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KANT |
LA « CRITICA
DELLA RAGION PRATICA » - "DELLA RELIGIONE E DELLA RAGIONE"
"DELLA POLITICA E DELLA PACE PERPETUA" - CRITICA E VALUTAZIONI
DA
VOLTAIRE A KANT - DA LOCKE A KANT
- DA ROUSSEAU A KANT
LA « CRITICA
DELLA RAGION PRATICA »
Se la religione non si può basare sulla scienza e sulla teologia, su che cosa può essa, dunque, basarsi ? Sulla morale. La base, in teologia, è troppo malsicura; era meglio abbandonarla, anzi distruggerla; la fede dev'esser posta oltre la portata o il regno della ragione. Allora, però, la base morale della religione dev'essere assoluta, non derivata dalla discutibile esperienza de' sensi o da una precaria deduzione; non condotta dall'ingerenza della ragione fallace; dev'essere derivata dall'io interiore, con una diretta percezione e intuizione. Dobbiamo trovare una etica universale e necessaria; de' principi di morale a priori, assoluti e
certi come la matematica. Dobbiamo dimostrare che « la ragion pura può essere pratica; cio�, può determinare da se la volontà, indipendentemente da qualsiasi empirismo» (Critica della ragion pratica, p. 31), che il senso morale � innato e non derivato dall'esperienza. L'imperativo morale, di cui abbiamo bisogno come base della religione, dev'essere un imperativo assoluto, categorico.
Ora, la realtà più meravigliosa in tutta la nostra esperienza è precisamente il nostro senso morale, il nostro sentimento inevitabile, dinanzi alla tentazione, il quale ci avverte che la tal cosa non va. Noi possiamo resistere a questo sentimento, ma esso esiste nostro malgrado. Le matin le fais des projects, et le soir je fais des sottises (« La mattina prendo buone risoluzioni; la sera commetto follie »); ma sappiamo che sono sottises e non ci lasciamo nuovamente sedurre. Che cosa produce il rimorso di coscienza e la nuova risoluzione? L'imperativo categorico in noi, l'incondizionato comando della nostra coscienza, che ci dice di «agire come se la massima della nostra azione dovesse divenire, per volontà nostra, una legge universale di natura» (Ragion pratica, p. 139).
Sappiamo, non per ragionamento, ma per un vivo sentimento immediato, che dobbiamo evitare una condotta, la quale renderebbe la vita sociale impossibile, se venisse adottata da tutti. Voglio sfuggire a una situazione critica con una menzogna? Ma « se posso desiderar di mentire, non posso assolutamente desiderare che la menzogna sia una legge universale. Giacche, con una legge simile, non esisterebbero le promesse » (Ibid. p. 1g. (5) Ibid. p. 227). Da ciò, il senso, in me, che non debbo mentire, anche se la menzogna può tornare a mio vantaggio. La prudenza � ipotetica; il suo motto � questo : - Onestà, quando essa � la politica migliore; ma la legge morale ne' nostri cuori non è incondizionata e assoluta.
E un'azione � buona, non perch� dà buoni risultati, o perch� è saggia, ma perch� � compiuta in obbedienza a quest'ultimo senso del dovere, a questa legge morale che non viene dalla nostra esperienza personale, ma detta legge imperiosamente e a priori a tutto il nostro modo d'agire, passato, presente e futuro. L'unica cosa assolutamente buona in questo mondo � una buona volontà - la volontà di obbedire alla legge morale, senza pensare al nostro vantaggio o danno personale. La vostra felicità non importa: fate il vostro dovere. «La morale � precisamente la dottrina che ci insegna non come possiamo renderci felici, ma come possiamo renderci degni della felicità » (ibid. p. 227). Cerchiamo la felicità degli altri, ma per noi cerchiamo la perfezione - non importa se essa ci porti felicità o dolore ( Prefaz. agli Elementi metafisici di Etica). Raggiungere la perfezione in noi stessi e la felicità negli altri, « agire come si agirebbe verso l'umanità, tanto se si tratta della tua persona che di quella degli altri, in ogni caso come fine, non soltanto come mezzo» (Metafisica della morale, Londra, 1909, pag. 47) - ecco, come sentiamo, nel nostro intimo, una parte dell'imperativo categorico.
Viviamo secondo questo principio e creeremo presto una comunità ideale di esseri razionali; per crearla, non dobbiamo far altro che agire come se già le appartenessimo; dobbiamo applicare la legge perfetta nello stato perfetto. Direte che è una etica severa questo considerar il dovere al di sopra della bellezza, la morale più della felicità; ma soltanto così possiamo cessare di esser bestie e incominciare ad essere dei.
Notate, però, che questo assoluto comando del dovere prova finalmente la libertà della nostra volontà; come avremmo potuto concepire la nozione di dovere, se non ci fossimo sentiti liberi? Non possiamo provare questa libertà con la ragione teoretica; la proviamo sentendola direttamente nelle crisi in cui s'impone una scelta morale. Sentiamo questa libertà come l'essenza vera della nostra personalità interiore, del « puro io »; sentiamo dentro di noi l'attività spontanea di uno spirito che foggia l'esperienza e sceglie le mete. Le nostre azioni, una volta iniziate, sembra seguano leggi fisse e invariabili, ma solo perch� ne percepiamo il risultato attraverso il senso, il quale riveste tutto ciò che trasmette dell'apparenza di quella legge causale, creata dalla nostra mente stessa. Ad ogni modo, noi siamo oltre e al di sopra delle leggi che escogitiamo per capire il mondo della nostra esperienza; ognuno di noi è un centro di forza iniziatrice e di potenza creatrice. In un certo modo, che sentiamo ma che non possiamo provare, ognuno di noi è libero.
E ancora, noi sentiamo di essere immortali, quantunque non possiamo provarlo. Sentiamo che la vita non è come quei drammi - tanto cari alla gente - in cui ogni malvagio è punito ed ogni buon'azione trova la sua ricompensa; ogni giorno impariamo di nuovo che la saggezza del serpente se la cava meglio della dolcezza della colomba, e che ogni ladro può trionfare se ruba abbastanza.
Se la sola utilità e convenienza mondana fossero la giustificazione della virtù, non sarebbe saggio esser troppo buoni. Eppure, sapendo tutto questo, sentendocelo continuamente rinfacciare con insistenza brutale, sentiamo pur sempre il richiamo alla virtù, sappiamo che dovremmo fare il bene inutile. Come potrebbe sopravvivere questo senso del bene, se non sentissimo nel cuore che questa vita e solo una parte della vita, questo sogno terreno solo un preludio embrionale a una rinascita, a un nuovo risveglio; se non sapessimo vagamente che nell'altra più lunga vita la bilancia ritroverà il suo equilibrio, ed un bicchier d'acqua dato generosamente sarà reso a mille doppi?
