebrò con i suoi inni entusiastici al re ed alla regina del cielo divinità spiccatamente orientali e si fece campione delle religioni dei misteri, senza avvedersi che le esigenze psicologiche, che queste religioni miravano a soddisfare, non erano più neppur lontanamente le esigenze degli Elleni dell'antichità classica, ma esigenze vere e proprie dell'epoca presente che, per di più, il cristianesimo soddisfaceva assai più pienamente.

Fu un'idea addirittura grottesca quella di voler rimuovere dal cuore degli uomini con Esculapio messo accanto ed Elios qual soter (salvatore) il Cristo-salvatore, e con la « vergine senza madre e madre degli Dei » la dolorosa figura della madre di Gesù; un'idea che poteva concepire soltanto un cieco dottrinario cui mancava qualsiasi coscienza dell'immenso contenuto religioso che si celava nelle figure ideali di Cristo e di Maria.
Altrettanto impossibile era che il sistema da lui tentato, di ordinare e disciplinare il culto degli dei ed i suoi sacerdoti nella forma ascetico-pietistica e mistico-gerarchica delle religioni dei misteri, portasse allo sviluppo delle stesse energie religiose e morali in cui consisteva l'intrinseca superiorità del cristianesimo; ciò, prescindendo pure dal fatto che questa riforma giulianea avrebbe voluto dire una completa trasformazione dell'antica religione nazionale, e quindi urtò spesso anche nell'ambiente pagano in una spiccata indifferenza e in parte in una opposizione dichiarata.

E come la pretesa religione ellenica di Giuliano era, come tale, un fantasma, così anche la sua filosofia distava un abisso dalla schietta filosofia ellenica.

Mentre questa, agli scopi della conoscenza, si era servita dello strumento del raziocinio logico, egli invece cercava di giungere alla conoscenza a mezzo dell'intuizione mistica e dell'estasi. E d'altro canto anche nell'opera di conservazione e di rievocazione di ciò che era veramente antico, come ad esempio gli oracoli, e l'apparato minuto dei riti pagani, dei sacrificii e dell'aruspicina - da lui personalmente applicato con ostinato pedantismo - fu tutt'altro che felice; giacchè l'eliminazione di tutto ciò era per l'appunto uno dei progressi che nel campo religioso il mondo doveva al Cristianesimo.

In reaità quindi Giuliano, con la sua fede in pretesi antichi ideali, che mescola vecchio e nuovo in un amalgama variopinto, e con la sua ardente aspirazione a rievocare un mondo antico che non era più vitale, ha in sè qualcosa del romantico, benchè sotto altri riguardi abbia dimostrato di possedere chiarezza di vedute. E fu perciò in fondo una fortuna per lui, che se avesse vissuto più a lungo non sarebbe andato incontro che a disillusioni, di aver trovato la morte dopo un breve regno ad opera di una lancia persiana durante una campagna personalmente diretta contro i tradizionali nemici asiatici dell'impero (363).

È una menzogna tendenziosa quella della tradizione cristiana che mette in bocca a Giuliano morente l'esclamazione disperata: «Tu hai vinto, o Galileo» ! Invenzione altrettanto certa è che il colpo mortale gli sia stato inferto non da un persiano, ma da un soldato cristiano; versione questa che fu sfruttata avidamente da autori cristiani, ad es. dallo storico della chiesa Sozomeno, che non si è vergognato di glorificare come un eroe cristiano questo preteso assassino e traditore spergiuro.

La morte di Giuliano decise la caduta del paganesimo. Appena un anno dopo la sua morte erano già state revocate tutte le disposizioni da lui emanate a sfavore del Cristianesimo. E benchè da principio il governo abbia lasciato sussistere la vecchia religione, poco dopo tuttavia, sotto Valentiniano e Valente, fu emanato un editto che proibiva i sacrifici, ad eccezione dell'offerta di incensi e profumi; divieto che cercò di estirpare dalla radice il culto degli dei che si compendiava sostanzialmente in sacrifici e di paralizzare i suoi sacerdoti nelle loro più importanti funzioni.

Più grave ancora divenne la guerra contro il paganesimo quando coll'avvento al trono di Teodosio l'ortodossia acquistò il predominio. Fu emanato il famoso editto del 380, con cui l'imperatore ordinò che tutti i sudditi dovessero abbracciare la religione cattolica, minacciando di pene i «mentecatti» ed i «folli» che seguivano altre dottrine «scandalose».

