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( QUI TUTTI I RIASSUNTI ) RIASSUNTO ANNI  1740 - 1748

GUERRA SUCCESSIONE AUSTRIACA e L'ITALIA

MORTE DELL'IMPERATORE CARLO VI - MARIA TERESA GLI SUCCEDE AL TRONO - PRETENDENTI ALLA MONARCHIA ABSBURGHESE - LEGA CONTRO L'AUSTRIA - CARLO EMANUELE III TRATTA PRIMA CON LA SPAGNA E LA FRANCIA POI CON L'AUSTRIA - CONVENZIONE MILITARE TRA IL RE DI SARDEGNA E MARIA TERESA - PRIME OPERAZIONI DI GUERRA - DON FILIPPO DI BORBONE OCCUPA LA SAVOIA -BATTAGLIA DI CAMPOSANTO - TRATTATO DI WORMS - SECONDO PATTO DI FAMIGLIA - BATTAGLIA DI VELLETRI - PROGRESSI DEI FRANCO-ISPANI - ASSEDIO DI CUNEO - BATTAGLIA DELLA MADONNA DELL'OLMO - TRATTATO DI ARANJUES - ASSEDIO E CADUTA DI TORTONA - BATTAGLIA DI BASSIGNANA - CADUTA DI ALESSANDRIA E VALENZA - CARLO EMANUELE III ALLA RISCOSSA - BATTAGLIA DI PIACENZA - MORTE DI FILIPPO V -_ GLI AUSTRIACI A GENOVA - RIVOLTA DI GENOVA - BALILLA - ASSEDIO DI GENOVA - BATTAGLIA DELL'ASSIETTA - PACE DI AQUISGRANA

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DALLA MORTE DI CARLO VI
ALLA BATTAGLIA DELLA MADONNA DELL'OLMO

Il 20 ottobre del 1740 moriva 1' imperatore CARLO VI e secondo quanto egli aveva deciso nella Prammatica sanzione, doveva succedergli la figlia MARIA TERESA, la quale, difatti, salì sul trono paterno, sicura che l'ordine di successione stabilito dall'imperatore sarebbe stato rispettato dalle potenze europee. Di queste, solo il re di Sardegna si era rifiutato di riconoscere la Prammatica sanzione, volendo con ciò egli rivendicare a sé il diritto sul Milanese in forza della sua discendenza da Caterina, figlia di Filippo II, e dell'ordine di successione determinato nel 15549 da Carlo V.

Sebbene le altre nazioni avessero riconosciuto la Prammatica sanzione, parecchi erano i principi che avanzavano pretese sull'eredità austriaca. Primo fra tutti CARLO ALBERTO, elettore di Baviera, che discendeva dalla figlia maggiore di Ferdinando I; poi FEDERICO AUGUSTO III, elettore di Sassonia, genero dell' imperatore Giuseppe I; terzo FILIPPO V di Spagna che discendeva in linea femminile da Massimiliano II; e da ultimo FEDERICO II di Prussia, che vantava diritti sulla Slesia.

Il primo a muoversi fu Federico II, il quale, alla testa di un fortissimo esercito, senza aver fatto alcuna dichiarazione di guerra, prima occupò la Slesia, poi chiese alla corte di Vienna che gli fosse ceduta quella provincia offrendosi in compenso di difendere l'Austria dagli altri pretendenti. Maria Teresa infuriata però gli rispose che non avrebbe trattato con lui se prima non avesse sgombrato dal territorio invaso e poiché Federico continuò ad avanzare, gli mandò contro un esercito che l' 8 aprile del 1741, ingaggiata a Molwitz battaglia con i Prussiani, quello austriaco fu pienamente sconfitto.
Le condizioni di Maria Teresa (giovane, debole e sola contro tutti gli avvoltoi) furono aggravate dall'atteggiamento della Francia, la quale il 18 maggio del 1741 stipulò con la Spagna, la Prussia, la Sassonia, la Baviera e la Svezia un'alleanza contro Maria Teresa, e mandò un esercito oltre il Reno, il quale unitosi con le forze bavaresi e sassone in breve occupò l'Austria superiore e la Boemia.

Assalita da tanti nemici, Maria Teresa non si perdette d'animo e, trovandosi con poche forze, chiese l'aiuto agli Ungheresi, ai quali promise tutte le libertà che le domandavano. Gli Ungheresi, allettati dalle promesse e ammirati dalla fermezza di quella donna, si levarono in armi, cacciarono dall'Austria i Franco-bavaresi e penetrarono nella Baviera occupandone la capitale Monaco, senza però riuscire ad impedire che Praga cadesse in mano dei nemici e CARLO ALBERTO DI BAVIERA fosse incoronato re di Boemia (19 dicembre 1741) e più tardi (14 febbraio 1742) nuovamente coronato a Francoforte sul Meno come imperatore del S.R.I.con il nome di CARLO VII.
Nella Slesia però Federico II continuava ad avere il sopravvento sugli Austriaci e ciò fece decidere Maria Teresa ad accettare la mediazione dell' Inghilterra e a concludere con il re di Prussia il trattato di Kleinschnellendorf col quale gli cedeva (con tanta amarezza) la bassa Slesia.

IL COINVOLGIMENTO DELL'ITALIA

La guerra per la successione d'Austria coinvolse e si estese anche all'Italia. Fin dal 1741 FILIPPO V aveva proposto alla corte di Torino una lega offensiva e difensiva con lo scopo di strappare all'Austria il Milanese e i ducati di Mantova, Parma e Piacenza, che sarebbero stati divisi tra Carlo Emanuele III e don Filippo di Borbone.
Il re di Sardegna, che voleva temporeggiare per schierarsi a favore del più forte, da un canto mise come condizione al re di Spagna che nella lega entrasse anche la Francia e a questa propose che a lui fosse ceduto il Milanese, e a don Filippo Mantova, Cremona, Parma e Piacenza; dall'altro canto in segreto entrò in trattative con Maria Teresa, chiedendo che gli fossero date alcune province della Lombardia e che entrassero nella lega, oltre l'Austria e la Sardegna, l'Inghilterra, la Russia e l'Olanda.