Finalmente, e per la stessa ragione, un Dio esiste. Se il senso del dovere implica e giustifica una fede in compensi futuri, « il postulato dell'immortalità... deve condurre alla supposizione dell'esistenza di una causa adeguata al suo effetto; in altre parole, deve accettare l'esistenza di Dio » (Ragion pratica, p. 220). Questa, ancora, non è una prova data dalla « ragione »; il senso morale, il quale ha da fare col mondo delle nostre azioni, deve avere la priorità sulla logica teoretica, basata sui fenomeni de' sensi. La nostra ragione ci lascia liberi di credere che, dietro la cosa-in-s� esiste un Dio giusto; il nostro senso morale c'impone di crederlo. Rousseau aveva ragione: al di sopra della logica della testa sta il sentimento del cuore. Pascal aveva ragione: "il cuore ha ragioni sue, che la testa non potrà mai capire".
DELLA RELIGIONE E DELLA RAGIONE
Tutto questo vi sembra meschino, timido, conservatore? Non lo era certo: al contrario, questo ardito rinnegamento della teologia « razionale », questa franca riduzione della religione alla fede morale e
alla speranza, sollevò le proteste di tutti gli ortodossi di Germania. Per approntare questa «potenza de' quaranta pastori» (come avrebbe detto Byron) era necessario un coraggio maggiore di quello che generalmente si associa al nome di Kant.
Che fosse abbastanza coraggioso, si vide con tutta chiarezza quand'egli pubblicò - a sessantasei anni - la sua Critica del giudizio, e a sessantanove la sua Religione entro i limiti della ragion pura. Nel primo di questi libri Kant riprende la discussione di quella tesi sul disegno, che nella prima Critica aveva ripudiato come prova insufficiente dell'esistenza di Dio. Egli incomincia a mettere in correlazione disegno e bellezza; il bello, secondo lui, è tutto ciò che rivela simmetria è unità di struttura, come se fosse stato disegnato dall'intelligenza. Osserva di sfuggita (e Schopenhauer si servì qui a dovere per la sua teoria dell'arte) che la contemplazione di un disegno simmetrico dà sempre un piacere disinteressato; e che «un interesse nella bellezza della natura in se � sempre un inizio di bontà» (Critica del giudizio, 29). Molti oggetti in natura mostrano una tale bellezza, simmetria e unità, da condurci alla nozione del disegno soprannaturale. Ma d'altra parte, dice Kant, anche in natura troviamo molti esempi di rovina e di caos, di ripetizione e moltiplicazione inutili; la natura preserva la vita, ma a costo di quante sofferenze e di quante morti !
L'apparenza del disegno esteriore non è, quindi, una prova conclusiva della Provvidenza. I teologi, che usan tanto l'idea, dovrebbero invece abbandonarla, e gli scienziati, che l'hanno abbandonata, dovrebbero usarla : è una guida magnifica e conduce a mille rivelazioni. Giacch� un disegno esiste, indubbiamente; ma � un disegno interiore, il disegno delle parti per il tutto; e se la scienza vuol interpretare le parti d'un organismo, secondo il loro significato, per il tutto, avrà un mirabile equilibrio per l'altro principio euristico - la concezione meccanica della vita - che porta anche a fruttuose scoperte, ma che, da solo, non può spiegare nemmeno il crescere d'un filo d'erba.
Il saggio sulla religione è un'opera notevole per un uomo di sessantanove anni; � forse il libro più ardito di Kant. Poich� la religione non dev'esser basata sulla logica della ragione teoretica, ma sulla ragione pratica del senso morale, ne segue che ogni Bibbia o rivelazione dev'esser giudicata per il suo valore morale, e non può essa stessa essere il giudice di un codice morale. La chiesa e il dogma hanno solo valore in quanto che aiutano lo sviluppo morale della razza. Quando semplici credi o cerimonie usurpano la priorità sulla eccellenza morale, come prove di religione, la religione è scomparsa. La vera chiesa � una comunità di persone, sebbene sparse e divise, le quali sono unite dalla devozione a una comune legge morale. Per fondare una simile comunità, Cristo visse e morì; appunto una simile chiesa egli sosteneva in contrasto al clericalismo de' Farisei. Ma un altro clericalismo ha quasi schiacciato questa nobile concezione. «Cristo ha portato il regno di Dio più vicino alla terra; ma è stato frainteso; e invece del regno di Dio, il regno del prete � stato fondato tra noi » ( Citato in Chamberlain, Emanuele Kant, I, 520).
Credo e rituale hanno di nuovo sostituito la vita buona, e gli uomini, invece di essere uniti dalla religione, sono per essa divisi in mille sette; ed ogni sorta di « pie assurdità » vengono inculcate come una « specie di servizio alla corte di Dio, per mezzo del quale una persona si può guadagnare il favore del re de' cieli adulandolo ». E ancora, i miracoli non possono provare una religione, giacch� non possiamo fidarci completamente de' testimoni che li attestano; e la preghiera � inutile, se mira a sospendere le leggi naturali, che permangono per esperienza. Finalmente, il nadir della perversione è raggiunto, quando la chiesa diviene un istrumento nelle mani di un governo reazionario; quando il clero, il cui compito � quello di consolare e guidare l'umanità tormentata con la fede religiosa, la speranza e la carità, è strumento di oscurantismo teologico e di oppressione politica.
L'audacia di tali conclusioni consiste appunto nel fatto che tutto questo avveniva in Prussia. Federico il Grande era nato nel 1786, e gli era succeduto Federico Guglielmo II, cui la politica liberale del predecessore parve avere un troppo forte sapore antipatriottico di illuminismo francese. Zedlitz, che era stato ministro dell'istruzione sotto Federico, fu licenziato; il suo posto fu occupato dal pietista Wóllner. Wóllner era stato descritto da Federico come «prete infido e intrigante»; egli passava il suo tempo tra l'alchimia e i misteri dei Rosacroce, e salì al potere offrendo se stesso come «indegno strumento» alla politica del nuovo monarca, che voleva ristabilire la fede ortodossa con la coercizione ( Enciclopedia Britannica, art. su Federico Guglielmo II).
Nel 1788 Wóllner promulgo un decreto, il quale proibiva qualsiasi insegnamento, nelle scuole o nelle università, che non fosse conforme alle regole del protestantesimo luterano; istituì una rigorosa censura su ogni forma di pubblicazioni, e ordinò il licenziamento di ogni insegnante sospetto di qualsiasi eresia. Dapprima Kant non fu molestato, perch� era vecchio e perch� - come diceva un consigliere di corte - pochi lo leggevano, e chi lo leggeva non lo capiva. Ma il saggio sulla religione era intelligibile; e sebbene animato da un sincero fervore religioso, aveva troppo sapore volteriano per sfuggire alla nuova censura. La Berliner Monatschrift, che voleva pubblicare il saggio, ricevette l'ordine di sopprimerlo.