Lo Stato iniziò in questo modo una politica le cui conseguenze sono costate un mare di sangue e di lacrime. Esso divenne così dimentico della propria dignità che si abbassò a farsi l'organo di quel gergo sacerdotale che nel suo odio cieco ricorre all'ingiuria ed alla calunnia di coloro che professano altre idee. Il linguaggio di questa costituzione imperiale ispirata dalla chiesa è già completamente plasmato a quello spirito che caratterizza il linguaggio di tanti dei successori dei Cesari in veste pontificale sino alla detestabile massima del moderno catechismo romano che designa il protestantesimo come «veleno eretico» che «uccide le anime e distrugge la morale ed ogni autorità».

In realtà mai delitto più esecrabile fu commesso contro la vita delle anime, mai peccato più grave contro la moralità come con la politica religiosa che il cesaropapismo dell'impero decadente legò in fatale eredità alla chiesa romana ed al mondo.
Il concetto del «cattolicismo» stabilito dalla potestà pubblica non tollerava ormai più altra forma di confessione religiosa; e i capi di esso accamparono la esorbitante pretesa di imporre con misure coercitive esterne quel che dovevano credere agli uomini a loro soggetti. Il partito cristiano più forte, del quale si erano fatti ora organi i Cesari, la « chiesa degli ortodossi », è riconosciuta giudice in causa propria e non è anche qui che una semplice e naturale conseguenza del generale sconvolgimento delle idee morali il vedere che alla fine le sia stato concesso formalmente il diritto di perseguitare gli eterodossi.

Per farsi poi un'idea di che cosa all'occasione gli «eretici» e i pagani avessero da temere da questi «pastori» che secondo l'espressione già ricordata di Agostino dovevano «ricondurre con la frusta all'ovile le pecorelle smarrite», basterà richiamare l'ammonimento che leronimo dirige ai sacerdoti troppo miti e troppo tolleranti per aizzarli a rompere con la verga l'inutile vaso ed a distruggere gli «empi» - giusto il precetto del Vecchio Testamento - per salvare con la morte della carne almeno l'anima loro, che altrimenti abbandonata e nuda, avrebbe dovuto finire nelle più profonde tenebre dell'inferno !

Questo appello al più selvaggio fanatismo trovò orecchie dispostissime ad accoglierlo; ce ne offre un esempio il vescovo romano Damaso, per il quale i pagani non sono che «cani arrabbiati», e che ha il triste coraggio di esortare le vittime del sopruso e del maltrattamenti ad "esser grate" (!!) che la violenza li avesse indotti a «ravvedersi».

Il paganesimo venne sradicato dalla radice con la privazione d'ogni aiuto da parte dello Stato, con la confisca dei beni dei templi, con la chiusura di questi e col divieto di mettervi piede, anzi di levare soltanto gli occhi alle statue degli dei a meno di non volere incorrere in gravi pene. Persino dall'aula delle adunanze del senato fu tolta sotto Graziano, il primo imperatore che depose il titolo di pontifex maximus, l'altare e la statua della Vittoria, il sacro ed antico simbolo della grandezza romana.
In gran quantità caddero distrutti i templi, quando non furono trasformati in chiese, e precipitarono nella polvere le statue degli dei, poichè lo Stato o lasciò che si sfogasse a suo modo la barbarica furia distruggitrice delle plebi fanatizzate da chierici e monaci, o compì esso stesso l'opera di sterminio.
Così il vescovo di Alessandria che con l'esporre al pubblico i sacri simboli di un tempio di Dioniso donato alla chiesa aveva gravemente offeso il sentimento religioso della popolazione pagana ed aveva provocato una insurrezione, approfittò di questa occasione per ottenere e compiere la distruzione di tutti i templi di Alessandria; e fu allora che venne distrutto il tempio di Serapide, il Serapeion; opera barbarica che Crisostomo designa come l'abbattimento della «tirannia del diavolo» in Egitto. E questo esempio venne imitato in molti altri luoghi. «Tutto fu distrutto e raso al suolo» esclama con vanto un autore cristiano di una di queste città, ed un altro annunzia trionfalmente che nelle tre città massime dell'Oriente romano, ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli, non resta più in piedi nè un tempio nè un altare!

