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LETTERATURA |
FRANCESCO DE SANCTIS - STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
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i tempi di GIORDANO BRUNO > > >
(primo capitolo di cinque)
"La filosofia è già oltrepassata. Lo scopo non è fare una filosofia, inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato, propagare e illustrare la filosofia, cioè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la verità annunziata con tuono di oracolo, è una nuova religione. Si rifà la coscienza. Rinasce l'uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più scienza: è letteratura".
La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale. Come negazione, ebbe vita splendida, che si chiuse col Folengo e l'Aretino. Arrestato quel movimento negativo dal Concilio di Trento, nacque un'affermazione ipocrita e rettorica, sotto alla quale senti una delle forme più deleterie della negazione, l'indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e privata, non rimane alla letteratura altro di vivo che un molle lirismo idillico, il quale si scioglie nel melodramma, e dà luogo alla musica.
Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi sorgeva dirimpetto l'affermazione del Machiavelli (che abbiamo letto nel capitolo a lui dedicato Ndr.), una prima ricostruzione della coscienza, un mondo nuovo in opposizione dell'ascetismo, trovato e illustrato dalla scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto, il suo motivo, la sua novità. Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una fede, lottare, poetare, vivere, morire per quella.
I princìpi furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era sviluppata un'agitazione filosofica nelle università e nelle accademie, indipendente dalla teologia cattolica o riformista, o piuttosto in opposizione mascherata alla teologia e all'aristotelismo dominante ancora nelle scuole. I liberi pensatori eran detti "filosofi moderni" o i "nuovi filosofi", come predicatori di nuove dottrine, e vedemmo come il Tasso nella sua giovinezza soggiacque alla loro autorità.
Tra questi nuovi filosofi, che proclamavano l'autonomia della ragione, e la sua indipendenza da ogni autorità di teologo e di filosofo, disputando soprattutto contro Aristotile, era Bernardino Telesio, dell'Accademia Cosentina, nel quale è già spiccata la tendenza all'investigazione de' fatti naturali e al libero filosofare lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi "uomini nuovi", come li chiama Bacone, ebbe qualche fama il Patrizi, e Mario Nizzoli da Modena, che combattè ugualmente Aristotile e Platone, fuggì il gergo scolastico, e fu detto dal Leibnitz "exemplum dictionis philosophiae reformatae".
Gli uomini nuovi chiamavano pedanti gli avversari, e come portavano i tempi, alternavano le villanie con gli argomenti. Il carattere di questo nuovo filosofare era l'indipendenza della filosofia dirimpetto la fede e l'autorità, il metodo sperimentale, e la riabilitazione della materia o della natura, risecato dalla investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo; il Machiavelli e l'Ariosto s'incontravano sullo stesso terreno, ciascuno co' suoi mezzi. L'ironia dell'Ariosto ha il suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione, la nuova filosofia era troppo radicale, perchè non solo negava il papato, ma il cattolicismo, e non solo il cattolicismo, ma il cristianesimo, e non solo il cristianesimo, ma l'altro mondo, e non solo l'altro mondo, ma Dio stesso. Non è che queste cose apertamente si negassero, anzi il linguaggio era pieno di cautele e di ossequi, maestro il Machiavelli; ma co' più umili inchini le mettevano da parte, come materia di fede, e vi sostituivano la "natura", il "mondo", la "forza delle cose", la "patria", la "gloria", altri elementi ed altri fini.
Era in fondo l'umanismo e il naturalismo, appoggiato alla ragione e all'esperienza, che prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito che segna l'aurora de' tempi moderni, e che si può ben chiamare il Rinnovamento, avea nell'intelletto italiano la sua posizione più avanzata.
Tutte le idee religiose, morali e politiche del medio evo erano parte affievolite, parte affatto cancellate nella coscienza degli uomini colti, anche de' preti, anche de' papi: l'indifferenza pubblica aveva la sua espressione nell'ironia, nel cinismo, nell'umorismo letterario. Ora questa negazione e indifferenza universale non potea produrre un organismo politico e sociale, anzi era indizio più di dissoluzione, che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica affermazione, come fu per la Riforma, reazione contro il paganesimo e il materialismo della Corte romana prodotta da un vivace sentimento spiritualista, religioso e morale, secondato da passioni e interessi politici. La Riforma riuscì, perchè fu limitata nella sua negazione e nelle sue conclusioni, perchè avea a sua base lo spirito religioso e morale delle classi colte, e perchè, combattendo il papa e sostenendo i principi nella loro lotta contro l'imperatore, seppe metter dalla sua gl'interessi e le ambizioni.
Presso noi, la negazione era un fatto puramente intellettuale, e quanto più assolute le conclusioni dell'intelletto, tanto più era debole la volontà e la forza di effettuarle. L'ideale stava a troppa distanza dal reale. La stessa utopia ne' suoi voli d'immaginazione rimaneva inferiore a quella posizione così avanzata dell'intelletto. Rimasero dunque conclusioni accademiche, temi rettorici, investigazioni solitarie nell'indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertà del pensiero non era scritta in nessuna legge, ma ci era nel fatto, e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia senz'altro pericolo che degli emuli e invidiosi, che talora concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse potuto svilupparsi liberamente, non è dubbio che avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e sociali, fermandosi in quelle idee medie, che meno sono lontane dalla realtà, e che si trovano già delineate nel Machiavelli, il più pratico e positivo di quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la "patria" del Machiavelli, una chiesa nazionale, una religione purgata di quella parte grottesca e assurda, che la rende spregevole agli uomini colti, e una educazione civile dell'animo e del corpo.