Kant agì allora con un vigore ed un coraggio veramente incredibili in un uomo di quasi settant'anni. Mandò il suo saggio a qualche buon amico a Jena, che glielo fece pubblicare dalla stamperia dell'università. Jena non era in Prussia e si trovava allora sotto la giurisdizione dello stesso duca liberale di Weimar che ospitava Goethe. La conseguenza fu che, nel 1794, Kant -ricevette un eloquente ordine
di gabinetto del re di Prussia, che diceva: «La nostra sovrana persona è stata veramente spiacente di constatare com'ella faccia malo uso della sua filosofia per mirare a distruggere molte delle più importanti e fondamentali dottrine della Sacra Scrittura e della Cristianità. Le chiediamo immediatamente esatto conto di ciò e attendiamo che, per il futuro, ella non vorrà esser causa di scandalo, ma che, invece, secondo i suoi doveri, ella userà il suo ingegno e la sua autorità, per modo che le nostre paterne intenzioni possano esser sempre meglio raggiunte. Se ella continuerà ad opporsi a quest'ordine, si attenda spiacevoli conseuenze» (In Paulsen, pag. 49). Kant rispose che ogni studioso aveva diritto di formarsi giudizi indipendenti in materia di religione è di render note le proprie opinioni; ma che durante il regno del sovrano attuale avrebbe conservato il silenzio.
Qualche biografo, molto coraggioso nel giudicare gli altri, lo ha condannato per questa concessione; ma dobbiamo ricordare che Kan,t aveva settant'anni, che era cagionevole di salute e non fatto per la lotta e infine, ch'egli aveva già annunziato il suo messaggio al mondo.
DELLA POLITICA E DELLA PACE PERPETUA
Il Governo prussiano avrebbe perdonato la teologia di Kant, se egli non fosse stato egualmente colpevole di eresie politiche. Tre anni dopo l'ascesa al trono di Federico Guglielmo II, la Rivoluzione Francese aveva fatto tremare tutti i troni di Europa. In un tempo in cui la maggior parte dei docenti nelle università prussiane si erano rifugiati sotto le ali della monarchia legittimista, Kant, già sessantacinquenne, salutò la Rivoluzione con gioia, e con le lacrime agli occhi disse ai suoi amici: « Ora posso dire come Simeone, - Signore, lascia morire in pace il tuo servo, giacch� i miei occhi hanno veduto la tua salvezza» (Wallace, pag. 4).
Nel 1784, egli aveva pubblicato una breve esposizione della sua teoria politica sotto il titolo: "Il principio naturale dell'ordine politico considerato in connessione all'idea di una storia universale cosmopolita".
Kant incomincia col riconoscere, in questa lotta dell'uomo contro tutti, che aveva tanto spaventato Hobbes, il metodo della natura di sviluppare le capacità occulte della vita; la lotta � la compagna indispensabile
del progresso. Se gli uomini fossero interamente socievoli, si avrebbe un ristagno; una certa misura di individualismo e di competizione è necessaria per far sì che la razza umana sopravviva è cresca. «Senza qualità di genere antisociale.. gli uomini avrebbero condotto una vita da pastori d'Arcadia, in completa armonia, sempre soddisfatti e amandosi reciprocamente; ma in questo caso tutte le loro capacita sarebbero
rimaste sempre nascoste nel proprio germe"». (Quindi, Kant non era un servile seguace di Rousseau).
"Ringraziamo, dunque, la natura di questa insocievolezza, di questa gelosa invidia e vanità, di questa sete insaziabile di possesso e di potere...L'uomo desidera la concordia; ma la natura sa meglio che cosa va bene, per le sue specie; ed essa vuole la discordia, perch� l'uomo sia obbligato ad esercitare sempre una potenza nuova, e un ulteriore sviluppo delle sue capacità naturali".
La lotta per l'esistenza dunque, nel complesso non � un male. Ad ogni modo, l'uomo si accorge subito che dev'esser costretta in certi limiti e regolata da leggi, costumi e norme; da cui l'origine e lo sviluppo della società civile.
Ma ora "la stessa insocievolezza che costrinsegli uomini ad unirsi in società, diventa ancora la causa del fatto, che ogni comunità assume l'attitudine di libertà sfrenata nelle sue relazioni esterne, - come, per esempio, nel caso di uno Stato in relazione aglialtri; e di conseguenza, ogni Stato deve accettare da qualsiasi altro la stessa specie di mali che una volta opprimevano gli individui e li costrinsero ad entrare in una collettività civile, regolata dalla legge» (La pace perpetua ed altri saggi, Boston, 1914, p. 14).
E' tempo che le nazioni, come gli uomini, emergano dallo stato selvaggio di natura e contraggano patti per mantenere la pace. Tutto il significato e il movimento della storia e la sempre maggior limitazione della guerra e della violenza, e il continuo ampliarsi dell'area della pace. «La storia della razza umana, vista nell'insieme, può esser considerata come la realizzazione d'un occulto disegno della natura, quello, cio�, di creare una costituzione politica, internamente ed esternamente perfetta, come un unico Stato, in cui tutte le attitudini da esso inculcate negli uomini possano svilupparsi perfettamente » ( Ibid. pag. 19).
Se non esiste un simile progresso, gli sforzi delle civiltà future saranno come quelli di Sisifo, il quale «sospingeva sempre di nuovo su per l'erta di un alto monte un'enorme pietra rotonda», solo per farla poi rotolar giù lungo la china, non appena fosse pervenuta alla cima. La storia non sarebbe allora che un'infinita follia tortuosa; «e potremmo immaginare, come gli Indi, che la terra è un luogo di espiazione di antichi peccati dimenticati » (Ibid. pag. 58).
Il saggio sulla «Pace perpetua» (pubblicato nel 1795, quando Kant aveva settantun anni) è un nobile sviluppo di questo schema. Kant sa quanto sia facile ridere di questa espressione; e scrive sotto il suo titolo: «Queste parole furono poste una volta - con intenzione ironica - da un oste olandese sull'insegna della sua bettola, in cui era raffigurato un cimitero" (ib. pag. 68).
Kant aveva prima lamentato, come pare debba lamentarsi ogni generazione, che «i sovrani non abbiano danaro da spendere per l'istruzione pubblica... giacch� tutte le loro risorse sono stanziate nel bilancio della prossima guerra» (ib. pag. 21). Le nazioni non saranno realmente civili, finch� tutti gli eserciti permanenti non siano aboliti. (L'audacia di questa proposizione � maggiormente palese, se ricordiamo che fu appunto la Prussia stessa, sotto il padre di Federico il Grande, a istituire per prima la coscrizione).
«Gli eserciti permanenti eccitano gli Stati a rivaleggiare fra loro nel numero dei soldati, il quale non ha limiti. Per le spese che ne derivano, la pace diventa, a lungo andare, piú oppressiva di una breve guerra; e così gli eserciti permanenti sono causa di guerre aggressive, intraprese per liberarsi d'un simile peso» (ib. pag. 21).
Giacch�, in tempo di guerra, l'esercito si manterrebbe da s� a spese della nazione, facendo requisizioni, esigendo acquartieramenti e rapinando; preferibilmente in territorio nemico, ma, se necessario, anche nel proprio paese; ed anche questo sarebbe sempre meglio che mantenere l'esercito con i fondi governativi.
Secondo Kant, gran parte di questo militarismo dipendeva dall'espansione europea in America, Africa ed Asia; con le inerenti contese dei ladri sul loro bottino.
