Massimo D'Azeglio ne trasse un famoso romanzo |
COSI' I
CAVALIERI ( "la disfida di Barletta" ) |
per i fatti precedenti vedi ANNO 1498-1504
Essendo terminata la buona stagione, il duca di Nemours stabil� di condurre l'esercito ai quartieri d'inverno; prima per� volle sfidare a battaglia il nemico. Come era da prevedersi, Consalvo non accett�. Allora il generale francese si ritir� verso Canosa, ma durante la marcia, effettuata con lentezza e disordine, Diego di Mendoza e Prospero Colonna con alcune schiere spagnole e italiane assalirono la retroguardia francese e fecero moltissimi prigionieri che vennero condotti a Barletta.
Era tra questi un superbo cavaliere, CHARLES de LA MOTTE, il quale in un banchetto espresse parole ingiuriose contro gli Italiani, che chiam� privi di coraggio e di valore.
Le oltraggiose parole del francese diedero luogo ad una sfida che rimase famosa. Spagnoli e Francesi stipularono una breve tregua e i due eserciti avversari vennero il 13 febbraio del 1503 a schierarsi tra Barletta, Quadrata ed Andria per assistere al combattimento che tredici italiani dovevano sostenere contro altrettanti Francesi. La SFIDA doveva essere all'ultimo sangue; i campioni che venivano cacciati fuori del campo dovevano dichiararsi vinti e non potevano pi� tornare a combattere; inoltre ciascuno, prima che si iniziasse la lotta doveva depositare presso i giudici cento scudi d'oro da servire per il proprio riscatto nel caso rimanesse vinto e prigioniero. I Francesi erano tanto sicuri della vittoria che nessuno di loro port� la somma del riscatto.
La storia tramand� a noi i nomi dei ventisei guerrieri. I tredici campioni italiani furono: Ettore Fieramosca, capuano; Giovanni Capaccio, Giovanni Brancaleone ed Ettore Giovenale, romani; Marco Carellario di Napoli; Mariano da Sarni, Romanello da Forl�, Ludovico Aminale da Terni, Francesco Salamone e Guglielmo Albimonte, siciliani; Miale da Troia Riccio da Parma e Fanfulla da Lodi, tutta gente che militava - al comando dei Colonna.
La battaglia-confronto che fu accanitamente combattuta da entrambe le parti, fin� con una strepitosa vittoria italiana. Dei francesi uno venne ucciso, gli altri dodici, in grande difficolt� uno dopo l'altro, dopo ostinata resistenza, si arresero tutti agli Italiani, i quali li fecero prigionieri e, poich� i vinti non avevano portato la somma stabilita, dovettero seguire i vincitori che entrarono in citt� accolti trionfalmente dalla popolazione. Tra i prigionieri era il La Motte, il borioso oltraggiatore, cui i nostri tredici cavalieri avevano mostrato con le armi in pugno come gli Italiani per valore e coraggio di gran lunga fossero superiori ai Francesi.
La vittoria degli Italiani fu di buon augurio per le armi spagnole, le quali, giunta la primavera, ripresero con successo l'offensiva. Il 13 aprile del 1503 un esercito spagnolo venuto dalla Sicilia al comando di Ferdinando d'Antrades sconfisse al passo di Fiumesecco, tra Gioia e Seminara, i Francesi del D'Aubigny; il 28 di quello stesso mese, Consalvo di Cordova, uscito da Barletta, ingaggi� battaglia presso Cerignola con l'esercito del duca di Nemours e sanguinosamente lo ruppe. Circa quattromila Francesi rimasero morti sul campo tra cui lo stesso duca.