Ma appunto allora l'Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti, e cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi, eretici e filosofi, e più gli eretici, come più pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l'Inquisizione, e, cosa anco peggiore, l'educazione gesuitica, eunuca e ipocrita. I più arditi esularono; e venne su la nuova generazione, con apparenze più corrette, e con una dottrina ufficiale che non era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era il motto, e bastava. E ne uscì una società scredente, sensuale, indifferente, rettorica nelle forme, insipida nel fondo, con letteratura conforme. Religione, patria, virtù, educazione, generosità, sono temi poetici e oratorii frequentissimi, con esagerazioni spinte all'ultimo eroismo, perchè in nessuna relazione con la serietà e la pratica della vita.
Ma nè l'Inquisizione co' suoi terrori, nè poi i gesuiti co' loro vezzi poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale, che avea la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo tanto e impedirlo nel suo cammino, che ci volle più di un secolo, perchè acquistasse importanza sociale.
La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la differenza era in questo, che ne' suoi uomini era stagnata ogni attività intellettuale ed ogni vigore speculativo, volto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme, più che alla sostanza, com'era pure de' letterati; dove negli altri hai un serio progresso intellettuale, vivificato dalla fede, e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto pienamente, avea seco tutte le forze sociali, e l'opposizione cacciata via dalle accademie e dalle scuole, frenata dall'Inquisizione e dalla censura, toltale ogni libertà e forza di espansione, era una infima minoranza appena avvertita nel gran movimento sociale.
Perciò alla reazione mancò la lotta, dove si affina l'intelletto e si accendono le passioni, e per difetto di alimento rimase stazionaria e arcadica.
L'attività intellettuale e l'ardore della fede rimase privilegio dell'opposizione, sì che dove trovi movimento intellettuale, ivi trovi opposizione più o meno pronunziata, e spesso involontaria e quasi senza saputa dello scrittore. La storia di questa opposizione non è stata ancora fatta in modo degno. Pure, là sono i nostri padri, là batteva il core d'Italia, là stavano i germi della vita nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il vuoto della coscienza, e la storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale.
Cosa c'era nella coscienza? Nulla. Non Dio, non patria, non famiglia, non umanità, non civiltà. E non c'era più neppure la negazione, che anch'essa è vita, anzi ci era una pomposa simulazione de' più nobili sentimenti con la più profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura.
E inchiniamoci prima innanzi a GIORDANO BRUNO.
Cominciò poeta, fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito, due qualità che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; nè altre ne avea il Tansillo, e più tardi il Marino e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose, che trovarono alimento ne' suoi studi filosofici. Avea la visione intellettiva, o, come dicono, l'intuito, facoltà che può esser negata solo da quelli che ne son senza, e avea sviluppatissima la facoltà sintetica, cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e cercare l'uno nel differente. Non era di ugual forza nell'analisi, dove non mostra pazienza e sagacia d'investigazione, ma quell'acutezza sofistica d'ingegno, che fa di lui l'ultimo degli scolastici nelle argomentazioni, e il precursore de' marinisti ne' colori. Supplisce all'analisi con l'immaginazione, fantasticando, dove non giunge la sua visione, saltando le idee medie, e sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le sue idee sono immagini, e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie.
C'era nel suo petto un dio agitatore, che sentono tutt'i grand'ingegni; ed era un dio filosofico, attraversato e avviluppato di forme poetiche, che gli guastano la visione e lo dispongono più a costruire lui il mondo, che a speculare sulla costruzione di quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito gli studi filosofici. La sua cultura è ampia e seria: si mostra dimestico non solo de' filosofi greci, ma de' contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il "divino" Cusano e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è Pitagora, di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico Aristotile, e ne parla con odio, quasi nemico. Cosa dovea parere a quel giovine tutto quell'edifizio teologico-scolastico-aristotelico sconquassato dagli uomini nuovi, ma saldo ancora nelle scuole, sul quale s'innestava una società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito fu negativo e polemico, fu la negazione delle opinioni ricevute, accompagnata con un amaro disprezzo delle istituzioni e de' costumi sociali.
Era il tempo delle persecuzioni. I migliori ingegni emigravano, regnava l'Inquisizione. E Giordano Bruno era frate, e frate domenicano. Come uscì dal convento, e perchè esulò, s'ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso. Fuggì Bruno in Ginevra, dove trovò un papa anche più intollerante. Fuggì a Tolosa, a Lione, a Parigi, dove ebbe qualche tregua, e pubblicò il suo primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni.
Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il "Candelaio". Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna lotta degli sciocchi e de' furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all'Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l'Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi "accademico di nulla accademia, detto il Fastidito". Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel "fastidito" ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl'ispira più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge così:"L'autore, sì lo conosceste, ... have una fisonomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno; ... un che ride sol per far comme fan gli altri. Per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro."
Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze, senza conclusione. E il risultato della sua commedia è "in tutto non esser cosa di sicuro; ma assai di negozio, difetto abbastanza, poco di bello e nulla di buono". Nessuno interesse può destare la scena del mondo a un uomo, che nella dedica conchiude così:
"Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla si annichila, è un solo, che non può mutarsi, un solo è eterno e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi s'ingrandisce, e me si magnifica l'intelletto."