Di ciò che avvenne altrove abbiamo una testimonianza eloquente: l'editto dell'anno 397 che ordina di servirsi dei materiali dei templi distrutti per riparare le strade, i ponti, gli acquedotti e le mura.
Anche in Occidente, benchè l'opera di sterminio non sia stata qui in generale così radicale come in Oriente, la furia di distruzione celebrò talora le sue tristi orgie, specialmente in Africa, dove la distruzione del famoso tempio della dea di Cartagine produsse una impressione simile a quella del tempio di Serapide e il bollente sangue africano si ribellò spesso al sopruso difendendosi con la forza.
Gli africani non seppero rimanere calmi di fronte alla brutalità con cui vedevano mandate in frantumi le statue dei loro dei ed opposero ripetutamente resistenza con le armi alla mano ai sacrileghi. In questi conflitti sanguinosi provocati dai Cristiani si ebbero a deplorare numerosi morti, naturalmente anche Cristiani, e che Agostino, adeguandosi alla confusione di idee morali dell'epoca caratterizza come un «infame delitto dei pagani» !

Anche in Gallia avvennero aspri conflitti, in grazia sopratutto di Martino di Tours, vescovo di Cesarodunum (dal 375), il quale nelle sue allucinazioni credeva di vedere il diavolo in corpo ed anima sotto la forma di Giove e Mercurio, di Venere e di Minerva, e non ebbe pace finché non furono abbattuti tutti i templi é santuari della sua diocesi, malgrado la resistenza disperata che incontrò in talune contrade, particolarmente fra i contadini affezionati all'antica credenza.
Ben poco infatti poteva servire la resistenza di miseri contadini, quando si vede che già nell'anno 393 leronimo potè annunziare con tono di trionfo che "la principal sede dell'antica fede, il Campidoglio, era deserto". Questo luogo venerabile fu così poco risparmiato che il ministro di Onorio, Stilicone, decantato dal poeta cristiano Prudenzio qual soldato di Cristo, potè far strappare dalle porte del tempio di Giove Capitolino i fregi aurei e dare alle fiamme i sacri libri sibillini.

Del resto la distruzione cristiana non si concentrò soltanto contro gli edificii destinati al culto pagano e contro le sculture dei templi; essa infierì anche contro tutto quello che lo splendore della civiltà antica con profusione così sconfinata aveva creato per adornare gli edificii pubblici e le pubbliche piazze.

Queste opere: statue, sculture in rilievo ed affreschi, erano - secondo i cristiani - oggetto di gretta e stolta repulsione perchè rappresentavano personaggi e scene della mitologia, e quindi furono anch'esse distrutte in massa, malgrado che Arcadio e Onorio abbiano nel 399 tentato di porre argine a questa furia sterminatrice, ordinando che le decorazioni artistiche degli edificii pubblici dovessero essere lasciate al loro posto.

A Roma e a Costantinopoli, sotto gli occhi del governo, si riuscì infatti a salvare per lungo tempo le statue degli dei ed i bassorilievi mitologici degli edifici pubblici e delle pubbliche piazze ma in provincia, specialmente in Gallia e nella Spagna, il vandalismo infierì con le più tristi gesta.
Dove l'antica fede e i monumenti dell'arte antica resistettero pìù a lungo fu nell'Ellade vera e propria, dove erano tuttavia troppo profondamente radicate negli animi le tradizionidi un'età di grandezza che sopravviveva appunto ovunque in queste creazioni dell'arte. Per quanto anche i Greci abbiano dovuto veder trascinate alla nuova capitale od altrove le preziose opere d'arte che adornavano i loro templi ed i loro edifici pubblici, per quanto a datare dal 393 avessero pure dovuto rinunziare a radunarsi ad Olimpia per solennizzarvi i giuochi nazionali, tuttavia a quel tempo rimanevano tuttora in piedi molti templi e persino il culto pagano continuò ancora in vari luoghi.
Ma nell'anno 395 si scatenò sull'Ellade un turbine che portò addirittura allo sterminio della cultura ellenica e dei suoi monumenti. Quel che il fanatismo cristiano non era riuscito ad ottenere dall'opera dello Stato e della chiesa lo ottenne ora dalla brutalità di orde barbariche, dei Goti ariani, che invasero, guidati da Alarico, l'Ellade (395) ed iniziarono immediatamente una guerra sistematica di distruzione contro i monumenti dell'antica fede.