Dopo queste sconfitte, i Francesi persero in brevissimo tempo una dopo l'altra le province napoletane. Gli Abruzzi furono occupati da Fabrizio Colonna; Prospero Colonna, presa Capua e Sessa, ricacci� il nemico oltre il Garigliano; le Puglie, la Capitanata e la Calabria caddero in potere degli Spagnoli; Consalvo marci� su Napoli in cui fece il suo ingresso il 14 maggio e fece porre l'assedio a Castel Nuovo e a Castel dell' Ovo in cui si erano chiusi i Francesi. La prima di queste due fortezze cadde l' 11 giugno, la seconda il 2 luglio. E cos� tutto il regno di Napoli si trov� in potere degli Spagnoli tranne Gaeta, Venosa e Santa Severina che vennero assediate.-------------------------
Qui una pagina di
ERMANNO TANCREDI
Lo studio della storia non può farsi che leggendo libri. E' questo, probabilmente, l'unico punto sul quale concordano coloro che se ne occupano, per lavoro o semplice passione. Questa comune opinione, però, finisce di esser tale quando si comincia a dissertare sui metodi di divulgazione - e quindi di insegnamento - della storia stessa. Di questa disputa annosa abbiamo già scritto in passato, e non è nostra intenzione affrontarla di nuovo con questo articolo.
Ci interessa, invece, esaminare un'altra delle possibili tecniche di racconto di un evento del passato. Una tecnica che non si trova nella cassetta degli attrezzi di cui usualmente si servono gli storici, ma che è lo strumento privilegiato di chi si occupa di letteratura: il romanzo. Al pari di un trattato, anche un romanzo è in grado di insegnare la storia, grazie a quel decisivo ingrediente in assenza del quale diviene impossibile, per chi legge, comprendere cosa sia accaduto nel corso dei secoli: il racconto.
Troppo spesso gli storici di professione sembrano dimenticarsi che di storia non si capisce alcunché se manca il racconto dei fatti, e si mostrano in questo modo cattivi allievi di un maestro tedesco, il Ranke, che per tutta la vita ha ribadito che scrivere di storia significa "raccontare come le cose si sono svolte". Il romanzo lo fa. Il problema, piuttosto, è quello di capire quanto la letteratura - e quindi la fantasia - condisca l'evento storico. Quello che Pierre Bezuchov - nelle pagine di Guerra e pace - osserva dopo la battaglia di Borodino è davvero ciò che rimase sul campo? E la rivolta contro i fornai, che accoglie Renzo Tramaglino a Milano, si svolse davvero come la racconta il Manzoni ne I promessi sposi?
Non sta a noi rispondere. Il nostro intento, invece, è quello di far luce sull'abilità narrativa di quegli scrittori che, coniugando realtà e fantasia, hanno saputo rendere accattivante un fatto storico, gettando lo sguardo sul dettaglio e narrando come cronisti sul campo eventi spesso dimenticati dai manuali istituzionali. Il primo di cui ci occupiamo è "la disfida di Barletta", dalle pagine di "Ettore Fieramosca". Il filo rosso del romanzo è il patriottismo risorgimentale, come strumento per sottolineare la grandezza dell'Italia e convertire quante più persone alla causa dell'unita nazionale (non va dimenticato, però, che l'immagine eroica degli italiani che emerge dal romanzo indusse Benito Mussolini, durante il ventennio, a imporne la lettura in tutte le scuole). Massimo D'Azeglio racconta un episodio di scarsa importanza storica, ma di altissimo impatto per quel che concerne l'amor patrio. Siamo nel 1503, e l'Italia è divisa sotto il governo di Francia e Spagna. Se i dominatori spagnoli sono tollerati e amati, quelli francesi sono invece decisamente odiati. Anche a causa della loro boria. Ed è proprio un'espressione di presuntuosa spocchia che causa l'episodio della "disfida di Barletta". In una locanda di Barletta, quella dell'oste Veleno, si trovano cavalieri italiani, francesi e spagnoli per ristorarsi dopo i duelli che impegnano gran parte delle loro giornate. Un transalpino, La Motta, osa mettere in dubbio il valore militare degli italiani, secondo lui più bravi a truffare che a combattere.