Ma non gli s'ingrandisce il senso poetico, il quale è appunto nel contrario, nel dar valore alle più piccole rappresentazioni della natura, e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull'uno e sul medesimo, non certo a fare un'opera d'arte. Non si mescola nel suo mondo, ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual modo dipinge l'innamorato:
"Vedrete in un amante sospiri, lacrime, sbadacchiamenti, tremori, sogni, rizzamenti e un cuor rostito nel fuoco d'amore; pensamenti, astrazioni, collere, malinconie, invidie, querele, e men sperar quel che più si desia."
E continua di questo passo, ammassando tutt'i luoghi topici della rettorica e tutte le frasi della moda:
"cuor mio", "mio bene", "mia vita", "mia dolce piaga" e "morte", "dio", "nume", "poggio", "riposo", "speranza", "fontana", "spirito", "tramontana stella", ed "un bel sol che all'alma mai tramonta", ... "crudo core", "salda colonna", "dura pietra", "petto di diamante", ... "cruda man che ha le chiavi del mio core", "mia nemica", "mia dolce guerriera", "bersaglio sol di tutt'i miei pensieri", e "bei son gli amor miei, non quei d'altrui". È il vecchio frasario de' petrarchisti, venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico, non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo, il "Candelaio", lo mena a questa considerazione filosofica: che è la candela destinata a illuminare le "ombre delle idee". Perciò costruisce il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo, guardando nelle apparenze l'essenza e la generalità:
"Eccovi avanti agli occhi oziosi princìpi, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presuppositi, alienazioni di mente, poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto, fede sfrenata, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia."
Con queste disposizioni non individua, come fa l'artista, ma generalizza, mette insieme le cose più disparate, perchè nelle massime differenze trova sempre il simile e l'uno, e profonde antitesi, similitudini, sinonimi, con una copia, un brio, una novità di relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova già in pieno Seicento, e indovina Marino e Achillini. Ecco un periodo alla sua donna:
"Voi, coltivatrice del campo dell'animo mio, che dopo di avere attrite le glebe della sua durezza, e assotigliatogli il stile, acciocchè la polverosa nebbia sollevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, con acqua divina, che dal fonte del vostro spirito deriva, m'abbeveraste l'intelletto."
Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino, che ne facea mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione, essendo i caratteri concepiti astrattamente, perciò tesi e crudi, senza ombre e chiaroscuri, con una cinica nudità, resa anche più spiccata da una lingua grossolana, un italiano abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.
In questo mondo comico i tre protagonisti, che sono i tre sciocchi beffardi e castigati, abbracciano la vita nelle sue tre forme più spiccate, la letteratura, la scienza e l'amore nella loro comica degenerazione. La letteratura è pedanteria, la scienza è impostura, l'amore è bestialità. Il personaggio meglio riuscito è il pedante, che finisce sculacciato e rubato. E il pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche del suo mondo filosofico, diviene il suo elemento negativo e polemico. Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico, che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari, ed è messo alla berlina. La speculazione si sviluppa in forma di dialogo, dove il pedante rappresenta la parte del buffone resa più piccante dalla solennità magistrale. A questo elemento comico aggiungi un altro elemento letterario, l'allegorico e il fantastico, che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni, com'è nel suo "Asino cillenico" e nello "Spaccio della bestia trionfante". Qui arieggia Luciano, come in altri dialoghi più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo dialogo "Degli eroici furori" ricorda la "Vita nuova" di Dante, una filza di sonetti, ciascuno col suo comento, il quale nella sua generalità è una dottrina allegorica intorno all'entusiasmo e alla ispirazione.
Il contenuto nel Bruno è in molta parte nuovo, ma le sue forme letterarie non nascono dal contenuto, sono appiccate a quello, e sono forme invecchiate e corrotte dal lungo uso, perciò senza grazia e semplicità, e senza calore intimo. Se non disgustano e non annoiano, si dee al suo acuto spirito e alla sua attività intellettuale, che non ti fa mai stagnare, e ti sorprende di continuo con sali, frizzi, antitesi, bizzarrie, concetti e finezze, che è il cattivo gusto degli uomini d'ingegno.
Ma quest'uomo così inviluppato in forme tradizionali e già guaste, che accennavano già ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana, era nella sua speculazione perfettamente libero, e costruiva un nuovo contenuto, da cui dovea uscire più tardi una nuova critica e una nuova letteratura. La sua filosofia è la condanna più esplicita delle sue forme e de' suoi pregiudizi letterari.
Non vo' già analizzare il suo sistema filosofico: chè non fo storia di filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze che ebbero una decisa influenza sul progresso umano.
Ne' suoi primi scritti, tutti in latino, si vede il giovane, a cui si apre tutto il mondo della cognizione, e cerca riassumerlo, costruire l'albero enciclopedico. Raimondo Lullo avea già tentata questa sintesi, come aiuto della memoria. Bruno rifà il suo lavoro, stabilisce categorie e distinzioni, note mnemoniche, o idee generali, intorno a cui si aggruppino i particolari, come "cielo", "albero", "selva". Queste note le chiama "suggelli", a cui è aggiunto ""sigillus sigillorum"", cioè le idee prime, da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest'"architettura lulliana", titolo di un suo scritto, è tale, che la chiama "arte delle arti", perchè vi si trova ""quidquid per logicam, metaphysicam, cabalam, naturalem magiam, artes magnas atque breves theoretice inquiritur"".
