DA
20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI 1935-36
(Oggi
diremmo che sono di parte; ma questo leggevano gli italiani; non dimentichiamolo)
(Noi qui cerchiamo solo di capire)
*
LA POLITICA COLONIALE DAL 1878
FINO ALLA CONQUISTA DI ADUA (giugno 1935)
(una lunghissima storia)
(SECONDA PARTE)
* RAPPORTO DEI "13" DEL 6 OTT. 1935 della S. d. N.: L'ITALIA "HA
AGGREDITO!" - SANZIONI! !
(l' articolo sopra in neretto segue nelle successive pagine)
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Questa fase delle nostre vicende africane non segna un progresso nel cammino della nostra politica internazionale; non era vero, contrariamente alle supposizioni dalle sfere governative aiutate e incoraggiate, che la occupazione dell'Eritrea fosse ii risultato di accordi pattuiti con l'Inghilterra; la realtà era assai più modesta: presa Assab e avvenuto il ritiro delle guarnigioni egiziane dai porti del Mar Rosso, l'Inghilterra, dopo aver spronato invano la Turchia a subentrare all'Egitto, aveva fatto capire che avrebbe visto di buon occhio l'intervento dell'Italia; e l'Italia si era mossa.
Non c'era stata una alleanza e nemmeno una convenzione, ma c'era stata una intesa che completava e perfezionava la Triplice, stipulata da poco.
La Triplice, sebbene stretta in epoca non favorevole e sotto la pressione del risentimento destato dal non simpatico contegno della Francia, aveva già dato il non trascurabile vantaggio di farci sentire premuniti contro i rischi che da occidente tendessero a minacciare la sicurezza dello Stato, aveva alzato barriere ad una ulteriore espansione francese nell'Africa settentrionale ed era riuscita ad assicurare una relativa stabilità nella Balcania, nell'Adriatico e nell'Egeo (G. VOLPE: L'Italia in cammino, Milano, Treves, 1927, pag. 42).
I rapporti, poi, allacciati con la Spagna e, più ancora, quelli allacciati con l'Inghilterra non avevano vinto la nostra perplessità per una azione in Egitto, ma avevano servito a darci la spinta per andare nel Mar Rosso.
Coefficienti nuovi, dunque, erano venuti in gioco, ma coefficienti che assai discutibilmente potrebbero essere presi ad indici di cambiamenti più profondi, di trasformazioni radicali di pensiero, di premesse, di principi. Resta ed è molto incerto che le vicende presentatesi agli occhi di noi ancora vibranti della poesia del Risorgimento operassero allora un mutamento ab imis di vedute e di programmi ; che le traversie sopportate, le contrarietà subite, le stesse umiliazioni sofferte, rafforzassero e rinvigorissero sensibilmente le deboli correnti delineatesi negli anni precedenti, rendendoci persuasi della ineluttabile necessità di una politica meno sognatrice, di una visione meno fantastica del mondo e dei bisogni materiali e morali d'Italia; che i concetti agitati e proclamati nei primi contrasti delle competizioni internazionali, anche se non caduti nel nulla, si fossero già commisti proficuamente con le aspirazioni che costituivano la ragione di essere della Patria nel consesso arcigno delle Potenze europee; che, insomma, le ideologie e i sentimentalismi antichi, anche se non rinnegati e non sconfessati, fossero stati messi almeno a uno stesso livello con le esigenze impellenti ed urgenti della Nazione; che sotto l'incalzar dei fatti, avanzasse un fermento nuovo di vita spirituale, una coscienza nuova nei Governi e nel parlamento.
« Mentre gli eroi morivano - scrisse l'Oriani ricordando le morti gloriose degli esploratori - Matteucci, Chiarini, Giulietti, Bianchi, Perro assassinati nella loro missione di civiltà - il Parlamento e il Governo come inconsapevoli della tragica e storica attrazione dell'Africa sull'Italia, sembravano persino dimentichi della compra massauina, e interpellati da qualche generoso negavano ogni solidarietà con la morte di quei precursori.
« Quindi la Nazione sembrò sollevarsi così sdegnosa che il Governo credette di passare dalla compra alla conquista.
« La vendetta della strage di Bianchi ne fu il pretesto : non si ebbe, non si volle, non si osò avere alcuna idea. Eppure il momento era storicamente solenne. Dopo secoli e secoli la bandiera italiana tornava minacciando sui mari che sembravano averla dimenticata, e non era la bandiera di Venezia o di Genova che aveva scoperto l'America e salito le mura di Costantinopoli, non la bandiera di Roma papale che aveva annichilito i Turchi a Lepanto, ma la bandiera d'Italia che, sventolando sull'asta delle antiche aquile romane, riprendeva la loro via. Dacchè le aquile romane erano state uccise dallo stormo degli sparvieri nordici, il mondo non ne aveva viste altre, e nulla meno eternamente memore del loro volo, le aveva eternamente cercate sulla cima di tutti i pennoni e di tutti i vessilli che lo percorrevano trionfando. Il nuovo stendardo italiano portava nell'iride dei più espressivi colori il simbolo redentore della croce.
