1a GUERRA MONDIALE 1915-1918 |
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"I
LEGIONARI PER ZARA ITALIANA" "Il Natale di sangue" (D'Annunzio) |
Le formazioni volontarie dalmate nel primo dopoguerra
di Orazio Ferrara
Quando dopo la prima guerra mondiale scoppiò la “questione fiumana”, artefice il poeta-soldato Gabriele D’Annunzio, la maggioranza degli italiani si accorse con stupore che, all’interno di essa, ne esisteva un’altra ancora più intricata e spinosa, quella dalmata. Capofila dell’irredentismo dalmata era la città di Zara, da sempre all’ombra del leone alato di San Marco. In quei mesi di travolgente passione nazionalista, Zara rappresentò per la Dalmazia quello che Fiume fu per l’Istria.
Il 4 novembre 1918 la regia torpediniera 55 AS, comandata dal capitano di corvetta De Boccard, attraccò a Zara e ne prese possesso in nome dell’Italia. Per la popolazione in delirio sembrava che il più fosse fatto. Ma non era così. I nostri vecchi alleati la pensavano diversamente e consideravano il Patto di Londra, che in caso di vittoria prevedeva l’assegnazione dell’Istria e della Dalmazia all’Italia, una cosa del tutto superata dagli eventi.
Quando il 18 gennaio 1919 iniziò in Francia, a Versailles, la conferenza di pace, si capì subito che l’americano presidente Wilson parteggiava spudoratamente per gli slavi, a tutto danno delle nostre legittime rivendicazioni. Wilson era appoggiato in questo suo odioso comportamento dalla diplomazia francese, invidiosa che l’Italia assurgesse al rango di grande potenza, e da quella inglese, che non le pareva vero farci impelagare in quella querelle e distrarci così dalla spartizione delle ex colonie tedesche in Africa, come poi effettivamente accadde senza di noi. La nostra diplomazia, provinciale e sprovveduta, faceva il resto. Così tra le timide proteste dei nostri rappresentanti, che furono costretti anche ad abbandonare per qualche tempo la conferenza a causa delle offese ricevute, le cose cominciarono ad andare male per gli italiani.
Intanto a Fiume il contingente francese, colà stanziato, provocava di continuo la popolazione, favorendo apertamente le rivendicazioni degli slavi. Tale situazione era pertanto fonte di continui incidenti tra i soldati alleati e i fiumani, i quali ultimi per ovvi motivi avevano sempre la peggio. Ciò era intollerabile per il contingente italiano, che cominciò pertanto ad intervenire in difesa dei propri connazionali. La tensione iniziò a salire e il 6 luglio 1919 ci furono gravissimi scontri, con morti e feriti, tra i francesi, unitamente ai loro coloniali annamiti, e i marinai italiani delle navi “Emanuele Filiberto”, “Dante Alighieri” e “San Marco”, alla fonda nel porto. Fu necessario istituire una commissione d’inchiesta interalleata. Ma ormai la situazione era degenerata e fuori da ogni controllo.
Il 12 settembre 1919, vista anche la piega presa dalla conferenza di pace, Gabriele D’Annunzio decise di rompere gli indugi e a capo di una colonna di volontari, per lo più ex arditi, entrò in Fiume, dove i suoi furono accolti dalla popolazione entusiasta e letteralmente coperti di fiori e di serti di alloro. Nei giorni successivi le truppe francesi, inglesi e americane abbandonarono la città e per Fiume iniziarono i giorni della splendida “avventura” della Reggenza dannunziana.
Dopo aver consolidato militarmente la sua posizione in Fiume, D’Annunzio pensò subito di dare un segnale “forte” anche ai fratelli dalmati, che lo supplicavano di essere il vindice anche delle loro aspirazioni irredentiste. In un consiglio di guerra, tenutosi il 13 novembre, D’Annunzio aveva concluso il suo intervento, dicendo: “Bisogna perciò dimostrare che Fiume e la Dalmazia costituiscono due aspetti di un unico problema. Bisogna andare a Zara!”.