«Se paragoniamo l'inospitalità dei popoli barbari... con il contegno inumano degli Stati civili, e specialmente commerciali, del nostro continente, le ingiustizie ch'essi commettono nei loro primi contatti con i paesi e i popoli stranieri, ci colmano di orrore; una semplice visita a quei popoli viene da essi considerata come l'equivalente di una conquista. L'America, la terra dei negri, le isole delle Spezie, il Capo di Buona Speranza, ecc., appena scoperti, furono trattati come paesi di nessuno; poich� gli aborigeni furono calcolati zero... E tutto questo da parte di nazioni che fanno gran vanto della loro pietà e che, mentre commettevano iniquità su iniquità, consideravano se stesse come gli eletti della fede ortodossa» (ib. pag. 68).
La vecchia volpe di Konigsberga non taceva ancora!
Kant attribuiva questa avidità imperialistica alla costituzione oligarchica degli Stati europei; le spoglie andavano a pochi eletti e rimanevano sostanzialmente anche dopo la divisione. Se la democrazia venisse instaurata, e tutti avessero la propria parte nel potere politico, le spoglie dei ladrocini internazionali dovrebbero esser talmente divise, da costituire una tentazione a cui si resiste. Quindi, il «primo articolo da iscriversi fra le condizioni della pace perpetua» è questo: «La costituzione civile di ogni Stato sarà repubblicana, e non sarà dichiarata se non col plebiscito di tutti i cittadini» (ib. pagg. 76-77).
Quando coloro che devono fare la guerra avranno il diritto di decidere tra la guerra e la pace, la storia non sarà più scritta col sangue. «D'altro canto, in una costituzione, in cui il suddito non è un membro dello Stato con diritto a voto, e che non è, quindi, repubblicana, la risoluzione di far la guerra è la cosa della minima importanza. Giacch�, in questo caso, il sovrano, che - come tale - non � un semplice cittadino, ma il padrone dello Stato, non si trova affatto nella necessità di soffrire personalmente a causa della guerra, n� deve sacrificare ad essa i piaceri della tavola e della caccia, i suoi stupendi palazzi, le feste di corte, o simili. Egli può, quindi, intraprendere una guerra per ragioni insignificanti, come se si trattasse d'una partita di caccia; e in quanto poi alla sua correttezza, egli può non darne affatto giustificazione ai corpi diplomatici, i quali sono sempre anche troppo disposti a prestare i propri servigi a questo scopo» (Ibid).
Quanta contemporanea verità in queste parole !
L'apparente vittoria della Rivoluzione sulle armate della reazione nel 1795 fece sperare a Kant che le repubbliche sarebbero allora nate in tutta Europa, e che ne sarebbero scaturiti ordinamenti interni, basati sulla democrazia, senza schiavitù e senza sfruttamento, e votati alla pace. Dopo tutto, la funzione del governo consiste nell'aiutare lo sviluppo dell'individuo, non nell'adoperarlo e maltrattarlo. «Ogni uomo va rispettato, come avente un fine assoluto in s�; ed èun delitto contro la dignità di cui � investito come essere umano, usarlo come semplice mezzo per qualsiasi scopo esterno» ( In Paulsen, pag. 340).
Anche questo fa parte integrante di quell'imperativo categorico, senza il quale la religione � una farsa ipocrita. Kant domanda, quindi, l'eguaglianza: non di attitudini, ma di possibilità per lo sviluppo e l'applicazione delle attitudini; egli rigetta ogni prerogativa di nascita e di ceto, e attribuisce ogni privilegio ereditario a qualche violenta conquista del passato. In mezzo all'oscurantismo, alla reazione, e alla coalizione di tutta l'Europa monarchica contro la Rivoluzione, egli si schiera - malgrado i suoi settant'anni - per il nuovo ordinamento, per l'instaurazione della democrazia e della libertà ovunque. Mai vegliardo aveva parlato tanto coraggiosamente con la voce di un giovane.
Ma egli era esaurito; aveva corso la sua parte e si era cimentato nella lotta. Pian piano egli andò decadendo in una senilità infantile, la quale finì poi per esser una pazzia innocua; ad una ad una le sue sensibilità e le sue forze lo abbandonarono; e nel 1804, a settantanove anni, egli morì, di una morte tranquilla e naturale, come una foglia che cade dall'albero.
CRITICA E VALUTAZIONE
Ed ora, come si presenta oggi questa complessa struttura di logica metafisica, psicologia, etica e politica, dopo le tempeste filosofiche di un secoló? Fa piacere rispondere che molto del grande edificio rimane; e che la «filosofia critica» rappresenta un avvenimento d'importanza permanente nella storia del pensiero. Ma moltii particolari e sovrastrutture del grande edificio sono crollate.
Prima di tutto, lo spazio è proprio una semplice «forma di sensibilità », che non ha realtà oggettiva indipendente dalla mente che lo osserva? Sì e no. Sì: giacch� lo spazio è un vuoto concetto, se non è riempito di oggetti percepiti; «spazio» significa soltanto che certi oggetti sono, per la mente che osserva, in questa o quella posizione, o distanza, in relazione ad altri oggetti percepiti; e nessun'altra percezione è possibile se non quella di oggetti nello spazio: lo spazio �, quindi, certamente una «forma necessaria del senso esteriore ». E no: giacch�, senza dubbio, simili fatti dello spazio, come l'orbita ellittica percorsa annualmente dalla terra attorno al sole, anche se percepibili solo dalla mente, sono ad ogni modo indipendenti da ogni percezione: il profondo e cupo oceano azzurro esisteva prima che Byron lo cantasse e continuò ad esistere dopo la sua scomparsa. E nemmeno lo spazio � una «costruzione» della mente per la coordinazione di sensazioni all'infuori dello spazio; noi percepiamo lo spazio direttamente attraverso la nostra simultanea percezione di oggetti e punti diversi - come. quando vediamo un insetto muoversi su uno sfondo fermo. Così il tempo, come senso del prima e del poi, o come misura di moto, è naturalmente soggettivo e assolutamente relativo; ma un albero crescerà, appassirà e cadrà, anche se il tratto di tempo non � misurato o percepito. La verità è che Kant voleva ad ogni costo provare la soggettività dello spazio, come rifugio contro il materialismo; temeva di affrontar la tesi che lo spazio � oggettivo e universale, che Dio deve esistere nello spazio e, quindi, essere materiale. Avrebbe potuto accontentarsi dell'idealismo critico, il quale dimostra che ogni realtà � conosciuta da noi originalmente, come le nostre sensazioni e le nostre idee.
La vecchia volpe azzannava più che non potesse masticare.
(La vitalità persistente della teoria di Kant sulla conoscenza appare nella sua interezza nello scienziato pratico Charles P. Steinmetz: «Tutte le nostre percezioni dei sensi sono limitate dalle concezioni di tempo e di spazio e attaccate ad esse. Kant, il massimo e più critico di tutti i filosofi, nega che tempo e spazio sono prodotti dell'esperienza, ma dimostra come essi siano categorie - concezioni con cui la nostra mente riveste le percezioni del senso. La fisica moderna è giunta alla medesima conclusione nella teoria dell'attività, per cui spazio assoluto e tempo assoluto non esistono, ma tempo e spazio esistono solo ed in quanto cose od eventi li riempiano; essi sono, cioè, forme di percezione ». (Discorso alla Chiesa Unitaria, Shenectady, 1923).
