DA
20 MILIARDI ALL' 1 A.C. |
1 D.C. AL 2000 ANNO x ANNO |
PERIODI
STORICI E TEMATICI |
PERSONAGGI E PAESI |
(QUI TUTTI I RIASSUNTI) RIASSUNTO ANNI dal 1308 al 1313
L'IMPERATORE
ENRICO VII - LA SPEDIZIONE IN ITALIA
MORTE
DI ALBERTO D'ABSBURGO E ASSUNZIONE DI ENRICO VII AL TRONO DI GERMANIA - LE CONDIZIONI
POLITICHE D'ITALIA E L' IDEA IMPERIALE - II SOGNO IMPERIALE DI DANTE - PREPARATIVI
DI ENRICO PER DISCENDERE IN ITALIA - TENTATIVO DI GUIDO DELLA TORRE DI FORMARE
UNA LEGA CONTRO L'IMPERATORE - ENRICO VII RICEVE A LOSANNA GLI AMBASCIATORI
DELLE CITTÀ ITALIANE - AMBASCERIA DEI ROMANI AL SOVRANO E AL PONTEFICE
- ENRICO IN PIEMONTE E IN LOMBARDIA - SUA INCORONAZIONE A MILANO E SUA OPERA
PACIFICATRICE - TORRIANI E VISCONTI - I TORRIANI CACCIATI DA MILANO - RIBELLIONI
DELLE CITTÀ LOMBARDE - ASSEDIO DI BRESCIA - ENRICO VII A GENOVA - OSTILITÀ
DI BOLOGNA E FIRENZE - POLITICA AMBIGUA DI ROBERTO D'ANGIÒ - ENRICO VII
A PISA - TEMPESTOSO SOGGIORNO DI ENRICO A ROMA - SUA CORONAZIONE IMPERIALE -
SUA DIMORA A TIVOLI - ENRICO VII E CLEMENTE V - L'IMPERATORE ASSEDIA INVANO
FIRENZE E RITORNA A PISA - DIFFICILE SITUAZIONE DI ENRICO - SUOI PREPARATIVI
PER LA SPEDIZIONE CONTRO IL REAME DI NAPOLI - L'IMPERATORE PARTE DA PISA E MUORE
IMPROVVISAMENTE A BUONCONVENTO - DISSOLUZIONE DELL'ESERCITO IMPERIALE - UGUCCIONE
DELLA FAGGIUOLA E LA PRIMA COMPAGNIA DI VENTURA
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ENRICO VII NEL PIEMONTE E NELLA LOMBARDIA
SUA OPERA PACIFICATRICE
I TORRIANI E I VISCONTI - ASSEDIO DI BRESCIA
Nel maggio del 1308, sulle rive del fiume Reuss, l' imperatore Alberto d'Absburgo veniva pugnalato dal nipote Giovanni d'Austria. Avuta notizia del regicidio, Filippo il Bello concep� il disegno di fare ottenere la corona imperiale al fratello Carlo di Valois e preg� il Pontefice affinch� adoperasse tutta la sua autorit� in favore dell'elezione di quest'ultimo. Ma Clemente V aveva troppo concesso al re di Francia ed era stanco del gioco sotto cui aveva messo la Chiesa. Non potendo o non sapendo apertamente opporre un rifiuto, promise al monarca che si sarebbe adoperato a favore del conte di Valois, ma preoccupato, e non a torto, dalle conseguenze che sarebbero derivate all'equilibrio politico europeo e all'egemonia del Papato dall'elezione di Carlo, segretamente consigli� gli elettori di dar la corona imperiale ad Enrico di Lussemburgo, principe savio e leale, ma non ricco e potente, il quale appunto proprio per questo non avrebbe mai potuto recare ombra alla Santa Sede e ai signori germanici.
Nel novembre del 1308, con molto dispetto del re francese e con grande meraviglia di tutta l' Europa, Enrico di Lussemburgo fu eletto imperatore a Francoforte, poi il 6 gennaio dell'anno successivo incoronato ad Aquisgrana. Enrico VII, sebbene povero, vantava potenti parentele: una sorella di suo padre aveva sposato il prode Guido di Fiandra; sua moglie era figlia del duca di Brabante e sua cognata era sposa del conte Amedeo V di Savoia.
Questi alti parentadi e la fama di uomo savio e generoso, gli procurarono ben presto il favore di molti principi cos� che nessuno si oppose in Germania quando egli annunzi� che, con il consenso del Pontefice, sarebbe sceso in Italia a cingervi la corona imperiale.
Grande fu la commozione suscitata in Italia da questo annuncio. Da sessant'anni la penisola non aveva pi� visto imperatori; molte vicende erano successe dopo la morte di Federico II; agli Svevi ghibellini erano successi gli Angioini guelfi; la Chiesa aveva trionfato sull'impero; si erano sviluppate ed affermate le libert� comunali; erano sorte e si erano consolidate non poche signorie; guelfismo e ghibellinismo, nati dalla grande contesa tra l'Aquila e le Sante Chiavi, avevano lasciato a poco a poco col volger degli anni il primitivo significato politico e conferito il loro nome a partiti mossi da altre cause e guerreggianti per altri scopi; gli imperatori, infine, riconoscevano ora la supremazia papale e, vivendo in pace con la Chiesa, non potevano incuter timore agli avversari di una volta e rinverdir le speranze degli antichi fautori.
