11. I NUOVI VENTI DELLA DEMOCRAZIA
Pericle
Le vittorie ottenute sui Persiani avevano posto al sicuro la libertà della Grecia nei rapporti esterni; non poteva mancare che di ciò si risentisse il contraccolpo all'interno. Libertà ed eguaglianza divenne la parola d'ordine di tutto il mondo greco, ovunque si reclamarono ad alta voce istituzioni più libere, e nessuno di quelli che durante le sofferte guerre persiane erano saliti in auge poté sottrarsi all'impulso di questa corrente. Del resto la guerra stessa stimolò l'adempimento di nuovi voti. La tirannide non si era tenuta in piedi nell'Asia Minore se non artificialmente; per l'appoggio che aveva prestato alla signoria persiana, dopo la battaglia di Micale essa fu abbattuta dappertutto.
Per l'ulteriore trionfo dell'idea democratica fu poi decisivo il fatto che a capo della lega marittima si trovò Atene. L'esempio infatti della città predominante non poteva non esercitare una profonda influenza sulle città confederate; a mano a mano le loro costituzioni vennero sempre più ravvicinate a quella ateniese; anzi quest'ultima costituzione fu talora addirittura presa a prestito tale e quale. Atene naturalmente favorì in tutti i modi il progresso di questo movimento; era infatti chiaro che la comunanza di ordinamenti pubblici di carattere democratico avrebbe costituito il più saldo vincolo tra i membri della lega.
Non ugualmente favorevole al trionfo delle idee democratiche era la situazione nell'Occidente del mondo greco. Qui la guerra per l'indipendenza era stata condotta dalla tirannide e la vittoria non aveva quindi potuto da principio che consolidarne la posizione. Altrettanto maggiore è pertanto il significato del fatto che anche qui il moto liberale abbia assai presto saputo superare tutti gli ostacoli. La via gli venne spianata da una guerra che dopo la morte di Terone si accese fra le due grandi monarchie militari della Sicilia. Il figlio e successore di Terone, Trasideo, fu sconfitto da Gerone in una sanguinosa battaglia, e dopo ciò il popolo di Acraga e di Imera cacciò l'odiato tiranno e restaurò la costituzione repubblicana, benché sotto l'alta sovranità di Gerone (472). Alcuni anni dopo morì Gerone (466). La successione era contestata ; il fratello del defunto tiranno,Trasibulo, si impadronì delle redini del governo, ma esisteva un forte partito che voleva portare al trono il figlio minorenne di Gelone. Ne seguì una sollevazione del popolo di Siracusa; il tiranno si trovò ben presto ridotto al solo possesso della città interna, dei quartieri d'Ortigia e di Acradina, ed alla fine, sconfitto per mare e per terra, dovette capitolare ottenendo libera uscita (465). Era così caduta anche questa tirannide, la più potente e la più splendida che il mondo greco avesse sino allora veduta. In tutti gli altri Stati questa forma di governo era stata abolita già prima ed essa in seguito non potè più trovare terreno propizio nell'oriente greco per quasi due secoli ed in Sicilia per oltre mezzo secolo.
A Siracusa venne ora introdotta la democrazia, ma la città non riuscì ancora a raggiungere uno stato di quiete. Scoppiò la guerra fra gli antichi cittadini e i mercenari congedati, cui Gelone aveva conferito il diritto di cittadinanza e soltanto dopo lunghe lotte si pervenne ad aver ragione di questi veterani. Frattanto le altre città che avevan fatto parte del dominio di Gerone si erano rese indipendenti e si erano del pari dati ordinamenti democratici ; Siracusa non era abbastanza forte per far valere efficacemente le sue pretese all'alta sovranità su di esse, e quindi si vide ridotta al suo solo antico territorio nel mezzogiorno orientale dell'isola.
I popoli indigeni dell'isola, i Siculi, approfittarono di questi sconvolgimenti per sollevarsi contro la dominazione ellenica. Ducezio, il re di Mene (Mineo), riunì tutte le città abitate da Siculi sotto il suo scettro e si credette dopo ciò abbastanza forte per cominciare la guerra di indipendenza. E gli venne anche fatto di sconfiggere in una battaglia campale gli Acragantini ed i Siracusani loro alleati e di prendere il castello di confine di Motione. Ma alla lunga egli non poté tener testa alle forze superiori dei Greci. Presso Noe Ducezio subì ad opera dei Siracusani una disfatta decisiva, in seguito alla quale Motione fu riconquistato dagli Acragantini, e da ultimo al re non rimase che arrendersi a discrezione nelle mani dei Siracusani. Il suo regno si sfasciò; la parte meridionale cadde sotto la dominazione siracusana, mentre le altre città ritornarono al loro stato anteriore di isolamento politico. Con ciò la sorte della nazione siceliota era decisa.