« Tutti gli sforzi millenari dell'Italia per costruirsi nazione, il sangue dei suoi eroismi e le tragedie del suo genio, non miravano che a questo giorno nel quale rientrando, attrice immortale, nella storia dopo essersi circoscritta nei confini del proprio diritto, veleggerebbe un'altra volta sui mari portatrice di nuova civiltà.
« Parlamento e Governo - commentò - e il commento é la più fiera ed eloquente illustrazione di quei giorni - Parlamento e Governo, l'uno più meschino dell'altro, non compresero nulla dell'immenso significato dell'impresa : il Governo intese a sminuirla dandole aspetto di rappresaglia contro pochi ladroni ; l'Opposizione non vi scorse che uno sperpero di pochi milioni, e guai le solite doglianze sulle miserie del popolo. L'ingresso trionfante dell'Italia nella storia mondiale contemporanea si mutò in una entrata di soppiatto, senza coscienza di sè medesima e contro coscienza de' suoi più grossi vicini che la spiavano.
« Il momento della gloria si cangiò in un momento di vergo
gna... (ALFREDO ORIANI: Fino a Dogali, Cappelle, Bologna, 1933, pag. 335
e seg.).
A fiancheggiare adeguatamente la illuminata azione dei Ministeri, a preparare e a irrobustire l'amore di terra lontana, a creare una prima forma di volontà coloniale, a gettare il germe di una salda e virile politica di dominio, l'Epoca, un giornale rozzamente illustrato ma largamente diffuso, pubblicò una vignetta in cui un soldato del Corpo di spedizione, un avamposto, era sbranato da una iena.
Le giovani generazioni trovavano dappertutto degni maestri.
* * *
Dal 1890 al 1896, la storia della Colonia eritrea procede rapida in un susseguirsi di azioni militari e di trattative svariate.
Il trattato di Uccialli, anzichè un fattore di amicizia diviene presto una causa di ostilità : Menelich, a evidente istigazione dei nostri nemici europei, lo impugna subito negli articoli fondamentali della delimitazione dei confini e del nostro protettorato; non rompe in armi, sia perché é troppo fresco il ricordo dell'appoggio da noi datogli per diventare Negus, sia perché di fronte alle ostilità dei rivali che lo circondano non si sente ancora saldo sul trono.
Nel gennaio del '90, il generale Orero, succeduto al Baldissera, entra ad Adua donde, in seguito ad istruzioni da Roma, torna al di qua del fiume di confine : il Mareb.
Nel giugno, il capitano Fara - il comandante dell'II° bersaglieri a Sciara Sciat - sconfigge i Dervisci ed occupa Agordat che diviene il posto più avanzato della Colonia verso il Sudan.
Rimpatriato l'Orero, assume il comando il generale Gandolfi il quale, avendo presso di sé come vice-governatore il colonnello Oreste Baratieri, istituisce con alcuni funzionari civili portati dall'Italia una specie di « Consulenza » che, la Dio mercé, viene sollecitamente abolita dopo le confortanti prove date della sua sapienza.
Nei primi mesi dell'anno seguente, il capitano Pinelli batte nelle vicinanze dei pozzi di Halat una colonna di 700 abissini iniziando, così - opportunamente o no, é inutile adesso discutere - gli urti armati con i sudditi più diretti dell'impero etiopico.
Risalgono a questi mesi i tentativi per una intesa col Negus compiuti dal conte Antonelli, gli approcci per sobillare proficuamente Ras Mangascià contro Menelich, i saggi di colonizzazione dei barone Franchetti e il cosiddetto scandalo Cagnazzi-Livraghi che é sfruttato fino all'inverosimile dagli antiafricanisti d'ogni specie e di ogni risma.
Di lì a poco, caduto il Crispi, che aveva ereditato il potere dal Depretis, il di Rudinì, salito a Palazzo Braschi, vagheggia di restringere l'occupazione militare permanente in Eritrea al semplice triangolo Massaua, Asmara, Cheren e di destinare nelle altre località capi indigeni e bande sorvegliate da ufficiali là residenti.
Frattanto il Baratieri, prossimo alla promozione a generale, succede all'Orero e inizia un riordinamento politico, amministrativo, militare, giudiziario, religioso, della Colonia.
Nel '92 e nel '93 primo Ministero Giolitti - si hanno due scontri con i dervisci, tutt'e due vittoriosi : l'uno, un combattimento presso Sarobeti ingaggiato dal capitano Hidalgo, e l'altro, più importante, di nuovo presso Agordat attaccato dal colonnello Arimondi insieme col tenente colonnello Cortese e il capitano Galliano.
La notizia della vittoria di Agordat II, che é una delle più belle e complete vittorie africane del tempo, provoca - nota il maggiore Gaibi - « grande entusiasmo nella penisola, ed essendo in quei giorni caduto il Ministero Giolitti e ritornato il Crispi al potere, se ne traggono lieti auspici per la sua politica » (A. GAIBI: Manuale di storia politico-militare delle Colonie italiane, Roma, Provveditorato generale dello Stato, 1928, a. VI, pag. 73).
Il Baratieri ne prende occasione per occupare Cassala allargando, così, i confini della colonia e rafforzando il prestigio della Patria, ma le vicende interne e gli intrighi parlamentari, che avevano già nell'anno precedente turbato l'opinione pubblica, consigliano la ripresa delle trattative amichevoli col Negus che, sempre istigato dai nostri ottimi amici d'oltrealpe, ha denunciato formalmente il trattato di Uccialli.