Avrebbe anche potuto accontentarsi della relatività della verità scientifica, senza tendere al miraggio della verità assoluta. Studi recenti, come quelli di Pearson in Inghilterra, Mach in Germania e Henri Poincar� in Francia, sono più d'accordo con Hume che con Kant: ogni scienza, anche la matematica più rigorosa, è relativa nella sua verità. La scienza in sè non se ne preoccupa; si contenta d'un alto grado di probabilità. Dopo tutto, la conoscenza « necessaria » non è forse necessaria?
Il merito grande di Kant consiste nell'aver dimostrato, una volta per tutte, che il mondo esteriore ci è noto soltanto come sensazione; e che la mente non è una semplice tabula rasa, inerte vittima della sensazione, ma un agente positivo, il quale sceglie e ricostruisce l'esperienza di mano in mano che essa arriva. Possiamo far restrizioni a questa teoria, senza però diminuirne minimamente la grandezza. Possiamo sorridere, con Schopenhauer, alla esatta dozzina di categorie, raggruppate a tre per tre, e poi allungate, contratte e interpretate erroneamente e spietatamente, perch� si addicano a tutte le cose e le circuiscano (Op. cit. vol. II, p. 23).
E possiamo anche mettere in dubbio se queste categorie, o forme interpretative del pensiero, siano innate, esistenti prima della sensazione e dell'esperienza; forse lo sono nell'individuo come Spencer concedeva - quantunque acquisite dalla razza; e poi forse acquisite anche dall'individuo le categorie possono essere solchi del pensiero, abitudini di percezione e concezione, gradatamente prodotte dalle sensazioni e percezioni, che si dispongono automaticamente, - prima in modo disordinato, poi con una specie di selezione naturale di forme dispositive, in modo ordinato, adatto e delucidatore. La memoria classifica e interpreta le sensazioni in percezioni, e le percezioni in idee; ma la memoria èun accrescimento. Questa unità della mente, che Kant crede innata ("l'unità trascendentale della coscienza intima"), è acquisita - e non da tutti; e può esser conquistata come perduta - nell'amnesia, oppure nella personalità alternante, oppure nella pazzia. I concetti sono una conquista, non un dono.
Il XIX secolo non volle troppo saperne dell'etica kantiana, della sua teoria di un senso morale innato, a priori. La filosofia dell'evoluzione sostenne irresistibilmente che il senso del dovere èun pegno sociale nell'individuo, la soddisfazione della coscienza èacquistata, sebbene la vaga disposizione al contegno sociale sia innata. L'individuo morale, l'uomo sociale non èuna «creazione speciale», che viene misteriosamente dalla mano di Dio, ma il tardo prodotto d'una lenta evoluzione. La morale non è assoluta; essa è un codice di condotta più o meno felicemente sviluppato per la sopravvivenza del gruppo, e variante secondo la natura e le circostanze del gruppo stesso; un popolo circondato da nemici, per esempio, considera immorale l'individualismo animoso e inquieto, che una nazione giovane e sicura nel suo benessere e nel suo isolamento accetterà come ingrediente necessario allo sfruttamento delle risorse naturali e alla formazione del carattere nazionale. Nessuna azione è buona di per se stessa, come Kant sostiene (Ragion pratica, p. 31).
La sua gioventù pietistica, la sua vita severa di dovere senza fine e di piacere non certo frequente, lo avevano inclinato alla morale; giunse alla fine a patrocinare il dovere per amore del dovere stesso, e cadde così inavvertitamente nelle braccia dell'assolutismo prussiano (Cfr. Prof. Dewey: Filosofia e politica tedesca).
C'e un po' del severo calvinismo scozzese in questa opposizione del dovere alla felicità; Kant continua Lutero e la riforma stoica, come Voltaire continua Montaigne e il Rinascimento epicureo. Egli rappresentava una severa reazione contro l'egoismo e l'edonismo, in cui Helvetius e Holbach avevano formulato la vita del loro tempo indifferente, proprio come Lutero aveva reagito contro il lusso e la mollezza dell'Italia mediterranea. Ma dopo un secolo di reazione contro l'assolutismo dell'etica kantiana, ci troviamo di nuovo immersi nel fango del sensualismo e dell'immoralità trionfanti nei grandi centri, dello spietato individualismo non frenato dalla coscienza democratica o dal senso dell'onore aristocratico; e forse arriverà presto il giorno, in cui una civiltà in disgregazione invocherà di nuovo il richiamo kantiano al dovere.
Il meraviglioso della filosofia di Kant sta nel vigoroso risveglio, nella seconda Critica, di quelle idee di Dio, libertà e immortalità, che la prima Critica aveva in apparenza distrutto. Paul Ree, il critico amico di Nietzsche dice: «Nelle opere di Kant ci si sente come ad una fiera di campagna. Potete comperar da lui qualsiasi cosa desideriate: libertà di volontà e prigionia della medesima, idealismo e sua confutazione, ateismo e il buon Dio. Come farebbe un giocoliere col suo cappello, Kant tira fuori dal concetto del dovere un Dio, l'immortalità e la libertà, - con grande sorpresa de' suoi lettori» (In Untermann, Scienza e Rivoluzione, Chicago, 1905, pag 81).
Anche Schopenhauer si ribella alla derivazione dell'immortalità dal bisogno di ricompensa: «La virtù di Kant, che dapprima si comportò così bene verso la felicità, perde poi la sua indipendenza e stende la mano per chiedere una mancia» (In Paulsen, pag. 317).
Il grande pessimista crede che Kant fosse proprio uno scettico, il quale, avendo perduto egli stesso la fede, esitasse a distrugger quella degli altri, per timore delle conseguenze sulla pubblica morale. «Kant scopre la mancanza di fondamento della Teologia speculativa, e lascia intatta la teologia popolare, anzi la conferma in forma più nobile, come una fede basata sul sentimento morale». Questo fu poi svisato dai filosofastri è ridotto a comprensione razionale e coscienza di Dio, ecc...; mentre Kant, demolendo antichi errori venerati e conoscendo il pericolo di una simile demolizione, voleva piuttosto, con la teologia morale, sostituire alcuni deboli sostegni temporanei, affinch� le macerie non gli cadessero addosso ed egli potesse trovare il tempo di fuggire » (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 129).
Così pure Heine - e qui vediamo senza dubbio un'intenzionale caricatura, - rappresenta Kant, mentre, dopo aver distrutto la religione, se ne va a spasso col servo Lampe e s'accorge improvvisamente che gli occhi del vecchio servitore sono pieni di lacrime. «Allora Emanuele Kant ha compassione di lui, dimostrando così di essere non solo un grande filosofo, ma anche un buon uomo; e dice, tra il gentile e l'ironico: - Il vecchio Lampe avrà un Dio, altrimenti non può esser felice, come afferma la ragion pratica; per conto mio, la ragion pratica può anche garantire l'esistenza di Dio» (Citato da Paulsen, pag. 8).