Il moto democratico si propagò anche nella vicina Italia. A Taranto una grave sconfitta subita per opera dei Japigi (473) porse occasione per abbattere la forma del governo regio che qui, sull'esempio della madre-patria Sparta, si era mantenuto in piedi sinora, e per introdurre ordinamenti democratici. Reggio scacciò i figli di Anassilao (461).
Nelle città achee scoppiò una insurrezione contro i Pitagorici che avevano saputo impadronirsi del potere, fondando un governo mezzo teocratico e mezzo aristocratico; gli affiliati alla setta furono ovunque massacrati o scacciati e si fece posto a costituzioni di carattere democratico. Nella sola Locri continuò a mantenersi l'antica forma aristocratica di governo.
Verso la stessa epoca a Cirene fu abbattuta la casa regnante dei Battiadi, che aveva dominato sulla città a datare dalla sua fondazione, e venne istituita una democrazia. Del pari la democrazia si diffuse nella madre-patria greca. In Beozia dopo la battaglia di Platea cadde il governo aristocratico che aveva stretto l'alleanza coi Persiani e gli fu sostituita una democrazia.
Argo già possedeva una costituzione che era in sostanza democratica; ora venne abolita anche qui la dignità regia che, per quanto con poteri assai limitati, si era retta sino alla guerra persiana. Sull'esempio di Argo poi la democrazia fu introdotta anche nell'Elide ed in Arcadia, ed in seguito a tale trasformazione quest'ultima regione si staccò da Sparta per passare dalla parte di Argo.
Sparta non potè a meno di rimaner semplice spettatrice di tutti questi avvenimenti, perché aveva preoccupazioni urgenti. in casa propria. Si era venuto manifestando un fermento fra gli iloti; e chi fomentava in segreto questo movimento era né più né meno che lo stesso reggente Pausania.
La vittoria di Platea gli aveva conferita una autorità, quale nessun re di Sparta aveva mai goduta: con l'aiuto di essa Pausania concepì la speranza di restaurare la dignità regia in tutta l'antica pienezza di poteri e liberarla dalla soggezione alla tutela dell'eforato. Con questi disegni in cuore egli assunse nel 478 il comando della flotta alleata ellenica; ma la ribellione degli Joni lo fece presto cadere dalla sommità cui era giunto. Fu richiamato a Sparta ed accusato d'alto tradimento per pretese connivenze col re persiano; nulla però si poté provare a suo carico e il tribunale lo assolse.
Dopo ciò tornò sull'Ellesponto, e soltanto allorché fu cacciato da Bisanzio dagli Ateniesi gli efori osarono impartirgli l'ordine di tornare indietro. Allora egli concepì il disegno di arrivare al suo scopo mediante una insurrezione degli iloti; ma gli efori lo prevennero. Solo rifugiandosi nel tempio di Atena Pausania poté sottrarsi alla prigionia; gli efori non ardirono violare il sacro luogo, ma ne fecero murare l'ingresso, ed il vincitore di Platea vi trovò la morte per fame (verso il 470).
Alla stessa epoca (469) fu abbattuto anche il suo collega nel regno Leotichida, il vincitore di Micale. Egli era stato mandato nella Tessalia per castigare questa regione del contegno tenuto durante la guerra defezionando ai Persiani, ma non era riuscito a concludere gran che. Ora venne accusato di corruzione e deposto dalla sua carica; morì in esilio a Tegea.
Nella lotta con l'autorità regia l'eforato era rimasto vittorioso; gli eroi della guerra persiana erano stati tolti di mezzo. Salirono al trono due giovinetti, il nipote di Leotichida, Archidamo, e il figlio di Leonida, Plistarco. Da questo lato pertanto non v'erano da temere pericoli per l'ordine di cose esistente. Durante i due secoli successivi non vi fu più alcun re che osasse ribellarsi all'autorità degli efori.
Ed ora Sparta poté rivolgere il pensiero a restaurare la propria egemonia sul Peloponneso. Due grandi vittorie riportate a Tegea e a Dipea ricondussero all'obbedienza l'Arcadia, ed Argo venne a trovarsi nuovamente isolata. Sparta era sul punto di portare le armi anche contro Atene, quando venne colpita da un formidabile terremoto che rase al suolo quasi tutta la città e seppellì sotto le rovine una gran parte della popolazione (verso il 465).