Il 14 novembre 1919 iniziò quella che fu poi chiamata “l’impresa di Zara”. Quella notte, nel porto di Fiume, in tutta segretezza furono imbarcate diverse formazioni di volontari sulla R. N. “Cortellazzo”. Fungeva da scorta il cacciatorpediniere “Nullo”, su cui era lo stesso D’Annunzio. Completavano il convoglio la torpediniera 66 PN e il mitico MAS 22, l’affondatore della corazzata austriaca Santo Stefano. In pratica era tutta la minuscola flotta legionaria che prendeva il mare, al comando del capitano di corvetta Castruccio Castracane. Partecipava all’impresa la due volte medaglia d’oro Luigi Rizzo. Durante la notte, navigando a luci spente, si riuscì ad eludere l’occhiuta sorveglianza della flotta italiana. Alle prime luci dell’alba il convoglio fu però scoperto da una squadra navale, composta da un incrociatore, un caccia e due siluranti. Ma fortunatamente Zara era in vista e si riuscì ad arrivare in porto indenni. Era il 15 novembre 1919.
Tutte le campane della città cominciarono a suonare a distesa, come per l‘arrivo di un liberatore. Le scene che si svolsero, nel ricordo unanime dei testimoni che ne scrissero, furono sì di grandissima commozione, ma anche di grandissima esultanza. La gente sembrava veramente impazzita, dappertutto un continuo lancio di fiori e un risuonare di canti legionari. Tutta Zara marciava con D’Annunzio, che si recava a colloquio con l’ammiraglio Millo. Nel primo pomeriggio il poeta soldato volle recarsi al palazzo municipale, dal cui balcone poi parlò ad una folla strabocchevole, che intanto si era radunata nella piazza antistante.
Alla folla mostrò una bandiera tricolore, era quella che aveva avvolto il corpo dell’eroe del Timavo, Giovanni Randaccio, poi soggiunse: “… al morente avevo promesso di issarla a San Giusto. Ma l’ho mostrata in Campidoglio al popolo di Roma ed avevo promesso allora di portarla anche a Fiume. L’ho portata, ed oggi la porto qui a Zara, per Zara e ancora più oltre”. Ed il popolo con un unico immenso boato rispose “ A Spalato”. Intanto il sindaco Ziliotto faceva affiggere sulle cantonate della città un manifesto, che diceva “ Concittadini, Gabriele D’Annunzio è qui! Nessuna parola: continuate a piangere di gioia. La Dalmazia resta per sempre all’Italia”.
Nella stessa giornata del 15 D’Annunzio lasciò Zara, dando però ordine ai volontari dalmati che lo avevano seguito nella recente impresa di restare nella città quale presidio armato. Quest’ultimo, della forza di circa due terzi di un battaglione, andò a costituire la “Legione del Carnaro”, che si acquartierò nella caserma San Domenico. Lo stesso D’Annunzio affidò il comando in capo di questa unità al maggiore Giovanni Giuriati. Formavano la “Legione del Carnaro” la compagnia “Arditi di Sernaglia” dalle divise con la camicia nera e lo scudetto da braccio con il gladio circondato dal serto di alloro, la compagnia “Bersaglieri di Fiume”, caratterizzata dall’avere il copricapo dei fanti piumati, e la compagnia “Randaccio”.
Lo stato maggiore della Legione, oltre al comandante Giuriati, era formato dal tenente Nicola Malizia, aiutante maggiore, e dal tenente Ugo Busatti, capo dell’Ufficio Propaganda. Gli ufficiali degli “Arditi di Sernaglia” erano il capitano Giuseppe Vianello, preposto al comando, i tenenti Domenico Gotta, Mario Allegri, Angelo Sommuer, Gustavo Orlandini, e i sottotenenti Guido Narbona, Ettore Vesentini, Umberto Klinger. La compagnia dei “Bersaglieri di Fiume” era al comando del capitano Luigi Corrado, altri ufficiali erano i tenenti Renato Ricci, Mario Marini, e i sottotenenti
Giuseppe Maritati, Mario Balzarini, Gaetano Basso, Melchiorre Melchiorri. Comandava la compagnia “Randaccio” il capitano Egone Blatt, coadiuvato dai tenenti Pietro Del Zoppo, Antonio Cortese, Arturo Avolio, e dai sottotenenti Enrico Colombo e Luigi Ronchi.