Uno spagnolo non è d'accordo e cita il valore del cavaliere Ettore Fieramosca, uomo onesto e insuperabile combattente. Le schermaglie, animate dalle rumorose reazioni degli avventori dell'osteria, si protraggono fino a quando il francese sfida un drappello di italiani e spagnoli a scontrarsi in tenzone con la cavalleria spagnola. L'accordo è raggiunto, con l'impegno che tra gli italiani non manchi il più valoroso di tutti, il Fieramosca. Gran parte del romanzo si incentra quindi sulla vita e sulle dolorose vicende amorose di Ettore, che come ogni tipico eroe ama di un amore impossibile la bella principessa Ginevra, che il destino crudele condannerà a prematura morte. Ma è anche, il romanzo, una lunga preparazione all'evento centrale, la disfida di Barletta. Sulla quale si concentra la nostra attenzione. Si comincia con la preparazione del campo di battaglia, prima del sorgere del sole, in quell'ora che non è più notte ma che ancora non è giorno.
Si fissano i limiti dell'area deputata alla "tenzone" e viene allestita la postazione dei giudici, all'ombra di un boschetto di lecci tra i quali viene tesa una tenda a strisce bianche e azzurre. Gli spettatori, già numerosi, si dispongono per settori, come oggi farebbero se andassero allo stadio: "Quelli che fra loro tenevano un certo grado sedean coi vecchi e colle donne sull'erba; gli altri, come ragazzi, poveri, monelli, s'arrampicavano su per gli alberi, e mostrandosi qua e là fra le foglie facean contrastare col verde il colore de' visi e de' panni". Uno stadio, tuttavia, situato in uno scenario ben diverso da quello grigio delle odierne periferie urbane: da un lato, i contrafforti del borgo di Quarato; dall'altro, l'azzurro venato d'argento del mar Adriatico; all'orizzonte, il maestoso dominio della mole del promontorio del Gargano. Della periferia urbana, soprattutto padana, c'è però qualcosa: quelle strisce di nebbia "(...) leggermente posate sulla pianura, somigliando a letti di cotone bianchissimo, sovra i quali sorgevano qua e là gruppi di alberi più alti, e le creste di qualche collinetta". In questo scenario, gli spettatori attendono il sorgere del sole, faro deputato all'illuminazione della sfida. L'aria fresca del mattino è "contaminata" da un aroma non proprio spiacevole: quello del pesce fritto nelle bancarelle approntate dall'oste Veleno, nella cui osteria, abbiamo visto nascere l'idea della tenzone.
Di nuovo, sorge spontaneo il paragone con i banchetti che, fuori dagli stadi, vendono panini con la salsiccia. D'un tratto, un sordo fragore attira l'attenzione degli spettatori intenti a gustare le prelibatezze di Veleno: stanno avvicinandosi le due squadre. Dapprima giungono i francesi; quindi gli Italiani, tra i quali sappiamo esservi anche qualche spagnolo, che però il D'Azeglio, in ossequio allo spirito risorgimentale che pervade l'intero libro, si guarda bene dal nominare.
Una volta l'una di fronte all'altra, le squadre tirano a sorte i nomi di chi dovrà giudicare il rispetto delle regole del gioco, una delle quali prevede che con cento ducati ciascuna squadra possa riscattare il proprio uomo e il proprio cavallo persi in battaglia. Gli italiani lasciano sul tavolo dei giudici il denaro necessario; non i francesi, convinti che la propria superiorità non li costringerà a dover riscattare alcun cavaliere. Di nuovo, l'autore sottolinea la lealtà e la probità dei suoi connazionali di fronte alla boria del dominatore straniero. E questa tensione risorgimentale trionfa poche righe dopo, quando Prospero Colonna - padrino della squadra italiana - rivolge ai suoi uomini queste parole: "Signori! Non crediate ch'io voglia dirvi parola per eccitarvi a combatter da uomini pari vostri: vedo fra voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d'Italia ugualmente? Non sarà ugualmente diviso fra voi l'onore della vittoria? Non siete voi a fronte di stranieri che gridan gl'Italiani codardi?".