Mentre duravano queste trattative, si seppe che un esercito Spagnolo, comandato dal Montemar, per Bologna e Modena si preparava a marciare verso la Lombardia e che il duca di Modena si era segretamente alleato con la Spagna. Allora Carlo Emanuele III, il quale non voleva vedere invasa una provincia su cui vantava diritti, ruppe gli indugi e sottoscrisse (1 febbraio 1742) una convenzione militare con l'Austria, nella quale si convenne che gli Austriaci avrebbero impiegato le loro forze per impedire agli Spagnoli di entrar nel Modenese e l'esercito sardo avrebbe difeso i territori di Pavia, Piacenza e Parma. L'Inghilterra approvò la convenzione e sborsò a Carlo Emanuele un sussidio di duecentomila sterline.

A questo punto anche in Italia cominciarono le ostilità. Il re di Sardegna occupò improvvisamente la città di Reggio, quindi si spinse verso il Panaro per dar battaglia agli Spagnoli che si avvicinavano a quel fiume. Ma la battaglia mancò, dato che il Montemar si ritirò prima a Castelfranco e poi a Bondeno e, verso la fine di giugno, il re Carlo riuscì ad occupare Modena e un mese dopo circa anche Mirandola, mentre il nemico si ritirava precipitosamente a Rimini da dove poi più tardi si muoveva verso Foligno.
Nel medesimo tempo l'ammiraglio Mathews, che comandava la flotta inglese del Mediterraneo, entrava con otto navi nel golfo di Napoli e intimava, sotto la minaccia di bombardamento, a re Carlo III di richiamare dall'esercito del Montemar le truppe napoletane che vi erano state inviate con a capo il duca di Castropignano. Il re, non disponendo di forze con cui resistere agli Inglesi, dovette cedere alle richieste del Mathews e ordinare al suo generale di rientrare nel regno.

Come in Italia così anche oltre le Alpi la guerra volgeva favorevole a Maria Teresa. Col trattato di Berlino cessavano le ostilità da parte di Federico II di Prussia e dell'Elettore di Sassonia; la Baviera era stata invasa e Carlo VII era costretto a rifugiarsi a Francoforte; i Francesi, rimasti soli, erano obbligati ad abbandonare la Germania e a ritirarsi sulla sinistra del Reno. Nelle condizioni in cui si trovavano i Franco-Ispani era naturale che si adoperassero in tutti i modi per tirare nella loro alleanza Carlo Emanuele III, il quale aveva concluso, è vero, come si è detto, una convenzione militare con l'Austria, ma - si era espressamente riservato il diritto di denunciare la convenzione e di far lega con quella potenza che gli proponesse patti migliori.

Il ministro francese Fleury riannodò le trattative con il re di Sardegna, ma riuscirono infruttuose. Allora la regina Elisabetta di Spagna, irritatissima, ordinò all'infante don Filippo di mettersi alla testa di un esercito che era stato raccolto in Provenza e d'invadere lo stato di Carlo Emanuele.

Don Filippo entrò nella Savoia, che si trovava incustodita, e in poco tempo la ridusse tutta in suo potere, ad eccezione del castello di Miolaus; il re di Sardegna, che in quel momento era accampato a Cesena, alla notizia che i suoi stati erano stati invasi dal nemico, accorse con un esercito nella Savoia e riuscì a ricacciare le truppe di don Filippo, ma queste ritornarono ad occupare la Savoia, e il re, molestato dalla stagione piovosa e con l'esercito travagliato da malattie, dovette ritirarsi.
Intanto al Montemar era stato tolto il comando dell'esercito Spagnolo che operava in Italia. Il generale Gages, suo successore, s'era spinto a Camposanto sul Panaro, tra Modena e Mirandola, dove gli Austro-Sardi erano andati a fronteggiarlo. Sollecitato da Madrid, il generale Spagnolo l' 8 febbraio del 1743 attaccò il nemico, ma ebbe la peggio e fu costretto a ritirarsi verso Bologna.

Malgrado la vittoria di Camposanto, la posizione di Carlo Emanuele cominciava a diventare pericolosa con don Filippo insediato nella Savoia e minacciante il Piemonte. Il re di Sardegna era animato dal proposito di continuare energicamente la guerra a fianco dell'Austria, ma voleva anche che si precisassero le condizioni. Fece pertanto sapere a Maria Teresa che intendeva che gli fossero dati il marchesato del Finale, il Vigevanasco, il contado d'Anghiera e tutto il Pavese al di qua e al di là del Po, compresi Bobbio e il Piacentino fino alla Trebbia.

Maria Teresa, consigliata dall'Inghilterra, si piegò agli accordi e il 13 settembre del 1743 a WORMS tra lei e il re sardo fu sottoscritto un trattato d'alleanza offensiva e difensiva. Carlo Emanuele III rinunciava ai suoi diritti sul Milanese e riconosceva la Prammatica sanzione; in cambio riceveva il Vigevanasco, una parte del Pavese, compresa Bobbio, il contado d'Anghiera, Piacenza e il suo territorio posto tra il Pavese e la Nure, e i diritti austriaci sul marchesato del Finale.
Dell'esercito collegato, composto di trentamila austriaci e di quarantamila fanti e cinquemila cavalli piemontesi, avrebbe avuto il comando supremo il re di Sardegna, al quale doveva esser dato per tutta la durata della guerra un sussidio annuo di duecentomila sterline dall'Inghilterra, e una flotta di appoggio che avrebbe operato nel Mediterraneo in accordo con le forze austro-sarde.

Nel trattato era inoltre stabilito che gli alleati avrebbero tentato anche di cacciare gli Spagnoli dalle altre parti d'Italia: se l'impresa fosse riuscita, il regno di Napoli e lo Stato dei Presidii sarebbero stati di Maria Teresa, mentre la Sicilia di Carlo Emanuele III. Se si fossero conquistati dei territori in Francia essi sarebbero stati dati al re di Sardegna.

Appena si ebbe notizia del trattato di Worms, tra la Francia e la Spagna a Fontainebleau il 25 ottobre del 1724 fu stipulata una nuova alleanza detta secondo patto di famiglia. I punti che riguardavano l'Italia esano i seguenti: Luigi XV si impegnava a dichiarare guerra a Carlo Emanuele III e a rinforzare l'esercito di don Filippo con un considerevole contingente di truppe e garantiva i regni di Napoli e Sicilia a Carlo III di Borbone e ai suoi credi; Filippo V cedeva i suoi diritti sul Milanese a don Filippo, il quale dopo la morte della regina Elisabetta, lo avrebbe riunito al ducato di Parma e Piacenza; inoltre si obbligava di fare restituire alla Francia i paesi ch'essa aveva ceduti al Piemonte col trattato di Utrecht.