Dopo appena quattro giorni il maggiore Giuriati fu richiamato a Fiume da D’Annunzio, che gli affidò una missione diplomatica segreta, pertanto la “Legione del Carnaro” passò sotto il comando del capitano Luigi Corrado.
La venuta del comandante D’Annunzio, nonch� le sue infiammate parole e il suo esempio, avevano convinto gli zaratini che ormai il dado era tratto e che era giunto il momento dell’azione. Già subito dopo la fine del conflitto a Zara si era ricostituita la vecchia e gloriosa associazione “Juventus Jadertina”, che dietro l’innocente maschera sportiva nascondeva in realtà una formazione volontaria paramilitare. Subito vi furono centinaia di adesioni, soprattutto da parte di giovani e giovanissimi. Erano ammessi a farne parte tutti i maschi dai 17 anni in poi. Anche le donne potevano partecipare in qualità di affiliate. Istruttori dell’addestramento ginnico, ma in realtà militare, erano gli ufficiali zaratini già volontari nella Grande Guerra. In un protocollo riservato dello Statuto, era scritto esplicitamente “Il vero scopo militare della Juventus Jadertina è di organizzare la resistenza armata per difendere le rivendicazioni d’Italia su questa sponda… Il corpo in divisa ha quindi il compito di allenare tutti i volontari all’eventuale cimento… A tale scopo la Juventus Jadertina favorirà l’accasermamento di volontari…”.
Il 23 settembre 1919 al Teatro Verdi di Zara, in un’imponente manifestazione e in un clima di esaltante patriottismo, ben 932 volontari della Juventus Jadertina giurarono sul Tricolore di portare a compimento la redenzione della Dalmazia, anche a costo della propria vita.
Da questo gruppo di coraggiosi prenderà poi vita, nei giorni che seguono, il glorioso battaglione di volontari “Francesco Rismondo”, che sarà una vera e propria guardia nazionale della città fino ai tragici giorni di fine dicembre 1920.
Il battaglione di circa 1.000 uomini, al comando del capitano Buono Bonvicini, con in sottordine il capitano Turrina e il tenente Diana, era articolato su 4 compagnie, che prendevano il nome da altrettanti martiri irredentisti: Oberdan, Sauro, Battisti e Filzi, più un Nucleo Mitraglieri intitolato a Pier Fortunato Calvi, al comando del tenente Viola. La divisa era quella della Juventus Jadertina con il caratteristico cappello portato, in quei giorni, da D’Annunzio nell’impresa fiumana e che ricordava molto quello degli alpini. Una peculiarità di questo reparto era poi l’uso di un simbolismo raffigurante delle fiamme azzurre, già peraltro usate dai reparti dalmati nel recente conflitto mondiale. L’armamento ordinario era quello della fanteria italiana, con l’immancabile moschetto 91 e la sua micidiale baionetta, oltre a quello di preda bellica preso agli Austriaci.
I reparti della “Legione del Carnaro” e del battaglione “Francesco Rismondo” usavano come bandiera, insieme al tricolore, anche il vecchio vessillo dalmata: di azzurro con le tre teste di leopardo d’oro, poste 2 e 1, e tutt’intorno una frangia d’oro. In qualche reparto era in uso anche un vessillo rosso con 7 stelle d’oro.
D’altronde le due bandiere, quella azzurra con le teste di leopardo e quella rossa con le stelle, sventolavano ambedue presso la sede della Legazione della Reggenza a Parigi, in rue Frederic Bastiat. La Legazione, guidata da Tom Antongino, seppure non ufficializzata, rivestiva una funzione estremamente importante e delicata nella capitale francese, dove i grandi delle potenze vincitrici stavano decidendo del futuro di intere popolazioni, tra cui quelle dalmate e fiumane.
Il simbolismo delle 7 stelle (ad indicare le principali città dalmate) appariva anche nella xilografia del “quis contra nos?”, che ornava l’intestazione delle carte della Reggenza del Carnaro, e nel diploma di concessione della medaglia della Marcia di Ronchi.