I cavalieri ascoltano mentre effettuano gli ultimi controlli alla propria armatura e a quella dei loro destrieri, delle quali il D'Azeglio offre una descrizione puntigliosa che non prescinde però dalla natura romanzesca del libro. Si racconta di un trionfo di ferro, che avvolge ogni cavaliere dal capo ai piedi, riparandolo per mezzo di visiere, scudi e lance. L'uomo "inforcava una sella, i cui arcioni ferrati s'alzavano avanti e dietro come due ripari che rendevano quasi impossibile il cadere; incastrato così, stringendo le ginocchia, era talmente aderente al cavallo, che tutti i suoi moti gli si comunicavano con quell'unità che vivrebbe legare le due nature del centauro".
I cavalli non sono meno bardati dei cavalieri. La testa è inserita in una cuffia metallica che lascia liberi solo occhi e narici, dotata, in prossimità della fronte, di una punta che ne fa un temibile strumento d'attacco. Collo, spalle e petto sono avvolti in una copertura a scaglie, che favorisce i movimenti. "Le belle fattezze di questi nobili animali - scrive il D'Azeglio - eran così deturpate da tutte quell'armature, che parevano dalle gambe in fuori quasi altrettanti rinoceronti. Vedendoli fermi si sarebbe creduto impossibile che potessero muoversi non che correre; ma uno scuoter di briglia od un accostar del calcagno del cavaliere li trovava agili e pronti come fosser nudi, tanto maestrevolmente eran congegnate quell'armi".
Non mancano, infine, gli ornamenti personali, che ciascun cavaliere adotta - o costringe il proprio animale ad adottare - a fini puramente scaramantici: tra gli italiani dominano le penne di pavone; i francesi preferiscono invece delle striglie di stoffa frastagliata, chiamate lambrequins. Giunge, finalmente, il momento di dare inizio alla sfida. Al centro del campo, un araldo avverte il pubblico di non tenere comportamenti che favoriscano l'una o l'altra squadra; quindi si porta la tromba alla bocca.
Dà il primo squillo; dà il secondo ("... si sarebbe sentito volar una mosca"); dà il terzo, "...ed i cavalieri, con moto simultaneo allentate la briglie, curvati i dorsi sul collo dei cavalli, e piantando spronate che li levavan di peso, si scagliarono a slanci prima, poi di carriera serrata rapidissima gli uni sugli altri, levando il grido Viva Italia! da una parte, e Viva Francia! dall'altra, che s'udì fino al mare". La corsa dei due reggimenti solleva un polverone che impedisce agli spettatori, privati del fiato dall'emozione, di assistere alla scena del loro scontro. Ne odono però i rumori, ed è come ascoltare l'esplosione di un tuono che rimbomba nelle valli intorno.
La polvere, quindi, si dirada di quel poco che lascia intendere che i cavalieri hanno messo mano alle loro spade, il cui veloce luccichio si intravvede tra l'opaco sipario che nasconde la battaglia. Il pubblico assiste muto, soffocando le urla in gola; e quando qualcuno sta per cedere alla tentazione di scatenare le corde vocali, intervengono gli araldi a distoglierlo da propositi tanto "imparziali". Finalmente, dopo minuti di tesa confusione, dal polverone di uomini si sgancia un cavallo dall'armatura lacerata (naturalmente di parte francese). Poco dopo, la polvere ormai diradata permette di riconoscere che l'unico uomo scavalcato è Martellin de Lambris, assediato dal prode italiano Fanfulla da Lodi. Tra i due s'ingaggia un duello cruento, fatto dei colpi sicuri dell'italiano e di quelli di disperata reazione del francese, che pur di cadere prigioniero è disposto a farsi uccidere.