Le conseguenze di simile metodo sono funeste : non solo non si ottiene con le missioni del dottor Traversi e del colonnello Piano, di indurre Menelich a migliori consigli, ma si suscitano diffidenze nei capi viciniori che, durante i contrasti guerreschi contro il Negus, si erano schierati dalla nostra parte : si ribella contro di noi Mangascià e si ribella Bahtà Agos.
Relativamente facile é la repressione del tradimento del secondo che, presso Halai, sconta con la vita la sua fellonia; più dura é, invece, la lotta col primo il quale, non vittorioso a Coatit, rotto e messo in fuga a Senafé, non cessa, per questo, nonostante le dichiarazioni di obbedienza, di congiurare contro di noi.
Il Baratieri non si presta alla schermaglia e lo affronta senza riuscire, però, né a batterlo né a raggiungerlo : occupa, tuttavia, Adigrat, entra in Adua e, accolto festosamente, visita il santuario di Axum.
Ma il Governo, sempre inceppato dalle pressioni politiche, non sanziona la conquista, e il Baratieri deve rinunziare a mantenere la occupazione di Adua.
Aumenta, perciò, la baldanza dei nemici che la nostra condotta indecisa ha la virtù straordinaria di unire e di cementare.
Nell'agosto del '95 il Baratieri, venuto in Italia, ottiene quanto da tempo chiedeva per fronteggiare la ormai sicura offensiva abissina; rioccupa Adua, pone stabili presidi a Maccallé, e dichiara la annessione del Tigré.
Dopo le quali imprese, ha il torto di rimettere l'esercito sul piede di pace e di congedare la milizia mobile.
Nel dicembre avvengono alcuni fatti di arme : sconfitta di Amba Alagi, dove il maggiore Toselli cade da prode insieme a 18 ufficiali, ritirata del colonnello Arimondi verso Adigrat e consegna del forte di Maccallé al maggiore Galliano che nel gennaio dell'anno seguente, dopo valorosa resistenza, deve abbandonare la posizione, scontri con avanguardie nemiche e con gruppi indigeni a noi ribellatisi.
Alla vigilia dell'insuccesso del 1° marzo '96 Menelich continua a chiedere di trattare, ma alle sue richieste da Roma si risponde insistendo nella pretesa del rinnovo del trattato di Uccialli e della cessione all'Italia di tutto il territorio dove ha sventolato il tricolore.
In mezzo al vertiginoso aumentare delle difficoltà logistiche che di giorno in giorno l'affluire dei rinforzi rende sempre più grave, una soluzione si impone : o ritirarsi, o tentare, avanzando, di aprir la strada ai rifornimenti.
Con probabilità, un telegramma del Crispi, in data 25 febbraio, così redatto : « Codesta é una tisi militare, non una guerra: piccole scaramucce nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero dinanzi al nemico; sciupio di eroismo senza successi », decide il Baratieri ad avanzare. E abbiamo Adua.
* * *
Il 29 febbraio 1896 - l'anno era bisestile - i belligeranti avevano le forze seguenti
Forze italiane (parte bianche e parte indigene) circa 20 mila uomini con 52 cannoni, ripartiti in 4 brigate agli ordini dei generali Arimondi, Dabormida, Ellena, Albertone; circa 4 mila uomini nelle retrovie, 9 mila nei presidi; in viaggio dall'Italia 16 mila uomini cn i quali si trovava il Baldissera destinato a sostituire il Baratieri.
Forze abissine : circa 100 mila combattenti con 10 mila cavalieri.
Partendo dalle sue basi, il Baratieri si riprometteva di occupare, mediante una marcia notturna, una posizione che precede la conca di Adua e di non attaccare battaglia se non quando il nemico avesse preso, esso, la offensiva contro le posizioni italiane già occupate. Ma la esecuzione del piano non riuscì, le colonne procedettero senza mantenere i contatti, intersecandosi a vicenda, e, per di più, andando a incappare nelle masse nemiche.
L'azione si sciolse in diverse azioni slegate, nelle quali nulla poterono la superiorità delle armi e il valore dei comandanti e dei gregari : ebbe ragione il numero di troppo maggiore per non respingere ad una ad una le brigate italiane.
"Noi avemmo - dice il Gaibi - circa 6600 morti, fra i quali 5000 italiani di cui 268 ufficiali, 500 feriti e 1700 prigionieri; gli abissini pare che avessero circa 7000 morti e 10.000 feriti".
Ascoltiamo la breve narrazione, inedita, di un valoroso ufficiale che rimase gravemente ferito sul campo.
Stralcio i periodi più significativi
« ... Il fuoco cominciò prima di giorno fra il primo battaglione (Turitto) e le bande dell'Hamaden ed io vidi tornare indietro, poco dopo, il capo delle bande suddette con un bel foro nel petto; frattanto, presero posizione le batterie sudanesi (Henry e Fabri) e le due batterie (Bianchini e Masotto) denominate « Siciliane» ma composte con artiglieri di tutte le regioni d'Italia : totale 14 pezzi, fiancheggiate dai seguenti battaglioni indigeni al comando del brigadiere Albertone : 6° (Cossu), 7° (Valli), 8° (Gamerra) e nuclei dì Altre bande.