Giordano Bruno non avea attinto che il meccanismo della scienza, perchè queste categorie o distribuzioni per capi e per materia sono distinzioni formali e arbitrarie, e rassomigliano un dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria. Il volgo ci dà molta importanza e crede, imparando quelle categorie, di avere imparato a così buon mercato tutte le scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da lui il secreto di diventar dottori in qualche mese, e che beffati gliene volessero: anzi a queste inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata a Londra. Ivi continuò i suoi studi lulliani e pubblicò "Explicatio triginta sigillorum", con una introduzione intitolata: "Recens et completa ars reminiscendi". In questi studi meccanici e formali si rivela già un principio organico, che annunzia il gran pensatore. L'arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare, in una logica che è ad un tempo una ontologia.
C' è un libro pubblicato a Parigi nel 1582, col titolo: "De umbris idearum", e lo raccomando a' filosofi, perchè ivi è il primo germe di quel mondo nuovo, che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo, che le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale, perchè uno è il principio dello spirito e della natura, uno è il pensiero e l'essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori, copiare in sè la scrittura della natura. Pensare è vedere, ed il suo organo è l'occhio interiore, negato agl'inetti. Ond'è che la logica non è un argomentare, ma un contemplare, una intuizione intellettuale non delle idee, che sono in Dio, sostanza fuori della cognizione, ma delle ombre o riflessi delle idee ne' sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo, a cui è negato il lume interno, la visione del vero e del buono riflesso nella ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:" Umbra profunda sumus, ne nos vexetis, inepti; "
" non vos, sed doctos tam grave quaerit opus."Che vuol dire in buono italiano: - Chi non ci vede, suo danno, e non ci stia a seccare. -
Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico-filosofico del medio evo, da cui scaturiva il dualismo politico, papa e imperatore, dava luogo all'unità assoluta. E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a un metodo organico, cioè a dire derivato dall'essenza stessa della scienza. Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di Bruno.
A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico, lungamente da lui narrata e con colori molto comici nella "Cena delle ceneri", cioè del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee nel dialogo della "Causa, principio e uno", e nell'altro "dell'Infinito, universo e mondi", pubblicati a Londra nel 1584. Quei tre libri sono la sua metafisica.
Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è la riabilitazione, anzi l'indiamento della materia scomunicata, chiamata "peccato". Bruno ha chiara coscienza di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio, ed è descritto così:"Questo è un di quelli che, quando ti arràn fatta una bella costruzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase da la popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione... Chiamano all'essamina le orazioni, fanno discussione de le frasi, con dire: - Queste sanno di poeta, queste di comico, queste di oratore! Questo è grave, questo è lieve, quello è sublime, quell'altro è ""humile dicendi genus"". Questa orazione è aspera, sarebbe lene, se fusse formata cossì. Questo è un infante scrittore, poco studioso dell'antiquità, "non redolet arpinatem, desepit Latium." Questa voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori... - Con questo trionfa, si contenta di sè, gli piaceno più ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da l'alta specula rimira e considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie e fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio, un dizionario, un Calepino, un lessico, un "Cornucopia", un Nizzolio... Se avvien che rida, si chiama Democrito; se avvien che si dolga, si chiama Eraclito; se disputa, si chiama Crisippo; se discorre, si nome Aristotile; se fa chimere, si appella Platone; se mugge un sermoncello, se intitula Demostene; se construisce Virgilio, lui è il Marone. Qua corregge Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, scusa Didone, comenda Acate, e infine mentre ""verbum verbo reddit"" e infilza salvatiche sinonimie ""nihil divinum a se alienum putat"", e così borioso smontando de la sua catedra, come colui c'ha disposti i cieli, regolati i senati, domati gli eserciti, riformati i mondi, è certo che se non fosse l'ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa con l'opinione. "O tempora o mores"! Quanti son rari quei che intendeno la natura dei participi, degli avverbi, delle coniugazioni !
Polinnio sarebbe immortale, se fosse in azione così vivo e vero, come è dipinto qui, ma l'artista è inferiore al critico, nè il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con così felice umore sarcastico. Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto intorno alla materia, e tutto solo, ""ita, inquam, solus ut minime omnium solus"", come fosse in cattedra, ti sciorina sulla materia una lezione, anzi, come dice lui, una "nervosa orazione:"
"La materia... di peripatetici dal principe..., non "minus" che dal Platon divino e altri, or "caos", or ""hyle"" or ""silva"", or "massa", or "potenzia", or "aptitudine", or ""privationi admixtum"", or ""peccati causa"", or ""ad maleficium ordinata"", or ""per se non ens"", or ""per se non scibile"", or ""per analogiam ad formam cognoscibile"", or ""tabula rasa"", or ""indepictum"", or ""subiectum"", or ""substratum"", or ""substerniculum"", or ""campus"", or ""infinitum"", or ""indeterminatum"", or ""prope nihil"", or" "neque quid, neoue quale, neque quantum"", "tandem" ... "femina" vien detta, "tandem, inquam, ut una complectantur omnia vocula", ""foemina"" ".""