Malgrado per� le mutate condizioni sociali e politiche, l'Idea imperiale in Italia non era morta; non poteva esser morta un' idea che i secoli avevano radicata nelle coscienze, che la grandezza antica aveva tramandata in retaggio, che era presente nelle leggi, che riempiva di s� la tradizione, che pervadeva la letteratura e le scuole di diritto, che tante passioni aveva destate, tante lotte suscitate, tanto sangue fatto spargere; non poteva esser morta anche perch� all'autorit� imperiale pensavano con nostalgia, nell'anarchia presente, molti spiriti indipendenti, non accecati da sentimenti faziosi, e perch� la politica ingiusta di Bonifazio VIII e le intemperanze, dei Neri avevano non pochi uomini fatto volgere dall' idea guelfa alla ghibellina.
Fra questi � il pi� grande dei nostri poeti, � DANTE ALIGHIERI; e la sua voce si fa interprete del sentimento di tutti coloro che piangono la patria perduta e invocano, per il bene di essa, la fine delle discordie civili. Per l'Alighieri l'impero non ha pi� l'aspetto di tirannide come era stato una volta considerato, ma acquista il simbolo di pace e di libert� e si presenta come tutta una cosa col diritto di Roma; per lui l'impero � scrive il Carducci � � significa il dominio del popolo romano sopra la terra, e nell'imperatore, di qualunque nazione sia, egli vede trasferita la maest� del popolo romano. Giardino dell' Impero � l'Italia, non la Germania; e di qui il principe romano distende lo scettro su tutte le altre monarchie e su tutti i popoli, intendendo fare del mondo una cristiana repubblica, della quale siano m�mbri tutti gli Stati, dal Regno di Francia al pi� piccolo Comune italiano.
Formato cos� il concetto giuridico e storico dell' impero, l'Alighieri viene a divisare sul seguente modo le sue relazioni rispetto alla Chiesa : l'autorit� dell' Impero procede direttamente da Dio, ne la Chiesa pu� pretendervi supremazia e dargli autorit�, come quella che non ebbe parte al suo stabilimento che fu innanzi a lei; ne vi � figure del vecchio o nuovo Testamento che provino, ne con- cessioni che valgano. Ma se l'imperatore � indipendente dal papa per l'imperio suo sulla terra, gli resta subordinato in questo, che la felicit� secolare a cui l'imperatore � guida, sia mezzo per la felicit� eterna a cui il pontefice � scorta �. Queste dottrine le espone Dante nel suo famoso trattato De Monarchici ; esse troveranno conferma nell'alta poesia della Commedia, in cui il poeta lancer� l'appello supremo ad Alberto "...Vieni a veder la tua Roma che piagne Vedova e sola, e d� e notte chiama: Cesare mio, perch� non m' accompagne" esse si muteranno in azione viva quando "...l'umile italiano Dante Alighieri di Firenze, il quale � senza colpa esiliato" , si rivolger� ai signori e ai popoli d'Italia scrivendo loro: � Ecco ora il tempo propizio in cui i segni spuntano della consolazione e della pace; ch� il nuovo giorno splende mostrando l'alba, da cui son diradate le tenebre... �. (Ecee nunc tempus acceptabile, quo signa surgunt consolationis et pacis; nam dies nova splendescit albam demonstrans, quae iam tenebras diuturnae calamitatis attenuat).
Enrico VII aveva dunque fatto annunziare che veniva come messo di pace e come tale ansiosamente lo aspettavano tutti coloro che da lui attendevano giustizia; ma non potevano esser lieti di quella venuta i signori guelfi dell'alta Italia, i quali temevano che l'imperatore favorisse le famiglie ghibelline da loro cacciate. Tra questi signori il pi� potente era GUIDO DELLA TORRE, il quale, alla notizia della prossima discesa di Enrico di Lussemburgo, convoc� in Milano molti signori di parte guelfa, tra cui FILIPPONE LANGOSCO. di Pavia, ANTONI FISIRAGA di Lodi, GUGLIALMO CAVALCABO' di Cremona e SIMONE degli AVOGADRI di Vercelli, e propose loro di radunar le milizie e chiudere all'imperatore il passo delle Alpi. Ma la proposta del Torriano non trov� aderenti; i convocati temevano che nell'assenza dai propri stati, i ghibellini potessero con le armi rientrare nelle citt�, e l'adunanza si sciolse, riserbandosi ognuno libert� d'azione, il che significava chiaramente che quei signori speravano di acquistarsi il favore dell'imperatore e per mezzo di esso non perdere la propria posizione.