Quasi sempre i vessilli dei legionari dalmati, compresa la bandiera nazionale, portavano una fascia nera, a ricordo di quanto aveva giurato D’Annunzio a Roma, in Campidoglio, nel discorso del 6 maggio 1919: “Io voglio abbrunare la mia bandiera… finch� Fiume non sia nostra, finch� la Dalmazia non sia nostra”. E la bandiera, su cui era avvenuto quel giuramento, era quella stessa che poi il poeta aveva portato con se a Fiume e a Zara .
Altra caratteristica di quei reparti era l’uso della Croce Dalmata. Una croce di una particolare forma patente, sovrastata dal leone alato di San Marco e caricata di un cerchio, con inscritto uno scudetto azzurro con le tre teste di leopardo d’oro. In circolo la scritta “Nu con ti, ti con nu”. Quest’ultimo motto non era che il vecchio grido di battaglia delle genti dalmate, adottato da tutti i legionari, compresi quelli fiumani, accanto a quello nuovo, ma al tempo stesso antichissimo perch� risalente alle legioni di Roma, di “Eja eja alalà”, riscoperto e rilanciato da D’Annunzio a contrastare quello barbaro di origine anglo-sassone di “Hip hip hurrà”.
Le divise, i vessilli, i fregi, i motti, insomma lo stile di vita militare adottato dai legionari di Zara sarà così contagioso che, nel giorno dell’Epifania del 1920, il pur immaginifico Gabriele D’Annunzio, quale suo dono personale, autorizzò “i combattenti in Fiume d’Italia” a portare i distintivi della Dalmazia e “le fiamme azzurre”.
Quando il 28 febbraio 1920 partì da Zara, per rientrare a Fiume, la compagnia “Arditi di Sernaglia” della Legione del Carnaro, tutta la popolazione si riversò nelle strade, a salutare quegli “sfegatati dalla camicia nera”.
Il 18 marzo, in occasione dell’onomastico del comandante D’Annunzio, nella piazza d’armi di Zara ebbe luogo una rivista militare, con la sfilata del battaglione volontari “Francesco Rismondo” del capitano Bonvicini e della Legione del Carnaro del capitano Corrado. Anche così si manifestava agli slavi e ai governi alleati, nonch� a quello italiano, che non si aveva alcuna volontà di mollare.
Il Sabato Santo di quel 1920 D’Annunzio si rivolse con un particolare ed affettuoso messaggio alle “fiamme azzurre” del battaglione Rismondo. Il 7 aprile aveva scritto a Giovanni Lubin, patriota dalmata di Traù, una lettera, che terminava con queste parole “… Bisogna credere nel miracolo. Si salva chi crede nel miracolo. Dite ai nostri fratelli che io credo, e che non muterò mai. La bestia non può prevalere. Non prevarrà. Abbiate pronte le armi. Se non avete armi, acuminate i sassi. E non mi aspetterete invano. Gabriele D’Annunzio”.
Il 24 maggio, a Roma, un’affollata e pacifica manifestazione studentesca pro Fiume e Dalmazia ebbe un tragico epilogo di morti e feriti, per l’incomposta reazione della Guardia Regia che sparò sulla folla inerme. Con un violentissimo discorso, tenuto in Fiume, D’Annunzio inchiodò alle sue gravissime responsabilità il governo italiano, alle cui direttive si doveva l’insano comportamento della Guardia Regia. Purtroppo l’accaduto disvelava chiaramente le aberranti linee guide, lungo cui intendeva muoversi, nel prossimo futuro, il governo per ciò che riguardava la questione fiumana e dalmata. D’Annunzio intuì subito che, da quel momento, doveva prepararsi al peggio.
L’11 luglio 1920 rapida si sparse una ferale notizia. A Spalato una folla di manifestanti slavi aveva trucidato barbaramente il comandante Gulli e il motorista Rossi della Regia Nave “Puglia”. La notizia turbò profondamente tutti gli irredentisti, anche per l’assoluta mancanza del bench� minimo cenno di reazione da parte del governo italiano.