Ebbene, questa materia, che Polinnio per disprezzo chiama "femmina", la "causa del peccato", la "tavola rasa", il ""prope nihil"", il ""neque quid, neque quale, neque quantum"", è proclamata da Bruno immortale e infinita. Passano le forme: la materia resta immutabile nella sua sostanza:"Nella natura, variandosi in infinito, e succedendo l'una a l'altra le forme, è sempre una materia medesma... Quello che era seme, si fa erba, e da quello che era erba, si fa spica, da che era spica, si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo embrione, da questo uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questo pietra... Bisogna dunque che sia una medesima cosa, che da sè non è pietra, non terra, non cadavere, non uomo, non embrione, non sangue...; ma che dopo che era sangue, si fa embrione, ricevendo l'essere embrione; dopo ch'era embrione, riceve l'essere uomo, facendosi uomo."
E poichè tutte le forme passano, ed ella resta, Democrito e gli epicurei "quel che non è corpo dicono esser nulla: per conseguenza vogliono la materia sola essere la sustanza delle cose, e anche quella essere la natura divina", le forme non essendo "altro che certe accidentali disposizioni della materia", come sostengono i cirenaici, cinici e stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione, diffusa già in molti contemporanei, soprattutto nei medici, parendogli che quella dottrina avesse "fondamenti più corrispondenti alla natura che quei di Aristotile". Cominciò dunque prettamente materialista; ma considerata la cosa "più maturamente" non potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto, chi fa e chi è fatto, la forma e la materia: onde venne nella conclusione esserci nella natura due sostanze, l'una ch'è forma, l'altra che è materia, la "potestà di fare" e la "potestà di esser fatto". Perciò nella scala degli esseri "c'è un intelletto, che dà l'essere a ogni cosa, chiamato da' pitagorici...'datore delle forme'; una anima e principio formale, che si fa ed informa ogni cosa, chiamata da' medesimi 'fonte delle forme'; una materia, della quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti 'ricetto delle forme'.
Quanto all'intelletto, "primo e ottimo principio", "non possiamo conoscer nulla, se non per modo di vestigio, essendo la divina sostanza infinita e lontanissima da quegli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade ". Dio dunque è materia di fede e di rivelazione, e secondo la teologia e "ancora tutte riformate filosofie" è cosa "da profano e turbolento spirito il voler precipitarsi a ... definire circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza". Dio "è tutto quello che può essere"; in lui potenza e atto "son la medesima cosa", possibilità assoluta, atto assoluto. "Lo uomo è quel che può essere; ma non è tutto quel che può essere... Quello, che è tutto quel che può essere, è uno il quale nell'esser suo comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è e può essere." In lui ogni potenza e atto è "complicato, unito e uno: nelle altre cose è esplicato, disperso e moltiplicato". Lui è "potenza di tutte le potenze, atto di tutti gli atti, vita di tutte le vite, anima di tutte le anime, essere di tutto l'essere." Perciò il Rivelatore lo chiama "Colui che è", il "Primo" e il "Novissimo", poichè "non è cosa antica e non è cosa nuova", e dice di lui: ""Sicut tenebrae eius, ita et lumen eius"". "Atto absolutissimo" e "absolutissima potenza, non può esser compreso dall'intelletto se non per modo di negazione; non può ... esser capito, nè in quanto può esser tutto", nè in quanto è tutto. Ond'è che il sommo principio è escluso dalla filosofia, e Bruno costruisce il mondo, lasciando da parte la più alta contemplazione, che ascende sopra la natura, la quale "a chi non crede è impossibile e nulla". Quelli che non hanno il lume soprannaturale, stimano ogni cosa esser corpo, o semplice, come lo etere, o composto, come gli astri, e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose, ma dentro questo e in quelle". Questa è la sola differenza tra il "fedele teologo" e il "vero filosofo".
E Bruno conchiude: - Credo che abbiate compreso quel che voglio dire. - Il medio evo avea per base il soprannaturale e l'estramondano: Bruno lo ammette come "fedele teologo", ma come "vero filosofo" cerca la divinità non fuori del mondo, ma nel mondo. È in fondo la più radicale negazione dell'ascetismo e del medio evo.
Lasciando da parte la contemplazione del primo principio, rimangono due sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa, i due princìpi costitutivi delle cose.
La forma nella sua assolutezza è l'"anima del mondo", la cui "intima, più reale e propria facoltà e parte potenziale" è l'"intelletto universale". Come il nostro intelletto produce le specie razionali, così l'intelletto o l'anima del mondo produce le specie naturali, "empie il tutto, illumina l'universo", come disse il poeta: "..."totamque infusa per artus / mens agitat molem, et toto se corpore miscet"". Questo intelletto, detto da' platonici "fabro del mondo", e da Bruno "artefice interno", "infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia, ... produce il tutto". Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia, perchè non opera circa la materia e fuor di quella, ma figura la materia da dentro, "come da dentro del seme o radice" forma "il stipe, da dentro il stipe caccia i rami, da dentro i rami le formate brance, da dentro queste ispiega le gemme, da dentro forma, figura e intesse come di nervi le fronde, li fiori e li frutti". La natura opra dal centro, per dir così, del suo soggetto o materia. Sicchè la forma, se come causa efficiente è estrinseca, perchè "non è parte delle cose prodotte"; "quanto all'atto della sua operazione", è intrinseca alla materia, perchè opera nel seno di quella. È causa, cioè, fuori delle cose; ed è insieme principio, cioè insito nelle cose. Non ci è creazione, c'è generazione, o, come dice Bruno, "esplicazione".