Se queste interpretazioni fossero vere, dovremmo chiamare la seconda Critica un anestetico trascendentale.
Ma queste audaci ricostruzioni di Kant interiore non vanno prese troppo seriamente. Il fervore di cui è pervaso il saggio sulla «Religione entro i limiti della ragion pura» indica una sincerità troppo intensa per esser messa in dubbio; è il tentativo di mutar la base della religione dalla teologia alla morale, dal credo alla condotta, non avrebbe potuto esser fatto che da uno spirito profondamente religioso. «È proprio vero.. », egli scrisse a Moses Mendelssohn nel 1766, «...che io penso tante cose con la massima convinzione... cose che non ho mai il coraggio di palesare; ma non dirò mai una cosa che non penso» (In Paulsen, p. 53).
"Naturalmente, un trattato lungo ed oscuro come la grande Critica si presta a interpretazioni contrarie; una delle prime critiche del libro, fatta da Reinhold, pochi anni dopo che esso fu pubblicato, diceva quanto possiamo dire oggi La Critica della ragion pura � stata proclamata dai dogmatici il tentativo di uno scettico, che mina la certezza di ogni conoscenza; dagli scettici, un'opera di arrogante presunzione, che vuol erigere una nuova forma di dogmatismo sulle rovine di sistemi anteriori; - dai supernaturalisti, un artificio sottilmente studiato per minare i fondamenti storici della religione e stabilire le basi del naturalismo senza polemica; - dai materialisti, una contraddizione idealistica della realtà della materia; - dagli spiritualisti, un'ingiustificabile limitazione di ogni realtà al mondo corporeo, celato sotto il nome di dominio dell'esperienza » (In Paulsen, p.114).
In verità, la gloria del libro sta appunto nell'apprezzamento di tutti questi punti di vista; e un'intelligenza aperta come quella di Kant s'accorgerà che egli li ha riconciliati tutti e fusi in una tale unità di verità complessa, quale la filosofia non aveva mai veduto in tutta la sua storia precedente.
Per quanto riguarda la sua influenza, possiamo dire che tutto il pensiero filosofico del XIX secolo s'aggirò attorno alle sue speculazioni. Dopo Kant, tutta la Germania s'occupò di metafisica; Schiller e Goethe la studiarono; Beethoven citò con ammirazione le sue famose parole sulle due meraviglie della vita - «il cielo stellato al di sopra, e la legge morale al di dentro»; e Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer crearono, in rapida successione, grandi sistemi di pensiero basati sull'idealismo del vecchio saggio di Konigsberga.
In quei balsamici giorni di metafisica tedesca Jean Paul Richter scriveva: «Dio ha dato la terra ai Francesi, agli Inglesi il mare, ai Tedeschi l'impero dell'aria».
La critica della ragione di Kant e la sua esaltazione del sentimento prepararono il volontarismo di Schopenhauer e di Nietzsche, l'intuizionismo di Bergson, e il pragmatismo di William James; la sua identificazione delle leggi del pensiero con le leggi della realtà diedero a Hegel tutto un sistema di filosofia; e la sua inconoscibile «cosa in s� medesima» ebbe influenza su Spencer più ch'egli stesso non credesse. Molta parte della oscurità di Carlyle va addebitata al suo tentativo di allegorizzare il già oscuro pensiero di Goethe e di Kant - che, cio�, le diverse religioni e filosofie non sono se non mutabili vesti di una eterna verità. Caird, Green, Wallace, Watson, Bradley e molti altri, in Inghlterra, debbono la loro ispirazione alla prima Critica; ed anche il fiero innovatore Nietzsche prende la sua epistemologia dal gran «Chinese di Konigsberga», la cui etica statica egli condanna così ferocemente.
Dopo un secolo di lotta tra l'idealismo di Kant, riformato in vari modi, e il materialismo dell'illuminismo, addolcito sotto varie forme, la vittoria sembra rimanere a Kant. Persino il grande materialista Helvetius scrisse paradossalmente: «Gli uomini, se posso osare questa espressione, sono i creatori della materia» (In Chamberlain, I, p.86)
La filosofia non sarà più ingenua come ne' suoi primi e più semplici giorni; essa sarà sempre differente, da ora in poi, e più profonda, poich� Kant visse.
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DA VOLTAIRE A KANT
Passiamo da una ragione teoretica senza fede, ad una fede religiosa senza ragione teoretica. Voltaire significa l'illuminismo, l'enciclopedia, l'età della ragione. L'ardente entusiasmo di Francis Bacon aveva ispirato a tutta l'Europa (eccettuato Rousseau) un'assoluta fiducia nel potere della scienza e della logica a risolvere ogni problema e ad illustrare l'« infinita perfettibilità » dell'uomo. Condorcet scrisse, in prigione, il suo Quadro storico del progresso dello spirito umano (1793), il quale esprimeva la sublime fiducia del XVIII secolo nel sapere e nella ragione, e chiedeva solo una cultura universale quale unica chiave all'Utopia. Anche i sobri Tedeschi ebbero la loro Aufklarung (illuminiscismo), il loro razionalista Cristiano Wolff e il loro fiducioso Lessing. E gli eccitabili Parigini della Rivoluzione drammatizzarono quest'apoteosi dell'intelligenza, adorando la «Dea Ragione», impersonata in una graziosa donna del popolo.
In Spinoza, questa fede nella ragione aveva raggiunto una magnifica struttura geometrica e logica: l'universo era un sistema matematico e poteva essere descritto a priori, con una pura deduzione da assiomi acccettati. In Hobbes, il razionalismo di Bacone era divenuto un ateismo e un materialismo inflessibili; nulla esisteva se non «atomi a vuoto».
Da Spinoza a Diderot, i residui della fede si trovarono nel solco aperto dalla ragione, che si faceva strada: a poco a poco, i vecchi dogmi scomparvero; la cattedrale gotica della credenza medioevale crollò, con tutte le sue meravigliose e grottesche ornamentazioni; con i Borboni cadde dal trono anche l'antico Dio, il cielo spirituale svanì nella volta celeste, e l'inferno non fu più che un'espressione ad effetto. Helvetius e Holbach resero talmente di moda l'ateismo nei salotti francesi, che esso fu accettato persino dal clero; e Le Mettrie andò a spacciarlo in Germania sotto gli auspici del re di Prussia. Quando, nel 1784, Lessing scandalizzò Jacobi, dichiarando di essere un seguace di Spinoza, la fede aveva raggiunto il suo nadir, e la ragione trionfava.
Davide Hume, il quale ebbe una parte così importante nell'assalto dell'illuminismo alla fede soprannaturale, disse che quando la ragione � contro un uomo, questi si ribella ben presto alla ragione. La fede e la speranza religiosa, annunciata da centomila campanili, sorgenti ovunque dal suolo europeo, avevano radici troppo profonde nelle istituzioni sociali e nel cuore umano, da imporre una facile resa all'ostile verdetto della ragione; era inevitabile che questa fede e questa speranza, così condannate, mettessero in dubbio la competenza del giudice e invocassero un esame della ragione, come della religione.