Intanto da Madrid si era preparato l'esercito franco-ispano comandato da don Filippo per invadere il Piemonte. Si scelsero due vie d'invasione: per quella del Colle dell'Agnello si misero gli Spagnoli, i Francesi per quella del Colle di S. Verrano. A sbarrare il passo al nemico corse Carlo Emanuele III, che richiamate le sue truppe dall' Emilia, andò a prender posizione a Castel Delfino. Gli Spagnoli, vista chiusa la via, attaccarono le trincee di Bellino, ma incontrarono tale resistenza e subirono tali perdite che furono costretti a ritirarsi precipitosamente.

Nel 1744 le operazioni di guerra furono riprese con maggior vigore. Il principe di Lobkowitz, che aveva sostituito il maresciallo Traun nel comando delle forze austriache d' Italia, nella primavera di quell'anno iniziò la marcia verso il mezzogiorno con il proposito di conquistare il regno di Napoli e dopo aver tentata la via degli Abruzzi seguì quella di Valmontone e Ceprano. Ma a Velletri stava ad aspettarlo un forte esercito nemico, composto dagli Spagnoli del Gages e dalle milizie che in gran numero Carlo di Borbone aveva raccolto nel Napoletano.

I due opposti eserciti rimasero a guardarsi per parecchio tempo: il 10 agosto il Lobkowitz tentò d'impadronirsi di Velletri e far prigioniero Carlo, attaccando di sorpresa l'ala destra avversaria. Questa, colta alla sprovvista, venne scompigliata e a stento il re riuscì a salvarsi con la fuga. La battaglia sarebbe terminata con la vittoria degli Austriaci se questi, credendo di aver vinto, non si fossero dati al saccheggio. Approfittò della situazione il Gages, il quale, riordinati gli Spagnoli e i Napoletani, piombò sul nemico e dopo un aspro combattimento lo sconfisse. Il Lobkowitz, che aveva subito gravi perdite, fu costretto a rinunciare alla conquista del regno di Napoli; il primo di novembre si ritirò a Pontemolle, quindi, per Viterbo e Perugia, condusse l'esercito nei quartieri d'inverno di Rimini, Pesaro, Cesena, Forlì ed Urbino.

Mentre falliva il disegno del Lobkowitz, più aspra si svolgeva la guerra al nord. Le ostilità erano cominciate nella contea di Nizza. I Franco-Ispani, comandati da don Filippo- di Borbone e dal principe di Conti, dopo di avere occupato il passo della Turbia, abbandonato dai Piemontesi, assalirono di notte il campo trincerato di Montalbano, dove aveva posto il quartiere generale il marchese di Susa, e riuscirono ad espugnare le prime trincee, dalle quali però vennero respinti con gravissime perdite da rinforzi piemontesi subito sopraggiunti. Ma le truppe di Carlo Emanuele III erano state anch'esse provate dalla battaglia; decisero pertanto di abbandonare la contea di Nizza e, imbarcatisi sulle navi inglesi che incrociavano nelle acque nizzarde, si trasferirono ad Oneglia.

Padroni delle contea di Nizza, i Franco-Ispani, cui era stato ordinato di passare nel Piemonte, si avviarono per la valle della Duranza verso Barcellonetta e Guillestre, facendo mostra nello stesso tempo, per ingannare il nemico, di voler penetrare nelle valli della Dora Riparia, del Chisone, della Vraita e della Maira. Carlo Emanuele III, non sapendo su qual punto i nemici avrebbero fatto il maggiore sforzo, fu costretto a frazionare le sue truppe da Susa a Borgo S. Dalmazzo. A Susa fu mandato con cinquemila uomini il barone di Leutrum; le valli del Po e della Vraita furono munite di forti trinceramenti e di ridotte; vennero fortificati Bellino, Bondomir e il Colle d' Elva e a guardia di questo tratto della fronte fu messo il marchese di Aig con sedici battaglioni di fanti ed ottocento dragoni, mentre il marchese Pallavicino prendeva posizione presso il forte di Demonte con otto battaglioni.

Il 15 luglio i Franco-Ispani, in numero di quattordici battaglioni, comparvero all'ingresso di Val di Maira; il giorno 16 altri dodici battaglioni occuparono Bondomir; due giorni dopo diciotto battaglioni attaccarono Monte Cavallo, difeso da mille e duecento piemontesi, e dopo furioso combattimento se ne impadronirono; miglior successo conseguì di lì a poco il principe Conti attaccando con due colonne i trinceramenti delle Barricate che difendevano la valle della Stura e respingendo il marchese Pallavicino, il quale era costretto a riparare a Demonte. Questi progressi dei nemici costrinsero Carlo Emanuele III, che si trovava a Sampyre, a fare ripiegare le sue forze a S. Damiano e a concentrare la sua cavalleria nella pianura di Saluzzo.

Il 22 luglio i Franco-Ispani si avviarono a Demonte. Il Pallavicino, lasciati a presidio di quel forte un migliaio di soldati, fece saltare il ponte sull'Olla e col rimanente delle sue truppe si ritirò in Cuneo. I nemici il 6 agosto occuparono le alture di Demonte, il 9 assediarono la fortezza, che una settimana dopo si arrese, quindi calarono nella valle della Stura e il 9 settembre posero l'assedio a Cuneo.
Aveva il comando della piazza il Lentrum, dirigeva i lavori di difesa l'ingegner Pinto. L'uno e l'altro si mostrarono infaticabili e pieni di entusiasmo e di patriottismo -e con loro gareggiarono i cittadini e le milizie, queste comportandosi con valore nelle frequenti sortite, quelli prestando l'opera nei lavori, sopportando i disagi e le privazioni e sfidando i pericoli del bombardamento. Anche le popolazioni del contado prestarono valido aiuto agli assediati, molestando continuamente il nemico, assalendo i convogli e piombando sui rifornimenti.
Sapendo che caduta Cuneo, il vantaggio del nemico sarebbe stato grande, Carlo Emanuele III si decise a dare battaglia campale ai Franco-Ispani, il cui grosso si trovava fortemente trincerato alla Madonna dell'Olmo. Con un esercito di venticinquemila, uomini il re mosse il 28 settembre su Votignasco, il 29 su Murazzo e il 30 assalì vigorosamente le trincee nemiche.