Nell'estate del 1310 Enrico VII si rec� a Losanna, dove si raccoglievano le sue milizie, e qui ricevette gli ambasciatori di molte citt� italiane venuti ad ossequiarlo e a presentargli ricchi doni: mancavano quelli di Firenze, di Siena, di Lucca e di Bologna, che avevano preparati gli ambasciatori, ma, avendo saputo che l' imperatore si proponeva di fare rientrare nelle citt� gli esuli, non li fecero pi� partire; si dice anzi che Betto Brunelleschi esclamasse: � mai per niun signore avere i Fiorentini inclinato le corna �. Pisa, lietissima, mand� invece un donativo di sessantamila fiorini d'oro. Anche i legati di Clemente V ricevette Enrico di Lussemburgo e nelle loro mani giur� devozione alla Chiesa, conferm� tutti i privilegi che le avevano concessi i suoi predecessori e s'impegn� di non esercitare alcuna giurisdizione sui domini della Santa Sede.
Verso la fine del settembre Enrico VII mosse da Losanna, con un seguito di circa duemila cavalli, alla volta d'Italia ; il 24 ottobre giunse a Susa, il 30 entr� a Torino. Qui l'imperatore ricevette un'ambasceria romana, fra cui erano i capi delle fazioni di quella citt�, i Colonna, gli Orsini, gli Annibaldi, la quale da Torino prosegu� per Avignone per pregare il Pontefice di fare ritorno all'antica sede del Papato. Anche Enrico mand� ad Avignone un'ambasciata, diretta dal fratello Baldovino, arcivescovo di Treviri, per invitare il Papa a recarsi a Roma ad incoronarlo o, in sua sostituzione, a inviare cardinali con pieni poteri. Clemente V si scus� di non potere andare in Italia adducendo come motivo il concilio che aveva convocato a Vienne, ma promise che avrebbe mandati tre cardinali a celebrare l' incoronazione.
A Torino l'imperatore ricevette inoltre parecchi signori dell' Italia superiore che gli recarono buon numero di milizie e gli presentarono i loro omaggi: fra questi erano i marchesi Manfredo di Saluzzo e Teodoro di Monferrato, Filippone Langosco, Antonio Fisiraga, Simone di Vercelli, Guglielmo Brasati. Enrico li accolse cordialmente, ma dichiar� illegittima la loro signoria, si fece dare le chiavi delle citt� ed ordin� che tutti i fuorusciti fossero richiamati in patria.
Nei due mesi ch'egli rimase in Piemonte, con l'aiuto di Amedeo V di Savoia che gli era largo di consigli, inizi� la pacificazione e la restaurazione dell'autorit� imperiale, tolse dalle mani dei signori ogni potere, ordin� che fossero riammessi nelle citt� gli esuli e mise nei comuni suoi vicari che in suo nome li governassero e vi amministrassero la giustizia. Nessun ostacolo incontr� in quest'opera Enrico VII: i vicari venivano accolti con gioia; i signori deponevano spontaneamente i loro poteri; nelle citt� da lui visitate il Popolo lo accoglieva con manifestazioni di giubilo riguardandolo come l'angelo della pace. Egli fu a Casale, a Vercelli, a Novara e ad Asti. In quest'ultima citt� venne ad unirsi a lui Matteo Visconti, che lo eccit� a recarsi in Milano.
GUIDO DELLA TORRE si trovava in una situazione spinosa: egli aveva stretto alleanza con le citt� toscane per opporsi all'imperatore, ma quando ebbe saputo che la maggior parte dei signori era andata a fare omaggio al sovrano, invi� anche lui ambasciatori con promessa di obbedienza; ora per�, sapendo presso la corte imperiale il Visconti suo nemico e vedendo che i signori venivano privati del potere, non sapeva se gli convenisse fare atto di sottomissione o schierarsi apertamente contro Enrico VII. Chi lo fece decidere fu il contegno del popolo milanese che non faceva mistero della propria simpatia per l'imperatore.
Quando questi il 23 dicembre giunse in vicinanza della citt�, Guido della Torre gli and� incontro, ma per superbia non volle che il suo stendardo s'abbassasse, in segno di rispetto, di faccia al monarca. Il contegno altero del Torriano indign� talmente i cavalieri dell' imperatore che alcuni di essi, slanciatisi sullo scudiere di Guido che teneva lo stendardo, glielo strapparono di mano e lo gettarono nel fango.
Questo fatto fece abbassare l'alterigia del Torriano: sceso da cavallo, s'inginocchi� davanti al sovrano ed umilmente gli baci� un piede. Enrico VII lo fece rialzare e in tono benevolo gli disse: �Sii d'ora innanzi pacifico e fedele e riconosci tuo signore colui che � vano rinnegare �.
