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20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
ANNI 672 - 641 a.C
ROMA ORIGINI
(secondo gli scrittori antichi)
REGNO DI TULLO OSTILIO
( Latino - 72 - 104 Anno di Roma - 672-641 a.C. )
(da Tito Livio, Istorie)
Morto Numa, si ebbe un interregno. Indi Tullo Ostilio, nipote di Ostilio, che aveva gloriosamente combattuto contro i Sabini a piè della rocca, fu eletto re dal popolo, e confermato dai Padri. Questi fu non solo dissimile dall'ultimo re, ma fiero più di Romolo stesso: l'età, le forze a un tempo e la gloria dell'avo lo stimolavano. Ora, parendogli che il popolo nell'ozio imbecilisse, cercava in ogni parte un pretesto di muover guerra. Avvenne per caso che alcuni contadini romani depredassero le terre degli Albani e questi a vicenda quelle dei Romani. Signoreggiava allora in Alba GAIO CLUILIO. L'una parte e l'altra quasi nello stesso tempo mandò legati a chiedere soddisfazione. Tullo aveva ordinato ai suoi che s'affrettassero a fare prima degli altri l'ambasciata: era ben sicuro che l'Albano avrebbe negato soddisfazione, per modo che senza scrupolo si sarebbe potuto intimargli la guerra.
(E così avvenne).
Già da ambo le parti si allestiva la guerra con ogni sforzo, simigliantissima a guerra civile, quasi tra padri e figliuoli, poichè tutti erano Troiani di razza.
Gli Albani furono i primi ad assaltare con un grosso esercito il territorio di Roma, piantando campo non più di cinque miglia lontano dalla città. In seguito Mezio Fufezio, dittatore degli Albani, propose a Tullo Ostilio di cercare qualche ispediente per cui, senza grandi stragi, senza tanto sangue dei due popoli, si potesse decidere quale delle due città dovesse all'altra comandare. Non dispiacque a Tullo la proposta, quantunque, e per indole e per lusinga di vincere, ei fosse più fiero; sicchè, gli uni e gli altri cercando, trovarono un partito cui la fortuna stessa offrì occasione.
V'erano allora per avventura in ciascuno dei due eserciti tre fratelli pari anche di età e di forze. Non c'è dubbio che si chiamassero Orazi e Curiazi, e non vi è forse avvenimento fra gli antichi più celebre. Pure in tanta evidenza di fatto resta l'incertezza rispetto ai nomi, cioè a qual popolo appartenessero gli Orazi, a quale i Curiazi. Gli scrittori sono divisi fra l'una e l'altra opinione; vedo tuttavia che i più dicono romani gli Orazi, e ad attenersi a questi s'inchina il mio pensiero.
Trattano i re coi fratelli trigemini, perchè voglia ciascuno combattere con l'armi per la sua patria: ivi sarà, la signoria, dove sarà la vittoria. Nessuno ricusa: si conviene del tempo e del luogo. Prima del combattimento fu stretto accordo fra i Romani e gli Albani con questo patto, che quel popolo, i cui cittadini fossero stati vincitori nella tenzone, avrebbe avuto sovranità sull'altro senza contrasto.
Stretto l'accordo, i sei fratelli, giusta il convenuto, impugnan l'armi. E, mentre ciascun esercito conforta i suoi, ricordando loro che i patri numi, la patria, i genitori e quanti sono cittadini a casa, quanti al campo, tutti in quel punto han volto lo sguardo all'armi loro, alle lor destre, essi, già fieri per indole, e inanimiti dalle voci incoratrici, si fanno innanzi nel bel mezzo, fra le due schiere. Gli eserciti s'eran dall'una parte e dall'altra fermati davanti gli alloggiamenti, fuori di personale pericolo, ma non di affanno, perciocchè si trattava della signoria affidata al valore e alla fortuna di così pochi.
Or dunque, intenti e in grande aspettazione, accesi, aveano gli animi al non piacevole spettacolo. Si dà il segnale, ed i sei giovani, recando in petto l'ardire di grandi eserciti, come due schiere, s'affrontano con l'armi brandite; nè a questi o a quelli s'affaccia, in mente il proprio rischio, ma la supremazia o la servitù e la condizione della patria, che tal sarebbe quale essi l'avrebbero fatta.