Il 2° (Hidalgo) era a Cassala, il 3° e il 4° decimati a AmbaAlagi e a Macallé, erano comandati dal Galliano e si trovavano un po' indietro; il 5° (Ameglio) con le bande del Seraé (Mulazzani) era sul Mareb e non partecipò - e fu un grosso guaio - alla battaglia.
Dall'alba alle 10 lottammo disperatamente ma la pioggia dei proiettili ci falciava... Per dare un'idea delle perdite, dò quelle dei mio battaglione (8°) che appoggiò le batterie fino all'ultima cartuccia : comandante ferito e prigioniero; capitani tutti morti; i subalterni lo stesso, meno io, ferito e prigioniero; Lori morto, Amendolaggine e Rigaggi morti ; anche il tenente medico morto. Due ufficiali soltanto (Galletti e de Feo) si erano salvati da prima, ma gravemente feriti. In una parola, tutti gli ufficiali pagarono col sangue il loro contributo alla lotta.
In quanto agli ascari, su 1.200 circa, ne caddero, tra morti, feriti e prigionieri, oltre 1.000 nel mio solo battaglione : in totale, le nostre perdite, su circa 16.000 uomini furono 2.000 prigionieri, 800 morti, 3000 feriti gravi, 2.000 scampati : si intende in cifre tonde. Il nemico ebbe 12.000 morti e 20.000 feriti ( Le cifre, come si vede, discordano un po' da quelle date dal Gaibi (Man. di storie ecc., pag. 108) e che sono le stesse pubblicate dal Crispi (F. CRISPI : La prima guerra d'Africa, Milano, Treves, 1904, pag. 399)
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Dei quattro generali che parteciparono alla battaglia l'Arimondi e il da Bormida morirono, l'Ellena fu ferito e l'Albertone fu fatto prigioniero; su circa 300 ufficiali, 200 caddero uccisi e 50 vennero catturati.
Episodi ? Ecco la fine delle batterie siciliane » con le quali sostenni la estrema difesa. La mia compagnia (4a dell'VIII) morto il capitano (Bonetti del 3° alpini), morto il primo tenente (Michele Mora del 4° bersaglieri), morto Saccarello e morto il furiere maggiore (Failla dei bersaglieri), rimase comandata da me con appena 50 uomini su 300: io condussi questi superstiti a difendere l'artiglieria che stava per cadere nelle mani del nemico. Avvicinandoci ai cannoni, seguito a pochi passi dagli abissini, fummo accolti da salve sparate a mitraglia, per cui mi tolsi di capo l'elmetto e la misi sulla punta della sciabola per far capire che eravamo amici mentre due ascari mi sorreggevano perché già colpito.
Giunti fra i pezzi, sparammo le ultime cartucce tolte ai morti e ai feriti gravi, finché fummo sopraffatti da vere ondate di etiopi che travolsero uomini e cose. Il seguito della battaglia io lo vidi stando, gravemente ferito, tra i nemici.
Il generale Arimondi scese da cavallo e non volle ritirarsi : fu ucciso ed evirato. Il generale da Bormida fu ucciso con una fucilata sparatagli a breve distanza e alle spalle ; la palla passò da parte a parte forando la sciarpa.
I quattro capitani delle batterie che iniziarono il fuoco d'artiglieria, (Fabbri, Henry, Masotto, Bianchini) morirono tutti e quattro fra i pezzi.
L'ultima batteria a giungere sul campo fu quella del capitano Franzini di Alessandria ma non ebbe nemmeno il tempo di prendere posizione che fu assalita ed il capitano ucciso.
Lo stesso Baratieri non cadde prigioniero per miracolo ed il Principe Chigi, suo ufficiale di ordinanza, morì.
L'On. Negrotto Cambiaso, ufficiale d'ordinanza dell'Arimondi, scampò a caso.
Pochi sono rimasti, oggi, superstiti dei 1° marzo e colui che raccoglieva tanta fiducia dovunque, il Salsa, é morto poco prima dell'ultima guerra.
Ricordo i colonnelli Guastori e Calvieri caduti eroicamente nella guerra mondiale, il generale Prestinari, pure caduto da valoroso e che difese Adigrat ; il generale Cossu, altro intrepido combattente ad Adua, ora divisionario degno della fama antica; Pantano Gherardo ed altri ancora; i colonnelli Airaghi e Romero, il tenente colonnello Menini, il maggiore Rodolfo Valli di Ponsacco, travolto nella mischia e scomparso, il capitano Federico Castellaggi, caduto gravemente ferito e poi, forse ucciso e fatto prigioniero.
In quanto al tenente colonnello Giuseppe Galliano, l'eroico difensore di Macallé, non é vero che fu decapitato : egli venne ferito ad una guancia da un proiettile e cadde morto per un secondo colpo al petto; non riconosciuto dal nemico fu spogliato. lo ebbi modo di riconoscere la sua giubba ad Addis-Abeba, alcuni mesi modo ».
L'inseguimento, organizzato si protrasse solo per una quindicina di chilometri.
Più gravi molestie, portarono le popolazioni e le bande ribelli che, come avevano sempre infestato le retrovie, così la sera stessa della battaglia si diedero a perseguitare le truppe e a saccheggiare i rifornimenti.