Quel giorno stesso Enrico VII fece il suo solenne ingresso in Milano. �Era passato un secolo - scrive il Bertolini - da che la metropoli lombarda non avea pi� accolto alcun imperatore in citt�. L'ultimo da ricevuto era stato il guelfo Ottone IV. L'entrata di Enrico in quella citt� era dunque un evento di grande importanza, non solo per Milano e per l'Italia, ma per l'Impero stesso, il quale ora parve possedesse ancora la forza per risorgere dal suo lungo avvilimento. E quando Enrico, fatto radunare sulla piazza di Sant'Ambrogio il popolo milanese, vi comparve assiso sopra un trono eminente, a piedi del quale stavano seduti i due capiparte Guido della Torre e Matteo Visconti, in quello spettacolo fu vista la maest� imperiale spiegarsi nella forma medioevale e imporre venerazione al mondo �
L'incoronazione di Enrico VII ebbe luogo il 6 gennaio del 1311, non a Monza n� con l'antica corona ferrea che dai Torriani era stata data in pegno, ma a Milano, nella basilica di Sant Ambrogio, con una nuova corona fabbricata in fretta da maestro Lando da Siena. Egli la ebbe dalle mani dell'arcivescovo milanese assistito da altri due arcivescovi e da ventuno vescovi, alla presenza dei principi tedeschi e dei legati delle citt� dell'alta Italia, che, in quell'occasione, giurarono fedelt� all'imperatore, eccettuati quelli di Venezia che si limitarono a presentargli gli ossequi del doge.
Dopo l'incoronazione Enrico VII si dedic� alla sua opera di pacificazione; a Como e a Mantova fece rientrare i Ghibellini, a Brescia e a Piacenza i Guelfi, riconcili� famiglie, nomin� vicari nelle citt� ed istitu� come vicario generale il conte Amedeo V di Savoia.
Solo gli SCALIGERI si rifiutarono di fare rientrare i Guelfi fuorusciti n� l'imperatore volle obbligarveli, sia - come nota il Sismondi - �che Verona gli paresse citt� troppo forte e lontana per tentare di ridurla con le armi, sia che non gli sembrasse opportuno di sminuire o mettere in pericolo l'autorit� dei fratelli della Scala, ardenti fautori dell' impero e dichiaratisi prima di tutti in suo favore �.
Ma il rifiuto degli Scaligeri non diminuiva per niente il successo dell' opera imperiale: questo sembrava completo e forse lo era; ed avrebbe dato buoni frutti se non lo avesse guastato lo stesso monarca. Egli non si trovava in floride condizioni finanziarie. Nelle strettezze in cui versava, chiese a Milano di fargli, com'era costume, un largo donativo. Radunatosi il Consiglio per decidere sull'entit� della somma da votarsi, Guglielmo Pusterla propose ch'essa non fosse inferiore ai cinquantamila fiorini; Matteo Visconti per�, per guadagnarsi la simpatia di Enrico, propose a sua volta un donativo in pi�, di diecimila fiorini, per l'imperatrice, al che Guido della Torre, non si sa se ironicamente o sul serio, disse che la cifra si dovesse portare a centomila.
Era un'enorme somma e i Milanesi mandarono deputati all'imperatore perch� la diminuisse; ma Enrico si rifiut� e, per pagarla, il senato dovette inasprire le tasse, suscitando un malcontento generale. Questo crebbe di pi� quando l'imperatore, avendo deliberato di scendere verso Roma, col pretesto di avere un magnifico seguito, ma in realt� per assicurarsi la fedelt� dei Milanesi, chiese che lo accompagnassero ventiquattro nobili ghibellini ed altrettanti nobili guelfi tra cui Galeazzo Visconti e Francesco della Torre, figli di Matteo e di Guido e poich� parecchie delle persone scelte si lamentavano di non poter far fronte alle spese, il sovrano ordin� che il loro equipaggiamento fosse provveduto da tutta la cittadinanza.
Tutto ci� fece dimenticare per un momento ai Milanesi gli odi di parte e Torriani e Visconti presero accordi per cacciare il Tedesco, ma non cos� segretamente da non giungere all'orecchio dell'imperatore. Fu un Nicolo Bonsignore, ministro del monarca che, fuori Porta Ticinise, sorprese in segreto colloquio Francesco della Torre e Galeazze Visconti. Avvisatene subito Enrico VII, questi ordin� che due manipoli d'armati piombassero nelle case dei Torriani e dei Visconti allo scopo di accertarsi se vi si facessero preparativi. Pi� cauti i Visconti, e forse messi sull' avviso, ritardarono o seppero nascondere i loro apparecchi; i Torriani invece furono colti con le armi alla mano. Attaccati, si difesero ottimamente, ma sopraffatti anche per l'accorrere, a sostegno degli imperiali, dei Visconti dovettero cedere e Guido riusc� a salvarsi fuggendo con i figli Francesco e Simone (12 febbraio 1311).
Alla notizia della sedizione milanese, sobillate da Firenze e Bologna, si ribellarono Crema, Cremona, Broscia, Lodi e Como; ma fu questa una ribellione di breve durata. Impreparate ad una guerra, le citt� ribelli quasi tutte, ad una ad una, si sottomisero quando s'accorsero che l'imperatore era fermamente deciso a piegarle con le armi. Lodi e Crema. furono perdonate: Cremona, sebbene si fosse arresa, ebbe le mura abbattute, duecento dei principali cittadini chiusi in carcere e fu condannata a pagare centomila fiorini d'oro; Vicenza venne tolta ai Padovani da un reparto di truppe imperiali sostenute dalle milizie degli Scaligeri.