Grandissimo fu il valore dimostrato dai Piemontesi in quella furiosa battaglia che costò loro la perdita di quattromila soldati, ma i Franco-Ispani si difesero con ugual valore e seppero mantenere le loro posizioni. Tuttavia il sacrificio di tanti uomini non fu inutile, dato che Carlo Emanuele riuscì a far penetrare nella città un rinforzo di mille soldati e molte vettovaglie e munizioni, e il Leutrum, uscito con il presidio di Cuneo, distrusse le trincee nemiche sul Gesso e la Stura.

Dopo la battaglia della Madonna dell'Olmo le operazioni d'assedio si resero molto difficili ai Franco-Ispani: le brecce prodotte dalle loro artiglierie erano state riparate, il presidio rinforzato, ben provvisto di munizioni, pertanto era in grado di resistere a qualunque assalto. Mentre loro, gli assedianti erano decimati dalle malattie e dalle carestie, ostacolati dalla stagione piovosa, molestati dai montanari delle valli e dalla guarnigione. Vedendo i capi che l'ostinarsi attorno a Cuneo poteva essere fatale, il 22 ottobre levarono l'assedio e per la valle della Stura si ritirarono a Demonte, per poi far ritorno in Francia.

DAL TRATTATO DI ARANJUES ALLA PACE DI AQUISGRANA

Nel 1745 le sorti dei Franco-Ispani si rialzarono, avendo la Francia aderito alla lega di Francoforte, stipulata, il 22 maggio di quell'anno tra la Prussia, la Svezia, l'Elettore palatino, il Langravio d'Assia e l'imperatore Carlo VII. l Francesi sconfissero, l' 11 maggio del 1745, gli AngloOlandesi a Fontenoy; Federico II di Prussia sbaragliò gli Austriaci a Hohenfriedberg (4 giugno 1745 ), e i Sassoni a Kesseldorf (15 dicembre 1745) e costrinse Maria Teresa alla pace di Dresda stipulata il 25 dicembre.

Anche in Italia, al cominciare del 1745, la guerra si prevedeva favorevole ai Franco-Ispani, i quali avevano messo in campo forze considerevoli. L'esercito che doveva operare dal nord al comando di don Filippo di Borbone e del maresciallo di Maillebois era forte di trentanovemila fanti e seimilacinquecento cavalli, quello del sud, affidato al duca di Modena che aveva sotto di sé il Gages, disponeva di trentacinquemila fanti e tremilacinquecento cavalli. Entrambi gli eserciti si proponevano di iniziar la campagna separatamente e di congiungersi poi alla Bocchetta per dare il colpo di grazia alla dominazione austriaca in Italia.

Di fronte a forze così considerevoli cui erano da aggiungersi i diecimila soldati e i trentasei cannoni promessi da Genova, che con il trattato di Aranjues aveva aderito all'alleanza franco-ispano-napoletana, scarse erano quelle di Carlo Emanuele III, il quale disponeva di poco più di ventimila uomini, e quelle del Lobkowitz, che, premuto dagli Ispano-Napoletani, dovette abbandonare Imola e ritirarsi a Fossalta.

Ricevuto ordine da Madrid di congiungere nel Genovesato il suo esercito con quello di don Filippo, il quale dalla contea di Nizza doveva entrare nella Liguria, il Gages. con ventimila uomini per la via di Montepellegrino si diresse verso Sarzana, dove giunse il 1° di maggio, e di là si portò a Pontedecirno in Val di Polcevera; mentre il Lobkowitz dal Reggiano e dal Parmigiano andava ad unirsi a Carlo Emanuele III e con l'esercito sardo si schierava lungo la linea che, protetta dal Tanaro, va da Pavone a Bassignana.
Si riunivano intanto gli eserciti di don Filippo, del Maillebois e del Gages, che assommavano a sessantamila uomini, e si avvicinavano alla linea del Tanaro. Tortona, assediata dai Franco-Ispani, dopo fiera resistenza cadde il 3 di settembre; quindi, Franco-Ispani-Napoletani, dietro consiglio del Maillebois, allo scopo di staccare da Carlo Emanuele III gli Austriaci, mandarono dei forti distaccamenti ad occupare Pavia e Piacenza e a minacciare la Lombardia. Il piano riuscì perfettamente: lo Schulemberg, che aveva sostituito il Lobkowitz nel comando delle truppe austriache, credendo che il nemico volesse invadere il Milanese, senza dare ascolto al re di Sardegna lasciò frettolosamente la linea del Tanaro e corse verso la Lombardia. Così Carlo Emanuele III si trovò solo contro l'esercito avversario, ai cui sessantamila uomini non poteva opporre che i suoi ventimila.

Partito lo Schulemberg, i nemici assalirono i Piemontesi a Bassignana. Una battaglia accanitissima si combatté la giornata del 27 settembre del 1745, nella quale le truppe sarde diedero prova di grandissimo valore; ma di fronte al numero sopraffacente del nemico, Carlo Emanuele dovette cedere e si ritirò prima a Valenza, poi a Casale.
I Confederati, invece d'inseguire l'esercito sardo, andarono ad assediare nell'ottobre Alessandria difesa dal marchese Isnardi, il quale, dopo breve resistenza, abbandonò la città al nemico e si chiuse con il presidio nella cittadella. Bloccata questa con alcune schiere, gli alleati con il resto dell'esercito mossero contro Valenza, difesa dal Balbiano2 il quale, dopo vigorosa resistenza, non potendo continuare a tenere testa agli assalitori, inchiodò le artiglierie e si ritirò a Casale. Anche Asti e Casale caddero in potere dei confederati, poi questi si divisero: il Maillebois coi Francesi rimase in Piemonte, il Gages con gli Spagnoli passò in Lombardia, occupandola in parte, ed entrò in Milano, tentando inutilmente di espugnare il castello dove si era chiuso il presidio
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Avvicinandosi l'inverno furono sospese le operazioni di guerra e, durante la tregua imposta dalla stagione, Luigi XV cercò di staccare Carlo Emanuele III dall'Austria promettendogli tutta la Lombardia alla Sinistra del Po e i territori di questo fiume fino alla Scrivia. Il re di Sardegna, che era sdegnato dall'agire dello Schulemberg, da cui era stato abbandonato a Bassignana, e vedeva che la guerra in Germania andava male per gli eserciti di Maria Teresa, stava per accogliere le proposte della Francia quando gli avvenimenti d'oltr'Alpe gli fecero mutar pensiero.
Come si è gia accennato, con la pace di Dresda del 25 dicembre del 1745 l'imperatrice si era liberata dal re di Prussia e poteva spedire in Italia un esercito al comando del generale Browne che aveva l'ordine di riunirsi all'altro esercito austriaco operante nel Piemonte sotto il Lichtenstein successo allo Schulemberg. Il re di Sardegna, saputo dell'arrivo di questo contingente, ruppe le trattative con la Francia e si preparò con rinnovato ottimismo alla nuova campagna.