La ritirata, effettuata sotto l'incalzare del nemico, non ebbe protezione di sorta perché il colonnello Di Boccard, rimasto col suo reggimento a difesa delle retrovie, privo di notizie, isolato, esposto al pericolo di essere anche lui accerchiato, dopo avere atteso invano un ordine qualsiasi fino alle 12 del giorno dopo, si ritrasse a Adi Cajé dove si era diretta la maggior parte dei superstiti e dove, pure, il 3 giunse il generale Baratieri.
Cassala e Adigrat furono rispettivamente liberate dal Baldissera nell'aprile e nel maggio seguente : le due operazioni, anzi, brillantemente condotte, fecero sorgere la speranza di una non lontana rivincita, ma il Governo centrale non soltanto si oppose a nuove operazioni ma ordinò lo sgombero di Adigrat e il rimpatrio delle truppe.
Nel decennio che va da Dosali ad Adua, si alternano al potere, dopo il Depretis che, caduto in seguito al disgraziato episodio della colonna de Cristoferis, muore di lì a poco, il Crispi e il di Rudini con l'intermezzo del primo Gabinetto Giolitti.
In quale maniera il Giolitti intendesse il problema coloniale e con quale larghezza di vedute guardasse ai bisogni d'Italia ai di là dei mari, fu manifesto nel discorso del 21 febbraio '89 intorno ai disegni di legge per i provvedimenti finanziari.
" In Africa - egli disse - noi siamo ormai entrati in un periodo di calma. La spedizione [la spedizione comandata dal generale di San Marzano che, se riuscì ad allargare il raggio dell'influenza italiana fino all'orlo dell'altipiano, non inflisse alcuna sconfitta in campo aperto al nemico la spedizione che avevamo deliberato di fare, l'abbiamo fatta; la soddisfazione che credevamo necessario di ottenere, l'abbiamo ottenuta; nessuno di noi può pensare ancora oggi a fare una seconda spedizione per fatti che, bene o male, l'Italia considera come definitivamente liquidati ».
E sopra un simile telaio, imbastì le sue considerazioni : « Nel Paese, le spese per l'Africa non sono popolari... Io ritengo evidente che se noi continuassimo a spendere quanto spendiamo oggi per l'Africa, non tarderebbe a prodursi una violenta reazione, la quale, forse, potrebbe indurre la rappresentanza del Paese a chiedere il ritiro definitiva delle nostre truppe.
D'altronde, il sistema seguito finora di una occupazione militare, buoni frutti non ce li ha dati. Non val meglio restringere questa azione ai punti essenziali ed importanti, e studiare con calma quali possano essere i mezzi migliori di colonizzazione ?... Se il Ministero consentisse di restringere la occupazione in modo da dimostrare che là non si spende più di quanto é strettamente necessario per difendere la nostra bandiera, sarebbe cosa altamente utile al paese ed altamente approvata da tutti gli uomini di senno ». E andato al governo tre anni dopo, si diede premura di applicare la sua politica abbozzando intrighi e avviando ambascerie che non cavarono un ragno da un buco; di concreto non ci fu, durante il suo Ministero, se non il dono al Negus di due milioni di cartucce che dovevano essere abbondantemente sperimentate contro di noi ad Abba Carima, e la cattura del nostro residente ad Adua dottor De Martino da parte di Ras Alula.
Su Rudini, Giolitti, che abbonda di buoni motti nelle sue Memorie riferisce il giudizio pronunziato dal De Sanctis quando, alle rosee speranze in lui concepite, subentrarono le nere delusioni "Venne alla Camera come il fanciullo miracolo; il fanciullo rimase ma il miracolo scomparve » e ne sintetizza in una frase il temperamento : "il più grande difetto del suo carattere, quale uomo politico, era l'indecisione" (G. GIOLITTI: Memorie della mia vita, Milano, Treves, 1922, vol. I, pag. 57).
Ma il giudizio - nei riflessi delle nostre questioni coloniali, in specie - appare troppo benevolo, qualora si ricordi la risposta data nell'aprile del '92, come Presidente del Consiglio all'Onorevole Martini il quale gli aveva attribuito la confessione che « le faccende della Colonia Eritrea lo annoiavano »
« Onorevole Martini - rispose - non é vero sentimento di noia quello che si impadronisce di me quando debbo trattare delle cose africane; ma non posso nascondere che v'è nell'animo mio una grande e profonda amarezza. Il tempo e l'esperienza se mi persuadono che non si può e non si deve indietreggiare non sono giunte finora a convincermi che si fece bene ad avanzare. Certo, fa pena il pensare che noi dobbiamo fare molti sforzi per tenere questa posizione che occupiamo senza prossime prospettive di benefici. Noi siamo lì come una sentinella che sta al suo posto : ci stiamo e ci staremo. Ma mi lasci pur dire che io, per conto mio, non ci sto con letizia ».