Soltanto Brescia tenne fieramente testa, per parecchio tempo, al sovrano. Quando nel maggio del 1311 egli si present� sotto le mura della ribelle citt�, questa gli chiuse le porte in faccia pronta a sostenere gli assalti degli imperiali. Anima della difesa, in quell'assedio che dur� quattro mesi, fu il guelfo TEOBALDO BRUSATI, che, fin dai primi giorni delle ostilit� inflisse al nemico non poche perdite con le sue coraggiose sortite. Tutti prevedevano che accanita sarebbe stata la resistenza dei Bresciani e non pochi consigliavano l'imperatore ch'era meglio portar le armi contro i Guelfi di Toscana. Tra questi consiglieri era Dante, il cui animo bruciava dalla brama di rivedere il suo bel San San Giovanni. Ma Enrico VII volle ostinarsi contro Brescia, temendo di lasciarsi alle spalle un focolare pericoloso per una insurrezione; e la sua ostinazione fu premiata.
In una sortita Tebaldo cadde prigioniero e sub� una crudele morte: cucito in una pelle di giovenca, venne barbaramente trascinato attorno alle mura, e poi squartato. I Bresciani lo vendicarono appiccando ai merli delle mura sessanta prigionieri tedeschi e rinnovando con maggior vigore le sortite in una delle quali uccisero il conte Valtiano di Lussemburgo, fratello dell'imperatore.
Alla fine per�, dopo sei mesi d'assedio, travagliati dalla mancanza di vettovaglie e da una terribile pestilenza, il 18 settembre si arresero. Enrico VII abbattute mura, mand� come. trofeo di guerra le porte a Roma, chiese ostaggi e impose una taglia di sessantamila fiorini d'oro; poi attraverso Cremona, Piacenza e Pavia, and� a Genova, dove giunse il 21 ottobre.SPEDIZIONE DI ENRICO VII IN ROMA
SUA INCORONAZIONE IMPERIALE - ENRICO IN TOSCANAA Genova Enrico VII continu� nella sua politica di pacificazione, richiam� i fuorusciti e gli riusc� di conciliare tra loro i DORIA e gli SPINOLA. I Genovesi, grati di quest'opera, conferirono all'imperatore la signoria della repubblica per venti anni. Presto per� essi si accorsero dell'errore commesso e compresero che non meno dannoso delle discordie intestine era il governo assoluto di uno straniero: difatti il podest� venne sostituito con un vicario imperiale, fu privato degli onori e delle guardie abati del popolo e la citt� fu sottoposta ad una contribuzione di sessantamila fiorini d'oro. Enrico rimase in Genova quattro mesi circa. Durante il soggiorno genovese fu attivissima l'opera dell'imperat�re. Gli era giunta notizia che non poche citt� dell'Italia settentrionale gli si erano ribellate formando una lega in cui erano entrati Gilberto di Correggio, Pilippone di Langosco, il marchese Cavalcab�, Guido della Torre e parecchi comuni fra cui Asti e Vercelli; ma Enrico non volle tornare sui suoi passi per ridurre i ribelli all'obbedienza.
A Roma e alla Toscana erano rivolti i suoi sguardi, ed al re Roberto d'Angi�. In Toscana Pisa ed Arezzo collaboravano apertamente per lui e dalla prima gli era venuta un'ambasceria di venticinque primari cittadini guidata dal conte Pazio di Donoratico per sollecitarlo a recarsi nella citt� ghibellina sempre fedele all'impero; ma le altre citt� gli erano manifestamente contrarie, specie Firenze, che con le milizie della lega guelfa aveva fatto rinforzare di armi i territori di Lucca e Sarzana e i passi dell'Appennino.
Enrico mand� in Toscana, il notaio Pandolfo Savelli e il vescovo Nicola di Butronto nperch� vi ricevessero dalle citt� il giuramento di fedelt�, ma questi non riuscirono a passare per Bologna e, dopo giunti con molte difficolt� a Lastra, fu una fortuna se poterono salvarsi dalla furia del popolo e rifugiarsi presso Arezzo dove ricevettero il giuramento dei conti Guidi, di Cortona, di Montepulciano, San Savino, Lucignano, Citt� della Pieve e Castiglione.
Con Roberto d'Angi� l'Imperatore cercava di non guastarsi e glielo aveva dimostrato rifiutandosi di ricevere il giuramento delle citt� d'Alba e di Alessandria e del marchese di Saluzzo che si erano messe sotto la protezione dell'Angioino. Questi col Tedesco faceva doppio giuoco; da una parte inviava ambasciatori a Genova presso Enrico proponendogli un matrimonio tra uno dei principi angioini e una figlia dell' imperatore, dall'altra lavorava intensamente per ostacolare la discesa del Lussemburghese, mettendogli contro le citt� della Toscana, rafforzando i Guelfi di Romagna, alleandosi con gli Orsini e mandando a Roma il fratello Giovanni con quattrocento cavalieri che occupavano il Vaticano, Castel Sant'Angelo e il Trastevere.