Come, al primo urto, subito risonaron l'armi e i ferri guizzanti lampeggiarono, alto orrore compresero gli spettatori e, non piegando nè di qua nè di là la speranza, non facevano motto, non fiatavano. Poichè vennero alle prese, e già son solo il destreggiare dei corpi e il dubbio agitarsi delle spade e degli scudi, ma le piaghe ancora e il sangue offrironsi alla vista, due dei Romani, (erano gli Albani tutti e tre feriti), caddero spirando l'un sovra l'altro. Alla loro caduta levò un grido di gioia l'esercito d'Alba; avevano ogni speranza ornai perduta le legioni di Roma, ma non ancora l'ansietà, disanimate essendo dal pericolo di quello che i tre Curiazi (Albani) avevano attorniato. Egli era per sorte affatto illeso; e, se da solo non bastava contro tutti, contro ciascuno ardito era gagliardo. Or dunque, per dividerli nel conbattimento, prese la fuga, ben prevedendo che i Curiazi l'avrebbero inseguito come ad ognuno le membra inferme per le ferite avrebber concesso.
Già s'era scostato alquanto dal luogo ove si era combattuto, quando, voltatosi a guardare, vide che i Curiati lo inseguivano a grandi intervalli, e che un di essi non era da lui lontano. Contro questo si volse con grande impeto, e intanto che l'esercito albano gridava ai Curiazi che soccorressero il fratello, già Orazio vincitore, uccise il nemico, e veniva al secondo scontro. Allora i Romani con grida, quali esser sogliono di chi applaude a cosa che più non sperava, incoraggiano il loro campione, ed egli si affretta di por fine alla sfida. Prima pertanto che il terzo, il quale non era molto discosto, potesse sopravvenire, finisce anche il secondo Curiazio. E già, pareggiata la battaglia, n'era rimasto uno per parte, ma di fiducia non pari nè pari di forze.
L'uno il corpo non tocco dall'armi e la dupplice vittoria portavano baldo al terzo cimento; l'altro, strascinando il corpo rifinito dalle ferite, rifinito dal corso, già vinto per la strage dei due fratelli uccisigli sotto gli occhi, cade in mano ad un nemico trionfante.
Nè questa veramente fu zuffa., Il Romano imbaldanzito: " Due, disse, ne immolai all'ombre dei miei fratelli; immolerò il terzo all'oggetto di questa guerra, perchè Roma comandi ad Alba. Ed al Curiazio, che a stento reggeva l'armi, immerse profondamente il ferro nella gola e, caduto, lo spogliò. I Romani acclamanti e festosi accolgono Orazio, con gioia tanto più grande, quanto la cosa aveva dato a temere. Indi si volsero a seppellire ciascuna parte i suoi, ma con animo ben diverso; chè gli uni eran cresciuti in signoria, gli altri fatti loro soggetti. Sussistono ancora i sepolcri nel sito dove cadde ciascuno; i due Romani nello stesso luogo verso Alba, i tre Albani verso Roma, l'uno però dall'altro distante, proprio come si combattè.
Andava Orazio innanzi a tutti, portandosi le spoglie dei tre gemelli. Gli si fece incontro, fuor della porta Capena, la sorella nubile e promessa ad un dei Curiati; la quale, riconosciutone sugli omeri del fratello il paludamento che ella stessa aveva lavorato, si disciolse il crine, e, lagrimando, chiamò per nome il morto sposo. Tanto irritarono il fiero animo del giovane i lamenti della sorella in mezzo alla sua vittoria e a tanta pubblica gioia, che, snudato il ferro, rampognandola, trapassò da parte a parte la fanciulla. "Vanne, diss'egli, allo sposo con cotesto amor tuo intempestivo, dimentica dei fratelli morti e del vivo, dimentica della patria! Così perisca ogni romana che rimpiangerà un nemico!"
Parve atroce il delitto ai Padri e alla plebe, ma con la colpa contrastava il merito recente. L'Orazio fu tuttavia tratto in giudizio dinanzi al re. Tullo, per non prendere sopra di sè una sentenza così trista, ed odiosa al volgo, nè la condanna conforme alla sentenza, radunato il popolo: "Nòmino, disse, secondo la legge, i duumviri che imputino Orazio di parricidio".
I duumviri condannarono Orazio, e un d'essi pronunziò: "Publio Orazio, io t'imputo di parricidio. Va', o littore, e legagli le mani". E s'appressò il littore per mettergli le ritorte; ma Orazio con licenza di Tullo, clemente interprete della legge: "Mi appello disse, e fu portata la causa in appello innanzi al popolo.