Il Lichtenstein si trovava nel Novarese, il Browne, giunto in Italia, aveva preso posizione sull' Oglio. Carlo Emanuele III alla testa del suo esercito, il 7 marzo del 1746, si presentò sotto Asti e lo stesso giorno la occupò catturando tutto il presidio nemico. Quattro giorni dopo anche Alessandria era ripresa al nemico. Lieto per questi successi il re di Sardegna mandò il Leutrum ad assediare Valenza, la quale cadde nelle mani dei Piemontesi prima che, in soccorso partito da Novi, giungesse il Maillebois.
Allora i Franco-Ispani concentrarono le loro forze nelle vicinanze di Piacenza e qui il 16 giugno del 1746 sostennero una violentissima battaglia contro gli Austriaci del principe Lichtenstein, dal quale furono completamente sconfitti, lasciando sul campo tra morti e feriti novemila uomini circa, ma riuscendo a ritirarsi a Piacenza.
Nonostante la strepitosa vittoria sul nemico del Lichtenstein, venne rimosso dal comando dell'esercito, che ebbe come successore il generale Botta Adorno di origine genovese.

Fra il nuovo generale e il re di Sardegna non ci fu quella concordia che era necessaria per condurre a termine una guerra così tanto difficile. Il primo voleva che si lasciasse libera al nemico la ritirata verso la Liguria e gli si chiudesse invece il passo della Lombardia; il secondo voleva che, pur coprendo la Lombardia, si impedisse ai nemici la comunicazione con Genova. Dopo lunghe discussioni decisero finalmente di bloccare i Franco-Ispani a Piacenza; ma il Maillebois, accortosi del disegno degli avversari, passò sulla sinistra del Po e si mise a correre sul territorio tra l'Adda e il Lambro, sperando che il Botta - come una volta aveva fatto il Lobkowitz - si sarebbe staccato dai Piemontesi.
Gli Austro-Sardi però non si lasciarono ingannare dal Maillebois, che allora si trasferì in Val Tidone. Nelle vicinanze di Rottofreno il Botta Adorno attaccò il nemico. Fu combattuta un'aspra battaglía che durò undici ore. L'esito fu dubbio perchè se gli Austriaci riuscirono ad occupare il campo avversario i Franco-Ispani poterono compiere la ritirata già da loro stabilita.

Moriva intanto (9 luglio del 1746) FILIPPO V di Spagna e gli succedeva FERDINANDO VI, nato dal primo matrimonio con la figlia di Vittorio Amedeo di Savoia. Con il nuovo re cambiò la politica Spagnola. Fu deciso infatti di cogliere la prima occasione per ritirare dall' Italia l'esercito, al cui comando, in sostituzione del Gages, era stato mandato il marchese di Las Minas.

Chi fece le spese di questo mutamento di politica fu Genova perché, essendosi il generale Spagnolo rifiutato di unirsi al Maillebois per respingere gli Austriaci da Novi, la repubblica rimase esposta alle offese del Botta Adorno, desideroso di vendicare il padre che dal governo genovese era stato condannato in contumacia alla pena capitale e alla confisca dei beni.

Per la Valle della Polcevera gli Austriaci si diressero verso Sampierdarena e il 5 settembre si presentarono davanti a Genova. La città non aveva preso nessuna misura per difendersi e chiese pace al nemico. Il Botta Adorno l'accordò alle seguenti, umilianti condizioni: si consegnassero le porte della fortezza agli Austriaci; la guarnigione rimanesse dentro prigioniera di guerra; si consegnassero tutte le artiglierie, le armi, le munizioni e le vettovaglie; ordinasse la repubblica ai suoi cittadini e ai suoi soldati di non commettere ostilità contro gli Austriaci e i loro alleati; fossero libere l'entrata e l'uscita dal porto alle navi alleate; si desse nota delle persone e delle proprietà dei Francesi, degli Spagnoli e dei Napoletani; si consegnasse il castello di Gavi con tutto il presidio; durante la guerra si desse libertà di passaggio alle truppe austriache per tutte le terre della repubblica; il Doge e sei senatori andassero entro un mese a Vienna ad implorar la grazia dall' imperatrice; si liberassero tutti gli ufficiali e soldati austriaci o alleati fatti prigionieri; si pagassero subito cinquantamila genovine da dispensarsi ai soldati a titolo di rinfresco; si mandassero in Austria come ostaggi quattordici senatori. Quanto alla contribuzione di guerra, ci avrebbero pensato i commissari imperiali a fissarla. I patti suddetti dovevano essere accettati entro ventiquattr'ore.

Genova dovette accettare le esose condizioni e aprir le porte al nemico. I commissari chiesero a nome di Maria Teresa che la repubblica pagasse tre milioni di genovine, il primo entro quarantotto ore, il secondo entro otto giorni, il terzo al quindicesimo. Invano Genova protestò che tale somma era superiore alle disponibilità della repubblica, ma il Botta Adorno non volle sentir ragioni e preghiere e minacciò di spogliare la città, la quale pagò la prima e la seconda rata e per procurarsi i denari fu costretta a metter mano ai depositi del banco di S. Giorgio.
Ben presto gli Austriaci si resero insopportabili; rubavano senza pudore, penetravano nelle case dei cittadini, maltrattavano gli uomini ed oltraggiavano le donne.
I Genovesi protestavano, qualcuno osò ribellarsi ai maltrattamenti, ma le prepotenze non cessavano e gli abitanti dell'infelice città non aspettavano che un'occasione per scuotere l'odioso giogo.
L'occasione si presentò prima che spirasse l'anno. Un esercito comandato dal Browne era penetrato in Provenza ed aveva posto l'assedio ad Antibo. Siccome mancavano le artiglierie per battere la piazza, il generale Browne aveva scritto al Botta Adorno che gli mandasse da Genova trenta cannoni e sei mortai.