La forma è in tutte le cose, e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una forma, avere anima. Tutte le cose sono viventi. "Se la vita si trova in tutte le cose, l'anima" è "forma di tutte le cose": presiede alla materia, "signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenza delle parti". Perciò essa è immortale e una non meno che la materia. Ma "secondo la diversità delle disposizioni della materia e secondo la facultà de' princìpi materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni". Sono queste forme esteriori, che solo si cangiano e annullano, "perchè non sono cose, ma de le cose, non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze. Perciò dice il poeta: ""Omnia mutantur, nihil interit"". E Salomone dice: ""Quid est quod est? Ipsum, quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum, quod futurum est. Nihil sub sole novum"". Vani dunque sono i terrori della morte, e più vani i terrori dell'"avaro Caronte, onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avvelena".
Machiavelli aveva già parlato di uno "spirito del mondo" immortale ed immutabile, fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il "fabro del mondo", il suo "artefice interno".
Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta, cioè secondo sè, distinta dalla forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di materia, così la materia esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è "informe", potenza passiva "pura, nuda, senz'atto, senza virtù e perfezione", ""prope nihil"": è l'indifferente, lo stesso e il medesimo, il tutto e il nulla. Appunto perchè è tutte le cose, non è alcuna cosa. E perchè non è alcuna cosa, non è corpo; ""nullas habet dimensiones"", è indivisibile, soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse certe dimensioni, certo essere, certa figura, certa proprietà, certa differenzia, non sarebbe assoluta."
Ma forma e materia nella loro assolutezza, come aventi vita propria, estrinseca l'una all'altra, sono non distinzioni reali, ma vocali e nominali, sono distinzioni logiche e intellettuali, perchè "l'intelletto divide quello che in natura è indiviso", com'è vizio di Aristotile, e degli scolastici, che popolarono il mondo di entità logiche, quasi fossero sussistenze reali. Giordano Bruno si beffa in molte occasioni di questi filosofi, che moltiplicarono gli enti, immaginando fino la "socrateità" come l'essenza di Socrate, la "ligneità" come essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza, anzi esse sono una serie corrispondente alla serie delle cose, sono le generalità della natura; il torto è di considerarle cose viventi e reali, e credere, per esempio, che forma e materia sieno due sostanze distinte, appunto perchè possiamo e dobbiamo concepirle distinte.
In natura o nella realtà forma e materia sono una sola sostanza. L'una implica l'altra: porre l'una è porre l'altra. La forma non può sussistere se non aderente alla materia, una forma che stia da sè è una astrazione logica Parimente la materia vuota e informe è un'astrazione; essa è come una "pregnante che ha già in sè il germe vivo". Non ci è forma che non abbia in sè "un che materiale", e non c'è materia che non abbia in sè il suo principio formale e divino. Bruno dice: "Lo ente, logicamente diviso in quel che è e può essere, fisicamente è indiviso, indistinto e uno". Perciò la potenza coincide coll'atto, la materia con la forma. Giove, "la essenzia per cui tutto quel ch'è ha l'essere", è "intimamente" in tutto; onde "s'inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa, e tutto è uno".
La materia non è dunque nulla, ""prope nihil"", come vuole Aristotile; anzi ha in sè tutte le forme, e le produce dal suo seno per opera della natura, efficiente o artefice "interno e non esterno, come aviene nelle cose artificiali". Se il principio formale fosse esterno, si potrebbe dire ch'ella "non abbia in sè forma e atto alcuno"; ma le ha tutte, perchè tutte le caccia "dal suo seno". Perciò la materia non è "quello in cui le cose si fanno", ma quello "di cui ogni specie naturale si produce". Ciò che, oltre i pitagorici, Anassagora e Democrito, comprese anche Mosè, quando disse: "'Produca la terra li suoi animali',... quasi dicesse: 'Producale la materia'". Adunque le "forme" ed "entelechie" di Aristotile e le "fantastiche idee di Platone", i "sigilli ideali separati dalla materia ... son peggio che mostri", sono "chimere e vane fantasie". La materia è fonte dell'attualità, è non solo in potenza, ma in atto; è sempre la medesima e immutabile, in eterno stato, e non è quella che si muta, ma quella intorno alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si altera è il composto, non la materia. Si dice stoltamente che la materia appetisca la forma. Non può appetere "il fonte delle forme che è in sé", perchè nessuno appete ciò che possiede. E perciò, in caso di morte, non si dee dire che "la forma fugge... o... lascia la materia, ma più tosto che la materia rigetta quella forma" per prenderne un'altra. Il povero Gervasio, che fa nel dialogo la parte del senso comune e volgare, vedendo a terra non solo le opinioni aristoteliche di Polinnio, ma tante altre cose, esce in questa esclamazione: - "Or ecco a terra non solamente li castelli di Polinnio, ma ancora d'altri che di Polinnio!".
Adunque, se gl'individui sono innumerabili, ogni cosa è uno, e il conoscere questa unità è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali, montando non al sommo principio, escluso dalla speculazione, ma alla somma monade o atomo o unità, anima del mondo, atto di tutto, potenza di tutto, tutta in tutto.