A questo punto scoppiò l'insurrezione degli iloti che da tempo si era venuta preparando. Se nella Laconia vera e propria, in grazia dell'energia del giovane re Archidamo, la calma fu in breve ristabilita, al di là del Taigeto, nella Messenia, la rivolta non poté essere sedata tanto agevolmente. In campo aperto gli insorti, é vero, non furono neanche qui in grado di tener testa alle truppe spartane; ma essi riuscirono a trincerarsi e sostenersi sul monte Itome che si elevava come una fortezza naturale nel centro della regione, e che già un'altra volta, un quarto di millennio avanti, aveva offerto rifugio ai loro antenati nella guerra contro Sparta.
Sparta così si vide costretta a far mobilitare i contingenti degli alleati del Peloponneso, ed alla fine - come vedremo più avanti - a reclamare anche da Atene l'aiuto che le spettava in base all'alleanza.
Ad Atene, nei primi anni che seguirono la vittoria di Salamina, Temistocle era rimasto la personalità politica alla testa delle cose. La sua politica aveva ricevuto dai fatti una conferma così splendida che Aristide stesso desistette dalla sua opposizione e cooperò con Temistocle al consolidamento del predominio marittimo di Atene. Alla lunga peraltro non fu possibile evitare il risorgere dei vecchi antagonismi. Inoltre Temistocle vide elevarglisi contro un nuovo competitore in Cimone, e dinanzi ai freschi allori conquistati da quest'ultimo nella guerra persiana andò sempre più impallidendo la gloria del vincitore di Salamina.
Cimone vedeva la salute dell'Ellade in una stretta unione delle due città preponderanti, mentre Temistocle non si faceva illusioni che la rottura con Sparta sarebbe stata soltanto questione di tempo e quindi, dove poteva, creava ostacoli alla politica spartana. La decisione del conflitto alla fine fu rimessa al tribunale dell'ostracismo; il popolo sentenziò a favore di Cimone, e Temistocle dovette andare in esilio (verso il 471).
Egli si recò ad Argo, d'onde prese parte attiva al movimento democratico del Peloponneso; egli non deve essere stato neppure estraneo ai piani rivoluzionari di Pausania. E quindi si trovò coinvolto nella caduta di quest'ultimo. Ad istigazione di Sparta fu elevata contro di lui ad Atene una accusa di alto tradimento, ed in conseguenza si reclamò da Argo la sua consegna; e siccome il governo argivo non si trovò in grado di proteggerlo, Temistocle andò errando per tutta l'Ellade, perseguitato ovunque, finché alla fine si volse all'unico rifugio che ancora il mondo gli offriva, la corte del gran re persiano.
Artaserse, che da poco era succeduto sul trono al padre Serse (464) anziché fargli scontare la giornata di Salamina, lo accolse amichevolmente e gli concesse il principato di Magnesia sul Meandro. Qui l'uomo che aveva fondato la grandezza di Atene, l'uomo cui più che ad ogni altro la Grecia doveva la salvezza dalle strette dell'invasione persiana, chiuse i suoi giorni da vassallo del gran re.
Ad Atene, dopo la caduta di Temistocle, l'influenza decisiva passò a Cimone. Egli era di nobile lignaggio, più soldato che politico, largo del suo principesco patrimonio sino alla prodigalità e popolare per questo fatto altrettanto quanto lo era per i suoi successi in guerra. La vittoria guadagnata presso l'Eurimedonte non aveva potuto che consolidare la sua autorità.
Se non che la buona intesa fra Atene ed i suoi alleati cominciò ad intorbidarsi. Fu questa una conseguenza inevitabile della vittoria sui Persiani; nella misura che sembrò eliminato completamente il pericolo della dominazione straniera, le città si mostrarono sempre meno disposte a far dei sacrifici per la prosecuzione della guerra od a sottostare all'alta sovranità di Atene.
Nasso per prima si ribellò ad Atene, ma la rivolta rimase isolata e venne rapidamente domata. Non passò molto che scoppiò un conflitto fra Atene e Taso relativamente alla proprietà delle miniere d'oro della costa tracica; fidando sull'aiuto di Sparta, Taso prese armi (466), ma il terremoto e l'insurrezione degli iloti impedirono a Sparta di recarle l'aiuto promesso, e perciò tre anni dopo la sua ribellione Taso soccombette agli Ateniesi guidati da Cimone. Essa fu costretta a consegnare la sua flotta, a cedere i suoi possedimenti sul continente, abbattere le proprie mura e adattarsi a pagar tributo.