Un giorno, il 5 dicembre del 1746, attraverso il popoloso quartiere di Portoria, un drappello di Austriaci trascinava un grosso mortaio destinato all'impresa di Provenza. Sotto il peso la strada franò. Per potere rimettere in carreggiata il mortaio i soldati chiesero con insolenza l'aiuto di alcuni popolani e, poiché questi si rifiutavano di prestarlo, li picchiarono con dei bastoni. A questa vista un audace ragazzo, che la leggenda più tardi chiamò BALILLA, raccolto un sasso lo scagliò contro gli Austriaci, subito poi imitato dalla folla che si era raccolta minacciosa attorno al mortaio e che costrinse i soldati a una precipitosa fuga. Ma non finì lì.

Fu questo il segnale della rivolta che da Portoria si estese rapidamente a tutti in quartieri della città. Il popolo furibondo chiese armi alla Signoria, ma questa non essendo sicura della riuscita del moto, le rifiutò e mandò il patrizio NICOLÒ GIOVO dal Botta per esprimergli il rincrescimento del Senato per i fatti avvenuti.

Il giorno dopo un drappello di Austriaci inviato a rimuovere il mortaio affondato fu accolto nuovamente a sassate e a fucilate e messo in fuga. Intanto la rivolta cresceva, infuriando specialmente nei quartieri di Porteria, di Prè e di S. Vincenzo; il popolo si procurava armi, innalzava barricate, posizionava cannoni e colubrine, tirava sul nemico e sfogava la sua collera contro i palazzi della nobiltà rimasta inoperosa.

Il Botta, impotente a domare la rivolta, chiese aiuto a tutti i distaccamenti dislocati nelle varie terre della Riviera, ma neppure con questi riuscì ad avere ragione della ribellione. Il 10 dicembre il popolo genovese fece un ultimo vigoroso e coraggioso sforzo contro gl'imperiali e si riprese Porta San Tommaso, Porta Lanterna e la batteria di S. Benigno. Un popolano, di nome GIOVANNI CARBONE, riconquistate le chiavi della città, le riportò al Doge, dicendogli: "Queste sono le chiavi che con tanta franchezza loro signori serenissimi hanno dato ai nostri nemici; procurino in avvenire di meglio conservarle, perché noi con il nostro sangue le abbiamo recuperate ".

La notte del 10, sotto la guida di un traditore, Carlo Casale detto Bachelippe, gli Austriaci fuggirono da Sampierdarena, inseguiti e decimati dai montanari dell'Appennino fino alla Bocchetta. Liberati dagli imperiali, cui la rivolta era costata la perdita di quattromila uomini, i Genovesi si diedero a predisporre le difese, sicuri che il nemico avrebbe tentato di rioccupare la città: ripararono le mura, costruirono palizzate, istituirono una milizia cittadina che raggiunse la cifra di quindicimila uomini e promossero la formazione di numerose bande paesane destinate a difendere le Riviere.

Mentre Genova si preparava, da Vienna venivano al Botta ordini reiterati di riconquistare a qualunque costo la città, ma il generale privo di forze sufficienti all'impresa, mancante di artiglierie, con le truppe assottigliate dalle malattie, dalle diserzioni e dai continui assalti delle popolazioni della Liguria, non riuscì a far nulla. A quel punto venne richiamato e sostituito con lo Schulemberg.
Le operazioni contro Genova erano cominciate fin dal gennaio del 1747. Continuarono nella primavera; ma senz'alcun vantaggio per gli Austriaci che furono sempre respinti, sebbene gli assedianti disponessero di ventiquattromila fanti e di milletrecento cavalli. A sostenere lo Schulemberg furono inviate dal re di Sardegna considerevoli forze piemontesi, e Genova allora corse serio pericolo. Ma l'ndomita città non si perdette d'animo sebbene una sortita nel maggio non fosse stata coronata da successo e un attacco generale degli Austro-Sardi effettuato il 13 giugno avesse causato forti perdite ai Genovesi.

Nonostante la strenua difesa, Genova non avrebbe potuto continuare a resistere se l'annuncio che un forte corpo di milizie Franco-Ispane muovevano dalla Provenza in soccorso della città assediata non avesse messo nello sgomento gli Austriaci. La notizia era vera. Il maresciallo di BELLE-ISLE -che aveva sostituito il Maillebois nel comando dell'esercito francese - e il LAS MINAS erano riusciti a liberare Antibo, avevano costretto gli Austro-Sardi a sgomberare la Provenza e la contea di Nizza ed ora si accingevano a soccorrere Genova e a tentar di penetrar nel Piemonte.

Lo Schulemberg, vedendo che non era conveniente continuare l'assedio anche per il fatto che Carlo Emanuele III aveva reclamate, in previsione di un'invasione nemica in Piemonte, le sue truppe mandate in Liguria, riunito il consiglio di guerra decise di togliere l'assedio e nella notte dal 18 al 19 luglio, abbandonò le posizioni intorno a Genova con tutte le sue forze, gran parte delle quali presero la via del Piemonte per recar soccorso al re di Sardegna.
Prima ancora che Genova fosse liberata dall'assedio, il maresciallo di Belle-Isle aveva tentato di penetrare in Piemonte, contro il parere del Las Minas, il quale avrebbe voluto che l'intero esercito Franco-Ispano entrasse dalla Bocchetta in Lombardia per attirare sul Ticino Carlo Emanuele III. Questi, informato delle intenzioni del Belle Isle, aveva richiamato le sue truppe da Genova e si era preparato a respingere l'invasione, mettendo in stato di difesa il forte d' Exilles e facendo presidiare il colle dell'Asietta da quattro battaglioni austriaci sotto il comando del Colloredo e nove battaglioni piemontesi comandati dal conte di Bricherasio.
Il 14 luglio il Belle-Isle, con un esercito diviso in tre colonne comandate dal De Mailly, dal De Villemur e dal marchese d'Arnault, entrò nella valle di Oulx col proposito di impadronirsi del col dell'Assietta e rivolgersi quindi contro il forte di Exilles.