Ad agosto D’Annunzio concepì le linee fondamentali di quella Carta del Carnaro, che fu poi approvata plebiscitariamente dal popolo fiumano nel successivo settembre. La Carta, pur risentendo in parte dell’influenza del De Ambris, capo dell’ala sinistra del movimento legionario, riusciva in certo qual modo a superare e comporre le antitesi tra le istanze nazionali e sociali, che in quel tempo cominciavano a dividere profondamente l’Italia. Poteva benissimo rappresentare un punto di partenza di discussione comune per socialisti e fascisti. Ma non fu così e la Storia prese altre strade. Intanto che ambedue le fazioni, accecate dalla loro stessa faziosità, guardavano con malcelata inimicizia a D’Annunzio. Come sempre, nulla di nuovo sotto il cielo d’Italia.
Il 12 novembre 1920 veniva firmato il Trattato di Rapallo. Di tutta la Dalmazia, promessa all’Italia dagli accordi del Patto di Londra del 26 aprile 1915, le sole isole di Cherso, Lussino, Lagosta, Pelagosa e la città di Zara, con uno striminzito territorio circostante, venivano a far parte del territorio nazionale italiano. Fiume veniva riconosciuta come stato libero, ma senza un adeguato retroterra, anzi si raggiungeva l’assurdo di mutilarla di una parte dello stesso porto. Era ormai chiaro a tutti che il Patto di Londra non era stato che carta straccia e che i nostri antichi alleati erano stati dei perfidi spergiuri. Gli imbelli governanti italiani erano stati giocati ancora una volta. S’incorporavano, con somma gioia dei francesi, alcuni territori a maggioranza di lingua tedesca, fonte certa di futuri guai, e si abbandonavano agli slavi terre italianissime. Quel poco che si era strappato, il pugno di isole e la città di Zara, nonch� lo Stato Libero di Fiume, non si doveva certo alla nostra diplomazia, ma a D’Annunzio e alle sue formazioni militari di volontari, che in armi presidiavano sia Fiume che Zara. Ad onor del vero anche al coraggio di molti ufficiali e soldati del Regio Esercito, che rischiando di divenire anch’essi dei “soldati perduti”, appoggiarono e sostennero in tutti i modi le formazioni legionarie.La sera stessa del 12 D’Annunzio, a nome della Reggenza del Carnaro, dichiarò di non riconoscere la legittimità del Trattato di Rapallo.
A Zara si costituì immediatamente un Comitato di Salute Pubblica, con l’espresso mandato di elaborare un piano d’azione per un diretto intervento nella Dalmazia sacrificata, e quindi assicurarla ad ogni costo all’Italia. Mentre a Sebenico si formava la compagnia volontari dalmati “Nicolò Tommaseo”, intanto che nella locale sede del Circolo Italiano di quella della Società Operaia si raccoglievano armi e munizioni per il momento dell’azione.
Con la sua dura presa di posizione Gabriele D’Annunzio diveniva di fatto un personaggio ingombrante e scomodo per tutti. Per la Corona, per i vertici militari, per la maggioranza di governo, per l’opposizione. Per lo stesso Mussolini. Per non parlare degli slavi e degli ex alleati, soprattutto i francesi. E forse non tanto per la sua caparbia tenacia nel rivendicare l’italianità di Fiume e dell’intera Dalmazia, come d’altronde pacificamente riconosciuto da tutti nel patto sottoscritto prima dell’entrata in guerra. Ma per quella sua peculiarità di essere riuscito, unico nella storia (e n� ve ne saranno altri dopo di lui), a portare “l’immaginazione al potere”.
Plasmava per la sua comunità, giorno per giorno, un nuovo stile di vita che seppur moderno e spregiudicato, sapeva di antico. E poi quel suo modo di magnetizzare le masse. Fiume era, come abbiamo già accennato, un crogiuolo di un enorme laboratorio politico, in cui il rosso e il nero, allora appena agli inizi della loro ascesa, si amalgamavano in arditi futuristici progetti di rinascita nazionale e sociale, quali la promulgazione degli Statuti, un disegno costituzionale veramente d’avanguardia per quei tempi. Era un rivoluzionario nel senso più puro della parola. Forse questi i veri reconditi motivi per cui bisognava liberarsi di D’Annunzio una buona volta.
Uno dei pochi ad accorgersi della sua statura di rivoluzionario fu, ironia della sorte, Lenin che da Mosca proclamò “ D’Annunzio, l’unico rivoluzionario che ci sia in Italia”. E Lenin di rivoluzioni se ne intendeva.