Informato da un'ambasceria dei Colonna della situazione di Roma, l'imperatore vi mand� con cinquanta cavalieri Ludovico di Savoia; scoperto il giuoco dell'Angioino, ricevette lietamente gli ambasciatori di Federico di Sicilia coi quali prese accordi per una guerra in comune contro il regno di Napoli; quindi, lasciato a Genova come suo vicario Uguccione della Faggiuola, il 16 febbraio del 1312 con i cardinali Arnoldo di Pelagrue, Nicol� d'Ostia e Luca Fieschi, il fratello Baldovino, il duca Rodolfo di Baviera, il conte Amedeo V di Savoia, il delfino di Vienne ed Enrico di Fiandra e circa duemila cavalieri, su trenta galee part� per Pisa.
Dopo di essere rimasto all'ancora a Portovenere dodici giorni a causa del maltempo, Enrico VI giunse a Pisa il 6 marzo e vi fu accolto con grandi manifestazioni di gioia. La fedelissima citt� lo nomin� suo signore, gli fu larga di aiuti e l'ospit� generosamente per circa due mesi, durante i quali accorsero sotto le bandiere imperiali non pochi Ghibellini della Toscana e della Romagna e i Bianchi espulsi dalle citt� guelfe.
Con l'esercito cresciuto di forze, l'imperatore part� da Pisa il 23 aprile dirigendosi, per la Maremma, verso Roma. Durante il viaggio si unirono a lui con le loro milizie i Prefetti di Vico, i conti Orsini Anguillara, i Santa Fiora ed altri capi ghibellini, e altre truppe gli inviarono le citt� di Todi, Narni, Spoleto ed Amelia. Il 6 marzo giunse presso le mura di Roma, ma trov� il ponte Molle in mano agli Angioini, da cui ebbe le prime molestie. La mattina del giorno dopo entr� in citt� per la Porta del Popolo ed evitando i quartieri che erano in mano al nemico, per il campo di Marte giunse al Laterano. Enrico era, s�, entrato in Roma, ma met� della citt� era in potere degli avversari, i quali tenevano anche la basilica di San Pietro, ove doveva aver luogo l'incoronazione.
Disponendo di forze non superiori a quelle nemiche e non volendo cimentarsi in una impresa difficile qual'era quella di sloggiare con le armi i Colonnesi e gli Angioini, l'imperatore chiese ai cardinali che lo coronassero in Laterano; ma questi si rifiutarono dicendo di non voler venir meno alla consuetudine. Allora Enrico VII decise di dar battaglia al nemico e Roma fu teatro di sanguinosi combattimenti per pi� giorni, durante i quali riusc� alle milizie imperiali di impadronirsi del Campidoglio, della Torre dei Conti, del Colosseo, del Monte dei Savelli e della Torre di San Marco. Ma non gli fu possibile di espugnare il Vaticano, la citt� Leonina e Castel Sant'Angelo. Riusciti vani i suoi sforzi, Enrico torn� a pregare i cardinali che lo cingessero della corona in Laterano, ma quelli si ostinarono nel rifiuto dicendo di non poter trasgredire i voleri del Pontefice che nell'Ordo coronationis del 19 giugno 1311 aveva prescritto che la cerimonia si facesse in San Pietro.
Di fronte a tanta ostinazione, Enrico VII fece convocare a parlamento il senato e i cittadini, i quali deliberarono che l'incoronazione avesse luogo in Laterano e che, se i cardinali persistevano nel rifiuto, si obbligassero con la forza. E alla forza davvero dovette ricorrere il popolo che assal� la Torre delle Milizie dove i cardinali erano chiusi e li costrinse ad incoronare l'imperatore il 29 di giugno.
Intanto la posizione dell'imperatore si faceva di giorno in giorno peggiore: il nemico teneva met� della citt� e poteva da un momento all'altro avere soccorsi dal reame di Napoli come ne aveva avuti e notevoli da Firenze; Enrico invece non poteva sperare di ricevere numerosi rinforzi dato che i Ghibellini dell'alta Italia dovevano sostenere gli assalti dei vicini Guelfi; anzi il suo piccolo esercito andava assottigliandosi per i calori estivi e l'aria malsana che avevano causata la partenza del duca di Baviera, di Ludovico di Savoia, del fratello del delfino di Vienne e di circa quattrocento cavalieri. Temendo di rimanere senza soldati, l'imperatore il 21 luglio lasci� a Roma una piccola guarnigione e si ritir� a Tivoli. Qui � scrive il Bertolini � �lo colsero nuove difficolt�. Il Papa, che fino allora aveva sostenuto una doppia parte verso Enrico, incoraggiato dai successi conseguiti dai Guelfi, lev� la maschera, e diresse all'imperatore uno scritto dettato nello stile e con le idee di Ildebrando. Il Papa esponeva, cio�, la pretesa che Enrico si obbligasse a non portare mai le armi su Napoli, a concludere con quel r� un armistizio per un anno, a uscire da Roma subito dopo la sua incoronazione (la lettera papale era giunta ad Enrico tardivamente), e a non fermarsi fino a che non fosse uscito dal territorio della Chiesa. E rincarando la dose delle sue pretese il Papa ordinava all'imperatore di restituire i prigionieri e le torri di Roma venute in suo possesso, e di dichiarare con pubblico strumento, che gli atti di sovranit� compiuti in Roma non creavano all' impero alcun diritto su questa metropoli, n� portavano alcun pregiudizio ai sovrani diritti del Pontefice.