Quale salutare effetto dovessero esercitare sul pubblico consimili dichiarazioni e quali atteggiamenti nella Camera, é non difficile immaginare; fu, il suo, il Ministero delle inchieste, delle gaffes e delle rinunce : fu sua la inchiesta ordinata per saziare le brame parlamenetaristiche in seguito alle accuse formulate contro l'avvocato Cagneassi e il tenente Livraghi; fu sua la pubblicazione, nel Libro verde presentato alla Camera il 14 aprile '91, degli apprezzamenti segreti sulla condotta del Negus mandati dall'Antonelli al Governo, e fu suo l'ordine al generale Gandolfi di limitare la occupazione militare al triangolo Massaua-Asmara-Kerene.
Che cosa importò che la Commissione di inchiesta presieduta dal senatore Borgnini concludesse in senso affatto opposto alle speranze che l'avevano determinata; che la gaffe si risolvesse in una situazione pregiudizievole per tutti i nostri futuri rapporti col Negus o che il ritiro delle truppe nel famoso triangolo poi non avvenisse? Era la Bestia trionfante che doveva essere acquietata, e, con la Bestia trionfante, era l'idra parlamentare che bisognava ad ogni costo placare.
Siamo dinanzi a una catena di casi che si saldano e si sorreggono a vicenda dei quali é espressione tipica quel marasma demagogico contro il quale si levò ardito il Crispi ma dal quale finì per essere egli medesimo travolto.
Per profilare la fisionomia del Crispi, il Giolitti rammenta un episodio occorsogli neell'89: un bel giorno fu dal Crispi chiamato telegraficamente a Roma : « arrivato - racconta - quando fui nel suo Gabinetto, mi disse ex abrupto che dovevamo aspettarci un colpo di mano della Francia da un momento all'altro. - Come -
esclamai - siamo in guerra con la Francia? Abbiamo dichiarato guerra alla Francia ? - No, - mi rispose - é la Francia che si prepara ad attaccarci d'improvviso, con un colpo di mano che é imminente.
u La informazione la aveva avuta da un agente che teneva presso il Vaticano, e l'aveva accettata come vera senza curarsi di appurarla » (G. GIOLITTI, op. cit., pag. 47).
Ma non sarà, di sicuro, su aneddoti di questo genere che converrà costruire la figura morale dell'uomo innegabilmente insigne i cui meriti per la valorizzazione della Colonia e per la esaltazione dei più nobili istinti della razza non saranno mai a sufficienza encomiati.
Non dimentichiamo : é per volere del Crispi che, dopo Dogali, viene organizzato il Corpo speciale d'Africa ed allestita la spedizione al comando del generale di San Marzano ; é sua opera il patto di amicizia e di alleanza tra l'Italia e Menelich, non ancora Negus, che non apportò benefici durevoli forse non solo per la infedeltà del ras scioano ma per la mancanza di una condotta decisa e congruente da parte nostra; é sotto il suo primo Ministero che avviene, per mezzo del Baldissera, il riordinamento della Colonia, e che si effettua, in forze, l'occupazione di Keren e dell'Asmara.
Il trattato di Uccialli non fu un monumento di scaltrezza politica ma fu, pure, un intreccio che avrebbe potuto offrire molti appigli a non sterili discussioni : « la questione del trattato potevamo discuterla per altri dieci anni », scrisse il conte Antonelli da Buenos Ayres dove era andato dopo lo sciocco siluramento datogli nel Libro verde dal di Rudinì (F. CRISPI: op. Cit., pag.395 395).
Sotto il suo secondo Ministero avvengono la presa di Cassala, il combattimento di Halai, la ritirata abissina a Coatit, la rotta inflitta a Senafè, l'occupazione di Adigrat, del Tigré, di Macallé, di Adua... e avvengono, é vero, gl'insuccessi della fine del '95 e del 1° marzo del '96. Ma di chi fu la colpa?
E' fuori di dubbio che, scorrendo la lunga documentazione pubblicata dal Palamenghi-Crispi (ID., op. Cit.), si resta impressionati della inconoscenza di uomini e di cose che, attraverso le lettere, i telegrammi, i colloqui, mostra il Baratieri ; parrebbe che, davvero, un tragico destino lo avesse reso cieco e sordo in mezzo al turbine che gli si addensava sul capo : deficienza di informazioni, mancanza di una visione adeguata della realtà, scarsa valutazione dei pericoli, assenza di un proposito saldo, atteggiamenti contraddittori, impreparazione incredibile. Mentre da destra e da sinistra, da vicino e da lontano, giungono allarmi precisi, egli continua a parlare come se tutto fosse tranquillo ed il rischio vagasse nebulosamente a mille miglia di distanza. A pochi giorni dalla battaglia, comunica che gli scioani sono « desiderosi di pace » e progetta « inseguimenti » e "campagne a fondo contro l'Abissinia ».
Non soffermiamoci sulle difese messe insieme da lui e dai suoi patrocinatori e che vanno dal libro del generale uscito nel '98 (A. BARATIERI, Memorie d'Africa, Torino, Bocca, 1898) al volume di Alberto Pollera (ALBERTO POLLERA, La battaglia di Adua del 1° Marzo 1896, Firenze, Carpigiani e Zipoli, 1928) ; é umano che un accusato tenti di gettare su gli altri i propri errori e che in ogni tempo e in ogni luogo - particolarmente quanto accanto agli errori il presunto reo può vantare incontrastati e incontrastabili successi - trovi degli amici e dei commilitoni che lo difendano.