Ad ogni colpo il Fanfulla, rammentando l'affronto del riscatto subito prima dell'inizio della disfida, grida "Son pochi i danari... son pochi... son pochi". Martellin soccombe, ed è necessario un intervento del giudice per sottrarlo alla furia di Fanfulla. Nel mentre, come nel copione più classico, Ettore Fieramosca combatte contro il più valoroso dei soldati francesi, La Motta. Sembra però non esserci storia: l'italiano mena colpi velocissimi, e il francese è disarcionato. Ettore, quindi, abbandona il suo destriero per costringere definitivamente alla resa La Motta, dichiarato prigioniero da un nuovo, tempestivo intervento di uno di giudici. Il cavallo dell'italiano è ora inforcato da un francese, che ha approfittato dell'occasione sperando di condurre il Fieramosca allo smarrimento.
Questi, però, non si perde d'animo, e avvicinatosi al suo animale "... cominciò a chiamarlo, battendo il piede come era usato di fare quando voleva dargli la biada. Il cavallo si mosse per venire a quel cenno, e volendo il cavaliere contrastargli, prima cominciò ad impennarsi, poi si mise a far salti, e senza che lui potesse né opporglisi né governarlo, lo portò suo malgrado fra gli italiani che, circondatolo, l'ebber prigione senza colpo di spada". Il D'Azeglio, quindi, dà sfoggio di splendido esempio di retorica risorgimentale. Catturato il francese, Fieramosca gli concede la libertà, "... ché i prigioni gli abbiamo per forza d'arme, e non per arti da ciurmadori". Il prigioniero, dapprima stupito, poi risponde: "S'io non mi arrendo alle vostre armi, m'arrendo alla vostra cortesia".
Uno scambio di battute degno del miglior romanzo di cappa e spada, che nulla aggiunge alla verità storica dei fatti ma che tanto dà alla tensione scenica del racconto.
Il quale prosegue su binari quasi scontati, ma mai noiosi. Durante la pausa, le squadre tirano le somme del combattimento: i tredici cavalieri italiani sono tutti ancora in sella; i francesi ne hanno quattro di meno, e cinque dei rimanenti sono senza cavallo. Ma di arrendersi non se ne parla: "...i cinque si serrarono insieme; ai loro lati si posero due per parte i quattro a cavallo, e così ordinati si disposero a far testa di nuovo agli Italiani". I quali, gridando "Viva Italia", sferrano l'ultimo e decisivo attacco allo sparuto manipolo transalpino. Anche il cerchio degli spettatori - fino a qual momento rimasti in composto ordine, sebbene mantenuto a stento - si stringe attorno alla cavalleria italiana. Che assedia senza tregua, ma che incontra l'eroico e disperato tentativo di resistenza dei francesi.Tutto intorno si alzano grida: "prigioni, prigioni", ma gli uomini di Francia non si arrendono. Vicini ormai alla morte, sono salvati dalla galanteria del pubblico italiano: "...in un momento furon tutti addosso ed attorno ai combattenti; e quantunque ne riportassero qualche percossa, pure, urtandosi, stracciandosi i panni, dopo molto stento e molto tirare, vennero a capo di levar di mezzo que' cinque o sei uomini mezzo fracassati; e quantunque si dibattessero ancora, e schiumasser di rabbia, pure alla fine li trassero sotto le querce cogli altri prigioni". La disfida è conclusa, e l'onore italiano è stato vendicato. A suggello di tanta impresa, Fieramosca si rivolge agli sconfitti con queste parole: "Non vi dirò di rispettar d'or innanzi il valore italiano: dopo simili fatti le mie parole sarebbero superflue. Vi dirò bensì che impariate d'or innanzi ad onorare il valore e l'ardire ovunque si trova; ricordandovi che Dio l'ha distribuito tra gli uomini, e non l'ha accordato come un privilegio alla vostra nazione; e che il vero coraggio è ornato dalla modestia, e vituperato dalla millanteria".
di ERMANNO TANCREDI
Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di