Quando nell’ultimo incontro con l’ammiraglio Millo, quest’ultimo lo scongiurò di non intraprendere alcuna azione militare e di recedere dalla sua intransigenza, il poeta-soldato rispose doloroso: “…non fare nulla per la Dalmazia… mi è impossibile. Mancherei all’onore. Si può per lo meno morire…”. E’ assai probabile che in quel momento D’Annunzio, amareggiato, fosse veramente deciso a chiudere in bellezza la sua vita straordinaria, con la morte cercata e trovata in un’ultima disperata, ma bella battaglia. Chi conosce le sue innumerevoli e temerarie azioni di guerra, sa benissimo che era uomo da non temere assolutamente la morte e che quindi la risposta all’ammiraglio Millo non era per niente retorica. Ma anche l’animo dell’ammiraglio era turbatissimo, schiacciato tra il dovere e il sentimento, scriverà qualche giorno più tardi al re “…preferirei morire sul campo che vivere queste giornate…”.
I proiettili, sparati dai cannoni della corazzata “Andrea Doria” nel tragico Natale di sangue, che colpirono in pieno il Palazzo del Governo e in particolare la stanza di D’Annunzio, poco mancarono che non esaudissero i desideri del poeta. Gli avrebbero risparmiato di sopravvivere a se stesso per altri 18 lunghi crudeli anni. Invece solo alcune ferite da schegge. Fu l’unica beffa del destino nei confronti di un uomo, cui per lungo tempo era stato assai largo di favori.
A dicembre il giro di vite finale. Il governo italiano decise di far rispettare il Trattato di Rapallo a qualunque costo, anche se questo comportava lo spargimento di sangue fraterno, come in effetti accadrà. Il 2 dicembre 1920, a Zara, una folla che cercava di impedire la partenza di una nave di soldati italiani congedanti, che in larghissima maggioranza simpatizzavano con gli irredentisti, veniva brutalmente caricata dai carabinieri.
Numerosi e gravi i feriti, soprattutto tra le donne. Nei giorni successivi, sempre a Zara, fu sciolto con la forza il Comitato di Salute Pubblica, il quale però continuerà ad operare nella clandestinità. Fu pure ordinato lo scioglimento e il disarmo di tutte le formazioni legionarie che erano in città. La repressione fu durissima. Tanti però si rifiutarono e si rifugiarono nelle loro caserme. Cominciò così un braccio di ferro tra le autorità italiane, che minacciavano di ricorrere all’uso delle armi, e quei volontari, in gran parte giovanissimi, che non ne volevano sapere di arrendersi.
Il 15 dicembre D’Annunzio inviò in segreto il capitano Caliceti a Zara, con l’incarico di assumere il comando di quel che restava di quella forza legionaria e riorganizzarla. Il 21 dicembre, alla vigilia dell’attacco a Fiume, il comando legionario di questa città ordinò a tutti i volontari dalmati di lasciare Fiume, raggiungere Zara e combattere così per la propria terra. Il reparto, forte di circa un centinaio di uomini comandati dal capitano Calavalle, s’imbarcò sulla torpediniera PN 68, che navigando sotto costa eluse il blocco navale italiano. Questi volontari furono sbarcati a Castel Venier, distante una trentina di chilometri da Zara. Solo la perfetta conoscenza dei luoghi, permise di forzare il rigido blocco delle truppe governative, tant’è che il grosso la sera del 22 era già nella caserma Rismondo. Si lamentava però la perdita del capitano Aurelio e del suo gruppo, i quali erano stati catturati e portati nelle carceri di Sebenico. Con l’arrivo di questi rinforzi si costituì, agli ordini del capitano Caliceti, la “Legione di Zara”, composta dal battaglione “Carnaro” (legionari fiumani) comandato dal tenente Del Zoppo, dal battaglione “Rismondo” (volontari zaratini) del tenente Tonacci, e dal battaglione “Sebenico” (volontari dalmati) al comando del capitano Calavalle. In vista di un prevedibile attacco, si cominciò ad organizzare la difesa, scavando un camminamento sotterraneo tra la caserma “Rismondo” e quella del “Carnaro”, in modo di evitare lo spostamento degli uomini allo scoperto.