Era appena terminata la guerra contro Taso che giunse ad Atene la richiesta di aiuto degli Spartani in difficoltà contro la rivoluzione ilota. Non mancarono voci a consigliare un rifiuto, ma l'influenza di Cimone decise in favore della concessione di questo aiuto; egli stesso marciò verso la Messenia (dove si erano tricerati gli iloti) alla testa di 4000 opliti (462). Ma neppur gli - Ateniesi riuscirono a spuntarla contro le forti posizioni di Itome; l'assedio si trascinò per lungo tempo, e siccome al mantenimento di un semplice blocco erano sufficienti le truppe di Sparta, fu fatto intendere a Cimone che non si aveva più bisogno dei suoi buoni servigi.
Atene rimase offesa per questo rinvio delle sue truppe e rispose denunziando l'alleanza conclusa un tempo in occasione della guerra persiana.
La posizione di Cimone si trovò gravemente scossa cd i suoi nemici credettero giunto il momento di fare ancora un passo avanti sulla via delle riforme democratiche. Il consiglio dell'areopago conservava tuttora le estese facoltà che Solone gli aveva lasciate; e siccome i suoi membri rivestivano la carica a vita e quindi erano di fatto esenti da ogni responsabilità, esso controbilanciava assai efficacemente l'influenza del consiglio dei cinquecento estratti a sorte. Naturalmente un corpo così costituito era una spina negli occhi per la democrazia radicale, e perciò ora Efialte propose di limitare la competenza dell'Areopago alla giurisdizione criminale, deferendo invece il controllo sulla pubblica amministrazione, che esso aveva sinora esercitato, ai tribunali dei giurati i cui membri venivano estratti a sorte fra tutti i cittadini ateniesi superiori in età ai trent'anni.
Cimone ed il suo partito fecero, come è ovvio, la più accanita opposizione a tale proposta; il conflitto si acuì sino al punto che l'unico modo di definirlo restò quello di ricorrere al tribunale dell'ostracismo. Esso decise contro Cimone; e dopo questo le proposte di Efialte furono trasformate in legge (461).
Ma poco tempo dopo Efialte cadde assassinato, il primo attentato di tal genere che sia stato perpetrato in Atene dalla caduta dei tiranni, ma il delitto fu vano, perché il partito della riforma democratica trovò un capo di non minor valore in PERICLE, che aveva combattuto accanto ad Efialte nella campagna contro Cimone.
Pericle era figlio del vincitore di Micale, Santippo, e di Agariste, nipote del grande Clistene; e furono queste relazioni di parentela che gli spianarono la via, in età relativamente ancor giovane, a salire al potere, benché non avesse avuto ancora occasione di distinguersi in guerra ed in generale non fosse che uno stratega di media capacità. Anche come uomo di Stato egli difettava di vera e propria genialità creativa, ma era dotato di molto tatto politico e soprattutto aveva come raramente altri il dono di trascinare le masse col vigore della sua eloquenza. Era, come si direbbe oggi, un grande parlamentare, un trascinatore di folle e questa qualità lo mise in condizione di conquistarsi, in uno stato così profondamente democratico come il suo, un potere quasi monarchico e di mantenerlo in sua mano per lunghi anni. Egli divenne la più influente personalità del suo tempo in tutta la Grecia e non senza ragione gli storici chiamano quel periodo "I tempi di Pericle".
Di fronte a Sparta ora Atene mise da parte ogni riguardo. Essa si alleò con Megara che sinora aveva fatto parte della lega del Peloponneso, ma era venuta a guerra con la sua potente vicina Corinto per una controversia di confini. Ne derivò una guerra fra Atene e Corinto; Egina, l'antica rivale d'Atene, si schierò dal lato di Corinto, ma la marina ateniese si rivelò di gran lunga superiore alla marina nemica; la flotta peloponnesiaca fu sconfitta dinanzi ad Egina in modo da rimanerne annientata e gli Ateniesi dopo questa vittoria convogliarono un esercito nell'isola e cominciarono l'assedio della sua capitale. Un attacco diretto dai Corinzi con tutte le loro forze contro Megara, allo scopo di distrarre il nemico dall'assedio della città alleata, fu respinto dalle riserve ateniesi comandate da Mironide senza che fosse necessario richiamare le truppe che si trovavano all'assedio di Egina (458).