Questa lettera fu recata ad Enrico a Tivoli subito dopo il suo arrivo in quella citt�. Oltre ai suoi consiglieri, la diede ad esaminare ai frati Minori, i quali avevano gi� aperto la loro crociata contro i possedimenti terreni della Chiesa. Nella risposta data dall'imperatore allo scritto papale, la quale era segnata da Tibur in urbe fratrum Minorum (1 e 6 agosto 1312), si scorge la collaborazione che vi ebbero quei frati liberali. Infatti, essa negava al Papa il diritto d' immischiarsi nelle cose civili, e affermava che l'imperatore per la elezione dei principi dell'Impero era nella sua piena potest�, onde il Papa non aveva alcun diritto di ordinargli che partisse da Roma, capitale dell' Impero.
Era l'antica lotta fra la Chiesa e l'impero che rinasceva. Ma le condizioni in cui essa si rinnovava non erano affatto propizie all'imperatore, il quale mancava della forza necessaria a far valere il domma imperiale. Per questo motivo Enrico dovette far di necessit� la virt� accettando una parte delle domande del Papa per non spingerlo agli estremi. Acconsent� quindi a stipulare una tregua con Roberto di Napoli; la qual cosa, del resto, non era contro i suoi interessi, acquistando per essa libert� d'azione contro l'altra sua grande nemica, Firenze.
Il 19 agosto Enrico VII part� da Tivoli, ma prima di recarsi in Toscana volle passar da Roma e qui ricevette ambasciatori di re Federico di Sicilia, al quale aveva fidanzato la figlia Beatrice, che gli portarono ventimila doppie. Da Roma, per Viterbo, Todi e Cortona, l'imperatore giunse ad Arezzo ed, evitato il castello di Ancisa dove i Fiorentini avevano mandato mille e ottocento lance e numerosi fanti per arrestare la sua marcia, il 19 settembre Enrico pervenne a San Salvi, presso Firenze.
Questa citt� si era preparata alla difesa e disponeva di forze superiori a quelle nemiche sommando a quattromila i suoi cavalli con gli aiuti ricevuti da Lucca, Siena, Pistola, Prato, Colle, San Miniato, San Gimignano e Bologna, mentre l'imperatore non ne aveva che duemila; ma non volle assalire le soldatesche di Enrico, nemmeno quando queste si diedero a devastare le campagne circostanti; ma spavaldamente lasci� aperte le porte e da queste entravano ed uscivano le merci, osserva il Villani, come se non ci fosse guerra.
Il Sismondi accusa di ignavia i Fiorentini; la verit� invece � che essi pensavano che il tempo avrebbe stancato e logorato il nemico. N� pensavano male: difatti la sfiducia e le malattie serpeggiavano nelle file imperiali; a queste si aggiunsero le diserzioni e la scarsezza delle vettovaglie di modo che verso la fine del 1312 Enrico VII tolse quella specie d'assedio e si trasfer� a S. Casciano, donde il 6 gennaio del 1313 and� a Poggibonsi per ritirarsi finalmente, due mesi dopo, a Pisa.
MORTE DI ENRICO VIILa situazione di Enrico VII, dopo l'infruttuosa spedizione romana, non poteva dirsi florida. Contro di s� aveva Roberto d'Angi�, met� Roma e quasi tutta la Toscana e la Romagna; Ghiberto da Correggio gli aveva ribellato Parma e Reggio ; Padova aveva cacciato il vicario imperiale e, alleasi con i Da Camino, che signoreggiavano su Treviso, Feltro e Belluno, sosteneva una fiera guerra contro gli Scaligeri; da Cremona, da Lodi e da Pavia erano stati cacciati i vicari e i Ghibellini; lo stesso era avvenuto a Piacenza, dove Alberto Scotto si era fatto per la terza volta nominare signore; la famiglia ghibellina dei Tizzoni era stata espulsa da Vercelli dagli Avogadr�; Asti, Alessandria e Casalmonferrato, per opera di Ugo del Balzo, siniscalco degli Angioini, avevano giurato fedelt� a Roberto. All'imperatore non rimanevano fedeli che i Colonna, alcune citt� della Campagna, Arezzo, Pisa, Genova, Modena -che, minacciata dalla guelfa Bologna, aveva nominato signore Passerino Bonaccolsi di Mantova- Can Grande della Scala, Matteo Visconti e Teodoro di Monferrato. Pur Tuttavia -come attesta il cronista Giovanni Villani - tanta � virtude ebbe in s� l'imperadore Arrigo, che mai per avversit� quasi non si turb� �.