Mosse sopratutto gli animi in quel giudizio Publio Orazio padre, che altamente affermava essere stata a buon diritto uccisa la figlia; se ciò non fosse, egli, valendosi della patria potestà, avrebbe punito il figliuolo. Indi scongiurava che non volessero privarlo affatto dei figli, lui, che poco innanzi avea veduto superbo di bella prole; e in così dire il vecchio, abbracciando il figliuolo, e mostrando le spoglie dei Curiazi là nel sito appese, che ora si chiamano Trofei di Orazio: "Questi dunque, aggiunse, o Quiriti, il quale poco fa veduto avete passare adorno e glorioso della vittoria, ora veder potreste legato sotto la forca, fra le battiture ed i tormenti, spettacolo orrendo, che appena gli occhi degli Albani potrebbero sostenere? Va', o littore, lega quelle mani che poc'anzi, armate, conquistaron la signoria al popolo romano; va', copri il capo al liberatore di questa città; l'appendi ad albero sterile, battilo dentro delle mura, purchè sia fra quell'aste che reggono le spoglie nemiche; o fuor delle mura, purchè sia fra i sepolcri dei Curiazi. In qual luogo ornai potete trar questo giovane, dove le sue glorie non lo salvino dall'onta di un tal supplizio? ". Non resse il popolo nè alle lagrime del padre, nè all'intrepidezza del figlio, sempre eguale ad ogni cimento, e lo assolse, più per ammirazione del suo coraggio, che per giustizia della sua causa.
(Avendo Mezio col suo esercito albano disertato il posto assegnatogli in una battaglia contro quelli di Fidene e di Veio, il re Tullo Ostilio lo condannò ad atroce morte, decretò la distruzione di Alba ed ordinò di trasportare in Roma il popolo albano, il quale vi avrebbe goduto di diritti pari a quelli dei cittadini romani).
Frattanto s'erano già mandati ad Alba i cavalieri che ne trasportassero a Roma gli abitanti: poi vi si condussero le legioni a smantellar la città. Appena furon essi dentro dalle porte, non vi fu nè quel tumulto, nè quel terrore, quale esser suole alla presa di una città, quando, infrante le porte, o atterrate dagli arieti le mura, o avuta d'assalto la rocca, si levano le grida dei nemici e gli armati scorrazzanti per la città mettono tutto a ferro e a fuoco; ma tristo silenzio e tacita mestizia costernò in guisa gli animi tutti, che, dimenticando in quello smarrimento ciò che aveano da lasciare o portar seco, non sapendo che si fare, interrogandosi l'un l'altro, or s'arrestavano sulle soglie, or andavano errando per le lor case, per dare a quei luoghi l'ultimo addio.
Ma, poichè la cavalleria stava, gridando di uscire, e già s'udiva dall'estreme parti della città il fragore degli edifizi che diroccavansi, e il polverio, sollevatosi da luoghi distanti, stendendosi a guisa di nube, avea già tutto ricoperto, ciascuno si pigliò in fretta ciò che poteva, e se ne uscì lasciando i Penati, i focolari e le case ov'era nato, ov'era stato cresciuto; e già gli esulanti avevano in fitta schiera ripiene le strade. E il vedersi l'un l'altro destava vicendevole compassione e rinnovava il pianto. E si udiano anche voci lamentevoli, di donne specialmente, nel passar che faceano dinanzi ai santi templi assediati da uomini armati, quasi abbandonassero prigionieri i loro Numi. Usciti gli Albani dalla città, i Romani spianarono a mano a mano tutti i pubblici e i privati edifizi; e in brevissima ora fu ridotto a un mucchio di rovine il lavoro di quattrocent'anni che Alba era durata. Si risparmiarono per altro (poichè tale era stato l'ordine del re) i templi degli Dei.
Dicesi che Tullo Ostilio, riandando i commentari di Numa, vi scoprisse certi occulti e solenni sacrifizi da farsi a Giove Elicio, e che nascostosi per praticarli, avendoli senza facoltà impresi e non bene eseguiti, non solo non se gli offrisse visione alcuna celeste, ma che, corrucciato Giove di essere invocato con cerimonie non rituali, lo colpisse di fulmine ed egli con tutta la reggia divampasse. Tullo regnò trentadue anni, con grande riputazione di guerriero.
(Da Tito Livio, Istorie, I, Trad. L.Mabil-T.Gironi - Ed. Paravia)
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Fonti:
ERODOTO, STORIE
STRABONE, STORIA ROMANA
TITO LIVIO, ISTORIE
CASSIO DIONE - STORIA ROMANA
+ BIBLIOTECA DELL'AUTORE
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