Questa sostanza unica è "l'universo, uno, infinito, immobile". "Non è materia, perchè non è figurato, nè figurabile..., non è forma, perchè non informa, nè figura" sostanza particolare, "atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo... È talmente forma che non è forma, è talmente materia che non è materia, è talmente anima che non è anima; perchè è il tutto indifferentemente, e però è uno, l'universo è uno". In lui tutto è centro: il centro è dappertutto e la circonferenza è in nessuna parte, ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna parte il centro. Non c'è vacuo tutto è pieno: quello in cui vi può essere corpo, e che può contenere qualche cosa, e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l'universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La causa finale del mondo è la perfezione, e agl'innumerabili gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali grandi, co' loro organi e il loro sviluppo, de' quali uno è la terra. Per la continenza di questi innumerabili si richiede uno spazio infinito, l'eterea regione, dove si muovono i mondi, perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno, perchè tutti si muovono dal principio interno, che è la propria anima. Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale e l'estramondano.
Il mondo popolato di universali nel medio evo è negato da Bruno in nome della natura. Dio stesso, dice Bruno, se non è natura, è natura della natura; se non è l'anima del mondo, è l'anima dell'anima del mondo. E in questo caso è materia di fede, non è parte della cognizione. La base della sua dottrina è perciò l'intrinsechezza del principio formale o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di sè. Il vero e il buono luce dentro di noi non per lume soprannaturale, ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva contro il soprannaturale.
Quelli che hanno lume soprannaturale, come i profeti, cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori, egli li chiama "asini" o "ignoranti", de' quali fa un ironico panegirico nell'"Asino cillenico", e tra questi e quelli che hanno il lume naturale e vedono per virtù propria è la stessa differenza che è "tra l'asino che porta i sacramenti e la cosa sacra". Quelli sono vasi e strumenti; questi principali artefici ed efficienti: quelli hanno più dignità, perchè hanno la divinità; questi sono essi più degni, e sono divini. L'asinità è la condizione della fede: chi crede, non ha bisogno di sapere; e l'asinità conduce alla vita eterna.
"Forzatevi, forzatevi dunque ad essere asini, o voi che siete uomini!... - grida Bruno con umore - così, divoti e pazienti, sarete contubernali alle angeliche squadre... E voi che siete già asini,... adattatevi a proceder... di bene in meglio, afinchè perveniate... a quella dignità che non per scienze ed opre,... ma per fede s'acquista. Se... tali sarete..., vi troverete scritti nel libro della vita, impetrerete la grazia in questa militante, ed otterrete la gloria in quella trionfante ecclesia, nella quale vive e regna Dio per tutt'i secoli de' secoli."Questa tirata umoristica finisce con un "molto pio" sonetto in lode degli asini, il cui concetto è che "il gran Signor li vuol far trionfanti". Nè solo è l'asino trionfante, ma l'ozio, perchè l'eterna felicità s'acquista per "fede", non per "scienze", e non per "opre". Anche dell'ozio hai un panegirico ironico, e per saggio diamo il seguente sillogismo:
"Li dèi son dèi, perchè son felicissimi; li felici son felici perchè son senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non han coloro che non si muovono e alterano; questi son massime quei ch'han seco l'ozio: dunque gli dèi son dèi, perchè han seco l'ozio."
Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo, il censore divino, ne resta intrigato, e dice che "per aver studiato logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli argomenti in quarta figura". L'ozio fa naturalmente l'elogio dell'età dell'oro, la sua età, il suo regno, e cita i bei versi del Tasso:... ... legge aurea e felice,
che natura scolpì: "S'ei piace, ei lice".E finisce con questa esortazione:
Lasciate le ombre, ed abbracciate il vero,
non cangiate il presente col futuro.
Voi siete il veltro che nel rio trabocca,
mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.
Avviso non fu mai di saggio e scaltro,
perdere un ben per acquistarne un altro.
A che cercate sì lunge diviso,
se in voi stessi trovate il paradiso?L'ozio e l'ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e monacale, della quale Bruno aveva avuto esperienza.
"[La libertade], - fa egli dire a Giove - quando verrà ad essere oziosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l'occhio che non vede, e mano che non apprende. Ne l'età... dell'oro per l'ozio gli uomini non erano più virtuosi, che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste."
Bruno rigetta quella vita oziosa, che fu detta "aurea", e ch'egli chiama "scempia", fondata sulla passività dell'intelletto e della volontà, e non può parlarne senz'aria di beffa. Il soprannaturale è incalzato ne' suoi princìpi e nelle sue conseguenze.
Secondo la morale di Bruno il lume naturale viene destato nell'anima dall'amore del divino, o dal principio formale aderente alla materia, e per il quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale e volgare, e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti, lodatori di donne per ozio e per pompa d'ingegno, a quel modo che altri "han parlato delle lodi della mosca, dello scarafone, dell'asino, de Sileno, de Priapo, scimmie de' quali son coloro che han poetato a' nostri tempi - dic'egli - delle lodi degli orinali, della piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della carestia, della peste". Obbietto dell'amore eroico è il divino, o il formale: la bellezza divina "prima si comunica alle anime, e... per quelle... si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama... la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama 'bellezza', la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori." L'amore sveglia nell'anima il lume naturale, o la visione intellettiva, la luce intellettuale, e la tiene in istato di contemplazione o di astrazione, sì che pare insana e furiosa, come posseduta dallo spirito divino. Questo è non il volgare, ma l'eroico furore, per il quale l'anima si converte come Atteone in quel che cerca, cerca Dio e diviene Dio, e avendo contratta in sè la divinità, non è necessario che la cerchi fuori di sè. "Però ben si dice il regno di Dio essere in noi, e la divinitade abitare in noi per forza della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione intellettuale, perchè non tutti hanno l'amore eroico; ne' più domina non la mente, che innalza a cose sublimi, ma l'immaginazione, che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l'amore a sua immagine:fanciullo il credi, perchè poco intendi;
perchè ratto ti cangi, e' par fugace;
per esser orbo tu, lo chiami cieco.L'amore eroico è proprio delle nature superiori, dette "insane", non perchè non sanno, ma perchè "soprasanno", sanno più dell'ordinario, e tendono più alto, per aver più intelletto.