Che cosa era questa mente, la quale- proponeva di distruggere con un sillogismo le credenze di migliaia d'anni e di milioni di uomini? Che cosa aveva essa d'infallibile? Oppure era un organo umano eguale agli altri, con funzioni e poteri assai limitati? Era giunta l'ora di giudicare questo giudice, di esaminare questo spietato tribunale rivoluzionario, che, con tanta prodigalità, pronunziava sentenze di morte contro ogni antica speranza. Era giunto il tempo per una critica della ragione.
DA LOCKE A KANTIl terreno per quest'esame era stato preparato da Locke, Berkeley e Hume; sebbene i loro risultati fossero apparentemente ostili alla religione.
Giovanni Locke (1632-1704) aveva proposto d'applicare alla psicologia le prove e i metodi induttivi di Bacone: nel suo grande "Saggio sulla intelligenza umana" (1689), la ragione, per la prima volta nel pensiero moderno, si era ripiegata su se stessa, e la filosofia aveva incominciato ad esaminare criticamente lo strumento, di cui per lungo tempo aveva avuto tanta fiducia. Questo movimento introspettivo crebbe in filosofia passo passo col romanzo introspettivo creato da Richardson e da Rousseau; come il colore sentimentale ed emotivo di "Clarissa Harlowe" e de "La nouvelle H�loise" trovò il suo corrispondente nell'esaltazione filosofica dell'istinto e del sentimento sull'intelletto e sulla ragione.
D'onde scaturisce il sapere? Abbiamo noi, come parecchia brava gente crede, idee innate, per esempio, sul giusto e sull'errore, su Dio - idee innate nella mente dalla nascita, anteriori ad ogni esperienza? Alcuni teologi, timorosi che la fede nella deità dovesse scomparire, perch� Dio non era ancora stato veduto con nessun telescopio, avevan creduto che la fede e la morale avrebbero potuto rafforzarsi se si fosse dimostrato che le loro idee centrali e fondamentali erano innate in ogni anima normale. Ma Locke, sebbene buon cristiano, pronto a discutere nel modo più eloquente su «la ragionevolezza del Cristianesimo», non poteva accettare queste ipotesi; egli sostenne tranquillamente che tutto il nostro sapere scaturisce dall'esperienza, attraverso i nostri sensi - che « non esiste nulla nella mente, se non quanto fu prima nei sensi». La mente, al momento della nascita, � come un foglio bianco, tabula rasa; e l'esperienza dei sensi scrive su di esso in mille modi, finch� la sensazione genera la memoria e la memoria le idee. Tutto questo pareva condurre alla stupefacente conclusione che, potendo solo le cose materiali colpire i nostri sensi, noi conosciamo solo la materia e siamo costretti ad accettare una filosofia materialistica.
Se le sensazioni sono l'oggetto del pensiero, arguivano molti, la materia dev'essere l'oggetto della mente.
Niente affatto, obiettò il vescovo Giorgio Berkeley (I68i-I753); quest'analisi che Locke fa del sapere, dimostra piuttosto che la materia non esiste se non come forma della mente. Era un'idea brillante - ripudiare il materialismo col semplice espediente di provare che noi non sappiamo nulla della materia; in tutta Europa soltanto un'immaginazione gaelica poteva aver concepito questa magia metafisica. Ma guardate com'� ovvio, diceva il vescovo; non ci ha detto Locke che ogni nostra conoscenza deriva dalla sensazione? Quindi, la conoscenza di qualsiasi cosa deriva dalle nostre sensazioni di essa, e le idee da queste sensazioni. Una «cosa» � soltanto un insieme di percezioni - cio�, di sensazioni classificate e interpretate. Voi protestate dicendo che la vostra colazione � molto più sostanziosa di tutto un insieme di percezioni; e che un martello, il quale v'insegna il mestiere del falegname a scapito del vostro pollice, ha una magnifica materialità. Ma la vostra colazione �, prima di tutto, soltanto un insieme di sensazioni della vista, dell'odorato e del tatto; e poi del gusto; e poi di benessere e calore interno. Così, il martello � un insieme di sensazioni di colore, grandezza, forma, peso, tatto, ecc.; la sua realtà, per voi, non � nella sua materialità, ma nelle sensazioni che vi vengono dal vostro pollice percosso. Se non aveste i sensi, il martello non esisterebbe affatto per voi; potrebbe picchiare in eterno sul vostro pollice morto e non attirare la bench� minima attenzione da parte vostra. Si tratta soltanto di un insieme di sensazioni, oppure di un insieme di ricordi; � una coordinazione della mente. Ogni materia, per quanto possiamo saperne noi, � una condizione mentale; è la sola realtà che conosciamo direttamente è il pensiero. Questo, per quanto riguarda il materialismo.
Ma il vescovo irlandese aveva fatto i conti senza lo scettico scozzese. Davide Hume (1711-1776) all'età di ventisei anni strabiliò la Cristianità intera con il suo Trattato sull'umana natura, profondamente eretico - una delle opere classiche e una delle meraviglie della filosofia moderna. Conosciamo la mente, diceva Hume, soltanto in quanto conosciamo la materia: con la percezione, quantunque interiore, in questo caso. Noi non percepiamo mai un' entità come la « mente »; percepiamo soltanto idee singole, ricordi, sentimenti, ecc. La mente non è una sostanza, un organo che ha idee: è solo un nome astratto per un insieme di idee; percezioni, memoria, sentimenti sono la mente non esiste un'anima sensibile dietro i processi del pensiero. Apparentemente, Hume aveva distrutto del tutto la ragione, come Berkeley aveva distrutto la materia. Non era rimasto più nulla; e la filosofia si trovò in mezzo a un mucchio di rovine prodotte da se stessa.
Ma Hume non fu contento di abbattere la religione ortodossa, distruggendo il concetto di anima; egli propose anche di abbattere la scienza, dissolvendo il concetto di legge. Da Giordano Bruno e Galileo, la scienza e la filosofia avevano tenuto in gran conto la legge naturale, della « necessità » nella successione dell'effetto alla causa; Spinoza aveva basato la sua maestosa metafisica su questa rigorosa concezione. Ma Hume fece osservare che noi non percepiamo cause n� leggi, percepiamo solo eventi e conseguenze e ne deduciamo la motivazione e la necessità; una legge non è un eterno decreto necessario, cui gli eventi sono soggetti, ma semplicemente un sommario mentale e succinto della nostra caleidoscopica esperienza; non possiamo sapere se le conseguenze osservate riappariranno inalterate nella futura esperienza. « La legge » è un'abitudine osservata nella conseguenza degli eventi; ma nell'abitudine non esiste « necessità ».