In conseguenza di questi fatti Sparta si vide costretta ad intervenire nella lotta. L'insurrezione messenica (degli iloti) é vero, non poteva dirsi ancora completamente domata, ma le cose erano così prossime alla fine che non vi era più bisogno per Sparta di tenere impegnate a tale scopo tutte le sue forze. Fu quindi inviato un esercito peloponnesiaco di 11.000 opliti al di là del golfo di Corinto nella Grecia centrale, dove la Beozia si schierò subito dal lato degli Spartani; l'intenzione era di invadere da questa base d'operazione l'Attica. Ma gli Ateniesi prevennero l'attacco; rinforzati da truppe ausiliarie dell'alleata Argo e della Tessalia essi varcarono con 14.000 opliti il confine della Beozia ed offrirono battaglia presso Tanagra ai Peloponnesiaci e Beoti collegati.
Le qualità militari superiori degli Spartani fecero sì che la vittoria rimanesse a loro, ma fu una vittoria pagata a così caro prezzo che i vincitori non osarono mettere a frutto il successo ottenuto ed invadere l'Attica. Essi si accontentarono di ricostituire la lega beotica nella sua antica forma sotto la guida di Tebe, e poi si ritirarono nel Peloponneso attraverso i passi dell'Istmo (457).
Tale atteggiamento rese libere le mani agli Ateniesi nel centro della Grecia. Un esercito ateniese agli ordini di Mironide entrò nella Beozia e qui presso i «vigneti » (Enofita), due mesi dopo la battaglia di Tanagra, riportò una splendida vittoria sull'esercito della lega beotica. In seguito a ciò tutta la regione, salvo Tebe, strinse alleanza con Atene, e lo stesso fecero la Focide e la Locride, di modo che l'egemonia di Atene venne ora ad estendersi dall'istmo sino alle Termopili. Anche l'assediata Egina poco dopo aprì le porte agli assedianti; dovette consegnare le sue navi, abbattere le proprie mura e fece adesione alla lega marittima ateniese in qualità di membro obbligato a tributo.
Ottenuti questi successi, gli Ateniesi passarono all'offensiva contro il Peloponneso; una flotta comandata da Tolmide distrusse l'arsenale spartano di Giteio sulla costa laconica, ma non riuscì a disimpegnare i Messenii trincerati sull'Itome. In compenso fu presa Naupatto che dominava l'ingresso del golfo di Corinto e venne convinta l'Acaia a passare dalla parte di Atene; poco dopo anche Trezene nell'Argolide aderì ad Atene. Atene parve trovarsi sulla via migliore per divenire in Grecia la potenza terrestre egemonica come era già la potenza marittima dirigente.
Né meno vittoriose riuscirono lo armi ateniesi nella lotta coi Persiani. Alla morto di Serse, avvenuta nel 465, l'Egitto si era sollevato contro la dominazione persiana; il satrapo del paese, il fratello di Serse, Achemene, fu sconfitto in una grande battaglia presso Papremide nella parte occidentale del delta dove vi rimase egli stesso ucciso.
Naturalmente i capi dell'insurrezione si rivolsero per averne appoggio ad Atene. Proprio allora una flotta ateniese di 200 navi si trovava nelle acque di Cipro; essa entrò nel Nilo e conquistò la capitale Menfi, salvo la cittadella, il «castello bianco», che rimase in potere dei Persiani (461).
La completa liberazione del paese dalla signoria persiana parve non dovesse ormai essere che una questione di tempo. E già gli Ateniesi da Cipro avevano iniziato l'offensiva contro la Fenicia.
La potenza di Atene ora giunta al suo apogeo. So non che bon presto si rivelò che la base ora troppo piccola per sostenere il colossale edificio che Temistocle, Cimone e Pericle avevano eretto in appena un quarto di secolo. E di vero Atene non era abbastanza forte per poter reggere alla lunga ad una lotta contemporanea su due fronti, contro i Persiani e contro il Peloponneso.
Se anche, a datare dalle vittorie riportate presso l'Eurimedonte e sotto Egina, essa aveva un incondizionato predominio sul mare, non si trovava affatto in grado di tener testa ai suoi avversari per terra. Non poté infatti dare un aiuto efficace ai Messeni, o quindi alla fine Itome dovette arrendersi a dieci anni di distanza dall'inizio dell'insurrezione (456); i valorosi difensori iloti ottennero libera uscita e furono dagli Ateniesi domiciliati nella conquistata Naupatto, dove da allora - per gratitudine - essi tennero fedelmente d'occhio i Peloponnesiaci.