Gli avamposti piemontesi vennero facilmente travolti, ma quando, il 19 luglio del 1747, assalirono le posizioni dell'Assietta, i Francesi trovarono una resistenza che non sospettavano. Le truppe piemontesi, comandate dal Bricherasio e dal conte di S. Sebastiano, dal parapetto che difendeva la sommità del colle resistettero impavidi contro il nemico coprendolo di piombo e di sassi e spezzandone l' impeto con furiosi contrattacchi alla baionetta.

Invano il cavalier di Belle-Isle, fratello del maresciallo, impugnata una bandiera eroicamente si spinse verso il parapetto riuscendo a piantarvi su il vessillo e a trascinare dietro a sé i francesi: due palle lo fecero stramazzare presso il muro. Cadde con lui il marchese d'Arnault e l'assalto venne respinto. Cinque volte tentarono i Francesi di sloggiare dal colle i difensori, e cinque volte furono respinti; cercarono di prender l'Assietta attaccando il colle sovrastante di Serano, difeso da un manipolo di Piemontesi, ma questi resistettero superbamente e, soccorsi giunti in tempo del Bricherasio, ricacciarono il nemico, il quale, verso sera, riusciti inutili tutti i suoi sforzi, dovette ritirarsi, lasciando sul campo di battaglia quattromila tra morti e feriti, seicento prigionieri, sette cannoni, sei bandiere, le provviste e gli ospedali. I Piemontesi ebbero soltanto quattrocento uomini fuori combattimento.
Quella dell'Assietta fu l'ultima grande battaglia di questa guerra combattutasi in Italia. Le gravi perdite di uomini e le ingenti spese avevano messo in tutti i belligeranti il desiderio della pace, eccettuata l'Austria che avrebbe voluto rioccupare la Slesia e il regno di Napoli; ma anche essa dovette piegarsi al desiderio comune e vennero iniziate trattative in AQUISGRANA.

Qui il 18 ottobre del 1748 fu firmata la pace: la Francia e l'Inghilterra si restituivano le conquiste fatte, l'Olanda riotteneva le piazzeforti, veniva riconosciuta dalle potenze firmatarie la Prammatica sanzione; per quel che riguardava l'Italia, Genova e il duca di Modena riebbero i loro domini, Carlo Emanuele III ebbe il Vigevanasco, il contado d'Anghiera e il Pavese secondo i patti di Worms, ma non ricevette né il marchesato del Finale né Piacenza; a Carlo III fu confermato il possesso delle due Sicilie; a don Filippo di Borbone rimasero i ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, all'Austria, quelli di Mantova e di Milano, a Francesco I, già duca di Lorena ed ora sposo di Maria Teresa e imperatore, la Toscana.

GOVERNO DI CARLO EMANUELE III - VITTORIO AMEDEO III

Dalle guerre di successione il regno sardo usci ingrandito territorialmente e più forte politicamente per virtù del suo esercito, del suo sovrano e dei suoi uomini di governo, primi fra i quali il conte Bogino e il marchese d'Ormea.

La politica estera di Carlo Emanuele III fu costantemente rivolta ad ingrandire lo stato. Da ciò il giuoco delle sue alleanze, che non fini con la pace di Aquisgrana.
Nel maggio del 1752 Carlo Emanuele stipulò il TRATTATO DI ARANJUEZ con l'Austria e la Spagna con cui le tre potenze garantivano reciprocamente l'integrità dei loro stati e stabilivano il numero di truppe che avrebbero messo in campo per difendere i loro diritti; più tardi sottoscrisse un accordo con la Francia, la quale, con lettera di Luigi XV dichiarava di riconoscere il diritto del Piemonte su Piacenza e si impegnava di assicurargli un equivalente qualora il re di Sardegna non avesse potuto ottenere il possesso: quindi fece da intermediario perché avesse termine la guerra dei Sette Anni, che per merito suo difatti cessò nel 1763.

Dopo la pace, Carlo Emanuele firmò due convenzioni, una con la Francia e la Spagna, l'altra con la Francia. Nella prima venne confermato al Regno sardo il diritto di riversione del Piacentino nel caso di estinzione della linea maschile di don Filippo o dell'assunzione di uno dei suoi discendenti al trono di Napoli e Sicilia; nella seconda Luigi XV si impegnava di pagare a Carlo Emanuele la somma di otto milioni e duecentomila lire in compenso delle rendite del ducato di Piacenza e un milione e centosettantacinquemila lire in compenso delle rendite non percepite dalla morte di Ferdinando VI ín poi.
Delle nazioni europee l'Inghilterra fu quella con cui Carlo Emanuele III mantenne rapporti più cordiali; con gli stati italiani, cessate le guerre di successione, ebbe relazioni di buon vicinato. Fu sotto il suo regno che ebbe termine gli screzi tra Roma e la corte di Torino. CLEMENTE XII e mandò a Torino nell'agosto del 1737 l'abate ARMAGNI, per avviare le trattative di un accordo sulle questioni pendenti fra i due governi. Ma occorse molto tempo, prima che fra le due corti si venisse ad un componimento; finalmente due concordati vennero sottoscritti fra i due rappresentanti di Carlo Emanuele III e Benedetto XIV; col primo si poneva fine alle differenze per i feudi della Chiesa in Piemonte, creando Vicario Apostolico il re e i suoi successori in perpetuo, sopra molti feudi specialmente designati; col secondo si stabilivano norme fisse e conciliative sopra i benefici.

Un anno dopo, cioè sul principio del 1742, usci l'istruzione detta "Benedettina", che venne approvata dal re, e mandata ai vescovi ed ai magistrati perché la osservassero.

""�.Essa consta di due parti: l'una confermativa e spiegativa degli aggiustamenti del 1727, l'altra suppletiva. I sette primi capi confermavano:
1° l'obbligo ai vescovi esteri, aventi giurisdizione nello stato, di deputare un vicario generale per giudicare nelle materie civili e criminali quelle cause al loro foro pendenti;
2° la facoltà ai Tribunali laici di giudicare nel possessorio "restituendae et reintegrandae" le questioni dei benefizi e delle decime, escluso il petitorio spettante alla potestà ecclesiastica
3° la facoltà dell'exeqvatur ai brevi e alle bolle apostoliche, eccettuate le bolle dogmatiche in materia di fede, per i giubilei e le indulgenze, i brevi della sacra penitenziaria, ecc.;
4° definivano la prestazione del braccio secolare alle curie vescovili;
5° la visita dei luoghi pii concessi agli ordinari, eccettuati quelli di fondazione regia o di regia protezione;
6° la soggezione al censo dei beni ecclesiastici divenuti tali dopo il 1620;
7° le visite delle diocesi e la convocazione dei sinodi, senza previa licenza dell'autorità laica.