Purtroppo le due caserme si trovavano in una posizione infelice, in quanto erano dominate dall’alto dall’imponente mole della caserma “Vittorio Veneto”, in mano alle forze regolari e che l’avevano trasformata in un vero fortilizio, irto di nidi di mitragliatrici. Dalla “Vittorio Veneto” si potevano guardare la “Carnaro” e la “Rismondo” “come in un cortile interno di una casa”, come scrisse con felice espressione un legionario. Dunque una difesa decente era praticamente impossibile, malgrado ciò il 25 dicembre i legionari respinsero l’ultimatum di resa.
Intanto a Sebenico, il tenente Lunardi con un gruppo di coraggiosi volontari irruppe, armi alla mano, nel locale carcere e liberò il capitano Aurelio e i legionari, precedentemente catturati. Sempre a Sebenico, non ebbe invece successo il tentativo di sette marinai di impadronirsi di un cacciatorpediniere all’ancora nel porto. L’insuccesso costrinse i sette a disertare e a nascondersi poi nel Circolo Italiano.
La mattina del giorno di Natale, giunsero a Zara notizie del violento bombardamento da parte della flotta italiana contro Fiume. In quella città, già da qualche giorno, si contavano le prime vittime legionarie per mano di altri italiani. Ora toccava a Zara, anche perch� i volontari, asserragliati nelle caserme, avevano sdegnosamente ignorato l’invito alla resa. Si cercò quindi di prendere tempo, cercando di intavolare delle trattative, in quanto il Comitato clandestino di Salute Pubblica aveva elaborato un suo piano. Semplice e audace ad un tempo, il piano consisteva nell’impadronirsi dell’esploratore “Marsala”, alla fonda nel canale di Zara. Complici alcuni sottocapi devoti alla causa dalmata: Maina, Rangone, Boni e Riccio.
Poi, con la minaccia dei cannoni della nave catturata, obbligare i regolari italiani a lasciare libero passo ai legionari delle due caserme, imbarcare quest’ultimi e infine dirigere a tutta forza su Sebenico. Qui sbarcare e dar man forte a quei pochi coraggiosi, che si preparavano a contrastare con le armi l’entrata in città degli slavi. Si sarebbe così creato un nuovo centro legionario di resistenza, com’era nella strategia indicata da D’Annunzio.
La prima parte del piano si svolse senza intoppi. La notte tra il 25 e il 26, trenta legionari, guidati dal capitano Calavalle e dal tenente Grossi, riuscirono effettivamente ad impadronirsi del “Marsala”. Ma i cannoni erano inservibili, per mancanza di otturatori, e le macchine, per difficoltà tecniche, non poterono essere messe in pressione. Nel frattempo era scattato l’allarme, e subito i caccia “Alfieri” e “Missori” si affiancarono minacciosi al “Marsala”. A questo punto la resa diventò inevitabile.
A Zara la mattina del 26 dicembre i legionari delle due caserme accerchiate, vista la mancanza dei segnali convenuti, capirono che il piano era fallito e si prepararono a contrastare con le armi l’inevitabile attacco.
Anche a Zara dunque, come a Fiume, si sarebbe sparso sangue fraterno. E l’ingrato terribile compito, anche qui, sarebbe toccato per la maggior parte ai reparti di alpini. Cominciò così un intenso fuoco di mitragliatrici e di fucileria, rotto ogni tanto dal cupo rumore delle bombe a mano. Dopo parecchie ore di combattimento, viste le dolorose perdite e al fine di salvaguardare la vita dei più giovani tra i volontari, il comando della Legione di Zara ordinò la resa.
Erano le ore 15 e 30 del 26 dicembre 1920. Tra i feriti gravi, si notò un legionario sedicenne con una gamba spappolata da una raffica di mitragliatrice. Quel legionario si chiamava Riccardo Vucassovich ed era uno studente italiano di Spalato. Si era arruolato l’anno prima, ad appena quindici anni, forse mentendo sull’età. Dopo aver subito con stoica fermezza l’amputazione della gamba, morirà dopo diciotto giorni di atroce agonia.
Zara la Santa, come amava chiamarla D’Annunzio, aveva in Riccardo Vucassovich il suo purissimo eroe.
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