Con questa resa Sparta riacquistò l'antica libertà d'azione nei riguardi esterni che era rimasta paralizzata per tanto tempo. Ma contemporaneamente il re persiano decise di sferrare il colpo decisivo contro l'Egitto. Un forte esercito persiano penetrò nel paese, gli Ateniesi vennero sconfitti ecircondati nell'isola di Proposito sul Nilo, dove dopo un assedio di diciotto mesi furono alla fine costretti ad arrendersi (inizio del 456). Soltanto scarsi residui degli equipaggi greci riuscirono a salvarsi e tornare in patria passando per Cirene. Atene, impegnatasi fondo nella guerra con il Peloponneso, non aveva inizialmente potuto spedire aiuti di sorta; o quando alla fine una flotta di soccorso di 50 navi giunse nel Nilo, ora già troppo tardi, anzi questa squadra rimase coinvolta nella catastrofe.
Il formidabile colpo subito da Atene produsse profonda impressione in tutto il mondo ellenico. Si immaginò di vedere già di nuovo la flotta persiana nel Mare Egeo, e sotto l'incubo del primo spavento fu deciso di mettere al sicuro il tesoro di guerra trasportandolo dall'isola di Delo, scoperta di fronte agli attacchi, nell'acropoli di Atene. Ma soprattutto era necessario giungere ad un accordo con Sparta. Venne quindi richiamato dall'esilio Cimone, ed infatti in grazia della sua mediazione si riuscì a concludere con il Peloponneso un armistizio per la durata di cinque anni (451). A questo modo Atene, sicura alle spalle, poté rivolgere tutte le sue forze contro la Persia. Peraltro l'attacco che si temeva da questa parte non si verificò, perché gli insorti egiziani da soli opposero ancora lunga resistenza nelle regioni paludose del delta ed anche le città greche dell'isola di Cipro non si mostrarono affatto disposte a ritornare sotto la dominazione persiana. In loro difesa Cimone salpò alla testa di una flotta di 200 triere e cominciò l'assedio della città fenicia di Citio sulla costa meridionale dell'isola; qui però egli dovette soccombere ad una malattia.
Nel frattempo era comparsa nelle acque di Cipro una flotta persiana, e ciò indusse gli Ateniesi ad interrompere l'assedio di Citio per farsi incontro al nemico. Presso la città di Salamina di Cipro si venne a battaglia ed i Fenici vi rimasero sconfitti ed annientati; cento delle loro navi caddero in potere dei vincitori ed il dominio ateniese sul mare fu così nuovamente assicurato (450).
Se non che Atene era profondamente esausta e con la morte di Cimone il partito che aveva scritto sulla sua bandiera la prosecuzione della guerra contro la Persia era rimasto privo del suo capo. Si aggiunga che i rapporti con Sparta continuavano a rimaner molto tesi, e ciò faceva prevedere con certezza una ripresa del conflitto alla scadenza dell'armistizio quinquennale. Atene quindi intavolò ora trattative con la Persia. Essa si mostrò pronta a sacrificare Cipro; ed in compenso il re persiano si impegnava a non introdurre alcuna flotta nel Mare Egeo. Su queste basi fu conclusa la pace, pace che nella storia reca molto a torto il nome di Cimone, giacché con essa Atene semmai rinunciò al programma per il quale il suo grande condottiero aveva combattuto per tutta la durata della sua vita. Atene tradì con questa pace la sua missione nazionale, all'interesse del cui compimento essa andava debitrice della sua posizione dominante; e non gliene fu risparmiata la punizione. Da questo momento cominciò la decadenza di Atene.
Infatti anche in Grecia dopo questi eventi i nemici di Atene risollevarono il capo. Nella Beozia scoppiò una insurrezione; un esercito ateniese al comando di Tolmide, che era stato mandato per spegnere la rivolta, fu distrutto a Coronea ed in seguito a questa disfatta anche l'Eubea e Megara si ribellarono alla signoria ateniese. Poco dopo l'esercito della lega del Poloponneso, guidato dal figlio di Pausania, il giovane re Plistoanace, passò l'istmo ed invase l'Attica. Pericle radunò in fretta quante truppe poté aver sotto mano ed occupò le alture che separano la pianura di Atene dal piano di Eleusi, ma non osò dar battaglia al nemico in campo aperto. Tentò quindi la via delle trattative e siccome si mostrò disposto a far grandi sacrifici si giunse rapidamente ad un accordo.