Ci sono i fatti che interloquiscono con la loro eloquenza, ed i fatti non lasciano persuasi della esclusività del suo torto, della unicità della sua colpa : egli era cieco, era sordo, era male informato, era ottimista; e sia; ma che cosa pensavano mai i governanti di Roma ai quali di notizie ne giungevano pure a bizzeffe? Egli non chiedeva rinforzi, ed essi glieli mandavano; egli affermava che il Negus era lontano ed essi sapevano che il Negus era vicino; egli parlava di offensiva ed essi opinavano che fosse già troppo sperar di difendersi; ma, di fronte a un così profondo divario di opinioni, di propositi, di sentimenti e di progetti, a quale sovrumano intervento i Reggitori si affidavano mai per indugiare e per trattenersi dal cambiare radicalmente e risolutamente una situazione che a nitidi colori si delineava gravissima ?
Per quali inconcepibili abbagli un Ministero di cui, oltre il Crispi, facevano parte un Sonnino, un Saracco, un Morin, un Boselli, non comprendeva la insostenibilità di presupposti e di deduzioni che peccavano della più evidente inverosimiglianza? Come mai, da quali ombre offuscati, mentre già dense nubi di affacciavano all'orizzonte, il Saracco, che al pari degli altri Ministri era perfettamente edotto della paurosa inferiorità delle nostre forze, si baloccava con quisquilie costituzionali discutendo se il Parlamento avesse deciso l'invio di seimila e di diecimila uomini, e ne scriveva al Crispi quasi per mettere in salvo la sua responsabilità ? Come mai e per quali incogniti riguardi il Mocenni, Ministro della Guerra, che il 9 gennaio segnalava al Sonnino la presenza intorno a Macallé di almeno 60 mila scioani, non prospettava, poi, nel Consiglio dei Ministri, la urgenza di provvedimenti eccezionali immediati ?
Il Governo era perfettamente persuaso della natura infida dei Capi banda nei quali il Baratieri, al contrario, riponeva la massima stima e che, defezionando pochi giorni prima dell'urto e ponendosi a taglieggiare nelle retrovie, furono fattori importantissimi di disgregazione e di preoccupanti molestie; il Governo era al corrente degli intrighi dei vari Chefneux e dei vari Leontieff che da lungo tempo rifornivano il Negus di armi e di munizioni; il Governo conosceva tutto questo e conosceva il temperamento del Baratieri, in soprappiù : eppure, non ostante tali cognizioni, non ostante tali convincimenti, non ostante tali assillanti incubi, qualche Ministro non pensò che a procurare seccature minacciando di tanto in tanto di dimettersi, e il Crispi, il Crispi in persona, non si peritò di spedire al Baratieri fino ad allora incerto e perplesso il telegramma famoso che, con ogni probabilità, non fu estraneo alla decisione presa di agire.
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Crispi fu contrario, in origine, alla impresa Africana? Fu contrario, e ci tenne a ricordare al parlamento questa sua contrarietà? A dichiarare che una conquista di tutta la regione eritrea sarebbe stata una follia, che il Governo non aveva mire imperialistiche e che voleva ottenere solo una equa rimunerazione dei sacrifici fatti dal Paese e l'osservanza dei patti già conclusi? - (C. IEMOLO, Crispi, Firenze, Vallecchi, 1922, pag. 29 e seg.).
Proprio così ? E ozioso discuterlo, ché, per una stima degli avvenimenti non giova tanto che egli sia stato o no un valutatore adeguato del problema coloniale eritreo, quanto che egli si sia elevato ad assertore delle necessità mediterranee della Italia unificata ; e su questa base egli sta saldo e giganteggia davvero come altri mai : egli sa interpretare il sentimento nazionale di fronte alle minacce della Francia in Tunisia, scorge a chiare linee le conseguenze della nostra insipienza per l'Egitto. E il solo che veda bene, che veda giusto e che, anche quando la realtà non collima con la sua fede, riesca a fissare con una frase una soluzione soddisfacente.
Senonché non é il grado di colonialismo del Crispi che si trova in gioco, non é la esattezza o la precisione dei suoi disegni che attrae; si tratta di alcunché di più vasto e di più ampio, di più grande e di più profondo.
Come siamo arrivati ad Adua ? Che cosa Adua ha rappresentato per l'Italia?
Qui é il lato interessante della questione.
Anni tristemente e meschinamente penosi quelli che tennero dietro agli insuccessi del Congresso di Berlino, di Tunisi, e dell'Egitto.
La politica inconsapevole dei Ministeri che vissero dopo il '76, diede il frutto logico nella situazione via via creata al Paese e di cui Adua é la chiusura legittima e inevitabile : l'avvilimento morale si aggrava con le difficoltà economiche; le difficoltà economiche all'interno si intrecciano con le difficoltà politiche all'estero; e dall'avvilimento e dalle difficoltà interne ed esterne balza la conseguenza estrema : l'insuccesso che non é soltanto una disfatta politica, monarchica e parlamentare, ma che é una mortificazione morale che peserà come una cappa di piombo su una intera generazione.