Giunto a Pisa il 9 marzo del 1313, vi eresse il suo tribunale, cit� in giudizio le citt� nemiche, condann� Firenze annullandole i privilegi; gli impose una multa di centornila fiorini; la priv� del diritto di coniar moneta; infine pronunci� sentenza contro Boberto d'Angi�, che considerato reo di lesa maest�, veniva dichiarato decaduto dal trono e i suoi sudditi sciolti dal giuramento di fedelt�.
A questa sentenza il Pontefice rispose con una bolla (12 giugno 1313) con la quale minacciava di scomunica tutti coloro che, facendo guerra all'Angioino, osassero portar le armi contro il regno di Napoli, vassallo della Chiesa.
Ma Enrico VII oramai era deciso a muover contro Roberto, che considerava come il suo maggior nemico ed il principale sostenitore delle citt� guelfe, specie di Firenze che lo aveva nominato rettore, protettore, governatore e signore della repubblica. Decisa la guerra, si diede a raccogliere a Pisa cavalieri e fanti, invitando tutti i Ghibellini d' Italia ad accorrere sotto le sue insegne; mand� in Germania il fratello Baldovino, che per l'impresa trov� numerose adesioni; prese gli ultimi accordi con Federico di Sicilia che promise una flotta di cinquanta galee e di attaccare con un esercito il reame angioino; e infine, ottenne che Pisa armasse venti galee, e settanta, comandate da Lamba Doria, ne mandasse Genova.
Il primo ad iniziare le ostilit� fu Federico III, che ai primi d'agosto, sbarcato a Reggio, se ne impadron�, mentre le navi pisane e genovesi veleggiavano verso Terracina; Enrico VII lasci� Pisa fra l'entusiasmo di tutti i Ghibellini per quella poderosa spedizione poderosa, iniziata l'8 di agosto, con lui stesso alla testa dell'esercito.
Per San Miniato, Castelfiorentino, Colle e Poggibonsi, Enrico giunse nelle vicinanze di Siena e da un male, che da tempo lo travagliava, fu costretto a fermarsi a Buonconvento. Qui dovevano improvvisamente aver fine le speranze dei Ghibellini e il sogno imperiale di Dante.
Il 24 agosto del 1313 Enrico VII moriva, e la sua morte fu cos� inaspettata che si sparse la voce, non confermata del resto da alcun documento, che l'imperatore fosse stato avvelenato.
Grande fu la gioia dei Guelfi all'annunzio di quella morte e ancor pi� grande il dolore dei Ghibellini. Federico III, che era avanzato fino a Gaeta, appena ne ebbe notizia, si rec� con le sue navi a Pisa, dove si erano ritirate le milizie imperiali, e tent� d' indurle a continuare l'impresa sotto di lui; ma i Tedeschi, tumulando il corpo del loro imperatore nella citt� fedele, nulla avevano pi� da fare in Italia; rifiutarono di continuare una guerra a cui ormai si sentivano estranei e ritornarono in Germania, dove gi� Baldovino, arcivescovo di Treviri, aveva raccolte numerose milizie che, sotto la guida del nipote Giovanni, dovevano essere spedite Oltre le Alpi. Non tutti, per�, i soldati imperiali fecero ritorno in Germania. Un buon numero di Tedeschi, Brabantesi e Fiamminghi rimasero in Italia al servizio della repubblica di Pisa e costituirono la prima di quella compagnie di ventura che tanto danno doveva poi arrecare alla penisola.
Italiano fu il primo condottiero di questa compagnia straniera: Uguccione della Faggiuola. I Pisani avevano offerta la signoria della loro citt� a Federico III, ma questi l'aveva rifiutata; l'avevano pure rifiutata Amedeo V di Savoia e il conte di Fiandra; l'accett� invece Uguccione, che allora si trovava come vicario imperiale a Genova.Fra non molto, alla testa delle milizie mercenarie straniere,
Uguccione far� bagnare di nuovo sangue italiano le contrade della sua patria.
Stanno per iniziare vere e proprie guerre tra GUELFI e GHIBELLINI
Ci attende il periodo dal 1313 al 1326 > > >
Fonti, citazioni, e testi
Prof. PAOLO GIUDICI - Storia d'Italia -
STORIA MONDIALE CAMBRIDGE - (33 vol.) Garzanti
CRONOLOGIA UNIVERSALE - Utet
STORIA UNIVERSALE (20 vol.) Vallardi
STORIA D'ITALIA, (14 vol.) Einaudi
GUICCIARDINI, Storia d'Italia - Ed. Raggia, 1841
LOMAZZI - La Morale dei Principi - ed. Sifchovizz 1699
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