Atene rinunziò alla Beozia, a Megara ed ai suoi possedimenti nel Peloponneso; in compenso Sparta riconobbe il predominio ateniese sul mare. La convenzione era destinata a rimanere in vigore per trenta anni (445).
Così la potenza di Atene sul continente ellenico rimase distrutta senza che Sparta avesse avuto bisogno di sacrificare a tale scopo neppure un uomo. E probabilmente, data la decisa superiorità di Atene sul mare, anche proseguendo la guerra non si sarebbe potuto ottenere di più. Infatti in previsione di quanto sarebbe avvenuto, gli Ateniesi subito dopo la rottura con Sparta (462) avevano cominciato a collegare la città con i suoi porti del Pireo e del Falero mediante due muraglie laterali lunghe da 6 a 7 chilometri e ad assicurarle così le sue comunicazioni col mare;questa opera colossale era ora compiuta e rendeva impossibile circondare Atene e bloccarla completamente.
Malgrado ciò la pace incontrò a Sparta viva disapprovazione in seno ad un partito molto esteso, il quale ottenne lo scopo di far sottoporre Plistoanace a giudizio per alto tradimento e di farlo deporre dalla carica. Peraltro non era ormai più possibile revocare il patto concluso. E quindi Pericle si trovò libere le mani contro l'Eubea; l'isola fu soggiogata dopo breve resistenza e ridotta alla piena dipendenza da Atene.
Nondimeno la posizione di Pericle non poté per tutto ciò che era avvenuto non restare assai gravemente scossa. Il partito di Cimone cominciò di nuovo ad alzar la testa. Ma il suo capo, Tucidide, figlio di Melesia, non era l'uomo da poter stare a fronte di Pericle. Si arrivò, é ben vero, a provocare le decisioni del tribunale dell'ostracismo; ma la massa del popolo rimase fedele al suo antico capo e toccò a Tucidide di andarsene in esilio (445).
Da questo momento Pericle rimase senza rivali alla testa dello Stato; anno per anno fu rieletto stratega, e nel consiglio e presso l'assemblea popolare la sua parola ebbe influenza assolutamente decisiva.
Vero é peraltro che egli nel frattempo si era venuto trasformando in demagogo. Del resto lo stesso Cimone non aveva disdegnato di accrescere la sua popolarità mediante sconfinate liberalità a favore delle masse, mettendo spesso a disposizione del popolo - quando non vi erano risorse - perfino il suo patrimonio principesco; Pericle, per superarlo in liberalità, pose le mani nelle casse dello Stato. Per rendere possibile anche ai cittadini più poveri la possibilità di sedere nei tribunali di giurati, che a datare dalla riforma di Efialte giudicavano in ultima istanza anche su questioni di carattere politico, venne introdotto, su proposta di Pericle, un assegno per i giudici in ragione di due oboli (circa 38 centesimi) per seduta, pari cioè al salario giornaliero allora usuale per i comuni lavoratori.
Anche i grandiosi edifici pubblici che furono costruiti sotto l'amministrazione di Pericle ebbero in gran parte lo scopo di dar lavoro remunerativo alle masse. Così pure Pericle non trascurò di soddisfare il gusto che il popolo aveva per gli spettacoli celebrando splendide feste. Tutto ciò fu possibile finché la situazione delle finanze dello Stato fu rigogliosa ed a capo della cosa pubblica si trovò un uomo superiore a ogni altro come Pericle; ma ben presto questi dispendi dovevano riuscire fatali al progresso dello Stato.Per quanto riguarda le relazioni con gli alleati, l'opera di Pericle fu diretta a trasformare sempre di più l'alta sovranità di Atene in una dominazione effettiva. Questo svolgimento in verità fu in gran parte dovuto alla forza stessa delle cose; del resto se si voleva che la pace fosse mantenuta nel campo della lega, Atene non poté fare a meno di ingerirsi nelle controversie sorgenti fra i vari membri della stessa lega e nelle perturbazioni interne dei singoli Stati confederati.
Ciò ebbe necessariamente per conseguenza che gli alleati vennero assoggettati alla giurisdizione ateniese, di modo che tutti i più importanti processi sorgenti nell'àmbito del territorio federale furono giudicati dinanzi ai tribunali attici. Quando non vi era di mezzo un interesse ateniese, questi tribunali offrivano una garanzia di imparzialità assai maggiore che non i tribunali dei singoli staterelli; e siccome i giudici attici naturalmente giudicavano secondo il diritto attico, ne derivò che attraverso la giurisdizione si pervenne anche all'unificazione del diritto in tutto il dominio ateniese.