" Gli altri capi regolavano gli atti delle curie vescovili, il diritto d'asilo, d'ordinazione dei chierici e il godimento dei loro privilegi. L'istruzione benedettina poneva per tal modo il suggello alla pace fra la Chiesa e lo Stato (Callegari) ... """.

Il ripristino delle buone relazioni tra la Curia Romana e il Piemonte si deve al marchese d' ORMEA, il quale seppe ingraziarsi la corte pontificia con un atto, piuttosto riprovevole. Poichè da Roma si facevano pressioni affinché non si desse asilo in Piemonte allo STORICO PIETRO GIANNONE che in quella terra si era stabilito per sfuggire alle persecuzioni della curia, d'Ormea non solo lo costrinse ad andarsene a Genova, ma più tardi riuscì a farlo catturare e metterlo in galera (1736). Carlo Emanuele però rifiutò di consegnarlo al Pontefice e lo chiuse nella fortezza di Torino, dove l'infelice storico trovò la morte dopo dodici anni di prigionia (1748).

Fu quest'azione una grave macchia che oscura la fama dell'Ormea, il quale se non sempre operò rettamente, ebbe ingegno grandissimo e deve considerarsi come uno dei più grandi statisti del suo tempo.
""�Intendente generale delle finanze - scrive di lui il Carutti - e quindi ministro dell' interno, adoperò l'acume suo al ripartimento delle imposte in Piemonte e in Savoia; diplomatico, compose i dissidi romani e affrancò la potestà civile, quanto i tempi volevano e comportavano; amministratore, diede stabile governo ai comuni e promosse l'ordinamento della pubblica beneficenza; ministro sopra le relazioni straniere, condusse con destrezza straordinaria i più ardui negoziati e ne uscì con lode e felicità; il suo nome è collegato coi trattati di Torino e di Worms, che di cinque nobili province accrebbero la corona di Savoia. Nel 1733 liberò l'Italia dalla preponderanza austriaca; nel 1743 la preservò dalla dittatura borbonica ..""

Al BOGINO invece si deve il risorgimento della Sardegna. L' infelice isola era senza strade, senza scuole, priva di industrie e di commerci, infestata dai banditi, tiranneggiata dai baroni, dilaniata dagli odi tra famiglie e famiglie, tra paesi e paesi, piena di miseria. Sotto il saggio governo del Bogino, la Sardegna risorse moralmente ed economicamente. Si mandarono maestri e libri, vi si fondarono scuole medie, si aprirono le università di Cagliari e Sassari, si riordinarono i tribunali, si riformarono gli ammassi e i monti del frumento che, prestando il grano agli agricoltori bisognosi, furono di gran giovamento all'agricoltura, fu riformata la moneta, si frenarono gli abusi dei feudatari, furono eliminati agli ecclesiastici molti privilegi ed immunità, si migliorarono le comunicazioni interne, furono riformati il collegio dei nobili e l'ospedale di Cagliari, costruiti porti, prosciugata la contrada di Bovaria.
Fu così benefica l'opera del Bogino che in ventidue anni la popolazione crebbe di cinquantun mila abitanti.

Carlo Emanuele III anche al Piemonte rivolse le sue cure. Fondò a Torino scuole di artiglieria, di disegno e di conferenza, morale, protesse le lettere e le scienze, istituì nuove cattedre nell'università e richiamò valenti insegnanti; edificò fortezze, costruì strade e palazzi, distribuì equamente il tributo fondiario, portò a termine il catasto, fece amministrare oculatamente il pubblico denaro e molto di più avrebbe fatto se la morte non lo avesse colto il 20 febbraio del 1773 dopo quarantadue anni e cinque mesi di regno.

A Carlo Emanuele III successe il figlio VITTORIO AMEDEO III. Aveva ingegno ed animo buono, ma come re era lontano dal rassomigliare al padre. Questi gli aveva tracciato la via, ma il figlio non la seguì. Mostrò è vero, desiderio di migliorare le condizioni del suo stato, ma in effetto le sue opere (migliorò il corso del Rodano e dell'Arve e alcune strade del Piemonte, ricostruì la fortezza di Tortona, costruì Caronge presso Ginevra, provvide all'illuminazione di Torino, istituì ospedali e ricoveri, creò la Specola, dotò l'Accademia delle scienze, finì il porto di Nizza) non si dimostrarono di grande utilità perché non eseguite dietro un piano ben predisposto né secondo le opportunità del momento.

Carlo Emanuele aveva saputo scegliersi i consiglieri e i collaboratori; Vittorio Amedeo III licenziò il Bogino e si circondò di uomini mediocri, per la cui inettitudine si rallentarono i freni, venne meno il rispetto alle leggi, si arrestarono le riforme e tornarono a farsi infelici le condizioni della Sardegna, caduta sotto il governo di viceré tristi o incapaci.

Alla mediocrità degli uomini di governo, s'aggiunse la mania che aveva il sovrano d'imitare Federico II di Prussia ingrossando e riformando l'esercito. Le spese militari furono così onerose che in breve lo stato piombò nella più grande miseria.

In tali condizioni e con un tale sovrano si trovava il Piemonte
proprio quando per i gravi eventi che si maturavano, aveva invece bisogno di un gran re,
di una solida finanza e di uomini di governo dalla mente aperta e dalla mano di ferro.

Prima di proseguire con gli anni che seguono le vicende sopra narrate,
dobbiamo ritornare alla contesa di un isola, la Corsica,
che per quasi un secolo anelando la sua indipendenza, si dissanguò nelle guerre
e nel malgoverno dei dominatori; e ripartendo l'odio a Genova, alla Francia e poi
anche ai Savoia che - pur offerto a quest'ultimi dai corsi lo scettro dell'isola- declinarono ogni aiuto

ed � il periodo che va dal  1729 al 1769

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