Innumerevoli opere d'arte furono ridotte in frantumi, templi ed altri edificii abbattuti o incendiati. Si rabbrividisce a pensare che anche Atene avrebbe potuto essere colpita da quell'opera di sterminio. Ma fortunatamente essa riuscì a resistere ai Goti ed a superare l'uragano. Non potè invece Atene alla lunga difendere contro lo stato cristiano il retaggio intellettuale dell'antica cultura che tutt'ora conservava qual centro famoso di studi.
Quanto più lo Stato e la Chiesa si andarono barbarizzando, con l'espandersi dello spirito monastico andò diminuendo il numero di coloro che cercavano di mantener vivo il contatto con la letteratura e la filosofia ellenica, tanto più i Cristiani non seppero adattarsi all'idea che, nonostante l'abolizione del culto pagano, la scienza e la filosofia pagana potessero avere come prima il diritto di continuare la lotta contro il Cristianesimo vittorioso.

Si moltiplicano ora le voci di coloro i quali sono convinti che «chi si ritrova nella pace della filosofia del signore» possa fare a meno della dottrina e della poesia pagana; che la «falsa» sapienza pagana ha una grandissima parte di colpa nell'infelicità dei tempi, perchè impedisce al Cristianesimo di spiegare tutta la sua efficacia sull'umanità, e così via.

Si pensi che uno di questi soldati di Dio fece la scoperta che i due massimi flagelli dell'epoca erano la donna e gli studi classici! Non rimanevano ormai che ben pochi a pensare, come l'illuminato vescovo Sinesio di Cirene, il discepolo entusiasta della nobile filosofa alessandrina Ipazia, il quale seppe superare l'ostacolo della inconciliabilità della filosofia col dogma ecclesiastico con la considerazione pratica che la piena verità non era fatta per le masse cieche, e sostenne quindi il suo diritto di essere «filosofo in casa» e fuori «narratore di miti». La maggioranza invece pensava certamente a modo di Giovanni Crisostomo, che espresse la sua gioia per la caduta della scienza pagana colla frase trionfale che «i pescatori, doganieri e fabbricatori di tende avevano chiusa la bocca ai filosofi e resa muta la lingua dei retori !"

Senza dubbio per la Chiesa il rimedio più radicale per raggiungere il suo scopo era quello di bandire al pari degli eretici i rappresentanti della scienza e della filosofia pagana con la distruzione dei loro scritti. E perciò fin dall'anno 448 l'imperatore Teodosio II ordinò di dare alle fiamme ogni scritto che non accennava alla santa religione cristiana; prendendo alla lettera ciò che diceva Porfirio spinto dal delirio forsennato: «Nessun scritto doveva arrivare all'orecchio della gente, capace di suscitare la collera di Dio e di mettere in pericolo le anime» !

Un altro divieto inevitabile colpì l'insegnamento pagano, in quanto l'imperatore d'Oriente Giustiniano proibì di frequentare in qualsiasi modo la scuola di persone «inferme della demenza degli Elleni», affinchè «le anime già educate nelle verità divine non fossero corrotte sotto il pretesto della cultura».

Divieto che ebbe pure per conseguenza che a tutti gli insegnanti di scienza, filosofia, arte e quant'altro (dichiarati tutti pagani) non venne soppresso lo stipendio. Così anche la sorte della scuola filosofica d'Atene venne decisa. Essa era alimentata da antichissimi lasciti, ma il suo patrimonio venne ora incamerato e furono soppresse le cattedre che erano quasi tutte occupate da neoplatonici pagani.
D'ora innanzi - così suona l'incredibile editto - «a nessuno era lecito recarsi a studiare filosofia ad Atene» (529 ?).
I professori emigrarono in parte in Persia e non ritornarono se non quando nel trattato di pace fra la Persia e l'impero d'Oriente fu loro garantita tolleranza.

Di fronte a tutta questa campagna contro l'arte, la letteratura e la scienza, a tutto lo spettacolo della sua brutalità e delle sue conseguenze, si può accedere al sentimento di Giuliano, quando egli diceva di temere dalla vittoria della Chiesa "le più dolorose perdite dei più nobili contributi della civiltà". (e se oggi abbiamo qualche opera dell'antichità, ciò è dovuto ad altri "miscredenti": agli arabi).

Naturalmente la campagna repressiva non si limitò a colpire il paganesimo nel suo patrimonio ideale. Anzi la legislazione e il governo lavorarono sistematicamente a bandirlo anche dalla vita civile, dallo Stato e dall'esercito. Editti sempre più rigorosi vennero successivamente emanati per escludere dal servizio dello Stato tutti gli acattolici. Persino l'accesso all'esercito, e quindi la carriera d'ufficiale, fu reso loro sempre più difficile. Fu imposto ai pagani in certo modo un marchio d'infamia che esercitò una influenza sfavorevole su tutta la loro esistenza sociale. In seguito alle rigide pene comminate contro ogni culto pagano essi si trovarono costantemente in pericolo di esser privati dei loro averi dietro una delazione qualsiasi o per il minimo sospetto.