È pur vero peraltro che tale sistema rese assai dispendiosa per gli alleati la giustizia, anche a prescindere dalla limitazione che esso arrecava all'autonomia comunale, così cara a tutti i Greci. Naturalmente non mancarono neppure ingerenze nell'amministrazione interna degli Stati confederati che spesso fu addirittura assoggettata al controllo di funzionari ateniesi. Costoro favorirono in ogni maniera i partiti democratici locali e talora riformarono la costituzione modellandola su quella ateniese. Nelle città del territorio federale - importanti dal punto di vista militare - furono distaccati presidii e quando se ne presentò l'occasione, specialmente in caso di tentativi di ribellione andati a vuoto, vennero domiciliati nelle città confederate cittadini ateniesi e dotati di terre.
In seguito a tutto ciò l'assemblea federale - perdette con l'andar del tempo ogni importanza; Atene decise a suo arbitrio in merito a tutte le questioni di interesse comune, e da quando il tesoro della lega venne trasportato ad Atene non si volle nemmeno più render conto di sorta dell'impiego del denaro comune; bastava, si disse, che Atene ottemperasse al suo obbligo di proteggere gli alleati dagli attacchi esterni.
Così la lega, sotto il governo di Pericle, si trasformò in un dominio ateniese; gli alleati si mutarono in sudditi. Soltanto le tre grandi isole della costa occidentale dell'Asia Minore, Lesbo, Chio e Samo, conservarono tuttora la propria autonomia; esse erano esenti dal tributo federale e conferivano contingenti di navi proprie alla flotta ateniese.
Tutto ciò non poteva a meno di suscitare fra gli alleati un profondo astio contro Atene, reso anche maggiore dal fatto che la guerra contro la Persia per la quale era stata un tempo costituita la lega, non era stata più proseguita a datare dalla «pace di Cimone», e neppure sembrava fossero da temere ulteriori pericoli da questo lato. Ma i piccoli Stati erano impotenti contro la città dominante, e gli Ateniesi furono abbastanza accorti per non dar ragioni di dolersi a quei pochi Stati federati che erano tuttora autonomi. Peraltro a lungo andare i conflitti non poterono esser del tutto evitati.
Nell'anno 440 Samo venne a guerra per questioni di confine con la vicina Priene e poi con Mileto; le due città, non essendo in grado di tener fronte ai Samii, chiesero aiuto ad Atene che così si trovò coinvolta nella lotta. Pericle salpò immediatamente con 60 navi e riportò presso l'isola di Tragea una vittoria sulla flotta di Samo superiore per numero di navi. Questo successo arrecò il beneficio che l'insurrezione rimase in sostanza limitata a Samo e specialmente che Chio e Lesbo si mantennero fedeli. Quelli di Samo ora si rivolsero per aiuto a Sparta ed alla Persia; ma nel Peloponneso si ebbe scrupolo di violare la pace conclusa pochi anni prima con Atene ed anche il gran re non osò intervenire. Così Samo dopo un assedio di nove mesi fu costretta ad arrendersi agli Ateniesi. Naturalmente dopo ciò l'isola fu privata della sua indipendenza (439).
Durante gli anni successivi la pace non venne turbata in Grecia, e Pericle ebbe modo di cercare nel Nord e nell'Occidente dei compensi per i sacrifici fatti in precedenza. Una spedizione compiuta verso il Ponto indusse in gran parte le città greche del luogo ad entrare a far parte del dominio ateniese, in Tracia venne fondato non lungi dalle foci dello Strimone la colonia di Anfipoli (437), importante per la sua posizione strategica come per le ricche miniere d'oro del vicino Pangeo.
In Occidente era stata già alcuni anni prima (445) fondata in vicinanza della distrutta Sibari la colonia ateniese di Turi; Atene poi si alleò pure con le città calcidiche della Sicilia e dell'Italia.Furono questi tentativi di espandere la potenza ateniese sull'Occidente greco che alla fine provocarono la rottura con il Peloponneso e fecero scoppiare quella guerra che finì con la caduta del dominio ateniese.
In entrambi i due paesi, dimorando nell'animo le gelosie, le invidie, i fomiti di cupidigia, le ambizioni favorite dalla forza (ognuna credeva di essere il più forte) scatenarono la nuova sanguinosa guerra.
Ma prima di raccontare la "Guerra del Peloponneso" diamo uno sguardo a quella che fu chiamata "l'età d'oro di Atene".