Pensate; le turlupinature del '78, dell'81, dell'82; il viaggio a Vienna del Re in divisa di colonnello Austriaco, il martirio di Oberdan, le ristrettezze dell'86, la guerra commerciale della Francia, l'eccidio di Dogali, e giù giù, lo scempio dei nostri fratelli ad Aigues Mortes, la Banca romana, la insurrezione in Sicilia e in Lunigiana, i tribunali militari, e tutto ciò attraverso un intrecciar di intrighi di corridoio, a un fitto armeggio di compromessi partigiani, a un susseguirsi vertiginoso di governi e di rimpasti : Destra, Sinistra, liberali, radicali, Triplice alleanza, ribellioni proclamate inneggiando al Sovrano, imbrogli bancari... quale groviglio di contraddizioni e di miserie, di mortificazioni e di bassezze!
Può darsi che sia stato un periodo fatale, un periodo necessario, anch'esso, per il maturare fecondo delle fortune d'Italia; ma, fatale o no, necessario o no, che cosa mai restava a fare alla generazione del tempo, che direttamente o indirettamente a contatto con la realtà, doveva pur adeguare all'ambiente il proprio abito morale? Dove poteva voltarsi, a quali fonti attingere immagini di vita, a quali esempi incentivi e ispirazioni, mentre a Montecitorio dagli alambicchi delle transazioni stillavano gli accordi o gli attriti, e dalle strade salivano le imprecazioni e i motteggi?
"I giovani che allora nacquero alla vita dei Partiti non ebbero davanti a sé che lo spettacolo nauseante di una classe dirigente volontariamente dimentica delle sue tradizioni e dei suoi destini, infeudata a piccole oligarchie d'affarismo parlamentare, staccata dalla Nazione che pur andava con faticoso dolore cercandosi, incapace di rinnovarsi, vivente in una specie di limbo imbelle dove s'era ritratta paurosa di nuove esperienze e di nuovi cimenti; e di fronte ad essa, un'insolente demagogia che chiamava energia l'incomposta violenza, rinnovazione la negazione spietata, idealismo l'aerea utopia. Ma, in confronto di quella borghesia che tradiva il suo compito essenziale, che esauriva la sua funzione di governo nella difesa poliziesca dei suoi meschini privilegi, e che non sapeva né voleva reagire con la legittima forza che viene dalla consapevolezza di una rigorosa missione storica a cui bisogna votarsi con anima salda; in confronto di quella borghesia, questa demagogia, si chiamasse repubblica o socialismo, pareva - ed era in un certo senso - ricca di futuro » (TOMASO MONICELLI, Adua, in « Idea Nazionale », 1° marzo 1919).
Vero, tutto vero : ché precisamente dallo sconforto di quello spettacolo d'ignavia, derivarono le deviazioni dolorose, rinnegatrici di ogni costume e di ogni regime tradizionale, in cui i giovani, la maggioranza dei giovani della generazione appena affacciatasi alle competizioni civili, concretarono lo spasimo della loro anima assetata di luce, di bellezza e di gloria.
Pochi, assai pochi si sottrassero al contagio rifugiandosi nelle grandi memorie del passato, prossimo o lontano; gli altri si smarrirono nel sogno e nell'illusione dalla quale uscirono, di volta in volta, per correre ad imbracciare il fucile a difesa della libertà e dell'indipendenza altrui, dacché era loro conteso di rischiare la vita in difesa della grandezza e della potenza della terra propria.
La inesauribile fecondità della razza reagì di sua forza ai traviamenti preparando la riscossa purificatrice e rinnovatrice delle sane energie nazionali, ma la malsana pressione esercitata dagli avvenimenti pesò per un non breve tempo sulle anime corrompendo, deteriorando, frantumando; restò la depressione morale che stette incombente sul Paese per lunghi interminabili decenni ; restò la dispersione di tanti generosi spiriti che consumarono nell'attesa e invane battaglie con sè stesse il fiore della loro esistenza; restò lo smarrimento di un popolo che solo con sacrifici de sangue e di averi riuscì lentamente e faticosamente a ritrovare la retta via; restò tutta la serie di mortificazioni e di struggimenti, di debolezze e di scetticismi, di errore e di pentimenti che avvolse in un sudario di pena e di tristezza la storia dell'Italia umbertina.
La generazione che arrivò alle prime lotte politiche sul finire dell'800, ebbe in sorte come poche altre, sete di idealità, vigoria di iniziativa, fiamma di entusiasmo : fu una delle generazioni più sognatrice, più oneste e più disinteressate. Aveva formato l'anima giovinetta sui libri che celebravano la grandezza immortale della Grecia e di Roma, e credette sinceramente e fervidamente nelle divine illusioni che pur sono le forze maggiore per l'avvenire dei popoli. La freddezza dei savi, il cinismo dei pratici, le manovre degli esperti, li agghiacciò e li travolse.
La politica - quella Politica - la politica di quei governi e di quei dirigenti fu la grave mora che compresse il suo fantasticare e che la gettò nello sgomento da cui doveva scuoterla soltanto il rombo della cannonata della fine del luglio 1914.
La sua resurrezione fu la resurrezione spirituale e militare della Patria.
FERRUCCIO E. BOFFI.
segue:
RAPPORTO DEI "13" DEL 6 OTT. 1935 della S. d. N.: L'ITALIA "HA AGGREDITO!" - SANZIONI! ! > >