Nemmeno della incolumità personale erano più sicuri, se la furia della plebe o della quantità di monaci vaganti si appuntava contro di loro. «Come torrenti montani - lamenta Libanio - essi inondano il paese e lo rovinano insieme con i templi. Ai sacerdoti non rimane poi che la scelta di tacere o morire».
Tanto è vero che lo stesso Agostino si trovò costretto a levare la sua voce per redarguire coloro che trascendevano sino al punto di rapinare i loro concittadini pagani; prova significante che questi ultimi non potevano più nemmeno contare sopra una sufficiente difesa legale contro i soprusi commessi sulle loro persone e sui loro beni.

Fu un incessante e silenzioso martirio che una tale situazione impose ai residui della popolazione pagana, un latente od anche aperto stato di guerra tra oppressori ed oppressi, che per necessità psicologica non poteva non provocare d'ambo le parti scontri sanguinosi.
Specialmente in Alessandria, dove la politica di sterminio dei vescovi battaglieri spalleggiati da orde di monaci fanatici aveva portato all'estremo l'esasperazione della popolazione pagana, gli ultimi aneliti dell'antica fede furono accompagnati da conflitti sanguinosi e da delitti orribili.
La più nobile delle vittime qui caduta fu la filosofa neoplatonica Ipazia, venerata entusiasticamente dai suoi numerosi discepoli ed amici; essa venne sorpresa nel 415 da fanatici cristiani, trascinata in una chiesa, denudata e martirizzata a morte con il lancio di pietre.

La persecuzione procede con inesorabile logica, finché la legislazione anch'essa assume il carattere di sanguinosa violenza. Giustiniano dispose che chiunque, malgrado il battesimo, si rendeva colpevole del «vaneggiamento degli Elleni», sarebbe incorso nella pena di morte, e che coloro i quali non erano ancor battezzati, dovevano denunziarsi e ricevere il battesimo con le mogli e i figli. Ai recalcitranti è minacciata la perdita di tutti i benefici derivanti dall'appartenenza allo Stato, il divieto di possedere beni mobili ed immobili; in altri termini essi sono degradati alla condizione di gente privi di diritti ed abbandonati senza scrupoli alla fame ed alla miseria !

Anche in Occidente del resto trionfò lo spirito d'intolleranza, e qui fu in particolare la chiesa romana che abusò della potenza derivatale dallo sfasciarsi dell'impero occidentale, per costringere, prima d'ogni altro nei territorii venuti a cadere sotto la giurisdizione del vescovo di Roma, gli ultimi seguaci dell'antica fede ad entrare nella Chiesa.
Papa Gregorio «il Grande» infatti cominciò ad aizzare i potenti latifondisti della Sardegna contro i miseri coloni che non volevano lasciarsi spogliare della loro religione. Egli invitava i padroni a porre riparo al più presto a ciò con il «convertire coloro che erano ad essi affidati».
Che cosa si intendesse con questa conversione lo dimostra l'orrendo trattamento fatto ai coloni pagani dei beni ecclesiastici. Se essi si mostravano restii ad accogliere il battesimo - così ordinava Gregorio - "dovevano essere gravati di pesi tanto maggiori perchè la pena dell'oppressione li spingesse a cercare la retta via".

Fame e miseria dunque come guide alla « vera » fede ! Quello che ridotto allo stremo non può più reggere allo spettacolo miserando della moglie e dei figli affamati e batte spossato alla porta della chiesa, quello ha trovato la retta via ! Se non si sapesse quali sconvolgimenti di idee la mania religiosa e il fanatismo possono infiltrare nella testa degli uomini, si dovrebbe caratterizzare questa logica papale come un frivolo cinismo.

Si può di fronte a tutto ciò biasimare un uomo come Eunapio, il seguace entusiasta di Giuliano, se considerò l'immensa sopraffazione della morale e della religione, della scienza e dell'arte che fu conseguenza della «cattolicizzazione» dell'impero, come l'irruzione di una «orribile tenebra» e come il tramonto di quanto di più bello aveva creato la civiltà antica ?

Ma la "orribile tenebra" era solo all'inizio.
Sta iniziando il lungo (oscuro) e tempestoso periodo.

LA CADUTA DELL'IMPERO D'OCCIDENTE > >

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