La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca, come ne' mistici e ascetici: Dio è in noi, e possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal di fuori, ma ci è data dalla forza dell'intelletto e della volontà, che sono tra loro in reciprocanza d'azione: l'intelletto, che, suscitato dall'amore, acquista occhio e contempla; e la volontà che, ringagliardita dalla contemplazione, diviene efficace, o doppiata: ciò che Bruno esprime con la formula: "io voglio volere". Dalla contemplazione esce dunque l'azione: la vita non è ignoranza e ozio, anzi è "intelletto e atto mediante l'amore", secondo la formola dantesca rintegrata da Bruno: è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità della vita, e più intensa è la volontà, perchè amore è unità e amicizia de' contrari, o degli oppositi, e nel contrasto cerca la concordia. La mente è unità, l'immaginazione è moto, è diversità; la facoltà razionale è in mezzo, composta di tutto, in cui concorre l'uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto con lo stato, l'inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in forme basse e aliene, o per sentimento della propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso eroico, innalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontà, con l'ale dell'intelletto e volontà intellettiva s'innalza alla divinità, lasciando la forma di soggetto più basso:da soggetto più vil divegno un dio...
Mi cangio in Dio da cosa inferiore."Cangiarsi in Dio" significa levarsi dalla moltitudine all'uno, dal diverso allo stesso, dall'individuo alla vita universale, dalle forme cangianti al permanente, vedere e volere nel tutto l'uno e nell'uno il tutto. O, per uscire da questa terminologia, Dio è verità e bontà scritta al di dentro di noi, visibile per lume naturale; e cercarla e possederla è la perfezione morale, lo scopo della vita".
È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in stato di fermentazione. Hai i vacillamenti dell'uomo nuovo, che vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale, ma il suo lume naturale, la sua "mens tuens", la sua intuizione intellettiva, ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio nella infinità della natura, ma non sa strigarsi dal Dio estramondano, e non sa che farsene, rimasto come un antecedente inconciliato della sua speculazione. Ora quel Dio è verità e sostanza, e noi siamo sua ombra, "umbra profunda sumus"; ora quel Dio è proprio la natura, o, "se non è natura, è natura della natura". C' è in lui confuso Cartesio, Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica, e ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica, e talora, a sentirlo, è più mistico di un santo padre. Rigetta l'immaginazione, e ne ha tutt'i vizi e tutte le forme. Manca l'armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella interpretazione del suo sistema.
Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle sue distinzioni e sottigliezze, e nelle oscillazioni del suo sviluppo; anzi è questa la sua vera biografia. Niente è più drammatico che la vita interiore di un grande spirito nella sua lotta con l'educazione, co' maestri, con gli studi, col tempo, co' pregiudizi, nelle sue imitazioni, fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo, di vincere in quella lotta, cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette, che gli danno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno noi dobbiamo cercare, a traverso i suoi ondeggiamenti.
Innanzi tutto, Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso, cioè il sentimento dell'infinito e del divino, com'è di ogni spirito contemplativo. Leggendolo, ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti, se Dio è, e cosa è. Perchè lo senti in te, e appresso a te, nella tua coscienza e nella natura. Dio è "più intimo a te che non sei tu a te stesso". Tutte le religioni non sono in fondo che il divino in diverse forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un'analisi assai notevole delle religioni antiche e nuove. L'amore del divino, il "furore eroico", è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci rende atti non solo a contemplare Dio come verità, ma ancora a realizzarlo come bontà. Ivi ha radice la scienza e la morale.
Questi concetti non sono nuovi, e di simili se ne trovano nella Scrittura e ne' padri. Ma lo spirito n'è nuovo. Non è solo questo, che "i cieli narrano la gloria di Dio", ma quest'altro, che i cieli sono essi medesimi divini, e si movono per virtù propria, per la loro intrinseca divinità. È la riabilitazione della materia o della natura, non più opposta allo spirito e scomunicata, ma fatta divina, divenuta "genitura di Dio". È il finito o il concreto che apparisce all'infinito, e lo realizza, gli dà l'esistenza. O, come dicesi oggi, è il Dio vivente e conoscibile che succede al Dio astratto e solitario. L'universo, eterno ed infinito, è la vita o la storia di Dio.Questo è ciò che fu detto il "naturalismo di Giordano Bruno", o piuttosto del secolo, ed era il naturale progresso dello spirito, che usciva dalle astrattezze scolastiche, o, come dice Bruno, "dalle credenze e dalle fantasie"
(secondo capitolo) i tempi di G. Bruno e Campanella > > >