Soltanto le formule matematiche obbediscono alla necessità - esse sole sono inerentemente e immutabilmente vere; e questo, solo perch� tali formule sono tautologiche - il predicato è già contenuto nel soggetto; 3 x 3 = 9 è una verità eterna e necessaria, solo perch� 3 x 3 e 9 sono la medesima cosa espressa in modo diverso; il predicato non aggiunge nulla al soggetto. La scienza, dunque, deve strettamente limitarsi alla matematica e all' esperimento diretto; non può fidarsi della non verificata deduzione della « legge ». Quando. scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, - scrive il nostro scettico precipitoso, - a quali rovine andiamo incontro ! Se prendiamo in mano un volume qualsiasi di metafisica elementare, per esempio, ci domandiamo : «Conterrà esso qualche ragionamento astratto, concernente la quantità o il numero? ». No. « Contiene, forse, qualche ragionamento sperimentale concernente una materia di fatto ed esistente? ». No. «Datelo, dunque, alle fiamme, giacche esso non può contener che sofisticherie ed illusioni» (Citato da Royce nel suo « Spirito della filosofia moderna », Boston 1892, pag. 98).
Immaginate come queste parole rintronassero nelle orecchie dell'ortodosso. Qui, la tradizione epistemologica - la ricerca della natura, delle fonti e del valore del sapere - aveva cessato di essere un appoggio della religione; la spada, con cui il vescovo Berkeley aveva ucciso il drago del materialismo, si era volta contro la intelligenza immateriale e contro l'anima immortale; ed anche la scienza ne era rimasta gravemente danneggiata. Non dobbiamo, quindi, meravigliarci se Emanuele Kant, leggendo nel 1775 una traduzione delle opere di Davide Hume, restasse colpito da simili risultati e fosse scosso, com'egli stesso disse, dal « torpore dogmatico », nel quale egli aveva accettato, senza discussione, l'essenza della religione e le basi della scienza. Dovevano la scienza e la fede esser date in balia dello scettico? Che cosa si poteva fare per salvarle?DA ROUSSEAU A KANT
Alla tesi dell'illuminismo, che, cio�, la ragione è favorevole al materialismo, Berkeley aveva tentato di rispondere che la materia non esiste. Ma Hume aveva subito obiettato che, allo stesso modo, non esiste nemmeno la ragione. Un'altra risposta era possibile - che la ragione non è la prova definitiva. Esistono conclusioni teoretiche, contro cui tutto il nostro essere si ribella; non abbiamo diritto d presumere che queste esigenze della nostra natura debbano cedere ai dettami di una logica, la quale non è, dopo tutto, se non una costruzione recente di una parte di noi, fragile e fallace. Quanto spesso i nostri istinti e sentimenti mettono da parte i piccoli sillogismi, che vorrebbero ci comportassimo come figure geometriche, e facessimo all'amore con una precisione matematica! Alcune volte, senza dubbio, - e specialmente nelle nuove complessità e artificiosità della vita urbana, - la ragione � la miglior guida; ma nelle gravi crisi della vita e nei massimi problemi che si riferiscono alla nostra condotta e alla nostra fede, noi facciamo più affidamento sui nostri sentimenti che sui nostri diagrammi. Se la ragione è contro la religione, tanto peggio per la religione!
Questa era effettivamente la tesi di Jean Jacques Rousseau (17121778), che, quasi unico in Francia, arrestò il materialismo e l'ateismo degl'illuministi. Che disdetta per una natura delicata e nervosa, esser caduta in pieno razionalismo e nell' edonismo quasi brutale degli enciclopedisti! Rousseau aveva avuto una giovinezza sofferente, ed era stato portato alla meditazione e all'introspezione dalla propria gracilità fisica e dall'attitudine ostile de' suoi genitori e maestri; era sfuggito agli aculei della realtà in un mondo - serra di sogni, - in cui le vittorie a lui negate nella vita e nell'amore potevano esser conseguite dalla sua immaginazione. Le Confessioni rivelano un complesso inconciliabile della più raffinata sentimentalità con un senso ottuso delle convenienze e dell'onore, tutto pervaso da una pura convinzione della propria superiorità morale (La dottrina che ogni azione è motivata dalla caccia al piacere).
Nel 1749, l'accademia di Digione offri un premio per un saggio: sul tema: « Il progresso delle scienze e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare la morale? ». Il saggio presentato da Rousseau vinse il premio. La cultura è assai più un male che un bene, egli sosteneva - con tutta l'insistenza e la sincerità di chi trova la cultura fuori dalla propria strada, e fa di tutto per dimostrare ch'essa non ha alcun valore. Considerate lo spaventoso disordine che la stampa aveva portato in Europa. Ovunque si affermi la filosofia, la salute morale della nazione decade. « Lo dicevano persino i filosofi tra loro: dacch� erano apparsi gli uomini colti, erano scomparsi completamente gli uomini onesti ». « Oso dire che uno stato di riflessione è contrario alla natura; e che un uomo pensante » (un « intellettuale », come diremmo ora) « � un animale depravato ». Sarebbe meglio desistere dal nostro rapidissimo sviluppo dell'intelletto, e mirare piuttosto a educare il cuore e gli affetti. L'educazione non fa l'uomo buono, lo fa soltanto intelligente - generalmente per il male. L'istinto e il sentimento sono più degni di fiducia della ragione.
Nel suo famoso romanzo La nouvelle H�loise (1761), Rousseau illustrò ampiamente la superiorità del sentimento sull'intelligenza; il sentimentalismo diventò di moda tra le signore dell'aristocrazia, ed anche tra gli uomini; la Francia fu, per un certo tempo, innaffiata di lacrime letterarie e poi vere; e il gran movimento intellettuale europeo nel XVIII secolo produsse la letteratura romantica emotiva del periodo dal 1789 al 1848. La corrente trascinò seco un profondo risveglio del sentimento religioso; le estasi del Genio del Cristianesimo di Chateaubriand (1802) non erano che un'eco della Confessione di fede del Vicario Savoiardo, che Rousseau incluse nel suo grande saggio sull'educazione, Emilio (1762). L'argomento della Confessione era questo, in due parole: sebbene la ragione possa essere contraria alla fede in Dio e all'immortalità, il sentimento era assolutamente a favore di queste; perch� non dovremmo fidarci dell'istinto, piuttosto che cedere alla disperazione di un arido scetticismo?
Quando Kant ebbe l'Emilio, dimenticò la sua giornaliera passeggiata sotto i tigli, per legger subito il libro sino alla fine. Fu un avvenimento nella sua vita trovare un altro uomo, che, a tentoni, si faceva strada nell'oscurità dell'ateismo, e arditamente affermava la priorità del sentimento sulla ragione teoretica. Ecco finalmente la seconda metà della risposta all'irreligione; ora, alla fine, tutti gli schernitori e gli scettici sarebbero stati battuti. Mettere assieme tutti questi fili della discussione, unire le idee di Berkeley e di Hume con i sentimenti di Rousseau,
salvar la religione dalla ragione e,
nello stesso tempo, salvar la scienza dallo scetticismo -
ecco la missione di Emanuele Kant.
continua > >
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QUARTA PARTE:
EVOLUZIONE PRE-CRITICA - NOVA
DILUCIDATIO - FALSA
SOTTIGLIEZZA
SOGNI DI UN VISIONARIO -
DISSERTAZIONE DEL 70